Jacques
Jacques Derrida nasce in Algeria da famiglia di origini ebraiche. Inizialmente influenzato da Sartre, se ne distacca subito e affronta il suo primo importante lavoro filosofico scrivendo un'introduzione a un opera di Husserl (Introduzione a "L'origine della geometria" di Husserl). Nel 1966, con la conferenza dal titolo La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, Derrida inaugura un nuovo atteggiamento filosofico che chiama "decostruzionismo", atteggiamento volto ad operare una decostruzione della tradizione filosofica occidentale in nome di una libera intepretazione dei significati prodotti dalle diverse costruzioni metafisiche. Oltre ad essere il principale ispiratore del "College International de Philosophie" di Parigi e direttore dell"Ecole des Hautes Etudes", insegnerà anche in diverse università statunitensi, e in nordamerica il decostruzionismo troverà terreno fertile soprattutto nel campo della critica letteraria. Derrida sarà dunque una figura il certo modo controversa all'interno della tradizione filosofica, quella stessa tradizione che il suo lavoro intende distruggere. Se nel corso della storia i diversi impianti filosofici sono caratterizzati dall'intenzione di edificare strutture di pensiero coerenti dato un certo presupposto razionale, il compito della filosofia in epoca postmomderna è quello di andare al di là di questa tendenza all'immutabile e alla verità definitiva. La filosofia è dunque viaggio mai concluso, ogni filosofia che si definisce in possesso della certezza rifiuta l'evidenza originaria della mutabilità. Opere principali: Della grammatologia (1967); La scrittura e la differenza (1967); La voce e il fenomeno (1967); Margini della filosofia (1972); Sopra-vivere (1979); La cartolina postale (1980); Dello spirito (1987); Psyché (1987); Limited Inc. (1990), La mano di Heidegger (1991), Oggi l'Europa (1991), Sproni: gli stili di Nietzsche (1991), Retorica della droga: intervista (1993), Ritorno da Mosca (1993), Spettri di Marx: stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1994), Memorie per Paul de Man. Saggio sull'autobiografia (1995), Politiche dell'amicizia (1995), La religione: annuario filosofico europeo (1995), Donare il tempo: la moneta falsa (1996). * Sommario 1. Il senso della decostruzione 2. Postmoderno, "mitologia bianca" 4. La metafora della "cartolina postale", la storicità del senso 5. La "differance": l'essere, il linguaggio, la traccia 7. Residui platonici nel rapporto tra significante e significato *
L'atteggiamento
decostruzionista non intende fondare verità stabili mediante procedimenti
deduttivi (come le metafisiche) o analizzare enunciati e preposizioni
per giudicarne la verità (come il neopositivismo), la decostruzione
mira invece a mettere in risalto i significati sottesi del testo filosofico
che si insidiano nel non detto, negli spazi vuoti dell'argomento, in
modo da operare uno smantellamento delle tradizionali categorie filosofiche.
Il procedimento della decostruzione si presenta in effetti come una tecnica letteraria prima che filosofica, come un procedimento creativo di demitizzazione e di libera speculazione. Nelle intenzioni di Derrida, grazie all'uso della decostruzione, il testo si apre in un certo modo al futuro, a ciò che la filosofia approderà. Decostruire un testo permette infatti di “agitarne” in qualche modo il contenuto: è da questa agitazione che è possibile far uscire quella parte di senso che era rimasta chiusa nell' “inconscio del testo” e che indicherà in qualche modo la strada del possibile e del non ancora attuato.
La decostruzione produce un pensiero filosofico fedele alle visioni del pensiero postmoderno: qualsiasi significato definitivo non rispecchia appieno la realtà, per cui è significativo solo il lasciato in sospeso, il non detto, il suggerito, il concetto in movimento: ogni concetto, nel postmoderno, non si fonda come eterno, ma si rende disponibile all'imprevedibile. Se così non fosse, il concetto immutabile non potrebbe essere fedele all'aspetto più originario e autentico della realtà: il divenire, il mutare. Il concetto di postmodernità rappresenta una critica all'intera tradizione metafisica occidentale. Derrida parla della metafisica occidentale in termini di “mitologia bianca”: il pensiero occidentale si fonda come il pensiero degli uomini bianchi che pretendono di universalizzare il loro peculiare modo di filosofare. In realtà, secondo Derrida, questa intenzione è un arbitrio. Il pensiero occidentale, e con lui l'enorme mole di testi legati indissolubilmente alla tradizione che esprimono, è come un grande organismo pesante e inelastico, legato ai propri preconcetti, che non è in grado di esprimere la realtà attuale postmoderna, caratterizzata dalla velocità del mutamento e dalla molteplicità dei punti di vista. L'immutabilità
come concetto negativo fonda le sue basi su queste considerazioni: ogni
forma immutabile e definitiva di conoscenza pretende di vincolare a
sé il cambiamento che si riscontra invece nelle diverse fasi storiche
del mondo. Le
stesse ideologie che si fondano su evidenze metafisiche e religiose
immutabili sono le principali responsabili dei conflitti che si presentano
nel corso della storia. In nome dell'immutabilità delle sue posizioni,
per esempio, la Chiesa impedì a Galileo di divulgare le sue tesi, e
molti altri delitti contro l'uomo sono stati commessi in nome dell'immutabilità
pretesa dalle diverse tradizioni religiose, politiche e di pensiero.
