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STORIA DI ROMA



LA REPUBBLICA

Le leggi agrarie, il Decemvirato, l'invasione di Brenno
(486 - 390 a.C.)

 

Coriolano - La legge agraria - I decemviri - La legge di Valerio e Orazio -
La caduta di Veio - L'invasione di Brenno

 


Coriolano

Continuavano frattanto le infinite guerre con i popoli vicini. Una vittoria molto importante fu ottenuta da Caio Marzio a Carioli sui volsci. Per questo il generale fu portanto in trionfo e chiamato il Coriolano. Ma chi lo voleva console dovette arrendersi alle sue poco diplomatiche dichiarazioni contro la plebe. Egli era di origini patrizie e non aveva ancora digerito le concessioni fatte sul Monte Sacro e l'istituzione dei tribuni.

I tribuni lo denunciarono, e nel processo che seguì fu messa a voto dalle tribù la possibilità di un suo esilio, ciò che in realtà accadde.

Indignato dalla decisione, Coriolano si rifugiò ad Anzio per guidare un esercito di Volsci contro la sua città. Narra la leggenda che solo l'intervento della madre, cui il figlio era molto affezionato, riuscì ad impedire la vendetta. Coriolano si ritirò a vita privata (alcuni dissero fosse stato ucciso dai volsci sentitisi traditi). I romani, privati i nemici dell'abilità del generale, ebbero gioco facile e sventarono l'ennesima minaccia.


La legge agraria

Nel 486 a.C. Spurio Cassio riformò i principi di distribuzione delle terre conquistate. Prima di allora la divisione delle terre aveva favorito i patrizi e il demanio a scapito della plebe. La legge di Spurio era stata ideata per una più equa distribuzione delle terre, ma questo, non c'è da stupirsi, rese inviso il legislatore ai patrizi e ai grandi latifondisti, motivo per cui venne gettato dalla rupe Tarpea.

Il problema della distribuzione delle terre conquistate si trascinerà ancora a lungo, e sarà il principale motivo di lotta tra plebei e patrizi, assieme alla regolamentazione delle punizioni per i debitori (che prevedevano per i colpevoli la schavitù, il carcere e la morte), fino alla progressiva conquista della penisola che rese più abbondante il bottino da spartire e le tensioni sociali meno evidenti.


I decemviri: le XII tavole

Nel 462 a.C., un tribuno della plebe, Caio Terentillo Arsa, propose una legge che aveva il compito di limitare il potere dei consoli, i quali venivano accusati di esercitare la giustizia e le leggi con troppa disinvoltura (da ricordare che le leggi non erano ancora state codificate per iscritto e tutto si fondava sulle sole consuetudini).
Il provvedimento di restrizione di Terentillo fu oggetto di un accananito ustruzionismo senatoriale che di fatto bloccò la contesa per cinque anni.

Alla fine si decise, nel 451, di dare pieni poteri legislativi a un collegio composto di dieci patrizi, il decemvirato, i quali avrebbero elaborato dieci tavole (poi divenute dodici), sulle quali si sarebbero messe per iscritto, con qualche aggiunta, le leggi che fino allora erano state tramandate solo oralmente (si narra che nel 454 vi fu un'ambasciata romana che si recò in Grecia appositamente per studiare la legislazione di Solone).
Anche Roma avrebbe quindi seguito la tradizione delle grandi repubbilche aristocratiche greche, dove le leggi erano esposte per iscritto in pubblico come garanzia contro possibili abusi.

I decemviri dovevano prendere le loro decisioni all'unanimità, ogni membro aveva potere di veto. Il primo decemvirato venne sciolto dopo un anno, il secondo venne eletto accogliendo tra i suoi membri alcuni esponenti plebei (ma solo i più ricchi).
Malgrado ciò, il popolo romano si accorse che anche i decemviri tendevano a legiferare contro la plebe (come, ad esempio, la ribadita impossibilità di contrarre matrimoni tra le due classi).
Una rivolta popolare destituì i dieci legislatori, dopo che la plebe era ritornata nuovamente sul Monte Sacro e accentuando per l'ennesima volta la frattura sociale.


