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03-07-2005

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Sommario

- De Litteris

De Litteris


    Lo studio della letteratura probabilmente non serve a nulla.

   Gli antichi Greci avevano in qualche modo “intuito” l’inutilità dell’applicazione filosofica, culturale e dialettica (dunque pre-letteraria) denominando “scholè” tutto il “tempo libero” dagli impegni e dedicato, appunto, all’attività intellettuale.

   Sul piano etimologico, si potrebbe dunque affermare che dedicarsi alla letteratura o alla filosofia sia una perdita di tempo, un sottrarsi ad attività di più immediata utilità, laddove, ovviamente, per “tempo ben impiegato” si voglia indicare quello speso per attività “materiali” come il duro e onesto lavoro.

   In tal senso come biasimare gli antichi? Certo, il termine “scholè” non aveva un’accezione integralmente negativa: indicava soltanto, con lucida razionalità, il “campo d’azione sociale” delle attività culturali connesse alla letteratura e di coloro che potevano occuparsene, cioè quei benestanti che non avevano l’impellente necessità di sfamarsi da sé e che potevano gestire del “tempo libero” per trattare problemi più astratti di quelli cui dovevano far fronte coloro che non vivevano nelle stesse condizioni economiche.

   Detto questo, è necessario specificare un aspetto fondamentale dell’inutilità della letteratura. In quanto generata da attività speculative, non si può e non si deve pretendere da essa una vera “utilità”.

   L’utilità appartiene alla materialità della vita, a ciò che esiste perché se ne tragga un guadagno concreto, perché si possa sfruttarne vantaggiosamente i pregi. Per quanto riguarda i sentimenti o tutto ciò che nell’esistenza umana nasce perché così deve essere (come la speculazione filosofica e la letteratura) bisognerebbe parlare, più che dell’utilità, del “perché degli svantaggi”.

   Bisognerebbe cioè domandarsi perché, al giorno d’oggi e nonostante la vasta, omologante corrente del materialismo multimediale contemporaneo, valga ancora la pena, e, certo, la malinconia, di leggere qualche canto della Comedìa dantesca o qualche passo del carme “Dei Sepolcri” del Foscolo.

   Il vero quesito, secondo me, è il seguente: il pensiero umano, quando non aderisce alla mera praticità delle tecniche, reca con sé dei vantaggi per la vita di ogni giorno?  

   La letteratura rappresenta, all’interno del filone riflessivo “astratto” quanto di più nobilmente inutile l’uomo abbia realizzato nel suo cammino attraverso il tempo ed il progresso, ma, vorrei ribadire, inutile per realizzare qualcosa nell’altro campo speculativo, quello ad esso così affine ed ostile rappresentato dalla pratica e dalla tecnica.

   E’ in tal senso che azzarderei, in particolare per la letteratura, una definizione utilitaristica “in negativo”, una definizione che possa rendere giustizia della sua essenza tratteggiandone i caratteri “inutili” alla vita normale dell’uomo medio. E’ quest’uomo, anche ai giorni d’oggi, che svolgendo la necessaria attività lavorativa, può ancora definire tutte le attività speculative come una perdita di tempo, come una possibilità ricreativa per chi, beato lui, abbia tempo da dedicare ad una passione.  

   L’uomo medio potrebbe credere che fare della letteratura (scrivere e leggere, dunque) sia equivalente a coltivare fiori (con tutto il rispetto per chi ama farlo) e la sua opinione sarebbe perfettamente comprensibile e rispettabile alla luce della considerazione già compiuta sul valore assoluto del “tempo libero”. E’ il giudizio di quest’uomo a condizionare l’attribuzione di senso e di valore anche alla letteratura, come se, attraverso i secoli, la lapidaria definizione greca dell’attività intellettuale (ma anche dialettica, ma anche didattica) avesse lasciato in eredità a quanti, in fondo, non si occupano di essa, l’atteggiamento scettico con cui furono giudicati Talete, Eraclito o Socrate.  

