Miller a Parigi nel 1936
Henry Miller nasce a Yorkville, quartiere di Manhattan, a New York il 26 dicembre 1891 da genitori americani di origine tedesca. Vive fino a 18 anni un'esistenza libera ed errabonda nelle strade (allora terribilmente pericolose) di Brooklyn. Entra nel City College di NY per compiervi gli studi superiori, ma ci resta due mesi, ribelle com'è ad ogni rigorismo dei normali metodi educativi. Primo impiego all'Atlas Portland Cement Company, prima amante, «Pauline, così vecchia che potrebbe essere stata mia madre». Lungo viaggio nell'Est degli USA, lavori in un ranch («nel tentativo di sottrarmi alla vita di città»), incontro con Emma Goldman, la celebre anarchica di sinistra, a San Diego. Ancora a NY nella bottega di sarto del padre, poi postino e quindi capufficio assunzioni dei postini della Western Union, primo matrimonio a 26 anni («con Beatrice, una pianista di Brooklyn»), le inevitabili dimissioni, il primo divorzio, un secondo matrimonio («con June, una danzatrice»), tanti altri mestieri («feci ancora il becchino e lo spazzino, il libraio, il ratealista, l'agente di assicurazione, il controllore, il bracciante»), e, infine, la decisione determinante: «decisi che non avrei più accettato di svolgere alcun lavoro retribuito, ma avrei impiegato le intere mie energie per diventare scrittore. Era la scelta di una grande povertà: la mia prima raccolta di prose liriche, Mezzotints, andai a venderla personalmente, copia dopo copia, porta a porta. Avevo 34 anni e neanche un soldo in banca». La prima grande esperienza è del 1928, il viaggio di un anno attraverso l'Europa con June («con i soldi di un mecenate»). È allora che Miller capisce che deve sottrarsi in ogni modo alla soffocante american way of life e ritrovare in Europa quella libera e vera vitalità dell'adolescenza ribelle. Nel '30 lascia NY con biglietto pagato e dieci dollari in prestito: è diretto, in piroscafo, in Spagna, ma dopo un breve soggiorno a Londra, tappa intermedia del viaggio, decide di puntare su Parigi e di insediarvisi stabilmente. Si lega ad amicizia con Richard Osborne e vive in casa di costui, a rue Auguste Bartholdi. C'è anche un letterato francese che lo aiuta molto: Alfred Perlès: alternando lunghe passeggiate per qualsivoglia quartiere parigino a lunghe «sedute erotiche» e adeguate sbronze, comincia a scrivere Tropico del Cancro: «era un periodo di grande fertilità: quella che avrei chiamato poi la mia primavera nera». La stesura del romanzo gli prende tre anni, dal 1931 al 1934: «forse non a caso riscrissi la prima stesura tre volte: e furono quattro riscritture lunghe come quattro romanzi». Per nutrirsi lavora a tratti come correttore di bozze alla redazione parigina del Chicago Tribune, oppure insegna inglese al liceo Carnot di Digione. Ma ha imparato a vivere di poco: è tutto concentrato nella creazione letteraria. Finalmente, nel 1934 il libro viene pubblicato. Non è il primo vero romanzo di Miller che nella sua giovinezza americana aveva prodotto almeno due romanzi brevi (Clipped Wings del '22 e This Gentle World del '29). Ma quelle erano due prove incerte e contraddittorie; questo è un libro di perfetta solidità d'impianto, di originale scrittura e, soprattutto, dal messaggio provocatorio, anzi, scandaloso.
Da dove nasce questo scandalo? Per capirlo bisogna spostarsi dalla Parigi degli anni 30 a San Francisco sul finire del 1961. Miller, che ha ormai 70 anni e ha scritto nel frattempo qualcosa come 20 libri, abita a Big Sur, in California. Un editore di punta americano, Barney Rosset di Grove Press, ha appena pubblicato a NY Tropico del Cancro in una doppia edizione (rilegata e tascabile: allora del romanzo esisteva solo l'edizione originale parigina, ad opera di un editore preveggente: Jack Kahane di Obelisk Press di Parigi). L'edizione di Grove non fa in tempo ad arrivare il libreria che un bravo giudice, Patrick Garety, procuratore distrettuale della contea di Marin (a San Rafael, 20 km a nord di S. Francisco) intenta contro Tropico del Cancro «a nome del popolo della California» un processo per oscenità, sostenendo che esso «conduce i lettori ad un tour speculativo ed osceno, attraverso tutti i bordelli, le bettole, le latrine e i rigagnoli di Parigi, in compagnia di ninfomani, libertini, lesbiche, psicopatici e mascalzoni tout court». È l'inizio di una colossale campagna di stampa pro e contro il romanzo, ma anche di una disseminazione a raggiera di processi, che l'anno dopo, soltanto negli USA, sono una cinquantina e tutti con la stessa accusa: oscenità. Miller non sembra dare la minima importanza a questi strascichi giudiziari. Ma il suo editore italiano, Feltrinelli, deve pubblicare il Tropico del Cancro (e il suo seguito, il Tropico del Capricorno) in Svizzera per mettersi al riparo da analoghe persecuzioni, mentre un suo collega in lingua ebraica ha patito il sequestro, in tutto Israele, dei due volumi.
