In effetti il burattino
classico tenuto con la mano è, per la natura del suo congegno, un essere
esclusivamente burlesco. I suoi morbidi movimenti hanno della grazia, ma i suoi
gesti sono disordinati e più spesso impossibili. È dunque un personaggio
inadatto ai ruoli seri, e ci fu bisogno di tutto il talento dei nostri operanti
per intenerirci e spaventarci in date situazioni. Quasi sempre ci offrivano
delle parodie di melodrammi o delle farse. I titoli di alcune di queste messe
in scena ne fanno fede: Oswald lo scozzese, L’albergo del fagiolino
verde, Sangue, serenate e banditi, Roberto il maledetto,
Il cinghiale nero, Una donna e un sacco da notte, Le ragazze
castane di Ferrara, Il fantasma calvo, Porpora e sangue, Le
lame di Toledo, Roberto il buon ladro, L’eremita della marea
crescente, Una tempesta in un cuore di bronzo, Il cadavere
recalcitrante, ecc.[1] I soggetti farseschi erano spesso ispirati dalle
impressioni del momento: un’avventura ridicola nel mondo politico o artistico,
una cronaca locale, un racconto divertente o singolare, la visita di qualche
personaggio assurdo, un intruso di cui si faceva la caricatura senza che se ne
accorgesse. Tutto poteva servire d’argomento per la nostra rappresentazione a soggetto:
il canovaccio veniva concordato in qualche ora e talvolta inscenato la sera
stessa. Noi siamo debitori verso questo teatrino di distrazioni benefiche, di
serate d’elevazione e d’oblio d’inestimabile valore.
La dispersione della famiglia e le difficoltà a riunirsi, la
morte di alcuni cari amici che avevano brillato nel nostro Grand Théâtre
(vi aveva recitato Bocage, e altri non meno celebri), e la mancanza di tempo
per gli svaghi avevano indotto la sospensione indefinita della commedia
dell’arte. Solo i burattini ci restavano, e mio figlio, via via che la mia
vita si stabiliva sempre più in campagna, si premurava di offrirmi anche qui i
piaceri della finzione, così necessari a coloro che la coltivano in proprio e
alla quale si legherebbero, se le invenzione degli altri non li distraessero
dalla loro propria tensione spirituale. Ma la più parte del tempo era solo. Il
momento del lavoro o del matrimonio era giunto anche per i suoi compagni.
Avevamo anche dei bambini che ci teneva a divertire e per i quali la caricatura
soltanto sarebbe stata o incomprensibile o di una cattiva influenza sul loro
gusto nascente. C’era bisogno di un teatro più castigato e anche di una più
fedele osservanza delle leggi della scena. Ciò sembrava impossibile poiché si hanno
solo due mani e le opere così messe in scena da un solo animatore non potevano
essere che una sfilza di monologhi o di scene a due. Con un compare, non si
poteva comunque superare il numero di quattro
personaggi e se si aveva bisogno di comparse, si doveva sistemare sul
fondo della scena una specie di rastrello, sui lunghi denti del quale fissare
più burattini. Questo rastrello, eccellente per gli effetti comici, mostrava in
pratica però una serie di teste immobili su abiti flosci e con braccia cadenti
che risultavano d’un aspetto penosissimo. Erano come un’apparizione di
impiccati. Non c’è niente di più impossibile a prendere sul serio che un
burattino che non è calzato dalla mano dell’uomo. E comunque, le dimensioni del
teatrino non permettevano la libertà di movimento di più di due animatori.
Queste dimensioni, che da noi, vista la mancanza di spazio,
non sono proprio quelle che ci vorrebbero, dovrebbero essere di un metro
d’altezza su due metri di larghezza per quanto riguarda il boccascena. Queste
possono essere considerate le più grandi
dimensioni che si possano armonizzare con la taglia del burattino, cioè
con la sua testa, le sue mani e il suo busto, che rappresentano la sua altezza
fittizia, 70 cm. Più piccola, la testa non si vedrebbe che da una distanza
troppo ravvicinata. Più grande, affaticherebbe troppo il dito che la regge e
sarebbe troppo sproporzionata per produrre l’illusione. Questa figura deve
essere sempre in movimento: finché si muove sembra viva. Deve essere scolpita
con cura, ma grossolanamente: troppo dettagliata, diventerebbe insignificante.
