. . . .

IL DIALETTO PER DILETTO

Sostenere le proprie ragioni a colpi di sedia, sulle teste altrui, a seguito di questioni filologiche, anzi, fonetico-ortografiche, può sembrare esagerazione, ma gli appassionati studiosi siciliani dell’Ottocento, per amore del dialetto, affrontavano con nonchalance simili eventualità.

Nel 1870, si doveva scrivere Xiuri o Sciuri? Xiacca o Ssciacca? O Ciuri e Ciacca? Questo era il problema.

Fior di studiosi sostennero appassionatamente or l’una or l’altra risoluzione senza addivenire per la verità ad un risultato pacificamente condiviso. Non che il dilemma sia stato risolto, a distanza di un secolo, anzi, si è aggravato, quando dai fatti concernenti l’ortografia si è passati alle stesse parole da scrivere e da pronunciare. Basti pensare all’infinita varietà del pronome più egoisticamente pronunciato: ìu, iù, eu, ia, iè, iò, i...

Altri esempi: a Casteltermini il coltello si dice cutìddu, a Canicattì l’uovo si dice uèvu, a Nicosia le dita si dicono didi. In uno stesso paese i buoi si possono chiamare vo oppure vua. Il grembiule cambia nome di pari passo ai piatti tipici preparati in varie parti della Sicilia da chi l’indossa: fallaru, fasdali, fadali... Dal lessico alla sintassi: ad Alì si dice ai ragiuni mi ti lagni per "hai ragione di lagnarti", a Frassanò dicci mi trasi per "digli di entrare", a Roccella Valdemone dàtimi mi bbìu per "datemi da bere" e a Milazzo mi a vitti spugghiàri si curca per "la vidi spogliare per coricarsi". Un poeta di San Fratello può scrivere: Cam na zzita chi ghj passea / u schient di la prima vauta / s’abbanauna e si dèscia aner, /Accuscì, suparari li ndecisiuoi, / misg a nu i miei pinsier... (Come una sposa cui è passato / il timore della prima volta / s’abbandona e si lascia andare, / così, superate le titubanze, / ho messo a nudo le mie preoccupazioni...

E la trottola? Furrìa con un nome nel palermitano e firría sotto altro nome nell’agrigentino. L’Università di Palermo vi ha dedicato uno studio.

Non si pensi che a questo caos i grammatici e gli studiosi non abbiano tentato di mettere ordine, l’hanno fatto scrivendo grammatiche, caldeggiando ortografie anche bizzarre, ipotizzando koiné, soprattutto ad uso dei poeti, i veri e pressoché unici artefici a quanto pare del dialetto siciliano scritto; ma proprio loro non ne hanno mai voluto sapere di seguire regole e regolette ritenendole un attentato alla libera creatività: ognuno ha scritto e scrive come gli pare e piace. La difformità tra l’italianizzante Giovanni Meli e Alessio Di Giovanni fonografista, Santo Calì di Schisò e Ignazio Buttitta di Bagheria, per non parlare dei galloitalici, suona come chiara smentita contro coloro che vorrebbero conferire al siciliano status e spessore di lingua, aeterna quaestio che volentieri tralasciamo: teniamo alla nostra incolumità.

Per fortuna, o per sfortuna: da un punto strettamente linguistico, si capisce, è intervenuta l’unità d’Italia, che ha unificato oltre che le tasse e il servizio di leva anche i vari dialetti nel senso che li ha saltati a piè pari, relegando in secondo piano le accalorate questioni dialettali. Si è avuto così un popolo di italofoni che scriveva in italiano e parlava, abusivamente, in dialetto. Nei Seminari, i clerici venivano puniti con l’accipe se incocciati a pronunciare frasi o semplici interiezioni paesane, cioè dialettali; nelle scuole il dialetto era unicamente elemento "inquinante", spia di degradata origine sociale, di rozzezza e maleducazione, non solo linguistica: da segnare con la matita blu nei distillatissimi temi.

