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De Litteris
De
Litteris
Lo studio della letteratura probabilmente non serve a nulla.
Gli antichi Greci avevano in qualche modo
“intuito” l’inutilità dell’applicazione filosofica, culturale e dialettica
(dunque pre-letteraria) denominando “scholè” tutto il “tempo libero” dagli
impegni e dedicato, appunto, all’attività intellettuale.
Sul piano etimologico,
si potrebbe dunque affermare che dedicarsi alla letteratura o alla filosofia
sia una perdita di tempo, un sottrarsi ad attività di più immediata utilità,
laddove, ovviamente, per “tempo ben impiegato” si voglia indicare quello
speso per attività “materiali” come il duro e onesto lavoro.
In tal senso come
biasimare gli antichi? Certo, il termine “scholè” non aveva un’accezione
integralmente negativa: indicava soltanto, con lucida razionalità, il “campo
d’azione sociale” delle attività culturali connesse alla letteratura e di
coloro che potevano occuparsene, cioè quei benestanti che non avevano
l’impellente necessità di sfamarsi da sé e che potevano gestire del “tempo
libero” per trattare problemi più astratti di quelli cui dovevano far fronte
coloro che non vivevano nelle stesse condizioni economiche.
Detto questo, è
necessario specificare un aspetto fondamentale dell’inutilità della
letteratura. In quanto generata da attività speculative, non si può e non si
deve pretendere da essa una vera “utilità”.
L’utilità appartiene
alla materialità della vita, a ciò che esiste perché se ne tragga un
guadagno concreto, perché si possa sfruttarne vantaggiosamente i pregi. Per
quanto riguarda i sentimenti o tutto ciò che nell’esistenza umana nasce
perché così deve essere (come la speculazione filosofica e la letteratura)
bisognerebbe parlare, più che dell’utilità, del “perché degli svantaggi”.
Bisognerebbe cioè
domandarsi perché, al giorno d’oggi e nonostante la vasta, omologante
corrente del materialismo multimediale contemporaneo, valga ancora la pena,
e, certo, la malinconia, di leggere qualche canto della Comedìa
dantesca o qualche passo del carme “Dei Sepolcri” del Foscolo.
Il vero quesito, secondo
me, è il seguente: il pensiero umano, quando non aderisce alla mera
praticità delle tecniche, reca con sé dei vantaggi per la vita di ogni
giorno?
La letteratura
rappresenta, all’interno del filone riflessivo “astratto” quanto di più
nobilmente inutile l’uomo abbia realizzato nel suo cammino attraverso il
tempo ed il progresso, ma, vorrei ribadire, inutile per realizzare qualcosa
nell’altro campo speculativo, quello ad esso così affine ed ostile
rappresentato dalla pratica e dalla tecnica.
E’ in tal senso che
azzarderei, in particolare per la letteratura, una definizione
utilitaristica “in negativo”, una definizione che possa rendere giustizia
della sua essenza tratteggiandone i caratteri “inutili” alla vita normale
dell’uomo medio. E’ quest’uomo, anche ai giorni d’oggi, che svolgendo la
necessaria attività lavorativa, può ancora definire tutte le attività
speculative come una perdita di tempo, come una possibilità ricreativa per
chi, beato lui, abbia tempo da dedicare ad una passione.
L’uomo medio potrebbe
credere che fare della letteratura (scrivere e leggere, dunque) sia
equivalente a coltivare fiori (con tutto il rispetto per chi ama farlo) e la
sua opinione sarebbe perfettamente comprensibile e rispettabile alla luce
della considerazione già compiuta sul valore assoluto del “tempo libero”. E’
il giudizio di quest’uomo a condizionare l’attribuzione di senso e di valore
anche alla letteratura, come se, attraverso i secoli, la lapidaria
definizione greca dell’attività intellettuale (ma anche dialettica, ma anche
didattica) avesse lasciato in eredità a quanti, in fondo, non si occupano di
essa, l’atteggiamento scettico con cui furono giudicati Talete, Eraclito o
Socrate.
