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La mia famiglia

     Ho vissuto in una casa vecchia, ma decorosa, con i miei genitori, mamma sarta e babbo fabbro, mio fratello, mia nonna e mio zio giovanotto, che adorava sia me che mio fratello. Il paese avrà avuto un migliaio di abitanti, stanziati su un nucleo di case sorte intorno alla fattoria di un latifondo agrario (proprietà di una società anonima svizzera, impersonata sul posto dall'amministratore ing.De Rham),  come numerosi altri esistevano allora in Maremma.

L’asilo

     E’ un’immagine molto evanescente, ma riesco a vedere una stanza con delle panche di legno, tutte intorno alle pareti, e in un angolo una sedia per la maestra Vera.

Vera, una ragazza bionda molto bella, con la vestaglia nera lucida e il colletto bianco. Ci riuniva e ci raccontava le favole, era bravissima, si immedesimava nei personaggi e cambiava voce a seconda dei protagonisti stessi delle favole, così noi bambini lavoravamo di fantasia immaginando il lupo, il bosco, le fate e gli gnomi. I giochi erano il girotondo, anello bell’anello e qualche filastrocca.

Dopo l'asilo i ricordi sono più chiari, incomincia la scuola, il grembiulino a quadretti bianchi e rosa, un quaderno dove facevamo le aste, i puntini e i tondini.

Ma non è stato facile lasciare la maestra Vera, che ha segnato un tempo indelebile nei nostri primi anni di vita. Infatti anche se andavamo  ormai alle elementari, alcune di noi, io compresa, immancabilmente andavamo a trovare la maestra Vera per continuare ad ascoltare le storie che raccontava con tanta dedizione.

La scuola

      In questo periodo cominciano i miei giochi più liberi, per strada e con gli altri bambini. A scuola andavo da sola, cercando di ritrovarci tutti un po’ prima davanti alla scuola. Con il carbone disegnavamo il gioco della campana  (nessuno si sognava di cancellarla, solo la pioggia) e giocavamo fin quando arrivava il nostro maestro. Per la prima classe c’era un maestro giovane, si chiamava Zeno,  e giocava con noi come un ragazzino.

In seconda e in terza classe avevamo la maestra Maria, che veniva da Magliano.

Al termine della terza c’erano gli esami per passare in quarta e quinta, dove trovammo il maestro Agostino, molto severo ma molto bravo.

Una idea simpatica del maestro Agostino ci portò a fare il giornalino di scuola.

Tutti dovevamo scrivere un articolo su qualche avvenimento della scuola, ma anche del paese o tratto dai giornali. Io in più dovevo illustrarlo. Una volta dovevo illustrare un argomento che parlava di un pazzo, io non sapevo come fare, poi mi venne l’idea di disegnare una persona con una caffettiera in testa: non vi dico le risate di tutti, e il ritratto fu pubblicato.  Un ricordo del giornalino che invece mi amareggia tuttora fu quando il maestro mi incaricò di descrivere la bidella; io scrissi la verità, e cioè che non puliva i banchi, non riempiva i calamai ed altre inadempienze. Dissi anche che camminava come un’oca. Non vi dico cosa si scatenò, quando la incontrai, lei minacciò di picchiarmi. Il maestro, quando venne a conoscenza dell’episodio e dell’atteggiamento della bidella, la fece chiamare e fecero una solenne leticata finchè il maestro pretese le scuse della bidella stessa nei miei confronti.

Il tempo così trascorreva: la mattina sui banchi, il pomeriggio i compiti a casa, però non mancava il tempo per giocare.

 

 

I giochi

      I giochi cambiavano a seconda del tempo e delle stagioni. In inverno, dopo la scuola, andavamo a giocare nella fattoria, che si trovava nel centro del paese, trattandosi di un paese agricolo. Nella fattoria ci trovavamo con i figli dei cugini della mia mamma, e con i figli dei magazzinieri e dei fattori: eravamo una bella squadra.

Tra il personale della fattoria, c’era uno stalliere, di nome Marino, che aveva una bellissima voce da tenore e quando lavorava cantava in continuazione. Noi ragazzi gli giravamo attorno quando strigliava i cavalli e quando mungeva le mucche, sperando di ottenere  un bel bicchiere di latte appena munto per fare  una squisita merenda. Poi c’era Tonio, un vecchio scontroso che si occupava dei cani, dei polli e della legna.

Quando Tonio pelava le oche o i tacchini, la nostra banda di ragazzi era sempre presente. Gonfiava la pelle dei tacchini per  pelarla più facilmente. Tonio si occupava anche di accendere le stufe e i caminetti delle varie stanze della fattoria. Gli facevamo mille dispetti, ma una volta passammo proprio i limiti: dietro suggerimento di uno dei più strulli del gruppo, lo chiudemmo dentro la botola della legna. Quando lo sentirono bussare, le donne di servizio gli aprirono, ma erano passate delle ore. Quella volta facemmo una figura meschina, mi vergogno ancora di aver ragionato con il cervello degli altri: poteva essere pericoloso! La punizione fu  quindici giorni senza vederci; scuola, casa e sonori ceffoni.

Quando tornammo a giocare tutti assieme, alla vista di Tonio scappavamo come saette, perchè lui ci inseguiva con un bastone.

Tonio era molto vecchio. Quando venimmo a sapere che era morto, ci ritrovammo tutti insieme spontaneamente in fondo alle scale di casa sua, partecipi di un evento che ci colpì profondamente.