Dall'evidenza dello sviluppo tecnologico e sociale, il pensiero postmoderno può dedurre che il progresso non si fonda sull'immutabilità dei concetti (i quali hanno impedito per troppo tempo, in passato, la possibilità di un qualsiasi sviluppo), ma si fonda invece sulla capacità di superare e travalicare continuamente l'immutabilità in nome di un'adesione piena al divenire, al mutamento, il quale rappresenta la struttura più autentica della realtà. Con questo viene affermato che, se la struttura autentica della realtà è il mutamento, ogni sapere stabile e definitivo che vuole presentarsi come comprensione definitiva della realtà non rappresenta la realtà. Aldilà di quanto è stato detto occorre comunque aggiungere che Derrida non "si nasconde" dietro la categoria postmoderna: è proprio del suo atteggiamento filosofico quello di rifiutare qualsiasi denotazione definitiva, invitando a non lasciarsi ingabbiare dai vari "post, neo e altri ismi" che intendono stabilire categorie che il decostruzionismo può senz'altro decostruire a sua volta.
Benché tutto quello detto fin qui presenti il pensiero di Derrida come una specie di contenitore caotico, sono comunque rilevabili “le pareti” di questo contenitore, le linee generali di un “metodo” che regge il gioco della decostruzione, il metodo della libertà. Secondo Derrida è ora possibile, ponendosi al termine della tradizione occidentale, giocare con la tradizione filosofica e il linguaggio che esprime, è ora possibile lasciarsi trasportare dalla deriva del significante, ovvero seguire l'infinito e imprevedibile arbitrio concettuale della parola nell'assoluta assenza di regole e di leggi logiche immutabili che pretendano di circoscrivere e ingabbiare rigidamente la creatività di interpretazione. Se la filosofia del passato edificava una struttura che doveva corrispondere in ogni sua parte alla legge guida di tale struttura, il decostruzionismo apre la possibilità concreta di non dover dipendere da alcun vincolo strutturale nella formulazione delle idee e dei concetti, i quali possono trarre spunto da un aforisma, da una frase, da un brano tratto da un testo filosofico e mettere in evidenza, libero da ogni dovere verso la logica della struttura, i significati che tale frammento filosofico esprime alla luce del nuovo senso in cui viene “immerso”. Tutto ciò esprime una sorta di “anarchia metodologica” che però gioca all'interno della tradizione filosofica e attorno alle possibilità sempre aperta del linguaggio, il quale non si fonda come immutabile, ma come specchio delle diverse realtà.
La metafora della “cartolina postale”, esposta da Derrida nel libro omonimo, permette di capire il modo in cui viene concepita l'adesione alla mutabilità e alla precarietà da parte della sua filosofia. L'autentica filosofia, per Derrida, deve presentarsi nei termini della “cartolina postale”: quando una cartolina viene scritta, essa viene spedita, e il testo affidato alla cartolina viaggia, parte per una destinazione. Possiamo dunque immaginare le peripezie della cartolina dal momento in cui è stata imbucata, dal momento in cui è stata raccolta nel sacco postale che poi verrà portato sul treno o sull'aereo, e possiamo quindi immaginare i luoghi che essa percorre prima di essere consegnata. Ma la consegna significa la fine della vita della cartolina, il suo essere letta la svuota della sua missione. Per Derrida l'unico modo perché la filosofia non muoia nello svuotamento della sua missione è rimanere sospesa nella regione del non definitivamente detto, similmente alla cartolina che deve rimanere in viaggio, come se non fosse mai consegnata. L'autentico filosofare, dunque, è quel filosofare che non si arresta e non cede alla sicurezza delle teorie immutabili, ma continua il suo viaggio, non definisce alcuna realtà stabile, poiché chiudersi entro la sicurezza di una spiegazione stabile della realtà andrebbe contro l'evidenza del carattere storico e mutevole della realtà stessa, per cui essa non può in alcun modo prestarsi ad un senso definitivo. La
filosofia è dunque il luogo entro il quale tutto rimane sospeso nel
viaggio: i concetti, le idee, il senso che di volta in volta la filosofia
elabora attorno a un particolare problema, non possono aver alcuna soluzione
definitiva, la filosofia si limita a fluire nella deriva dei molti significati
che tutte le cose assumono entro la mutabilità che le caratterizza
da sempre.
