Tutto lo spettacolo è
solitamente così ben accordato e organizzato che un solo animatore può muovere
i due o trecento personaggi di una féerie, far sorgere o scomparire
foreste, palazzi incantati, demolire fortezze, incendiare ville, far volare
genî e carri di fate trainati da colombe, fendere serpi e ippogrifi, condurre
navigli sui mari agitati, raffigurare a distanza giostre e tornei nelle
proporzioni desiderate, riportare in un istante questi personaggi ingranditi alla
ribalta, far passare elefanti, cammelli e cavalli, tigri, lupi e leoni,
simulare una caccia, imitare da solo tutte le voci, tutte le arie, tutti i
rumori e, con una messa a punto perfetta, simulare perfino i convogli
ferroviari coi loro fischi e sbuffi di caldaia. Una moltitudine di piccoli
oggetti appesi attorno al burattinaio nella parte del teatro dove sta in piedi
(il castello, in termini specialistici) gli servono a dare a questi
rumori accessori una verità sorprendente. Campane di diverso calibro, gong,
fischietti, trombette, corni, pioggia, vento, tuono, grandine, canti d’uccello,
sonagli, incedere di vetture, onde che s’infrangono, tutto è reso con
accuratezza e niente è omesso. L’intensità dei suoni è stata studiata per non
rompere la proporzione che deve esistere fra questo piccolo mondo fittizio e i
rumori che vi si producono. L’eccessivo strepitare di una vettura o di un tuono
soverchierebbe la scenografia e i personaggi. L’armonia sapientemente stabilita
fra tutti questi dettagli produce un fenomeno al quale nessuno spettatore
sfugge. All’alzarsi del sipario, come all’apparizione dei primi personaggi,
costui si rende conto perfettamente che ha a che fare con dei burattini, ma
presto dimentica di comparare la loro statura alla propria. Così la semioscurità
in cui si trova cancella ogni elemento di confronto e la verità dell’azione che
si produce davanti a lui, lo prende a tal punto che ci crede; e l’apparizione
di una testa umana in mezzo alle teste di legno, come succede qualche volta
quando l’operante si mostra travestito da gigante o da orco, diventa
veramente mostruosa e spaventosa.
Oggi si costruiscono dei bei giochi per bambini. Si può
utilizzarli scegliendoli della proporzione desiderata e correggendoli se le
forme sono difettose e la coloritura troppo cruda.
Se ne possono avere che si costruiscono come un orologio e
funzionano da soli. Ma costano molto caro e fanno meno effetto di quelli che
vengono condotti all’estremità da un’asticella all’altezza del suolo. Gli
automi non obbediscono che a se stessi e non fanno niente che non sia previsto.
I più volgari animali in legno, adattati e dipinti, sono preferibili. Per
quanto riguarda i grandi mostri delle féerie, essi sono delle tarasche[1] come quelle fabbricate un tempo in vimini per le feste
popolari del Midi. I nostri mostri sono però in stecche di balena, o meglio
ancora in acciaio, con un rivestimento di stoffa. Tutte le nostre gonne in
crinolina, così alla moda in questi ultimi tempi, sono state passate in
rassegna e hanno fornito la morbida carcassa degli animali fantastici, che sono
veri e propri oggetti d’arte.
