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ARRIVO AD AMBON Ambon e le Molucche sono chiuse agli stranieri e tanto più ai giornalisti. Con un cordiale sorriso l'addetto stampa dell'ambasciata indonesiana ci informa che possiamo chiedere il visto. Se poi ci sarà concesso, è tutta un'altra storia. Così, il 19 settembre del 2000, travestiti da turisti, in pantaloncini corti, camicia hawaiana e macchina fotografica d'ordinanza, ci presentiamo all'imbarco per Ambon. Nessuno si cura della nostra identità e tanto meno del visto. Non che la polizia di frontiera sia assente. E' che nessuno, né l'esercito, né la polizia e tantomeno i leaders politici, possono garantire la sicurezza. Durante uno scalo tecnico riceviamo la telefonata del desk officer dell'agenzia dello sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), Svante Skoog, che ci sconsiglia caldamente di arrivare nell'isola per via di scontri che si erano verificati al mattino. Si temono vendette incrociate. Abbiamo scelto un buon giorno per arrivare. Dopo un mese di relativa calma la guerra riprende. Il nostro 'contatto', un ufficiale della procura, un cristiano battista, ci rassicura al telefono: verrà a prenderci con la sua scorta militare. L'aereo parte con un'ora di ritardo. Sullo stesso volo un tipo ci guarda con insistenza. Indossa una maglietta di Amnesty International. Scopriremo più tardi che non è proprio un sincero pacifista, ma uno dei capi delle milizie cristiane. Il colpo d'occhio dall'aereo è splendido. L'isola è una meraviglia della natura. Certo i navigatori portoghesi e quelli olandesi, che arrivarono qui nel XV e XVI secolo in cerca di noce moscata e chiodi di garofano, saranno rimasti affascinati dalla natura rigogliosa, dalle spiagge di sabbia fine, dal fiordo che si incunea nell'isola, dividendola quasi in due. A Nord c'è l'aeroporto, a sud, nella penisola più piccola, la città, Kota Ambon, 300.000 abitanti prima del conflitto. Il nostro contatto si presenta puntuale all'arrivo con una decina di protestanti che ci fanno festa. Della scorta armata neanche l'ombra. Mentre sottraiamo le valige a un nugolo di facchini abusivi il 'nostro' ufficiale ci informa che andare in città per via di terra implica attraversare due zone, due enclave musulmane. Meglio prendere lo speed boat e attraversare la baia. Dopo un breve tragitto in macchina, saliamo sullo speed boat. Lo chiamano così non tanto per la velocità che può raggiungere, ma perché va sempre a manetta. La baia infatti è dominata da una collina, dalla quale i musulmani, talvolta, fanno tiro al bersaglio. I 10 minuti per attraversare questo braccio di mare paradisiaco si trasformano in un inferno. Ripassiamo a mente la formazione della nazionale di calcio italiana. Un carabiniere di stanza all'ambasciata di Giacarta ci ha detto che è il miglior lasciapassare in caso di brutti incontri. Le nuvole, presagio della fine della stagione delle piogge, si stagliano sul braccio di mare e siamo festosamente accolti dai gestori dei traghetti che, immancabilmente urlano 'Italia! Alessandro del Piero!'. Siamo nella zona cristiana. Il pulmino zigzaga tra i bidoni pieni di terra posti in mezzo alle strade costeggiate da case distrutte, bruciate. Ce ne sono almeno 50.000, in tutto il territorio delle Molucche sconvolto da una guerra civile che ha prodotto 5000 morti in 2 anni. L'esercito presidia ogni incrocio delle poche vie di comunicazione mentre l'autista ci indica la zona musulmana, la moschea Al Fatah e il minareto in cemento armato. Il centro della città è diviso in due dal campo sportivo prospiciente il lungo palazzo del governatore. Delle due entrate una dà sulla zona musulmana, l'altra su quella cristiana. E' una sorta di terra di nessuno.
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Nel Nome di Dio - la guerra nelle Molucche di Paolo Emilio Landi SINNOS
EDITRICE,2001
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