Anche l’arte dello scenografo[1] trova la sua parte in questo passatempo del teatro dei
burattini, e per chi si occupa o vuole occuparsi di pittura, la pittura a
tempera delle scenografie è il miglior apprendistato che si possa fare. Non è
un’arte secondaria come potrebbero pensare le persone superficiali. Si tratta
invece dell’arte tipo. È infatti un’arte matematica, esatta nei metodi e sicura
nei risultati. Il pittore di scenografie deve conoscere la prospettiva
abbastanza bene per saper ingannare senza che l’occhio se ne accorga. Deve
conoscere inoltre in modo matematico il valore relativo e la necessaria
associazione dei toni che impiega. Ciò che questi toni perdono o guadagnano
alla luce, è una questione di mestiere, ma in questo caso il mestiere non è
tutto. Bisogna essere anche dotati, oltre che competenti, per dare a questi
grandi quadri praticabili un aspetto naturale. Gli scenografi dei nostri teatri
sono dunque in generale dei superbi artisti. Delacroix li teneva in grande
considerazione e, in quei giorni di fecondi paradossi nel suo insegnamento, li
poneva addirittura al di sopra di sé. Costoro, diceva, sanno ciò che a noi non
insegna mai nessuno, ciò che noi non troviamo che dopo lunghi tentativi e molti
giorni di sconforto. Noi ci battiamo contro la verità per afferrarla e loro,
senza cercare a lungo, vi arrivano per mezzo della scienza esatta della loro
arte.
Delacroix, ricordo, andava perfino oltre. Aveva per le carte
da parati[2] un’ammirazione infantile. Io stessa l’ho visto
estasiarsi davanti a scene militari riproducenti noti dipinti su tappezzerie di
sale d’albergo e osterie. Davanti a quei rilievi abilmente rubati e a quei
rozzi effetti ottenuti così semplicemente, affermava che tali ingenui copie
possedevano più sapienza e maggior conoscenza delle leggi dell’arte dei quadri
che riproducevano. Da un certo punto di vista aveva ragione. L’ho visto, a casa
nostra, raccogliere dei mazzi di fiori, sistemarli a suo piacimento e
dipingerli liberamente e grossolanamente per coglierne le tonalità e
comprenderne ciò che egli chiamava l’architettura. Quest’uomo della
buona società così delicato, così riservato, così portato a ironizzare sugli
artisti più esuberanti (gli artisti capelloni d’allora), non lavorava
però senza esaltazione e senza una vibrante ispirazione: «questi fiori mi
renderanno folle – diceva – m’abbagliano, m’accecano. Sono talmente innamorato
della loro freschezza e del loro splendore che non so decidermi a tradirli.
Bisogna tuttavia che ne sacrifichi i tre quarti per metterli al loro giusto
piano e far risaltare quelli rivolti a me». Avevo all’epoca diversi campioni di
carte da parati che mi ero procurata per imitarle. Lui s’estasiava davanti a
questi campioni, davanti a questi bouquet e a queste ghirlande di fiori d’un
effetto così forte e d’una lavorazione così semplice: «costoro sono i nostri
maestri – diceva – se dovessi ricominciare la mia vita andrei a scuola da
loro!».
Come sarebbe stato felice il nostro amico se il teatro delle
marionette fosse già esistito a quell’epoca in casa nostra! Che scenografie ci
avrebbe realizzato! Non smetteva di dire a Maurice: «dipingi con la colla,
figliolo, con la colla! Non c’è che quello di vero. È l’ABC della pittura. È
proprio perché abbiamo perso l’ABC della pittura a olio che il pubblico ora
annaspa, a dispetto di noi artisti. Non sappiamo formare gli allievi, e quello
che io ho appreso non so insegnartelo perché l’ho trovato con molta difficoltà,
come tutti gli altri pittori. Ora bisogna trovare tutto da soli. I pittori di
scenografie invece hanno ancora delle leggi che si trasmettono gli uni agli
altri, e quelle leggi sono necessarie, sono la cosa che proprio ci manca e
senza la quale anche il genio è insufficiente.» Maurice se n’è ricordato e
quando, per divertimento, ha provato a distribuire dei grandi spazi sui diversi
piani di alcune piccole scene, s’è reso conto della difficoltà e delle
potenzialità del procedimento. Ha spesso sbagliato prima di impadronirsi dei
mezzi e ha trovato un grande interesse a fare questo corso retrospettivo di
pittura, pensando alle parole del nostro illustre e caro amico così spesso vere
e sempre interessanti. Io stessa le ripassavo con lui, vedendogli fare le prove
decisive dell’illuminazione sui suoi esperimenti. Abbiamo protratto molte sere
fino alla notte avanzata, lui che lavorava nel suo castello a combinare
le sue lampade, io seduta alla distanza opportuna a giudicare l’effetto.
Ci trovavo un vero piacere. La metamorfosi che si crea alle
luci combinate della ribalta è sorprendente, i toni sembrano cambiare, i
rilievi stagliarsi, le ombre incavarsi, le trasparenze realizzarsi per magia.
Mi divertivo talmente a vedere queste belle tele rivelare i loro segreti e
diventare foreste, monumenti, corsi d’acqua e montagne, tutti immersi in
un’atmosfera fittizia che dava l’impressione del caldo e del freddo, che
pregavo mio figlio di farmi uno spettacolo solo di scenografie. Ne realizzò un
intero magazzino, di tali scenografie, e siccome erano tutte illuminate dallo
stesso lato secondo la prassi, poteva compormi nuove combinazioni fino
all’infinito, disponendo le diverse parti ai loro piani prospettici e mettendo
i cieli in armonia col carattere generale dei luoghi. In questo modo potevo
viaggiare con la mente, e ci avrei passato tutta la vita, perché alla mia età,
il viaggio più piacevole, è quello che si può fare in poltrona.