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# Di alcuni non-comandamenti patafluenti per migliorare l’igiene mentale e la salute pubblica della popolazione onde lottare contro il grande pericolo del nuovo millennio: la cellulite cerebrale. #

di Brunella Eruli

Una domenica di settembre nella piazza di Casalmaggiore. Squillano le trombe. arrivano i dignitari. Si dispongono a spirale attorno al nuovo ministro che sfavilla di gioia e così allocuziona il popolo festante e perciò totalmente intento a farsi i fatti suoi. In mezzo a tale rumoroso silenzio, il nuovo ministro penso, guardandosi bene dal dire, quanto segue:

Investita delle nuove e sfavillanti vesti di ministro dell’Istituto Patafluente Vitellianense, considero mio dovere precipuo occuparmi (e non solo preoccuparmi) della salute morale e materiale del popolo patafisico a cui la mia nuova carica suggerisce di amministrare una scienza difficile, e pure dolce e leggiadra, così nominata in quel di Francia da Messer Alfred Jarry per difendere i valori dell’immaginazione e della scienza su quelli del conformismo e della definizione tirannica e ripetitiva. La patafisica, dicevamo, scienza delle scienze, madre di tutte le scoperte che contano, è fatta di un sapere che solo cuori valorosi e cervelli allenati riescono a intuire, ed eventualmente a comprendere, e forse praticare dopo anni di esercizi, degni di monaci un po’ certosini e un po’ funamboli. Popolo patafluente, influente e ininfluente, influenzato ed influenzabile che tu sia, vieni, apri le orecchie, usale come trombette interrogative o esclamative, secondo i casi, apri gli occhi e lavali con infusi di cannocchiali da marina, apri la bocca atteggiala in una “O” larghissima, per dare la misura della meraviglia suscitata, metti le mani sul cranio e, premendo con grazia, trovane la sutura sagittale, cerca di aprirla con dolcezza, magari proferendo qualche magica parola del tipo “merdra”. Offri tali pertugi al vento dell’invenzione e del sentimento che le parole tratteggiate in questo messaggio faranno, lo spero, nascere e circolare nei ventricoli del tuo essere. Non parleremo di lontani e favolosi luoghi dove passava la via della seta. Non parlerò di sultani saggi e di odalische voluttuose, di giardini freschi e di matematiche inventate come gioiosi inni all’intelligenza e al sentire umani. Troppo dolorosa è la scoperta che abbiamo chiuso dietro di noi le porte dell’Eden e che per rientrarvi dovremo cercare le vie di accesso secondarie, nascoste e difficili, come diceva von Kleist pochi mesi prima di suicidarsi in compagnia di una signora da lui non amata, ma come lui sofferente di debolezza ontologica. Viviamo un’epoca reazionaria, restauratrice e guidata da pulsioni distruttive in nome di un funzionamento economico industriale di cui nessuno più controlla la proliferazione. Il processo può essere assimilato a quello di una cellula tumorale che nella velocità della sua propagazione, nel bloccaggio delle funzioni vitali prova la sua esistenza e la sua efficacia. In questi tempi malavitosi, dove la manipolazione si sostituisce alla manualità, il virtuale al reale, l’apparire all’essere, il look alla sostanza, la definizione alla cosa, l’imballaggio al contenuto, il consenso al pensiero individuale, il terrorismo al pensiero divergente, sarà molto utile dedicare sette nanisecondi ad alcune considerazioni su quella che, molto più del sida, del cancro, dell’alzheimer, della depressione (di tutte queste calamità essendo alla loro origine), possiamo considerare come la vera malattia del secolo: la cellulite cerebrale. La cellulite, come noto, è una malattia dei tessuti connettivi, annegati, paralizzati in un liquido stagnante prodotto da una infiammazione dovuta a vari fattori: alimentari, ormonali legati allo stile di vita, sia sul versante della pigrizia (sedentarietà, ignavia da zepping televisivo, glicemie alle stelle da abboffo depressivo condito da colesterolo a oltranza) sia su quello iperattivo legato all’agitazione, all’ansia, alla smania di potere, alle pretese di controllare tutto (dagli intestini del cane all’andamento della borsa) in una corsa all’onnipotenza le cui conseguenze catastrofiche vengono tamponate da miliardi di tranquillizzanti, euforizzanti, equilibratori dell’umore, sonniferi, prozac, viagra, senza contare compensazioni più semplice quali fumo, alcool, bibite