L’italiano era la lingua del potere. Per la borghesia era segno di distinzione o schermo per non far trapelare "meccaniche" origini. Uno Sciascia arrabbiatissimo ha bollato "l’amorfa borghesia siciliana" per avere addolcito e italianizzato il cacuminale "ddu" del lacerante grido "Hanno ammazzato compare Turiddu", nella Cavalleria rusticana.

Poi Pasolini lanciò l’allarme: con la scomparsa delle lucciole si rischiava la scomparsa di tante altre cose, compreso il dialetto e il mondo di cui esso era corpo e voce. Cambiò l’atteggiamento, nella società, nella cultura, in parte nell’editoria, si riscoprì come un valore quello che prima era stato bistrattato e bandito.

E siamo ai giorni nostri. Dopo tanti appelli provenienti da linguisti, antropologi, poeti, uomini di cultura e semplici cittadini, in favore del dialetto siciliano, e qui si citano solo Giovanni Ruffino e Salvatore Di Marco in rappresentanza del mondo accademico e dei liberi cultori del dialetto, la Regione siciliana ha emanato la circolare n. 11, prot. 535 del 7 luglio 2000 con cui si rendono efficaci ed operative le precedenti leggi intese "a favorire lo studio del dialetto siciliano e delle lingue delle minoranze etniche delle scuole dell’Isola". Per accedere ai finanziamenti, le scuole hanno presentato appositi progetti.

Nel declinare il proprio, la scuola media "Quasimodo" di Palermo, ad esempio, con la benevola approvazione del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, si è prefissa l’obiettivo di fare scoprire le regole ortografiche e i nessi logico-sintattici attraverso l’analisi della produzione dialettale sia colta che popolare; avviare un confronto tra la struttura grammaticale della lingua ufficiale e la produzione dialettale; porre la problematicità delle trascrizioni dialettali e delle possibili soluzioni secondo le diverse scuole; studiare il lessico dal punto di vista etimologico; studiare l’evoluzione storica della lingua dal punto di vista del lessico e grammaticale. Per non parlare dei contenuti ovvero dello studio della società nei suoi diversi aspetti: lavoro, amore, mondo dell’infanzia, feste dell’anno secondo il calendario religioso e il ciclo delle stagioni, etc.

Sono cadute insomma le cateratte che impedivano alle istituzioni scolastiche statali siciliane di guardare con maggiore consapevolezza e senza pregiudizi a ciò che intorno ad esse si muoveva, specialmente sotto l’aspetto linguistico.

Nasce così dalla curiosità, sostanziata di tante buone e acquisite ragioni, l’intervista al presidente onorario dell’Accademia du Crivu, anzi, come voleva prima il suo fondatore, Kademia du Krivu, e come vuole ora: Akkademia du Krivu. Krivu è lo staccio, arnese usato per separare tra l’altro la farina dalla crusca.

L’Akkademia, nata nel 1995, si prefigge la scoperta e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, si è fatta promotrice di singolari iniziative come la messa celebrata in lingua siciliana il 26 dicembre dello stesso anno, con tanto di approvazione ecclesiastica, ma soprattutto si propone di restaurare in via sperimentale la vera grafia del siciliano antico.

Dottor Provitina, non bastavano le ortografie esistenti?

R. Intanto, preciso che il mio vero nome è Prufètina, deriva da una famiglia bizantina che aveva capacità divinatorie, in seguito grecizzato con il suffisso ina e significa "figlia del Profeta"; non solo il mio ma tutti i nomi siciliani dovrebbero essere cambiati per come erano scritti originariamente.

Una bella impresa! Si può immaginare il disagio per i cittadini e gli uffici anagrafici che dovrebbero "correggere" tutti i loro documenti.

R. Non dico questo, la mia è una provocazione ma anche una proposta sperimentale. E vengo così alla sua domanda iniziale. Non solo per i cognomi, ma per scrivere tutte le parole siciliane finora sono stati adottati i segni alfabetici dell’italiano, questo è stato ed è l’errore delle varie ortografie esistenti.

E invece?

R. Invece bisognerebbe adottare la tabedda fonika siciliana.

Sarebbe?

R. Adottare i ventisette segni alfabetici del siciliano per indicare i suoni di qualsiasi parola dialettale siciliana, di ieri e di oggi e anche di domani.