Deve essere dipinta a olio senza alcuna vernice, avere veri capelli e vera
barba. Gli occhi possono essere smaltati come quelli delle bambole; noi li
preferiamo dipinti con un chiodo nero, tondo e bombato come pupilla. Questo
chiodo verniciato riceve la luce ad ogni movimento della testa e produce
l’illusione completa dello sguardo. Si può rendere anche l’illusione di una
pupilla bluastra se la si contorna d’un leggero tratto di pennello intriso nel
cobalto; in questo caso bisogna fare la pupilla con un chiodo nero più piccolo.
Le mani devono essere di legno; di porcellana si romperebbero troppo
velocemente. Bisogna inoltre uniformarle necessariamente all’importanza o alla
delicatezza del volto. Quelle che sono di un disegno elementare sono
preferibili a quelle rifinite, in cui la posizione distesa o chiusa colpirebbe
per l’immobilità. In realtà bisogna che non siano né aperte né chiuse e che,
per il loro aspetto un po’ vago, e grazie al movimento che le anima
incessantemente, sfuggano all’occhio che cerchi d’afferrarne il dettaglio.
Si capisce come, malgrado l’aiuto di un compagno, mio figlio
avesse sempre avuto da superare delle grandi difficoltà per evitare le scene a
cinque personaggi o per ottenerle. Non si poteva far sedere il burattino e
abbandonarlo senza fissargli la testa alla sedia. A questo scopo la sedia era
munita di un gancio e il burattino di un anello nascosto fra i capelli, ma
c’era bisogno di una grande destrezza per infilare velocemente il gancio, e
talvolta il personaggio s’agitava convulsamente sul posto senza arrivare a
incastrarsi. L’improvvisazione prendeva origine da tutto. «Che cosa avete? –
gli domandava un altro personaggio – siete malato? Sì – rispondeva il paziente
condannato ad essere appeso – è una malattia grave che si chiama mal di
gancino. Ah! La conosco, da queste parti ne soffriamo un po’ tutti». Da
allora, se un recitante s’imbrogliava nel testo e faceva attendere una replica,
gli altri personaggi gli chiedevano se anche lui soffrisse di mal di gancino.
Per molto tempo, avere mal di gancino, cioè avere dei vuoti di memoria,
fu una locuzione abituale dietro le quinte dell’Odéon, i cui attori avevano
visto o animato i nostri burattini. Il suggeritore, in particolare, conosceva
bene quest’espressione, poiché era lui a dover prestare molta attenzione al mal
di gancino degli attori.
Al di là di queste difficoltà, capitava spesso che si era
obbligati a lasciare la scena vuota per introdurre le mani dentro nuovi
personaggi o per preparare qualche accessorio. Si avevano allora i lupi,
è questo il nome che si dà nel gergo teatrale a quei difetti, oggi rari, nella
composizione letteraria, che consistevano nel lasciare temporaneamente la scena
vuota di personaggi. I nostri spettatori erano avvisati che questi lupi
ci erano necessari. Ma se si spazientivano, si proponeva di chiamare teatro
dei lupi il nostro teatro, per tagliarla corta con tutte le lamentele.
In seguito, mio figlio volle sopprimere tutti i lupi,
le scene con un numero limitato di burattini, l’espediente di tenerli in piedi
o agganciati, le prove nelle quali gli animatori dovevano stringersi l’un
l’altro col rischio di ingarbugliare la rappresentazione e infine volle poter
fare a meno dell’ausilio degli associati, poiché troppo spesso erano assenti.
Immaginò quindi di approntare sul primo piano del teatro due assi a rotaia con
una scanalatura entro cui far scorrere dei blocchi forati. In questi blocchi si
potevano fissare, muniti d’un supporto, i burattini. Questo supporto consiste
in un pezzo di fil di ferro avvolto a spirale e munito ad ogni estremità di un
tappo di sughero. L’uno entra nel collo del burattino e rimpiazza il dito
dell’animatore e l’altro s’infila in un foro dell’asse scorrevole. Per mezzo di
queste doppie assi, i personaggi in scena possono essere tanto numerosi quanto
lo si desidera e ognuno può passare davanti o dietro gli altri per essere così
in primo o secondo piano. Le poltrone, i troni, i tavoli, i divani sono portati
da altre assi a binario che partono dai lati e si piegano e si distendono
seguendo i bisogni della scenografia. Inoltre quattro altre assi con lo stesso
sistema di scorrimento sono piazzate sul fondo e permettono la presenza di
un’assemblea numerosa, o altri piani scenografici se quelli del fondale non
bastano. Sintetizzando, si tratta di un falso palco i cui intervalli permettono
al burattinaio di andare dall’uno all’altro dei suoi attori, di passare la mano
sotto i loro vestiti e mettere le dita nelle maniche per far muovere le braccia
o di sganciarli per farli marciare, danzare, uscire, coricarsi e sedersi (alla
vista sembra si siedano perfettamente, poiché il supporto entra esattamente nel
foro dell’asse che alloggia la sedia). Insomma possono mettersi a letto,
alzarsi e sdraiarsi di nuovo senza che si veda il supporto e se necessario lo
si toglie senza che nessuno se ne accorga.