Ma proprio la persecuzione del Tropico, assurda e ingiusta, vale a farci penetrare il segreto di questo romanzo, un indubbio capolavoro del Novecento americano. «Quando noi americani facciamo il processo a Miller, in realtà lo facciamo anche a noi stessi: anzi, a quelle che dentro di noi sono le creature della paura, del pregiudizio, della vergogna, del desiderio insoddisfatto», ha scritto all'epoca un giornalista di classe, Donovan Bess del San Francisco Chronicle. In realtà Miller concepiva l'universo americano (quello che noi siamo soliti chiamare il mondo tecnologico-industriale) come l'universo della Morte (così si intitola un saggio coevo del Tropico, su Proust e Joyce): «La vita su questo tipo di terra sarà sempre un inferno: e l'antidoto non consiste in un aldilà chiamato Cielo, ma in una vita nuova scaturita da un'accettazione totale della vita». Egli sentiva, in altre parole, l'urgenza imperiosa di uscire dal «lungo incubo ad aria condizionata» (altro titolo, altra formula a lui cara) dell'alienazione e della massificazione contemporanea attraverso una riappropriazione ed una nuova esaltazione della pienezza dell'esistenza del singolo. Totalmente scettico nei confronti delle filosofie («l'assurdo vero si maschera sotto nomi altisonanti: scienza, religione, filosofia, storia, civiltà, cultura, eccetera eccetera»), Miller era, invece, sostanzialmente ottimista sulle possibilità libertarie e «rivoluzionarie» (in senso non politico, s'intende) dell'individuo, come lo erano stati, ognuno in una accezione particolare, i suoi «maestri» indiretti, l'anarchica Goldman, Fourier, Proudhon, Nietzsche. L'uomo doveva trovare in sè, nella propria indipendenza ribelle, nella propria vitalità gioiosa, la forza per sottrarsi alla stretta mortale della socialità. Questa socialità borghese esaltava i propri miti come valori ben saldi della cosiddetta spiritualità: occorreva opporre a questa pretesa e vana spiritualità la riaffermazione, perentoria e polemica, della propria sessualità, come il codice di comportamento più libero secondo cui l'uomo potesse ancora sublimarsi. Ecco allora nascere, articolarsi, proliferare il Tropico come un grande, fluviale poema della libertà nella sessualità (in questa idea di romanzo-poema e di romanzo-fiume ben più saldamente ancorato alla tradizione letteraria americana, da Melville a Withman, di quanto non sembri). Eccolo allora dipanarsi, secondo quel particolarissimo ductus della scrittura di Miller, per pause inattese e improvvise divagazioni, in un allegro e incompiuto disordine, non alieno da ripetizioni e cesure: una scrittura a gomitolo, la cui intenzione ultima, la cui tonalità più segreta è poi quella francamente comica. Nonostante che l'ostinazione dei giudici americani avesse contribuito a mantenere a lungo Miller tra gli scrittori d'elite (ci volle un presidente cattolico, John Fitzgerald Kennedy, per sbloccare clamorosamente la situazione), Miller scrisse il Tropico in quel particolare stile perchè ambiva a porsi come uno scrittore popolare e comico: popolare non nel senso di ingenuo o istintivo (quella prosa in apparente disordine è sempre sotto il controllo della sua penna), ma nel senso di chi si rivolge a larghi strati della popolazione («al 50 % della popolazione degli USA che non vuole essere preso in mezzo in una società organizzata») e prende come personaggio ideale del proprio racconto un «eroe» popolare, un tipo qualunque che campa di espedienti ma possiede appieno il geloso tesoro della propria libertà; comico nel senso che la sua visione della realtà è come scossa a tratti da un'agghiacciante risata.
Prefazione di Guido Davico Bonino alla edizione italiana di Tropico del Cancro del 1984.
Una risposta femminista alla misoginia di Miller: Giuditta decapita Oloferne
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