   Certamente costoro non possono essere considerati come ideali rappresentanti della cultura letteraria ma le loro vite possono indicare, fatte le dovute precisazioni, quale conflitto si sia svolto e si svolga lungo il confine fra astrazione, attività tecniche e pensiero comune.

   In tal senso, una possibile definizione in negativo (negativo rispetto all’utilità) della letteratura può essere la diversità, l’isolamento che deve pagare ogni intellettuale perché sia compiuto il suo percorso all’interno e contro il suo tempo. La letteratura non serve perché, come ogni attività intellettuale astratta, pretende che chi la comprende baratti la “coscienza comune” che gli appartiene in quanto membro di una data società in un dato tempo, con il pensiero individuale, isolante, “difficile”.

   Si può discutere se la letteratura sia poi così astratta e si può obiettare che ciò che è stato fatto dall’uomo non sia mai del tutto inutile o, almeno, non-concreto. L’uomo vive pur sempre su questa terra, no?

   Credo che non possa essere data una risoluzione definitiva a questo dubbio. Ciò su cui si può aggiungere qualcosa è il perché la letteratura (o qualsiasi attività intellettuale astratta) e chi si occupa di essa, siano condannati ad appartenere ad un “universo logico” che è “altro” rispetto a quello della contemporaneità. A tal proposito credo che sia illuminante la lettura di alcuni fra i passi letterari più significativi e che più, a mio avviso, si prestano a stimolare la riflessione sul senso della vita dell’uomo.

   Nella Comedìa di Dante, al canto XXVI dell’Inferno, si legge ai vv. 112-123:

“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì acuti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti.
 

L’astuto Ulisse, punito nell’ottava bolgia fra gli inventori di frodi, racconta a Virgilio e a Dante il suo ultimo viaggio, svoltosi dopo il ritorno ad Itaca. La brama di conoscenza dell’antico eroe lo portò, insieme ai suoi vecchi compagni, a varcare le Colonne d’Ercole fin quasi a raggiungere il Purgatorio. Tanto empio desiderio di conoscenza è punito dalla volontà divina: la nave su cui Ulisse viaggia è affondata e l’ultimo ricordo della sua vita mortale è nell’immagine del mare che si richiude su chi, ormai, è inghiottito dalle onde (v. 142).

   Ulisse rappresenta “l’istinto” umano verso il sapere, l’istinto che, eroicamente, è vissuto in tutta la sua profondità e in tutto il suo valore. Il limite di tale impulso è la mortalità, l’ombra minacciosa della fine di tutto. La tarda età è per Ulisse il pretesto con cui persuadere i vecchi compagni.  

   La “semenza” umana deve tendere alla sapienza come alla morte. Legge tanto valida quanto non scritta, ma presente, in modo e forme diverse, in ogni individuo. Il legame fra pensiero, razionalità, ricordo e richiamo di ciò che, come l’eroismo, è antico, la letteratura e, infine, la morte è saldato da Dante in modo indiscutibile.

   La letteratura è inutile all’ “uomo comune” perché, come ogni attività intellettuale astratta, deve arrestarsi di fronte all’ineluttabile termine della vita, una verità assoluta e finale, la morte, che diventa la sicura compagna di ciascuno di noi, nell’incerto viaggio terreno. Spesso, anzi spessissimo, tuttavia, si cerca di pensare ad altro.       

   Il legame fra vita, morte, ricordo di ciò che è antico e letteratura è espresso con forte evidenza anche nel passo finale del carme “Dei Sepolcri” del Foscolo, ai vv.  279-295.       

[...] Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i Prenci Argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.