Nelle scene a più piani, per mezzo di queste assi e di questi
binari che sono sistemati lungo le linee di sforo, si introduce una folla,
un’armata o un corpo di ballo. Ma qui i personaggi sono rappresentati da
pupazzetti di diverse dimensioni proporzionate al piano in cui si trovano. Essi
entrano ed escono sui loro congegni per gruppi di 30 o 40 comparse alla volta.
Ne abbiamo alcuni per i piani lontani che non sono più alti di un pollice e che
si distinguono perfettamente. Succede inoltre che si desideri portare in primo
piano un personaggio dal fondo di una grande scenografia aperta: è sufficiente
sostituirgli velocemente ad ogni piano un pupazzo più grande man mano che si
avvicina. Nelle apparizioni, questo trucco così semplice è di un tale effetto…
e non può essere realizzata che dai burattini! Un fantasma si compone di cinque
o sei pupazzi uguali, ma di grandezze differenti, che attraversano ciascuno un
piano di rovine o discendono di terrazzamento in terrazzamento succedendosi
l’uno all’altro finché l’ultimo arriva sul davanti della scena con le sue
dimensioni normali.
Ottenuto tutto questo meccanismo con mezzi estremamente
semplici, si capisce come si possa realizzare su una scena di burattini ciò che
è impossibile altrove e manipolare il fantastico ben al di là di quello che
consente il teatro d’attore. Congegni meccanici potrebbero raggiungere una
maggior precisione, ma sarebbe un’altra arte, da cui la vita è esclusa,
qualunque sia la recitazione che accompagna e spiega il movimento delle figure.
Tempo fa ho visto sulla piazza degli Schiavoni a Venezia dei drammi
cavallereschi eseguiti da meravigliosi automi. Erano dei piccoli e precisi
congegni con cavalieri alti un braccio che si lanciavano in combattimenti
equestri, delle dame ricoperte d’oro e pietre preziose che premiavano il
vincitore, dei paggi che suonavano il corno dalle cime delle torri, e che
altro!? Versi di Tasso e dell’Ariosto erano strillati dalla baracca per
spiegare l’azione, ma non era proprio il caso di sperare da ciò i godimenti
dell’illusione.
Il vero burattino deve essere, lo ripeto, nella mano
dell’uomo che parla. Quando Maurice fa parlare i suoi in fondo alla scena,
lascia scivolare via il supporto e li muove alla maniera classica, che è la
migliore. Quando essi non sono che spettatori dell’azione o degli ascoltatori
che porgono un replica di tanto in tanto, lui li risistema sul loro supporto e
non si occupa più di loro se non per passare lestamente le sue dita nelle
maniche per la loro battuta. Le toglie poi per passare ad un altro, e può
animare così più burattini che prendono parte all’azione. Per star dietro alla
rapidità del dialogo, ci sono anche degli espedienti molto semplici. Un
personaggio non ha che una parola o due da dire in una scena numerosa? Un filo
di seta viene fatto passare lungo il braccio e attraverso un occhiello nascosto
sotto il nodo della cravatta: tirando il filo si ottiene un gesto sufficiente.
Questi dettagli sono essenziali, perché i burattini, che non muovono le labbra,
devono muovere il corpo per aver l’aria di parlare. E grazie al loro supporto
leggermente elastico, è sufficiente soffiarci sopra per imprimergli movimento.