Si trattò poi di come poter organizzare velocemente le
rappresentazioni, poiché il piacere deve essere sempre tempestivo nella vita
delle persone che lavorano seriamente ad altre cose. La faccenda più lunga era,
ad ogni nuovo allestimento, spogliare e rivestire i burattini: ciò richiedeva
molte ore, che non avevamo sempre disponibili. Era meglio avere una muta
vestita una volta per tutte, salvo quegli imprevisti casi eccezionali. È per
questo che, per qualche tempo, Maurice scolpì, di quando in quando, durante la
notte, una ventina di personaggi nuovi. Ce ne sono ora centoventicinque, senza
contare le numerose piccole comparse per i diversi piani scenici. Questo gran
numero di tipi e personaggi è necessario. Molto più dell’autore drammatico che
desidera trovare, nell’attore che gli viene proposto, il temperamento che ha
pensato per i suoi personaggi, l’animatore di burattini deve preoccuparsi
dell’espressione delle figure dei suoi soggetti, del loro sguardo, del loro
sorriso, della forma del cranio, della loro capigliatura, insomma del loro
particolare temperamento, molto più essenziale per il loro effetto di quello
dell’attore in carne e ossa. Dal momento in cui ci si allontana dalle maschere
pietrificate della vecchia commedia dell’arte, che non dava espressione che a
tipi elementari, ci si imbatte nell’enorme quantità di sfumature dell’essere
umano. Queste sfumature, l’abilità dell’attore le sa più o meno mettere in
risalto, e l’attore si trasforma così secondo il bisogno dettato dal suo
personaggio. L’attore di legno non ha questa risorsa. Bisogna ch’egli sia, una
volta per tutte, il tipo che ci si aspetta da lui. Ho visto spesso Maurice,
dapprima esitare a lungo fra più figure
di cui nessuna realizzava l’idea che egli si era fatto di un certo carattere da
riprodurre, e poi fabbricare un nuovo “attore” prima di allestire lo
spettacolo. Quei centoventicinque personaggi, i quali hanno tutti un nome e una
storia – soprattutto i più vecchi che, leggermente ritoccati, sono rimasti i
nostri preferiti – si prestano a tutti gli usi senza gelosie di mestiere e
senza indietreggiare davanti ai peggiori ruoli, certi d’avere a che fare con un
direttore di scena integro che all’occasione darà loro la rivincita. Ora ci
sono doppiamente cari da quando affascinano i nostri bambini istruendoli,
poiché si apprende da tutto e ovunque, quando la sostanza del divertimento è
buona in sé. Arriviamo perfino ad amare i burattini di Nohant come le nostre
bambine amano le loro bambole. In quanto a loro, diventano più premurose e più
materne vedendo quello che si può attribuire e addirittura comunicare di
spirituale, di bello e di emozionante a questi esseri inanimati. L’indomani di
una rappresentazione, ripetono lo spettacolo in tutti gli angoli della casa e
del giardino con le loro bambole. Le abbigliano, le dispongono e le fanno
parlare con quella sorprendente memoria dei bambini che afferra preferibilmente
ciò che si credeva fuori dalla loro portata. Mi ricordo bene quanto la nostra
vecchia commedia improvvisata ebbe degli immediati e buoni effetti per
illuminare le idee dei nostri bambini d’allora, stimolando il loro linguaggio e
costringendoli a seguire un rigido filo logico nell’impeto del divertimento.
Credo che questa sia un’ottima scuola per l’infanzia e la giovinezza, non certo
un insegnamento sufficiente in sé stesso, ma il migliore esercizio per condurre
lo spirito ad allargarsi e a voler apprendere meglio per manifestarsi sempre
più.
Esaminiamo ora,
continuando a raccontare, l’aspetto letterario della recitazione di siffatti burattini, perché c’è tutta una
letteratura da inventare in vista delle risorse di cui un tale teatro dispone.
L’animatore che scrive i suoi drammi e li inscena da solo, li rappresenta
meglio di una compagnia di teatro avvezza a interpretare pensieri che non sono
i suoi. Si tratta comunque della stessa voce che parla per tutti e, inoltre,
l’inflessione e le intenzioni del recitante, così perfettamente accordate
al flusso di atteggiamenti e di gesti espressivi che accompagnano ogni
burattino, producono un dialogo di una chiarezza assoluta: senza che sia
necessario che egli modifichi eccessivamente il suo diapason. Ogni personaggio
ha, come nella realtà, la sua intonazione e la sua pronuncia particolari a
secondo delle sue tendenze e delle sue pretese personali, ma ci vuole veramente
un minimo sforzo per mettere la sua dizione in accordo con la sua figura, il
suo costume e il suo ruolo. Nelle buone compagnie teatrali, la recitazione
tende sempre ad armonizzarsi e a far scomparire ciò che lo stile personale
avrebbe stereotipato. Ciò vale anche per i burattini: le leggere sfumature sono
più piacevoli che le esasperazioni di individualità, e in più si prestano meglio
alla chiarezza del dialogo. Ma non bisogna dimenticare, che colui che conduce