Certamente costoro non
possono essere considerati come ideali rappresentanti della cultura
letteraria ma le loro vite possono indicare, fatte le dovute precisazioni,
quale conflitto si sia svolto e si svolga lungo il confine fra astrazione,
attività tecniche e pensiero comune.
In tal senso, una
possibile definizione in negativo (negativo rispetto all’utilità) della
letteratura può essere la diversità, l’isolamento che deve pagare ogni
intellettuale perché sia compiuto il suo percorso all’interno e contro il
suo tempo. La letteratura non serve perché, come ogni attività intellettuale
astratta, pretende che chi la comprende baratti la “coscienza comune” che
gli appartiene in quanto membro di una data società in un dato tempo, con il
pensiero individuale, isolante, “difficile”.
Si può discutere se la
letteratura sia poi così astratta e si può obiettare che ciò che è stato
fatto dall’uomo non sia mai del tutto inutile o, almeno, non-concreto.
L’uomo vive pur sempre su questa terra, no?
Credo che non possa
essere data una risoluzione definitiva a questo dubbio. Ciò su cui si può
aggiungere qualcosa è il perché la letteratura (o qualsiasi attività
intellettuale astratta) e chi si occupa di essa, siano condannati ad
appartenere ad un “universo logico” che è “altro” rispetto a quello della
contemporaneità. A tal proposito credo che sia illuminante la lettura di
alcuni fra i passi letterari più significativi e che più, a mio avviso, si
prestano a stimolare la riflessione sul senso della vita dell’uomo.
Nella Comedìa di
Dante, al canto XXVI dell’Inferno, si legge ai vv. 112-123:
“O frati,”
dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì acuti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti.
L’astuto Ulisse, punito nell’ottava bolgia fra gli
inventori di frodi, racconta a Virgilio e a Dante il suo ultimo viaggio,
svoltosi dopo il ritorno ad Itaca. La brama di conoscenza dell’antico eroe
lo portò, insieme ai suoi vecchi compagni, a varcare le Colonne d’Ercole fin
quasi a raggiungere il Purgatorio. Tanto empio desiderio di conoscenza è
punito dalla volontà divina: la nave su cui Ulisse viaggia è affondata e
l’ultimo ricordo della sua vita mortale è nell’immagine del mare che si
richiude su chi, ormai, è inghiottito dalle onde (v. 142).
Ulisse rappresenta “l’istinto” umano verso il
sapere, l’istinto che, eroicamente, è vissuto in tutta la sua profondità e
in tutto il suo valore. Il limite di tale impulso è la mortalità, l’ombra
minacciosa della fine di tutto. La tarda età è per Ulisse il pretesto con
cui persuadere i vecchi compagni.
La “semenza” umana deve tendere alla sapienza come
alla morte. Legge tanto valida quanto non scritta, ma presente, in modo e
forme diverse, in ogni individuo. Il legame fra pensiero, razionalità,
ricordo e richiamo di ciò che, come l’eroismo, è antico, la letteratura e,
infine, la morte è saldato da Dante in modo indiscutibile.
La letteratura è inutile all’ “uomo comune”
perché, come ogni attività intellettuale astratta, deve arrestarsi di fronte
all’ineluttabile termine della vita, una verità assoluta e finale, la morte,
che diventa la sicura compagna di ciascuno di noi, nell’incerto viaggio
terreno. Spesso, anzi spessissimo, tuttavia, si cerca di pensare ad
altro.
Il legame fra vita, morte, ricordo di ciò che è
antico e letteratura è espresso con forte evidenza anche nel passo finale
del carme “Dei Sepolcri” del Foscolo, ai vv. 279-295.