Ma per arrivare a far vivere una trentina di personaggi in
scena senza toccarne più di due alla volta, bisognava ottenere dal burattino un
atteggiamento conveniente a riposo, e fu proprio da quest’aspetto che in realtà
si dovette cominciare. Ciò fu l’oggetto di un’appassionata discussione fra me e
mio figlio. Io non prevedevo le felici innovazioni che meditava e fui veramente
contrariata quando mi portò un burattino senza spalle e con un petto in
cartone. Era molto ben confezionato, ammirevolmente foggiato, guarnito di pelle
e dipinto d’una tonalità eccellente che permetteva alle nostre donne di portare
dei corsetti chiusi e scollati. Fino ad allora avevamo barato per simulare la
vita e le spalle dei nostri fantoccini. Incaricata da 30 anni di fare i loro
costumi e di abbigliarli per la rappresentazione, avevo passato molte sere e
qualche volta delle notti intere a questo minuzioso lavoro. Col nuovo sistema
bisognava rifare tutti i costumi, e ce n’erano casse intere. Avevo perfino fatto
un buon numero di divise militari, costumi rinascimentali o medievali e abiti
di corte Luigi XV e Luigi XVI ricamati ad hoc in seta, in ciniglia, in
oro e argento su seta e velluto. Ricavavo un giusto orgoglio dalla mia
biancheria, perché queste dame possedevano camicie, gonne, corpetti di ogni
tipo. Ora bisognava ricominciare tutto.
Ma non era quello il mio più grande dispiacere. Io temevo di
non riconoscere più i nostri cari piccoli personaggi se avessero indossato un
busto. Erano numerosi e tutti d’una qualità eccellente, in grado di esprimere i
caratteri che gli erano affidati; ma qualcuno ci era particolarmente simpatico
e non ci capacitavamo all’idea di vedergli un’altra postura e un altro
atteggiamento. Una rappresentazione che aveva per soggetto la lotta degli attori
col busto contro quelli che non lo avevano ancora, diede ragione
all’innovatore. La corazza di cartone molto corta davanti e più corta ancora
dietro, permetteva d’animare il personaggio come prima e di lasciarlo riposare
sul suo supporto senza che assumesse un atteggiamento improprio. Il corpo non
cadeva più come un ombrello che si chiude, le braccia non penzolavano più lungo
i fianchi con le mani rovesciate. Una nuova innovazione aveva fissato
l’avambraccio al corpo sotto forma di manica larga dove le dita, non entrando
più fino alle spalle del personaggio, davano l’impressione di un gomito
articolato. Il burattino a riposo conserva dunque il braccio leggermente
ripiegato senza goffaggini e senza forzature. Poi fu la volta del supporto, che
inizialmente era una molla a elica alla quale si rinunciò perché
l’elasticità e il tremolio del corpo erano esagerati. Fu adottato allora il fil
di ferro a tre o quattro spirali. Ciò è sufficiente a dare ai personaggi un
leggerissimo dondolio che si propaga a quelli che gli stan vicino e che fa
meraviglie nelle danze. L’immobilità è dunque soppressa e i gesti non sono più
convulsi, a meno che non li si voglia così esagerandoli. Non si è perso niente
di ciò che serviva al burlesco e si è guadagnato invece tutto ciò che prima ci
era impedito di realizzare. Si potrebbero recitare delle opere serie se se ne
avesse voglia. In ogni caso, si possono affrontare delle situazioni di reale
interesse senza che un gesto inopportuno o un atteggiamento ridicolo le comprometta.
La scaltrezza dell’animatore e la sua minuscola attrezzeria fanno il resto: i personaggi portano i loro scranni per sedersi al posto che conviene, preparano un letto in scena, prendono una torcia su un mobile per metterla su un altro, servono un pasto, si spogliano e si vestono davanti allo spettatore, si tolgono i loro copricapi e se li rimettono, si battono in duello, ballano e danzano con grazia e brio. In realtà non prendono niente di tutto ciò, perché l’oggetto necessario è loro presentato all’estremità di un sottile fil di ferro, che accompagna il movimento del burattino permettendogli di afferrare l’oggetto con una mano solo in apparenza, e senza che le sue due braccia strette al corpo lo rendano ridicolo.
[1] Oswald
l’écossais, L’auberge du haricot vert, Sang, sérénades et bandits, Robert le
maudit, Les sangliers noirs, Une femme et un sac de nuit, Les fille brune de
Ferrare, Le spectre chauve, Pourpre et sang, Les lames de Tolède, Roberto le
bon voleur, L’ermite de la marée montante, Une tempête dans un cœur de bronze,
Le cadavre récalcitrant, ecc.