gassate, spagnolette, semi di zucca salati e altre droghe. E, come diceva Peppino de Filippo “non dico altro”. La povera cellula, soffocata dalle tossine autoprodotte, impossibilitata a muoversi e quindi a tirarsi fuori dal pantano in cui sta lentamente asfissiando, ha due soluzioni: autoeliminarsi oppure fuoriuscire dalla stasi in cui è confinata trasformandosi in kamikaze e, sfracellandosi contro le pareti dell’epidermide, spappolarsi in cuscinetti adiposi. E’ il momento della buccia d’arancia, della culotte decheval (la razza equina ha sporto querela per abuso di marchio) della liposuzione, delle creme mirabolanti che fanno vivere l’industria del corpo sognato, ma mai vissuto. A torto si considera la cellulite solo come un fenomeno squisitamente estetico e femmineo da cui gli uomini sarebbero miracolosamente indenni. E’ vero il contrario. Questo processo attacca nello stesso identico modo (sia pure con forme più surrettizie) e con gli stessi identici effetti anche (soprattutto) le circonvoluzioni cerebrali e le fibre del cuore. In ogni caso il fenomeno è il segno di una circolazione sanguigna e linfatica, lenta, torpida, di un appetito di vita sonnolento, affaticato, distratto che degrada le forme belle e sode ma anche la solidità, la brillantezza, la creatività del cervello e la generosità del cuore. Ci preoccupiamo tanto degli effetti della cellulite sul corpo e consideriamo i gonfiori, le disgrazie della linea come la confessione di un corpo sfatto perché sofferente e sofferente perché non corrispondente ai canoni stabiliti. Come possiamo allora trascurare i pericoli che minacciano l’agilità, la mobilità, la freschezza, la genialità delle sinapsi che regolano il nostro sistema cerebrale? Come possiamo assistere senza battere ciglio al grande silenzio dei sentimenti, all’indifferenza, al grande vuoto che separa le emozioni da colui che ne è il portatore? Perché non dedicare ai muscoli del cuore e del cervello una parte delle infinite cure e massaggi, saune, sedute di ginnastica che dedichiamo a glutei e addominali? Perché non diventare atleta del cuore e del cervello invece di vagheggiare corpi luccicanti come i pacchetti di Natale, vuoti a perdere di cui nessuno sa, in realtà, cosa fare, dopo averli ammirati, esibiti e usati? Credete forse che esibire cosce e culi perfetti permetta di nascondere un cervello sformato, imbolsito, sfatto, plantigrado e cafone? Credete che nessuno se ne accorgerà? Forse solo in pochi, d’accordo. La maggioranza avendo dato il cervello all’ammasso, messo le emozioni in conserva, gli occhi sotto vuoto, le orecchie al banco dei pegni eterni, non si renderà conto della differenza. Ma alcuni si. E bisogna decidere se vogliamo appartenere a quel gruppetto minuscolo, minoritario per scelta e propensione, che nella patafisica trova il liquido amniotico della propria sussistenza, oppure alla massa dei decerebrati che obbediente e ossequiosa vive nei luoghi comuni mangiando fotocopie candite e appendendosi attorno al collo delle collane di sentimenti acquistati al supermercato? La marcia del processo atrocemente regressivo della realtà contemporanea (nel suo versante occidentale) rotola per forza gravitazionale verso l’immobilità e l’indifferenziato. L’attività browniana della guerra (si distrugge e poi si corre a ricostruire) non è la prova del suo movimento, bensì della sua immobilità. A questo inarrestabile processo, forse, si può opporre quale solo valido ostacolo, la decisione di far funzionare diversamente il proprio cervello: DIVERSAMENTE. Con mente diversa, con mosse impreviste, con regole fiammeggianti di furore ed ilarità giocano la loro partita alcuni artisti (alcuni riconosciuti da tutti come tali, altri più modesti, ancora clandestini), riuniti in piccole (o grandi) società per mostrare nei fatti la necessità del pensiero divergente, fuori dal coro, alternativo, individuale, coraggioso, solitario senza essere autistico o autoreferenziale. A questo punto si impone una considerazione tattica: loro sono più di noi. Bisogna agire d’astuzia. Per non essere spazzati via dall’onda triplodash del conformismo aziendale, scolastico, delle pagine culturali dei giornali, dalle urla giornalistiche e televisive, dal pensiero della “gente”, alcuni consigli sperimentati. Per prima cosa portare sempre dei tappi per le orecchie da sollevare e addirittura estrarre solo se –e quando- il discorso si fa