L'ATTACCO A PEARL HARBOR
(7 DICEMBRE 1941)
"Tora! Tora! Tora!"
LE CORAZZATE IN FIAMME |
L'ATTACCO A PEARL HARBOR VISTO DAGLI AMERICANI
IL BILANCIO
(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)
Quasi tutti gli americani nel continente seppero dalla radio la notizia sorprendente. Le une dopo le altre, le varie reti diffusero, incominciando dalle 14.26, bollettini di notizie straordinari.
Per gli americani stupefatti si trattava di un brutale risveglio alla realtà.
A dire il vero, a tutta prima si seppe ben poco. Le stazioni radio annunciarono che il Giappone aveva effettuato un attacco aereo su Pearl Harbor, e senza alcuna dichiarazione di guerra.
I comunicati, in mancanza di particolari, sottolinearono il carattere infamante di quell'attacco a tradimento. A poco a poco arrivarono chiarimenti e precisazioni che accrebbero l'indignazione generale.
Alla fine del pomeriggio di domenica 7 dicembre l'America conobbe, approssimativamente, la portata del disastro: la flotta del Pacifico, e in particolare le corazzate, erano state gravemente ridotte e le forze aeree delle Hawaii potevano considerarsi in pratica annientate.
Soltanto alcuni giorni dopo fu possibile stabilire il bilancio definitivo dell'attacco giapponese. Le corazzate Arizona e Oklahoma, il posamine Oglala e la corazzata-bersaglio Utah erano colate a picco.
Le corazzate California, West Virginia e Nevada risultavano assai gravemente danneggiate e poggiavano sul fondo, ma potevano essere rimesse a galla e riparate.
Le corazzate Maryland, Tennessee e Pennsylvania erano state seriamente colpite, al pari degli
incrociatori Helena, Raleigh e Honolulu
del cacciatorpediniere Cassim, Downes e Shaw e delle navi ausliarie Vestal e Curtiss.
I giapponesi avevano distrutto 178 aerei americani, danneggiandone altri 159. Si lamentavano 2403 vittime, uomini uccisi, scomparsi o
periti in seguito alle ferite riportate, e 1178 feriti.
Inoltre, numerosi impianti al suolo erano stati distrutti o gravemente danneggiati.
Il colpo era violento e doloroso, ma aveva in se quel germe fecondo che doveva galvanizzare gli americani.
In realtà, a rivestire un'importanza capitale doveva essere più la natura del gesto che le sue conseguenze strategiche.
Sin dal giorno dopo, il presidente Roosevelt annunciò dalla tribuna del Congresso la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all'Impero nipponico.
Espresse la risoluzione unanime della nazione e disse che l'attacco a Pearl Harbor era destinato a restare, per il Mondo Libero, il giorno dell'infamia.
Si trattava senz'altro di simbolo e della manifestazione di un'ira assolutamente legittima, entrambe le cose erano ben lontane dalla verità storica; infatti, se il Giappone aveva effettivamente attaccato prima della dichiarazione guerra, lo si doveva a un deplorevole ritardo nella trascrizione del messaggio nipponico che sarebbe dovuto essere consegnato alle 13 del 7 dicembre a Cordell Hull.
Certo, il margine di tempo previsto, tra la consegna del testo ufficiale e l'ora stabilita per l'attacco, era assai breve e aveva lo scopo di impedire agli americani di adottare i provvedimenti del caso, ma mirava ugualmente a fare in modo che i capi giapponesi non potessero essere accusati dagli americani di aver violato l'articolo primo del patto dell'Aia, firmato il 18 ottobre 1907.
L'importanza attribuita a questa retorica intorno alla parola infamia aveva in realtà lo scopo, da un lato di nascondere la nota impreparazione delle forze armate degli Stati Uniti e, dall'altro, di trascinare l'America una grande guerra punitiva.
Sarebbe ingiusto denigrare esageratamente le intenzioni giapponesi, tra l'altro deliberatamente bellicose e prive di scrupoli, ma sulle quali non ricadevano affatto tutte le responsabilità, come si sarebbe invece potuto credere leggendo gli articoli indignati della stampa americana quei giorni, nei quali i giornalisti sviluppavano abbondantemente il tema del presidente Roosevelt.
A dire il vero, un gran numero di indizi, di voci e di indiscrezioni sarebbero potuti essere presi in considerazione, studiati, coordinati e uniti, come si fa con un gioco di pazienza ad incastro, per trarne una conclusione realistica e adottare i provvedimenti che si imponevano nelle ore immediatamente precedenti l'attacco giapponese.
Come si è visto, non si fece nulla a Pearl Harbor e gli Stati Uniti furono colti di sorpresa in una dolce atmosfera di incredulità e di noncuranza.
Supponendo che fosse mancato il tempo di far prendere il mare alla flotta, si sarebbe potuto almeno disperderla nella rada e mettere al riparo le navi con reti di protezione contro i siluri.
Gli americani erano convinti che la scarsa profondità della rada impedisse qualsiasi attacco di aerosiluranti.
Ma i giapponesi, informatissimi della situa ione, avevano perfezionato un tipo di siluri muniti di timoni di profondità e capaci di muoversi anche con fondali assai bassi.
Se gli aerei non fossero stati riuniti ala contro ala al centro dei campi d'aviazione, nel timore di sabotaggi ipotetici, molti di essi sarebbero sfuggiti senz'altro al massacro; e forse avrebbero potuto addirittura decollare.