   Le ultime battute del carme sono riservate alla profezia dell’infelice Cassandra, figlia di Priamo, capace di prevedere il futuro ma condannata all’incomprensione. Le sue funeste visioni e la sua triste condizione possono simboleggiare lo stato di solitudine “eroica” di chi, come l’intellettuale, come il letterato, come il filosofo o l’artista, deve vivere distante dai propri tempi, in una diversa dimensione di sensibilità e comprensione che lo condannano all’isolamento. Al cospetto del pensiero astratto che il pensatore rappresenta, l’uomo comune fugge come dall’idea della morte. Ed in ciò, fondamentalmente, non è nulla di errato.

   La letteratura è inutile perché riporta dunque, senza soluzione “positiva” all’idea della nostra mortalità, all’idea che la nostra esistenza sia molto più incerta di quanto la quotidianità cui attendiamo, potrebbe rivelare.

   Tuttavia, il passo del carme foscoliano preso in considerazione sembra contraddire tale affermazione e aprire una via diversa per raggiungere la comprensione del fenomeno letterario, in una direzione che sembra preludere ad una vera utilità, ad una certa “consolazione”. L’oscuro presagio delle “sciagure umane” (v. 295) lascia intendere una delle verità possibili: i dolori vivono e vivranno con gli uomini secondo una legge naturale inderogabile. Il Foscolo aggiunge l’elemento consolante, il nobile, forse amaro, ma sostanziale ruolo della letteratura nell’esistenza umana, oltre i dolori, oltre la disperazione cieca che si colloca nel presente: la memoria, la garanzia che verrà qualcuno ad ascoltare i lamenti dell’umanità sofferente e a tramandare la storia di ogni sentimento affinché non sia obliata.

   Il valore della vita umana viene così destinato al futuro, proiettato in quella dimensione incerta in cui nessuno può garantire la propria presenza a breve termine e in cui, a lungo termine, nessuno davvero può sperare di giungere.

   Se la vita delle collettività ha un valore nuovo, come si deduce dalla lettura del carme foscoliano, questo lo si deve alla letteratura, al mezzo che permette la sublimazione dell’esperienza umana nella direzione assoluta dell’eternità.

   Il vate Omero, penetrato negli “avelli” dei grandi eroi troiani inizia ad interrogarne le urne: un fremito percorre gli “antri secreti” (vv. 282-283), ed in quel fremito è l’esperienza fugace della vita che si tramanda e che, grazie all’intervento della memoria, si trasforma in letteratura.

   Il rispetto per il passato, per un’eredità spesso scomoda che ciascuno di noi, per quanto riguarda già le esperienze personali, è libero di rielaborare e di celare, è l’insegnamento massimo della letteratura.

   L’Ulisse dantesco ha ovviamente uno status eroico, ma la sua esperienza può utilmente raffigurare il difficile rapporto fra l’uomo ed il suo intelletto, fra la necessità della sopravvivenza nella quotidianità e la riflessione razionale e pessimistica sul valore ed il senso della vita e della morte.

   L’inutilità della letteratura nell’esistenza dell’uomo comune va controbilanciata dal suo compito intellettuale e destabilizzante rispetto alle “certezze” di cui ci circondiamo per non essere costretti a rammentare troppo spesso che ci dirigiamo “sull’orme che vanno al nulla eterno” come lo stesso Foscolo efficacemente ricorda nel sonetto “Alla Sera” (v. 10).

   D’altra parte, la morte di Ulisse avverte sugli “effetti collaterali” della vita intellettuale integrale, tanto tesa alla conoscenza da essere perduta. Dietro al seducente “fatti non foste a viver come bruti” del v. 119 del canto XXVI dell’Inferno dantesco si cela la trappola mortale dell’alienazione intellettuale fine a sé stessa.

   Letteratura (e intellettualismo) sì, ma prestando attenzione a non commettere (con gravi conseguenze per la vita di tutti i giorni) l’errore attribuito da Platone (Teeteto, 174a) al filosofo Talete che cadde in un pozzo poiché era troppo preso dalla contemplazione del cielo.

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Ultimo aggiornamento: 03-07-2005