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L'alimentazione
delle donne http://www.tumangiabene.it/approfondirea.htm#alimentazione
Fra
il XIV e il XVIII secolo, secondo Sborter, le donne avrebbero accusato
un abbassamento della statura per il "peggioramento delle
condizioni economiche dell'Europa" e una conseguente
"diminuzione di cibo". A partire dalla fine del 700 si sarebbe
invece avuta una inversione di tendenza alimentare che non avrebbe
influito soltanto sulla costituzione fisica. Una migliore alimentazione
avrebbe in pratica comportato una dilatazione del periodo fertile che
comunque avrebbe segnato ancora notevoli differenze fra donne di
campagna e donne di città. D'altra parte se il "mal della
miseria" (pellagra) metteva in evidenza una differenziazione
dietetica regionale e fra le diverse figure sociali e lavoratrici, un
distinguo alimentare esisteva anche all'interno di una stessa famiglia:
fra uomo e donna e fra uomo, donna e figli. Non per niente studi di fine
800 mettono in risalto che erano proprio le donne-madri, fra i 20 e i 40
anni, con figli piccoli e alle prese con gravidanze e allattamenti, che
"lavoravano come l'uomo" e che "si alimentavano ancor
meno dell'uomo" a essere percentualmente le più colpite da certe
forme di disvitaminosi. Un "libro di casa" di un pastore
norvegese del 1772 mette in evidenza che "quando si cuocevano i
pani di segale per Natale, quelli degli uomini pesavano 1.350 grammi,
quelli delle donne 900"; tale dato rispecchia una situazione che si
protrae fino a 900 inoltrato. Una testimonianza calabrese del 1880
attesta che la "moglie e i due figlioli consumavano tutti e tre
insieme quanto il solo padre": la figlia di un salariato agricolo
padano, nata nel 1903, ricorda che "se a mio padre davano da
mangiare" una cosa intera, a mia madre ne davano solo la metà".
Un contadino cremonese di 42 anni nel periodo estivo, quando si mangiava
meglio, ma si lavorava anche di più, aveva uno standard nutritivo che
contemplava nell'arco di una giornata 3,5 kg di polenta, 60 grammi di
formaggio e due cipolle; la moglie quarantenne disponeva invece di poco
più di 2 chili di polenta, di mezzo etto di formaggio e di una pera. In
una famiglia molisana di inizio secolo l'uomo aveva diritto a 750 gr. di
pane contro i 600 della donna. Anche nei ricoveri di mendicità si
seguiva lo stesso criterio: a Bologna, nel 1913, la razione di manzo
bollito distribuita una volta alla settimana agli uomini era superiore a
quella riservata alle donne. L'indigenza si articolava dunque per il
sesso femminile in una condizione di subalternità alimentare che, oltre
a essere esplicitata in maniera oggettiva, era anche rappresentata
simbolicamente. Soprattutto nelle campagne, infatti, solo l'uomo e i
figli, che sono considerati coloro che "devono lavorare e
guadagnare per tutti", sedevano a tavola; le donne (le giovani
nubili e le spose) mangiavano in piedi, in cucina, in un angolo sul
tagliere, sulla cassa della legna con il piatto in mano, o sedute per
terra e senza posate, esclusivo appannaggio dei maschi, e spesso
mangiavano quello che rimaneva, da sole, quando, come ricorda una
contadina piemontese, "loro non erano in casa". In Italia, nel 1865, su 1.000 nati vivi, 230 morivano nel primo anno di vita (200 in Prussia e 168 in Francia); quarant'anni dopo, grazie al "migliorato tenore di vita delle classi popolari" e a una "volontaria limitazione della prole specialmente nelle città", che consentivano "più amorose ed efficaci cure ai bambini", il rapporto era di 166 ogni 1.000 nati vivi (205 in Prussia e 145 in Francia) e scenderà a 113 nel 1931…. Ma in prevalenza queste finivano col dipendere dalle condizioni dietetiche della madre; erano insomma il colostro, secreto nei primi giorni del puerperio, e, più in generale, il latte materno ad avere un'importanza essenziale per la sopravvivenza e per la crescita del neonato, anche perché molto raramente ricorrevano le condizioni per integrare il fabbisogno del lattante con acqua zuccherata, semolini, pastine e rossi d'uovo. Secondo l'opinione più diffusa (non solo a livello medico ma anche nelle culture popolari) era ed è invece scontato che da una scarsa alimentazione materna e comunque da una gravidanza vissuta in condizioni di stress fisico e psichico potesse discendere un "latte fisiologicamente cattivo" proprio nei primi mesi di vita del lattante, o addirittura una secrezione di colostro senza tutte quelle sostanze biologicamente attive (compresa la vitamina A) che avrebbero dovuto proteggere il neonato dalle infezioni. Proprio per l'impossibilità di "mangiare di più" in certi periodi critici si alimentavano preghiere e scongiuri in cui il magico si combinava con quanto era a portata di mano: come, ad esempio, in un rituale dell'Italia meridionale che per la puerpera prescriveva una pietanza in cui la sua stessa placenta era cucinata con cipolle: non mangiano infatti la propria placenta anche la capre? |
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