La legge di Valerio e Orazio

Ennesimo episodio della lotta tra patriziato e plebe sono le leggi emesse dai due consoli che seguirono l'esperienza del decemvirato.
Nel 449, Valerio Potito e Orazio Barbato, patrizi moderati, emisero una legge in favore del popolo: ribadirono l'inviolabilità dei tribuni, sempre minacciata dall'opposizione dei patrizi, stabilirino che le decisioni prese durante i plebisciti fossero voncolanti per tutto il popolo e restauravano il diritto di appello nel caso in cui un semplice cittadino fosse stato condannato a morte da un alto magistrato (questo diritto era stato sospeso durante il demvirato).


La caduta di Veio: la decandenza etrusca

La caduta di Veio è datata 396 a.C. Più volte Roma era entrata in contrasto con la città etrusca, Veio contendeva all'Urbe le saline del Tirreno e si intrometteva nelle regole di navigazione del Tevere, contrastandola in prestigio e ricchezza.

La caduta definitiva della roccaforte è attribuita all'abilità del console Marco Furio Camillo. La leggenda narra di un assedio decennale, volutamente paragonato a quello di Troia, alla fine del quale la città etrusca venne rasa al suolo e i suoi superstiti deportati.

Con la presa di Veio comincia il lento declino della civiltà etrusca. Già dopo la battaglia di Cuma del 474, contro i siracusani, gli etruschi avevano perso la supremazia marittima e si erano ritirati all'interno. Ora Roma si era annessa il territorio laziale occupato dai veienti.

La decandenza etrusca è poi da imputare alla scarsa lungimiranza delle città-stato, sempre in lotta tra loro, e alla pressione dei popoli galli scesi dalle Alpi, che premevano a nord. L'Etruria si trovò così fatalmente schiacciata tra l'ascesa romana a sud e le scorribande barbare nella pianura padana: una morsa fatale.


L'invasione di Brenno, il sacco di Roma, le oche del Campidoglio

Nel 390 a.C. accadde un fatto inaspettato, una pagina tra le più vergognose della storia di Roma (tanto che gli storici, pare, si affacendarono a indorare la pillola assocciando al fatto gesta leggendarie ed eroiche che ne mitigassero l'onta).

Accadde che una tribù di galli senoni, guidate dal valente e spietato condottiero Brenno, attraversò, saccheggiandola, l'Etruria, fino a giungere ad assediare la città di Chiusi.
I chiusini chiesero aiuto ai romani che mandarono in città alcuni ambasciatori della stirpe dei Fabi. Di fronte ai rifiuti dei galli di risolvere il conflitto con la mediazione, gli ambasciatori mossero seduta stante guerra al popolo invasore, dando man forte algli assediati.

I galli non presero bene la cosa, lasciarono Chiusi e decisero di marciare direttamente su Roma. I romani tentarono di fermarli sul fiume Allia, ma la sola cosa che ottennero fu una sonora sconfitta che gettò l'Urbe nel terrore.

A questo punto si consumò l'onta: Roma si era già svuotata, la sua popolazione si era dispersa nelle città vicine nella sicurezza che nulla avrebbe fermato la marcia dei barbari invasori (l'esercito sbaragliato non era riuscito a riorganizzarsi). Brenno entrò in città senza colpo ferire. Roma fu saccheggiata selvaggiamente, incendiate le case e distrutti i monumenti, massacrati gli abitanti rimasti.

Nel fuggi fuggi generale si narra della leggendaria resistenza del Campidoglio. Il luogo, che conservava i più importanti tempi delle divinità, era sistemato su una collina che i galli strinsero d'assedio. La leggenda vuole che, una notte, Brenno decise di risalire le pendici del colle per cogliere di sorpresa gli assediati. Il piano falli perché le oche sacre a Giunone si misero a starnazzare e svegliarono il console Marco Manlio, il quale diede l'allarme e riuscì a respingere l'attacco con l'aiuto delle sentinelle.

La situazione di stallo che si creò indusse i galli a chiedere un riscatto di 1.000 libbre d'oro. Il riscatto fu pagato e i galli se ne andarono, non senza essere sbaragliati dal console Furio Camillo, il conquistatore di Veio, il quale riuscì persino a recuperare l'oro estorto (ma molto probablimente questa fu la versione storica consolatoria).

 



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