Che cos'è l'essere per Derrida, ovvero per un pensiero che vuole essere critica della tradizione metafisica occidentale e che vuole trovare un modo per uscire dai confini dalla tradizione filosofica greca? L'essere è una categoria del pensiero occidentale da sempre, ovvero l'essere è quell'entità o concetto che permette di sorreggere in modo stabile la mutabilità del divenire.
Derrida, affrontando questo problema, pone un discorso linguistico.
Per Derrida il linguaggio non può esprimere
l'essere, tutt'al più lo richiama, poiché tra essere e linguaggio esiste
una “differance”. Similmente al discorso della “cartolina postale”, l'essere non si mostra nel linguaggio perché il linguaggio media e nasconde l'essere, lo richiama senza mai definirlo (in questi termini vi è una certa analogia con Jaspers e il pensiero dell'essere come "totalmente altro"). In una delle rappresentazioni più “empiriche” del linguaggio, ovvero il testo scritto, l'essere si nasconde nel non detto del testo, ovvero nei vuoti tra le parole, nei significati sottinteso ai segni, alla struttura grammaticale. L'essere non è presenza nel testo, l'essere nel testo è solamente una traccia, un richiamo lontano e accennato. In questi termini il pensiero metafisico occidentale che vuole indicare il senso stabile dell'essere non può che fallire, poiché il linguaggio della tradizione filosofica che pretende avere un rapporto immediato con l'essere, in realtà, secondo Derrida, ne può conservare solamente una traccia, ed è per questo che il progetto della tradizione filosofica di indicare definitivamente il senso dell'essere fallisce: l'essere di cui parla il linguaggio è in realtà solo una traccia di esso, non è l'essere stesso. Tale "differance", tale lontananza tra essere e segno, si esprime anche temporalmente (differire): il testo scritto viaggia nel tempo e si consegna alla storicità, il suo contenuto immediato si perde e ciò che giunge al lettore non è il suo contenuto, ma è solo il racconto del suo contenuto. Il testo che vuole trasmettere un certo significato perde questo suo significato, il testo si consegna al lettore come un nuovo testo, il cui contenuto produce un significato diverso rispetto a quello che intedeva trasmettere originariamente. Dunque l'essere non è presente al testo, l'essere è assente, come del resto lo è il suo scrittore, poiché il testo giunge al lettore in assenza dello stesso scrittore. La "presenza dell'essere", punto saldo della metafisica classica (ovvero la presenza di un'identità tra il testo e il suo contenuto) è quindi negata dalla visione di Derrida, il quale intende far cadere l'immutabilità dell'essere all'interno del linguaggio, luogo della fluidità e della storicità, salvaguardando l'aspetto diveniente e imprevedibile del senso. Perché il linguaggio scritto è così distante dall'essere? Derrida afferma di aver trovato nell' "inconscio" della tradizione occidentale l'evidenza di una preferenza da parte della filosofia per la parola a scapito della scrittura, ovvero l'evidenza di un logocentrismo (dal significato di “logos” come parola). Questa traccia di logocentrismo si può riscontrare già nella testimonianza di Socrate (nel Fedro), per cui egli racconta il mito di re egiziano Thamus, il quale, di fronte all'offerta della scrittura proposta dal dio Theut, rifiuta l'offerta considerando la parola di molto superiore al linguaggio scritto. Si sa che Socrate non lasciò nulla di scritto e il suo insegnamento fu trasmesso oralmente, benché la testimonianza di Socrate ci pervenga proprio dalla monumentale opera di scrittura di Platone. Tale logocentrismo è quindi la convinzione originata dalla tradizione filosofica occidentale per cui nella parola il senso dell'essere e la verità si presentano immediati (senza alcuna mediazione), poiché nella parola vi è la convinzione, che per Derrida rappresenta solo un'illusione, che sia la coscienza a parlare. Nella parola si avverte quindi più forte il “logos”, ovvero è più forte il legame della parola con il contenuto del pensato. Nella parola l'essere è inteso come presenza immediata. Diversamente, questo atteggiamento svaluta il linguaggio scritto, visto come un allontanamento dall'immediatezza con la quale la parola esprime il pensato. Il testo scritto è infatti l'assenza dell'essere, o quantomeno la sua lontananza, la sua traccia. E in questo quadro che Derrida intende ridefinire il senso della scrittura: l'essere è lontano