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La stagione dell’uva Passata l’estate, arrivava la vendemmia all’inizio dell’autunno. L’aria era più fresca e i colori della campagna cominciavano a cambiare. L’oro delle stoppie veniva sostituto del colore della terra appena arata, e le cicale non cantavano più. Di quel tempo, la cosa che ricordo volentieri è l’attesa dei carri che arrivavano in paese carichi d’uva. Ci mettevamo alle “Casce”, che è una piazza panoramica dalla quale si domina la Maremma fino al mare, e quando si sentivano le voci delle vendemmiatrici, era segno che arrivavano i carri. Allora iniziava la nostra corsa incontro ai carri stessi; ci salivamo e, pancia mia fatti capanna, mangiavamo l’uva indisturbati, ma per qualcuno finiva male perché veniva pizzicato dalle vespe, che ce n’erano in abbondanza. Nelle settimane che seguivano, nel paese si sentiva un odore di mosto e di vinaccia, che usciva dai finestrini delle cantine. Mi ricordo che la mia nonna andava a comprare il vino dalle famiglie che fuori dal portone di casa esponevano una frasca (rametto di vite o di altra essenza arborea). La frasca stava a significare che in qual luogo si poteva vendere il vino prodotto in proprio. La tecnica per produrre il vino era primitiva, le conoscenze modeste e la qualità era modesta. Oggi è tutto cambiato; per fare il vino si ricorre all'enologo e alla tecnologia, ed il vino che esce dalle cantine, il morellino, è apprezzato dagli intenditori ed entra nel giro dei mercati più autorevoli. Il grano A giugno iniziava la raccolta del grano. La mattina partivano squadre di ragazze per andare a raccogliere i balzi (fasci di spighe di grano), che venivano caricati sui carri tirati da coppie di buoi e portati alla macchina trebbiatrice, che dopo aver trebbiato, insaccava il grano. In genere questo lavoro durava una o due giornate. Alla fine tutti coloro che avevano prestato la propria opera si riunivano intorno ad un grande tavolo in mezzo all’aia, dove venivano disposti vassoi di maccheroni, tortelli e polli arrosto, il tutto innaffiato da un buon vino del posto. Non mancava mai la fisarmonica, per cantare e ballare fino al buio.
Il ritorno del babbo Il mio babbo aveva l’officina di fabbro al bivio dell’Aurelia, partiva la mattina con la moto, e tornava la sera. Nei periodi in cui il molto lavoro che doveva svolgere lo faceva attardare, la mia nonna ci portava al “poggetto”, e da lì aspettavamo in silenzio che all’Apparita (luogo chiamato così perché vi appare il paese di Montiano all’uscita della macchia) spuntasse nel buio il fanale della moto, poi il rumore del motore, Allora, “è lui, è lui!” si gridava. Io e mia nonna correvamo a casa per avvisare la mia mamma perché mettesse la pasta. Mio fratello invece correva alle Case Nuove, incontro a mio padre, e saliva sulla moto, felice e contento pavoneggiandosi davanti ai suoi compagni.
Le scarpe Una cosa che io non accettavo era un numero più grande delle scarpe, e soprattutto i ferretti a forma di mezzaluna che venivano inchiodato nel tacco e nella punta della suola, per evitare il consumo. A zio Aurelio venivano applicate le bollette di ferro in tutta la superficie della suola, che garantivano una maggiore durata. Figuratevi le conseguenze, però ! Le strade erano tutte lastricate con le pietre e selciati in discesa, per cui erano scivolose e davano origine ad un rumore insopportabile a contatto del ferro. Questo era uguale per tutti e quando ci trovavamo tre o quattro ragazzi assieme sembrava passasse un esercito di soldati in marcia. Solo d'inverno, nella melma o nella polvere bagnata, il rumore si attenuava, ma non di molto!
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