[...] Un dì
vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i Prenci Argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
Le ultime battute del carme sono riservate alla
profezia dell’infelice Cassandra, figlia di Priamo, capace di prevedere il
futuro ma condannata all’incomprensione. Le sue funeste visioni e la sua
triste condizione possono simboleggiare lo stato di solitudine “eroica” di
chi, come l’intellettuale, come il letterato, come il filosofo o l’artista,
deve vivere distante dai propri tempi, in una diversa dimensione di
sensibilità e comprensione che lo condannano all’isolamento. Al cospetto del
pensiero astratto che il pensatore rappresenta, l’uomo comune fugge come
dall’idea della morte. Ed in ciò, fondamentalmente, non è nulla di errato.
La letteratura è inutile perché riporta dunque,
senza soluzione “positiva” all’idea della nostra mortalità, all’idea che la
nostra esistenza sia molto più incerta di quanto la quotidianità cui
attendiamo, potrebbe rivelare.
Tuttavia, il passo del carme foscoliano preso in
considerazione sembra contraddire tale affermazione e aprire una via diversa
per raggiungere la comprensione del fenomeno letterario, in una direzione
che sembra preludere ad una vera utilità, ad una certa “consolazione”.
L’oscuro presagio delle “sciagure umane” (v. 295) lascia intendere una delle
verità possibili: i dolori vivono e vivranno con gli uomini secondo una
legge naturale inderogabile. Il Foscolo aggiunge l’elemento consolante, il
nobile, forse amaro, ma sostanziale ruolo della letteratura nell’esistenza
umana, oltre i dolori, oltre la disperazione cieca che si colloca nel
presente: la memoria, la garanzia che verrà qualcuno ad ascoltare i lamenti
dell’umanità sofferente e a tramandare la storia di ogni sentimento affinché
non sia obliata.
Il valore della vita umana viene così destinato al
futuro, proiettato in quella dimensione incerta in cui nessuno può garantire
la propria presenza a breve termine e in cui, a lungo termine, nessuno
davvero può sperare di giungere.
Se la vita delle collettività ha un valore nuovo,
come si deduce dalla lettura del carme foscoliano, questo lo si deve alla
letteratura, al mezzo che permette la sublimazione dell’esperienza umana
nella direzione assoluta dell’eternità.
Il vate Omero, penetrato negli “avelli” dei grandi
eroi troiani inizia ad interrogarne le urne: un fremito percorre gli “antri
secreti” (vv. 282-283), ed in quel fremito è l’esperienza fugace della vita
che si tramanda e che, grazie all’intervento della memoria, si trasforma in
letteratura.
Il rispetto per il passato, per un’eredità spesso
scomoda che ciascuno di noi, per quanto riguarda già le esperienze
personali, è libero di rielaborare e di celare, è l’insegnamento massimo
della letteratura.
L’Ulisse dantesco ha ovviamente uno status eroico,
ma la sua esperienza può utilmente raffigurare il difficile rapporto fra
l’uomo ed il suo intelletto, fra la necessità della sopravvivenza nella
quotidianità e la riflessione razionale e pessimistica sul valore ed il
senso della vita e della morte.
L’inutilità della letteratura nell’esistenza
dell’uomo comune va controbilanciata dal suo compito intellettuale e
destabilizzante rispetto alle “certezze” di cui ci circondiamo per non
essere costretti a rammentare troppo spesso che ci dirigiamo “sull’orme che
vanno al nulla eterno” come lo stesso Foscolo efficacemente ricorda nel
sonetto “Alla Sera” (v. 10).
D’altra parte, la morte di Ulisse avverte sugli
“effetti collaterali” della vita intellettuale integrale, tanto tesa alla
conoscenza da essere perduta. Dietro al seducente “fatti non foste a viver
come bruti” del v. 119 del canto XXVI dell’Inferno dantesco si cela
la trappola mortale dell’alienazione intellettuale fine a sé stessa.
Letteratura (e intellettualismo) sì, ma prestando
attenzione a non commettere (con gravi conseguenze per la vita di tutti i
giorni) l’errore attribuito da Platone (Teeteto, 174a) al filosofo
Talete che cadde in un pozzo poiché era troppo preso dalla contemplazione
del cielo.