il gioco, improvvisa e non espone il suo dramma come un bravo lettore
tranquillamente seduto davanti al proprio manoscritto e con un bicchiere
d’acqua zuccherato sotto mano. Il nostro animatore ha, è vero, il suo
manoscritto collocato su un leggero leggio mobile – a meno che non lo impari a
memoria ed essa non gli faccia difetto – ma questa risorsa non gli sarebbe
sufficiente se non fosse dotato della
presenza di spirito necessaria a colmare gli inevitabili vuoti. Le marionette
non obbediscono alla mano che le dirige così passivamente come l’attore alle
disposizioni della messa in scena[2]. Non procedono da sole, non si muovono autonomamente e
non si curano degli ostacoli: si possono impigliare in un elemento della
scenografia, sganciarsi dal supporto o sfilarsi dal dito del burattinaio e
accasciarsi fuori luogo. Risulta dunque molto difficile, se non impossibile,
attenersi letteralmente al testo e bisogna essere pronti a spiegare gli
imprevisti. Gli attori in carne e ossa, quando questi incidenti si verificano,
non possono ovviarci. Io stessa ho visto gli attori più sensibili e
intelligenti restare spiazzati e confondersi in scena quando l’atteso
interlocutore mancava l’entrata. Ciò è semplice da spiegare, l’attore, avesse
pure un’alta considerazione della professione, non ha il diritto di mettere la
sua improvvisazione al posto del testo. L’autore e il pubblico, senza contare
la censura, potrebbero avere da ridire. Nel suo castello, il burattinaio
ha mano libero, lui solo è responsabile. Recita il suo proprio testo e lo
modifica ad ogni istante. Se inscena più volte la stessa opera, vi aggiunge le
parole, divertenti o drammatiche, che lo ispirano o sopprime quelle che non
erano state efficaci nelle precedenti esibizioni. Caratteristico
dell’improvvisatore è d’altra parte di non amare ripetersi, e se si sottomette
al canovaccio prova il continuo bisogno di cambiare il dialogo. È perfino il
principale fascino di questo genere di spettacolo ed è una cosa di cui il
pubblico stesso non si stanca mai. La forma letteraria propria ai burattini è
dunque il canovaccio, scritto con un dialogo elementare molto rapido sul quale
il recitante può ricamare. Qual è, al di fuori della scena, l’effetto di questo
lavoro alla lettura? Noi abbiamo voluto saperlo e ci è sembrato molto
originale. Benché con un’azione così scarna, il testo ci è parso ancora
piacevole. Più rapido e più essenziale di quello che passa su più bocche,
questo dialogo conciso, che contrasta con gli sviluppi che apporterà
l’improvvisazione, dà ulteriore qualità alla nettezza e alla solidità del
talento letterario di un autore.
Il grande interesse dei burattini nella vita di campagna è di
rappresentare delle storie e dei romanzi comici, meravigliosi o drammatici in
più serate. Più lunga è la storia, maggiormente lo spirito ci si attacca e vede
con dispiacere arrivare la fine della serie. L’improvvisazione permette
all’autore-attore di fare di ogni atto un capitolo ampliato che occupa tutta
una serata o di mostrarne parecchi rapidamente eseguiti. Mi si darà ascolto se
dico che questo teatro è quello delle affascinanti lentezze e che preferiamo
una solida improvvisazione e i dettagli della realtà minuziosa alla sobria
struttura e al dialogo conciso che sono di rigore nel grande teatro? Ogni cosa
al suo posto. I burattini sono chiacchieroni e gigioni. Qualsiasi cosa si
faccia, hanno gesti brevi e occhi stupiti che sembrano sforzarsi per
comprendere ogni cosa, e quest’ingenuità d’espressione è sempre comica o
commovente. Quando una peripezia del dramma li sorprende, il loro stupore è
eloquente. Quando hanno escogitato un espediente per sfuggire a un pericolo, si
direbbe che si arrovellino sulla trovata e chiedano allo spettatore se è valida.
La recitazione non deve dunque essere precipitosa poiché l’attore di legno ha
le sue risorse particolari, le sue peculiarità che danno sollievo agli occhi e
calmano lo spirito. Le scene accessorie ed episodiche, che irritavano nel vero
teatro, sono qui una divertente digressione di cui nessuno si lamenta.
Rientrano nella verità assoluta della vita, che è un accanito combattimento
contro i perpetui impedimenti. Prima dell’invenzione dei francobolli, avevamo,
fra i nostri burattini, un portalettere tradizionale, che era un personaggio
cantante. Costui portava la lettera fatale, nodo dell’intreccio, e, mentre il
personaggio in scena l’apriva “con mano tremante” e si sforzava di decifrarla,
rientrava dieci volte per esigere la tassa e raccontare le proprie pene
d’amore. Altre volte certi sarti balbuzienti arrivavano per riscuotere il
proprio conto nel momento in cui l’eroe partiva per il ballo o per il duello.
Tutti questi intralci erano talmente accettati che nei momenti più interessanti
dell’azione si condivideva con angoscia le sofferenze del protagonista senza
prendersela con le fantasie del burattinaio.
