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Giorgio Linguaglossa, dicembre 2011
Vito Russo Tra la
palpebra e l’occhio Faloppio, LietoColle, 2011 La lettera-saggio di Hugo von Hofmannsthal,
conosciuta come Lettera di Lord Chandos,
venne scritta nel 1902. Nella lettera, Lord Chandos si rivolge al suo vecchio
amico, Francesco Bacone, per spiegargli perché ha tanto amaramente deluso le
speranze del defunto Lord Cancelliere, interrompendo la propria attività di
poeta (la lettera riepiloga l'abbandono da parte del giovanissimo Hofmannsthal
della poesia, dopo aver composto poesie eccezionalmente belle). La lettera
concerne il linguaggio e il suo assottigliarsi nel silenzio, il dire e
l’indicibile, la tradizione e il suo dissolvimento. Hofmannsthal, nelle vesti di Lord Chandos,
confessa che le parole che la letteratura è solita adoperare per trattare i
temi tradizionali non dicono più nulla al suo spirito. Al contrario, esse gli
appaiono false, poiché simulano il mito di un significato al quale si dichiara
incapace di reagire. Egli ha perduto «ogni facoltà di pensare o di parlare
coerentemente su qualsiasi argomento». Ormai, soltanto accadimenti in apparenza
del tutto trascurabili sono in grado di suscitare in lui forti emozioni, spesso
irresistibili, anzi una sorta di entusiasmo mistico, ineffabile e
incomunicabile dal momento che l'intensità del sentimento è del tutto
indipendente dalla banalità della sua causa accidentale. Non sono la bellezza
di Elena, la fondazione di Roma, o l'omicidio di un re a costituire la «datità»
che T.S. Eliot avrebbe in seguito chiamato il «correlativo oggettivo di una
potente emozione». Non sono, in realtà, null'altro che «cose da nulla» escluse
per sempre dal repertorio della poesia elevata: «Un innaffiatoio, un erpice
abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una
piccola casa di contadini, in tutto ciò mi si può palesare la rivelazione {e}
ciascuna di queste cose... può assumere un colore nobile e toccante, che
nessuna parola mi pare atta a rendere».[1]
Il lettore si chiederà perché mai apra il mio
discorso con questa lunga citazione per parlare del libro dell’esordiente Vito
Russo. Il pugliese (anche se vive a Milano da 4 anni) Vito Russo perlustra la
nominabilità (in poesia) degli elementi del quotidiano, si intrattiene con «Le
leggi del mercato» e con i «dialoghi con i nomi»; ma i nomi sono vuoti, dietro
i nomi ci sono delle entità un tempo piene di materia e di significato, (un
tempo carne ed ossa), e dietro di esse
ci sono degli eventi che si sono dileguati, c’è il «vuoto» della nostra epoca
total-mediatica che tutto sovrasta... e allora l’unico modo di catturare il
reale è osservarlo di sbieco e di sguincio «tra la palpebra e l’occhio»,
attraverso quella stretta fessura dove le cose baluginano in un lampo di
esistenza. Ecco alcuni controllatissimi incipit: «a Milano piove da una settimana»; «attraverso
l’incrocio in diagonale»; «Da mesi vivo contando gli scarti»; «i regali che non
ho mai fatto»; «È la solita giornata di pioggia in pieno giugno»; «Ho imparato
a tenerti alla mia destra»; «Gli amici non rispondono. Di donne neanche
l’ombra»; «La panchina ai giardini di Palestro / è di fronte al laghetto
artificiale / con anatre e topi giganti...». È un tipo di costruzione poematica che va a
singhiozzo, che inizia in diagonale, seguendo la via indiretta all’oggetto, con
passo appena incerto e oscillante, un tono vagamente tra lo scettico e l’autoironico.
Una sequenza di componimenti separati l’uno dall’altro da un asterisco, che si
presentano come una discontinuità perennemente interrotta e riannodata, un
esistenzialismo di città direi affatto decorativo che ha, qua e là, delle
soluzioni brillanti. Vito Russo è un pugliese che ama abbassare il
tono e il lessico delle composizioni su una koiné piccolo borghese, è questo il
suo punto di forza. Mi hai tolto gli abiti di dosso
e mi sono rivestito un po’ alla volta ma fa freddo lo stesso a camminare da soli si impara a zoppicare.
Giorgio
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