Non sarebbe un voler versare il vino nuovo in otri vecchi?

R. Ci riteniamo innovatori, non conservatori, anche se non abbiamo la presunzione di rifare la lingua siciliana. O ce l’ha o non ce l’ha un popolo la sua scrittura. Il popolo siciliano ce l’ha. È sbagliato volere scrivere il siciliano con l’alfabeto italiano. Tutto qui. In particolare rivendichiamo il ripristino di k, x, j. La storia ci dà ragione. Nella prima metà del XIV secolo troviamo il segno k al posto di c dura. Nel XV secolo, sci veniva scritto x e nel XVIII e XIX secolo si utilizzava il segno grafico j invece del corrispondente gi appartenente alla tabella fonica italiana. Inorridisco quando in televisione, dovendo leggere Caltanissetta Xirbi, pronunciano Csirbi invece di Scirbi. Vicino Roccapalumba esiste il monte Sciarra, scritto anticamente Xarra. Tuttora troviamo ancora dei pastori analfabeti o quasi che cercando di imparare a scrivere utilizzano la k per esprimere c dura, poiché è un fatto genetico, è dentro di noi.

Come mai queste soluzioni finora non sono state adottate sistematicamente?

R. Anche noi du Krivu ci chiediamo come mai il Pitrè, ad esempio, ha ceduto a scrivere una grammatica dove l’uso dei segni graf¦ci non corrisponde a quello siciliano nonostante ne fosse a conoscenza. Ma sappiamo la risposta: perché altrimenti non avrebbe avuto la storia. Oggi è impensabile che uno studio coraggioso quale possa essere quello fatto da noi du Krivu attraverso il mio libretto Lezioni di beddu skriviri sicilianu possa essere sostenuto da un istituto di cultura, riconosciuto da una università qualunque o appoggiato da una classe politica, è impensabile proprio perché è una novità talmente dirompente che nessuno ha il coraggio di sostenerlo; per fare pubblicare da altri il mio libretto e farlo circolare, dovrei far sparire la k, la x, la j, dovrei far sparire la verità. Nun si podi ammucciari u suli ku u krivu. È quello che hanno fatto il Pitrè, il Piccitto e lo stesso Salvatore Camilleri. Lo stesso Meli non scrisse nel siciliano che sapeva sicuramente scrivere.

Il professore Salvatore Trovato dell’università di Catania ha in preparazione una pubblicazione sull’ortografia siciliana...

R. E vabbé, ognuno pubblica la sua, ma sono tutte sbagliate e chi le pubblica sa che sbaglia, io lo so che loro sanno di sbagliare perché ne abbiamo parlato. Con molti studiosi ho avuto scambi di opinione, anche con lo stesso Ruffino, fatto sta che chi vuol fare strada deve nascondere la verità. Io posso rendere pubbliche le mie convinzioni perché non ci debbo campare. Se io dovessi far sopravvivere la mia famiglia, dovrei pubblicare le mie cose trasformandole, eliminando quello che la politica vuole che non si dica.

A proposito di politica, come reputa l’attuazione della legge regionale sull’insegnamento del dialetto nelle scuole?

Sicuramente non tempestiva. Lo sarebbe stata se fosse stata attuata già negli Anni Ottanta, quando uscì la legge. Che sia opportuna, non c’è dubbio. Che possa essere utile e positiva, ne sono convintissimo, perché la salvaguardia dei tanti dialetti siciliani significa la salvaguardia della lingua siciliana. Guai se si perdesse questo patrimonio. Ah, se ci fosse stata l’Akkademia du krivu due secoli fa!

Cosa sarebbe cambiato?

Molto. Pensi: alla base di ogni popolo c’è la cultura e alla base di ogni forma culturale c’è la lingua che la esprime. Ebbene, la regola fondamentale per chi vuol far parte della nostra accademia è di pensare, parlare, leggere e scrivere in siciliano.

È una fede!

Sì, è una fede nella nostra identità.

Piero Carbone

(Pubblicato sul n°3 Anno 17  Settembre - Dicembre 2000)

Click a fianco per un esempio della grafia proposta da Provitina

 
. . . .