Iniziava nell’autunno la raccolta delle olive, e lì il divertimento  non mancava. Facevamo degli scivoloni nei monti di sansa (il residuo della frangitura delle olive). Ritornavamo a casa unti e bisunti, consapevoli di prendere la giusta punizione perchè le lavatrici ancora non erano state inventate, e le mamme dovevano provvedere al lavaggio a mano degli indumenti.  Eravamo tuttavia contenti di aver trascorso una giornata piacevole.

La merenda in quel periodo era  una fetta di pane con l’olio. All’interno della fattoria c’era un grande frantoio, che macinava le olive raccolte. Noi portavamo le fette di pane tostato e il frantoiano ce le condiva tuffandole dentro le conche dell’olio.

Quando pioveva giocavamo in casa in una stanza guardaroba. Là c’erano le donne di servizio che stiravano il bucato. In un lato c’erano delle grandi casse e armadi con dentro le divise dei butteri.  Noi ci divertivamo a vestirci con i cappelli e le cartucciere, giocando ai cacciatori, e facendo grandi viaggi con la fantasia fino a immaginare di uccidere tigri e leoni.

In primavera le giornate si allungavano, ma gli orari erano gli stessi: quando suonava la campana della sera dovevamo rientrare, perché quella, dicevano i vecchi, era l’ora delle streghe, e i più paurosi ai primi rintocchi correvano a casa (zio Aurelio era sempre l’ultimo).

Il paese e il vivere quotidiano

     Spesso nei pomeriggi di primavera, la mamma di Angela (una delle cugine di mia mamma), ci portava a fare una passeggiata pensando di farci un grande favore, e magari strada facendo ci risentiva i verbi e le tabelline aritmetiche. Per noi invece era una grande penitenza, pensando ai nostri amici rimasti a giocare con la corda o a nascondino, ma non ci passava neanche per la testa di rifiutare l’invito: avevamo rispetto per gli adulti. Al rientro della passeggiata, era l’ora che nelle case si cominciava a preparare la cena. Rientravano gli uomini dai lavori nei campi e per le strade del paese un odore di erbette, basilico e salvia si mescolava ai profumi dei balconi e dei giardini, che venivano innaffiati ed era un profumo misto di rose, oleandri, gelsomini e di erba tagliata che arrivava dai prati vicini. Le voci si aggiungevano ai profumi creando un’atmosfera di vita vera di famiglia e di paese. 

Le donne portavano con sé i secchi dell’acqua, dalla fonte alle case, perché non esisteva l’acqua in casa, e la sera quando tornavano i mariti dai lavori campestri, c’era bisogno di acqua. In certi periodi l’acqua scarseggiava, perciò la regola era questa. Dovevamo andare in piazza, presso la fontana, portare un secchio e metterlo in fila. Rimanevamo noi ragazzi perchè  dovevamo avvisare quando arrivava il turno. Figurarsi se noi giocherelloni andavamo a chiamare le nostre mamme o nonne: si spostavano i secchi più indietro per continuare a giocare finchè venivamo scoperti ed erano rimbrotti severi.

Sempre in serata, venivano spalancate le finestre per far entrare l’aria fresca; allora si sentiva cantare o  chiamare i ragazzi che rientrassero, o i mariti , che tornati dal lavoro, magari si fermavano nelle cantine a spaccare la legna o a fare altri lavori. La mia nonna dava una voce al marito:”Orlando vieni su a lavarti che l’acqua è calda!”

Per lavare i panni c’erano i lavatoi pubblici. Le lenzuola venivano stese sui prati ad asciugare, e al tramonto si andava a ritirarle. C’erano alcuni punti della strada e del borgo dove le donne, con i fagotti dei panni asciutti, si fermavano per riposare, posavano i cesti e  scambiavano qualche chiacchiera tra loro.

Ci sono anche i profumi nei miei ricordi, e se chiudo gli occhi li sento ancora.

La mattina presto, quando andavo a scuola, era il momento in cui le vie del paese profumavano di più, perchè le porte e le finestre si spalancavano e cominciavano le varie attività. Quando passavo davanti all’ufficio postale, avvertivo un odore di carta e inchiostro che mi ricordava la scuola; passando davanti alla cooperativa, usciva un odore di dispensa, salumi, verdure e formaggi. Il profumo più intenso che ricordo è quello della bottega di Alfredino, un omino piccolo piccolo che faceva il calzolaio, e passando davanti alla sua casa-bottega, ci investiva un odore forte di pellame, cuoio e pece. Ma la sera, quest’omino così piccolo, dopo una giornata di lavoro, ci allietava con il suo sassofono. Era bravissimo, un talento rimasto sconosciuto.

La mattina, prima di entrare a scuola, mi fermavo al forno dove, se potevo (cioè se avevo i soldi), compravo una ciambella, altrimenti mi accontentavo del profumo, e mi facevo mettere dal fornaio, che si chiamava Guido, una palettata di brace nello scaldino, che aveva fatto il mio babbo con la latta per scaldarmi nelle ore di lezione.

Le sere d’estate, dopo la cena, i nostri genitori sedevano un po’ al fresco fuori casa e noi ragazzi giocavamo a nascondino o ci mettevamo a guardare le stelle. Una sera, mentre si era assorti nel mirare le stelle cadenti, io sentii vicino a me un rumorino. Guardai: era una stellina di metallo, come quelle delle divise dei militari, che qualcuno aveva gettato dalla finestra. Per me era una stella vera, caduta dal firmamento. Cominciai  a gridare il mio entusiasmo e la mia sorpresa, correndo dai miei genitori dicendo che era caduta una stella, seguita dai miei amici convinti anche loro della grandiosità di questo avvenimento straordinario. Non capimmo il senso dei sorrisetti degli adulti!!