Lettera di Caselli a Berlusconi
10-9-03
Riceviamo e volentieri
pubblichiamo la lettera aperta del Procuratore di Torino che ben
rappresenta il clima che le continue esternazioni del Presidente del
Consiglio hanno portato nella Magistratura.
A Cura del Gruppo di Coordinamento.
Lettera aperta del
Procuratore della Repubblica di Torino
Signor Presidente
del Consiglio:
non è la prima volta che Lei rivolge, a singoli magistrati o alla
magistratura, attacchi pesanti e a mio giudizio immotivati. Ma nella Sua
recente intervista ai giornali “La voce di Rimini” e “Spectator” c’è di
più. Nel Suo mirino (oltre a Magistratura democratica, da Lei assunta a
paradigma di un “sistema giudiziario completamente politicizzato”) sono
finiti, nell’ordine: le intere Procure di Milano e di Palermo, cui Lei
addebita di “non fare altro che inventarsi teorie” sul Suo conto; tutti i
giudici di Roma, da Lei accusati di aver partecipato (tutti…) a un
“sistema di conti bancari che andavano su e giù dalla Svizzera”; i
magistrati che hanno condannato a 20 anni il sen. Andreotti (penso che
volesse riferirsi al processo di Perugia per l’omicidio Pecorelli); i
magistrati che contro il sen. Andreotti “hanno creato una montatura per
dimostrare che la Democrazia cristiana (…) non era un partito etico ma un
partito vicino ai criminali” (il riferimento, in questo caso, si estende
al processo di Palermo per associazione mafiosa); tutti i magistrati
indistintamente, poiché Lei sostiene che “per fare questo lavoro bisogna
essere malati di mente; se fanno questo lavoro è perché sono
antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.
A fronte delle vigorose e severe reazioni che ne sono seguite, Lei ha
diramato un comunicato in cui si afferma che il Suo “rispetto per
l’impegno della magistratura non può essere messo in discussione” e si
ribadisce la “presenza di incontestabili comportamenti faziosi di singoli
procuratori”. Dunque, le Sue contestazioni non riguarderebbero l’intiero
ordine giudiziario, ma soltanto singoli procuratori. Non è così, come
dimostrano le vicende del nostro Paese degli ultimi anni. All’inizio, è
vero, ad essere oggetto - non di critiche (ovviamente legittime e spesso
utili) - ma di attacchi apodittici e indiscriminati sono stati solo alcuni
procuratori. Ma poi, man mano che le indagini si concludevano, hanno
cominciato ad essere delegittimati e offesi i magistrati giudicanti: tutte
le volte in cui sono stati chiamati a occuparsi di processi sgraditi e
hanno deciso in maniera contrastante con le aspettative degli interessati.
Alla fine, l’attacco - da Lei personalmente condotto con un intervento
televisivo a reti unificate - si è addirittura rivolto contro le Sezioni
unite della Cassazione, massimo organo giudiziario del nostro sistema,
“colpevole” di non aver applicato la “legge Cirami” come Lei e altri si
aspettavano. Il problema, allora, non è costituito da singoli procuratori.
L’attacco è, per così dire, a geometria variabile, nel senso che può
subirlo qualunque magistrato - pubblico ministero o giudice, quale che sia
la città o l’ufficio in cui opera - ogni volta che abbia la sfortuna
(spiace dirlo: ma è ormai questa la parola giusta) di imbattersi in
vicende delicate. Ciò pone una serie di interrogativi ineludibili. E’
giusto gettare pregiudizialmente fango su un magistrato sol perché indaga
o eventualmente condanna - per fatti specifici - un personaggio pubblico?
E, viceversa, è giusto applaudire, sempre a priori, il magistrato che
assolve quell’imputato? Quando si tratta di personaggi di peso (imputati -
ripeto - per fatti specifici e non certo per il loro status) giustizia
giusta è, per definizione, solo quella che assolve? Ragionando in questo
modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si
incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine fra
attacco e intimidazione?
Aggiungo una considerazione specifica. Recentemente la Corte d’appello di
Palermo ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di associazione
per delinquere ascritto al sen. Andreotti, per il periodo antecedente la
primavera 1980, affermando di non poter pronunciare una assoluzione nel
merito perché i fatti emersi nel processo «… indicano una vera e propria
partecipazione all’associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel
tempo». Non sta a me dire se queste conclusioni siano giuste o sbagliate,
ma è difficile contestare, alla luce delle stesse, una realtà: i pubblici
ministeri che hanno istruito il processo non hanno fatto altro che il loro
dovere, traendo, da una massa di elementi di fatto, le conseguenze
previste dalla legge. Mentre non agire sarebbe stato illegale e scorretto
- ancorché comodo - e avrebbe fatto perdere credibilità a tutte le altre
inchieste condotte (anche quelle che hanno consentito alla magistratura
palermitana di infliggere, nel triennio 2000-2002, ben 378 ergastoli per
delitti di mafia). A fronte di questa realtà, è ingiusto impiegare slogan
privi di consistenza per svilire una attività giudiziaria doverosa a
capitolo di un gioco della politica: in cui i magistrati sarebbero
semplici pedine, asservite a strategie eterodirette e finalizzate alla
supremazia di una parte contro l’altra. Si può davvero pensare che i
rapporti fra mafia e politica - in Italia, in Sicilia - siano una
invenzione interessata?
Entrare in simili ragionamenti (anche solo per difendersi da vuote accuse)
costa molta fatica, ma tacere sarebbe profondamente ingiusto: per me
personalmente e per qualunque altro magistrato, posto che l’investitura
popolare non dà a nessuno - neppure a Lei - il diritto di offendere. Per
questo ho deciso di scriverLe e di rispondere alle Sue dichiarazioni - pur
nel rispetto dovutoLe - con inflessibilità pari all’offesa che esse
possono rappresentare per la libertà e dignità professionale mia e di
altri magistrati. E non sono - mi creda - preoccupazioni che si possano
liquidare accusando di “pazzia” chi osa esprimerle.
Con ossequio
Gian Carlo Caselli
(9 Settembre 2003)