nel linguaggio scritto, l'essere è traccia secondo i modi della “differance”. E necessario quindi procedere all'analisi del testo non partendo da un'ottica logocentrista, ma analizzando la grammatica del testo concentrandosi solamente sul modello della scrittura. La scrittura è l'assenza dell'essere, quindi il testo è completamente autonomo da esso, il testo non riferisce dell'essere, semplicemente lo evoca. Ecco che il testo filosofico della tradizione occidentale, che pretende avere un legame diretto con l'essere, è in realtà considerabile solamente entro i propri limiti, come luogo di segni e significanti che prendono significato solo il ragione di relazioni interne al testo. Il logocentrismo della tradizione occidentale è poi riscontrabile anche nella stessa caratteristica delle lingue fonetiche, ovvero di quelle lingue i cui segni alfabetici sono la traduzione convenzionale di suoni. Nelle lingue occidentali fonetiche, infatti, il segno alfabetico rimanda al suono della parola, come a ribadire la centralità della parola a scapito di qualsiasi altra sorgente di significati. Sarà dunque nella tradizione orientale ideografica che si potrà riscontrare una diversità fondamentale rispetto al logocentrismo tipico dell'occidente. Le lingue orientali ideografiche, infatti, non sono caratterizzate dalla centralità della parola (fonocentrismo=logocentrismo), ma dalla centralità dell'immagine. Nelle lingue ideografiche la centralità è dell'idea, ovvero tali linguaggi fondano la loro struttura di riferimento semantico sull'immagine delle idee che riflettono la coscienza del mondo.
Si pensi al fondamento del pensiero platonico: vi è una differenza evidente fra l'essere che non muta di origine parmenidea (constatazione razionale) e l'ente che muta nella realtà (constatazione empirica). Per superare questo scoglio, Platone commette il noto "Parricidio". Dal Parricidio commesso deriverà la divisione della struttura del Tutto in due parti: un mondo eterno, in cui ogni idea che viene percepita nella realtà non muta ed è incorruttibile, e un mondo fisico, diveniente, corruttibile, dove ogni cosa muta, cambia, nasce dal nulla e si distrugge. Questa struttura, per Derrida, si riscontra anche nel rapporto che si crea tra significante e significato (ovvero tra segno e senso attribuito al segno). La parola scritta è immutabile, il senso attribuibile alla parola è invece mutabile. A questo punto si avverte come il significante (il segno) indichi chiaramente l'immutabile, mentre il significato (il senso) muta in continuazione, poiché il segno è colto dal sensibile (dall'occhio, dal tatto, dall'udito), mentre il senso è colto dall'intelletto. Da questa scoperta, ovvero che nelle categorie linguistiche si "annida" sempre e comunque una meccanica platonico-metafisica, Derrida afferma che "l'epoca del segno è essenzialmente teologica", ovvero afferma che esiste una "complicità" necessaria tra la struttura linguistica che attribuisce un senso ad un segno e l'intenzione di fondare il mondo su una base stabile di origine divina. Derrida scrive questo: "Il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita. L'epoca del segno è essenzialmente teologica. Essa forse non finirà mai. La sua chiusura storica è tuttavia assegnata". Questo passo descrive bene il filo conduttore dell'intero pensiero di Derrida: la volontà di chiudere i conti con il passato metafisico, l'evocazione di una possibilità di superarlo e allo stesso tempo l'ammissione, anch'essa evocata, di un impossibilità del suo superamento. Le risposte di Derrida rimangono ugualmente in sospeso. Per concludere, l'intero discorso filosofico di Derrida è un tentativo di trovare un via che conduca oltre la tradizione filosofica occidentale. Benché Derrida stesso ammetta che è difficile porsi completamente fuori dal linguaggio posto in essere dalla filosofia greca, nel nome della storicità propria di ogni tradizione, egli cerca di smangiare e intaccare i margini di questa tradizione, per agevolare un probabile e possibile superamento della tradizione filosofica. Da
osservare infine che quanto è stato detto e scritto, nello spirito del
decostruzionismo è possibile di ulteriore decostruzione, in un processo
in cui i significati del testo possono continuamente essere rovesciati,
all'infinito.
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di Synt - Ultimo aggiornamento 16-01-2005
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