L’abilità di colui che mette in scena consiste nel servirsi
di questi vantaggi e non abusarne: nel momento in cui se ne serve bene, la
finzione prende un colore di toccante vitalità. Un nostro amico, autore
drammatico di primo rango, assistette un giorno ad una commedia militare del
nostro repertorio e la sua attenzione non ebbe un solo moto. Pensavamo che
s’annoiasse d’un passatempo così leggero. L’indomani ci disse: «non ho dormito
tutta la notte e non vorrei vedere spesso questo tipo di teatro. Mi ha
sconvolto, mi ha fatto dubitare dell’arte: mi sono chiesto cosa erano le nostre
convenzioni a paragone di quel dialogo libero, ordinario, continuamente interrotto
e ricucito come nella realtà; a paragone di quelle espressioni spontanee così
ben appropriate alla situazione; e infine a paragone di quel caotico
andirivieni che è ingegnosa sintesi d’agitazione e tumulto. Ieri sera ho
totalmente dimenticato che guardavo delle marionette. Mi sono visto nella
foresta dell’Argonne ad attaccare al calesse il cavallo della vivandiera, ad
addormentarmi come il giovane coscritto per evitare i colpi di fucile e ad
interessarmi con passione ai morti ed ai feriti senza preoccuparmi più della
finzione letteraria, che non ero più in grado di giudicare tanto mi prendeva
per le viscere. Mi interrogo invano per scoprire ciò che mi ha tanto
emozionato. È il risultato di un’assenza d’arte o la visione di un’arte nuova
che è in procinto di sbocciare, oppure un’arte estinta che non conosco?».
Un simile onore non era mai stato rivolto ai nostri
burattini, tanto più che a quell’epoca erano ben lontani dall’aver compiuto
quei progressi materiali di cui dispongono oggi. Mio figlio non accettò né
l’idea troppo lusinghiera d’aver creato un’arte nuova né quella troppo severa
d’essersi sottratto a qualsivoglia nozione d’arte. Egli diceva ciò che anch’io
pensavo di questa maniera di tradurre il movimento della vita: è la ricerca di
una convenzione ben regolata che non si vede. L’operante nel suo piccolo
castello, invisibile, ignorato, per così dire soppresso, ha la mente
completamente sgombra da qualsiasi preoccupazione esterna. Alle estremità delle
sue mani, sollevate al di sopra della testa, fa muovere un mondo che realizza e
personifica le emozioni che egli stesso prova. Egli vede quei personaggi che
gli parlano da vicino e che, dalla sua mano destra, domandano perentoriamente
una risposta alla mano sinistra. Bisogna che si domini o che s’infervori e, una
volta infervorato, rimane comunque lucido perché le sue finzioni hanno preso
corpo e camminano per così dire sulle proprie gambe. Tali finzioni consistono
in esseri che vivono della sua vita, di cui gli domandano una completa donazione
sotto la pena di spegnersi e pietrificarsi sulla punta delle dita. Bisogna che
i burattini dicano e facciano ciò che è nella loro natura. Non esigono delle
parti ben scritte né fronzoli letterari o espressioni scelte: essi sono
portatori di ragioni, del perché delle loro azioni e del percome della loro
situazione. Le parole più ingegnose non mascherano l’inverosimiglianza del
carattere quando è una statuetta e non un essere umano che agisce. Altrimenti
si domanderebbe al burattino perché ha preso quelle sembianze e indossato quel
costume se non per andare all’essenza e afferrare la verità.
Nell’ambito del fantastico, cosa singolare, si produce
l’effetto contrario. Il personaggio è tanto più a suo agio nel sogno quanto più
la sua inverosimile statura e la sua immobile figura lo trasportano al di là
della realtà. A questo proposito, le féerie fanno agire e parlare degli
esseri impossibili, perfino delle cose inanimate, come in Giocattoli e
misteri, un pezzo del repertorio di Maurice, che presto
riallestiremo, in cui l’apparizione di un balletto di scope ci faceva
l’effetto di un’allucinazione che, dal personaggio principale dell’opera, si
comunicava a noi stessi.
Ho convinto l’autore a ricopiare questi canovacci leggibili
solo da lui e a pubblicarli. Non sono dei semplici soggetti, ma comportano come
ho già detto un dialogo preciso e serrato di cui Maurice si serve quando gli
sembra opportuno e che sarebbe sufficiente per un qualsiasi burattinaio, vale a
dire per ogni persona abile con le mani e che avesse dei burattini a sua
disposizione e volesse di punto in bianco far loro rappresentare una commedia.
È, lo ripeto, un divertimento intimo e per tutta la famiglia che ha la sua
importanza nella vita in generale, dal momento che lo scopo di questa deve
essere la cultura dell’intelletto. Divertimenti da bambini se si vuole, ma
anche da artista, come tutti quelli che lo spirito francese ricerca,
appassionato com’è della finzione in ogni genere di cose.