appassionante, elegante, aereo, ilarante, commovente. Si tratta di frazioni di secondo che bisogna catturare con speciali retini di cui già ebbi a parlare in occasione della disoccultazione del Collège de Pataphysique a Chartres nel 2000 che sono ora protetti da brevetto worldwide. Si tratta, in apparenza, di un banale retino da pesca per bambini, munito però di speciali sensori mentali funzionanti ad onde infra-patafluenti. ali sensori (rinvio ad un prossimo intervento la descrizione dettagliata di tale macchina sensibile ai cuori infranti ed al silenzio meditabondo). Captano e raccolgono con cura immagini sfarfallanti, suoni arcani, parole non ancora pronunciate, frasi suggestive, ancorché incomprensibili, miniature delicate, grandiose statue ancora nascoste nel blocco di roccia o nel tronco di legno. Raccolte da speciali pinze morbide e sinuose fatte di piume di brutto anatroccolo prima della trasformazione, esse vengono amorosamente sospinte in una spirale mossa dal soffio di palme blandite al tramonto dalla brezza di mari lontani. Attratte nella spirale, queste particelle di immaginazione pura seguono i ritmi imprevedibili della spirale e scivolano emettendo gridolini divertiti come se si trovassero su un toboggan deliziosamente pauroso o su una pista di macchinette a scontro al Luna Park. I neutroni immaginativi scivolano, saltellano, scapriolano, giocano a nascondini, sospinti da questo ilare movimento e formano una cascatella sotto il cui scroscio chiacchierino, il patafisico verace, ogni mattina, prima e dopo la sua nascita, lava completamente (anche negli angoletti) non solo il corpo ma soprattutto il cervello e quella parte di sentimento che di esso fa parte (cioè quasi tutto), per eliminare eventuali particelle mimetizzate che si fossero appiccicate a tradimento innescando il germe della cellulite cerebrale e conseguente paralisi del sentire e del capire. Il risultato di tale pratica sul fisico patafisico è evidente: una forma perfetta se non del corpo certo dell’anima e soprattutto di quel complesso muscoloso che è il “CORCELLO”, organismo patafisicamente modificato proveniente da geni di cuore altamente selezionato, indenne da brucellosi, afta e stitichezza e muffe di ogni tipo, e strati cerebrali provenienti da culture integre e sottoposte a processi di opilazione fino dai tempi di Galeno, caratterizzati da circonvoluzioni robuste e dissacranti innestate su polloni di lucidità, tolleranza, immaginazione e capacità di sviluppo ideistico, senso del relativo e del ridicolo. Il corcello è già stato brevettato worldwide. Quindi, giù le zampe! I suoi costi di produzione sono alti perché la sua fabbricazione è, fortunatamente molto lenta, il che fa del corcello un prodotto raro, rarissimo, quasi introvabile. In una parola: il vero lusso. E’ possibile vederlo? Certo. Guardatemi, ascoltatemi.

[Brunella Eruli è Docente di Letteratura Francese, dopo aver insegnato all’Università di Pisa e di Firenze, insegna all’Università di Salerno. Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura fin-de-siècle, soprattutto su Alfred Jarry I mostri dell’immagine, (Pacini, Pisa, 1982). Suo è il saggio Percorsi dell’avanguardia (Pacini, Pisa, 1993) in cui si occupa del Futurismo Italiano e delle Avanguardie storiche. Ha scritto altri testi pubblicati in francese su Picabia, Duchamp, Roché, Genet, Queneau, Perec, l’Oulipo. Ha organizzato e partecipato al catalogo di Jarry e la Patafisica a Palazzo Reale di Milano, Jarry all’IVAM di Valencia, Il Danzatore meccanico al MART di Trento, Baj al Museo d’Arte Moderna di Nizza, Le Collège à la Collégiale di Chartres. Ha fatto conoscere l’opera di Tadeusz Kantor come pittore e uomo di teatro (Wielopole-Wielopole, Parigi. CNRS, 1980; Entretiens, Parigi, ed. Carré, 1996). Altri suoi testi sulla creatività contemporanea e il rapporto tra testo e immagine: “Raprésenter l’indicible, dire l’irreprésentable. Le théatre d’images en Italie”, “La Scène et les images”, Parigi, CNRS, 2001. Ha lavorato per rinnovare l’immagine del Teatro delle Marionette attraverso la rivista “Puck” che ha diretto dal 1987 al 2000. Ha organizzato seminari e dottorati sulla “Marionetta contemporanea” all’Università di Parigi III e ha diretto la collezione sull’Arte delle marionette alla edizione “L’Entretemps”. Ha inoltre pubblicato un saggio sulla scrittura del XX secolo e alcuni racconti polizieschi.]