Provvedimenti del genere venivano del resto adottati normalmente in numerosi paesi quando la situazione diplomatica diveniva tesa fino a questo punto.
Un gran numero di avvisaglie, come la caccia ai sommergibili tascabili, il rilevamento del radar di Opana, e l'intercettazione di messaggi, non ebbero il seguito che sarebbe stato logico aspettarsi.
Nei mesi che seguirono, numerose commissioni tentarono di stabilire le cause e le responsabilità del disastro di Pearl Harbor. Vennero a formarsi numerosi incartamenti, i quali, nella maggior parte dei casi, arrivavano alle stesse conclusioni che, naturalmente, facevano ricadere il torto sui militari responsabili.
Si giunse così all'immediata destituzione dell'ammiraglio Kimmel e del generale Short.
Eppure, alcune personalità dall'acuto spirito critico osarono esprimere, un parere che, fino a oggi, non è mai stato smentito ne confermato.
Costoro sostenevano che i dirigenti interventisti degli Stati Uniti avevano deliberatamente dato prova di impreparazione e di noncuranza, sapendo benissimo quanto andavano preparando i giapponesi, e ciò allo scopo di provocare un brutale choc psicologico che senza dubbio avrebbe, fatto schierare dalla loro parte tutti gli isolazionisti indignati, causando al con tempo la consapevolezza della realtà da parte del popolo americano di fronte a una guerra ormai inevitabile, e facendogli accettare i sacrifici e le spese.
Questo giudizio attribuiva all'amministrazione Roosevelt una politica che non era priva di machiavellismo; e, conoscendo le difficoltà del presidente di fronte alla fazione isolazionista del Congresso ci si può spiegare evidentemente questa forma perniciosa di coartazione.
Comunque stessero le cose, l'America aveva subito un grave disastro che sarebbe potuto essere assai più rovinoso se i giapponesi avessero saputo sfruttare tutte le possibilità ad essi offertesi.
Effettivamente, le due portaerei rimanevano intatte, e l'arsenale e i depositi di carburante erano stati risparmiati.
Dalla parte dei giapponesi, le perdite risultarono lievissime. Esse consistevano in 29 aerei abbattuti o precipitati in mare, in 5 sommergibili tascabili affondati, in 64 uomini uccisi o scomparsi e in un prigioniero; erano in pratica trascurabili in confronto al successo riportato.
Il Giappone aveva distrutto la flotta da battaglia americana, nonché la maggior parte delle forze aeree delle Hawaii, eliminando così, per un certo periodo di tempo, la minaccia della grande base americana, e avrebbe ora potuto attaccare verso i settori sud-occidentali del Pacifico.
Gli obiettivi tattici e strategici dell'operazione erano ampiamente raggiunti e addirittura superavano tutto ciò che si era potuto sperare di più ottimistico a Tokio.
Si trattava della splendente conferma della giustezza dei punti di vista del fautore dell'attacco, l'ammiraglio Yamamoto.
La flotta d'attacco giapponese rientrò senza incontrare ostacoli e gettò le ancore il 23 dicembre nella rada di Hashirajima.
Restava ciononostante una piccola ombra sul quadro, in quanto il piano di operazioni prevedeva l'attacco aereo dell'isola di Midway situata alla estremità nord-ovest dell'arcipelago delle Hawaii; ma le condizioni meteorologiche costrinsero ad annullare l'operazione.
Gli impianti militari dell'isola furono però sottoposti a un breve bombardamento nella notte del 7 dicembre da parte di due cacciatorpediniere giapponesi, l'Akebono e l'Ushio.
In ultimo, una delle conseguenze dell'attacco a Pearl Harbor, e non tra le minori, fu mirabilmente utile agli scopi del primo ministro inglese
Winston Churchill, in quanto suggellò l'alleanza e i destini delle due democrazie anglosassoni.
Applicando le clausole del patto tripartito, la Germania e l'Italia dichiararono guerra a loro volta agli Stati Uniti.
A Oahu, all'attacco giapponese fece seguito una grave crisi di panico.
Circolarono false voci, le più fantastiche e le più incoerenti. Vennero segnalati convogli giapponesi che sbarcavano truppe. Si sospettarono, un po' dovunque, lanci di paracadutisti, e le cosiddette spie incominciarono ad abbondare. Gli stessi ambienti ufficiali arrivarono al punto di fornire precisazioni e segnalare località...!
Si sparò contro tutto ciò che si muoveva e furono commessi tragici errori.
Aerei dell'Enterprise., che tornavano al crepuscolo dopo una nuova e infruttuosa ricognizione, vennero presi sotto il tiro dei cannoni contraerei e delle mitragliatrici, che ne abbatterono 4 su 6. La maggior parte degli americani diede libero corso all'immaginazione e all'esaltazione.
Si annunciò, con tutta la serietà di questo mondo, che l'acqua potabile era stata avvelenata e che nubi di gas asfissianti calavano adagio sull'isola.
In serata, fortunatamente, tutto tornò alla normalità e incominciarono i lavori di ricostruzione degli impianti militari danneggiati o distrutti.
Alcune ore dopo l'attacco su Oahu, il popolo giapponese fu informato dalla stampa dell'inizio delle ostilità. Gli strilloni corsero per le vie gridando: Senso! Senso! (La guerra!).
Contemporaneamente si affiggeva un po' dappertutto il proclama imperiale che spiegava al popolo i motivi di quella decisione.
LE PIU' GRANDI BATTAGLIE NAVALI