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LA STORIA DEL
FIAMMIFERO
Parigi, 1805. Un
bastoncino con una capocchia di pasta a base di clorato di potassio,
zolfo e gomma arabica si accendeva per reazione chimica dopo esser stato
immerso, da tale Chancel, in un recipiente contenente una
spugna
d’amianto imbevuta di acido solforico. Era stato inventato il
fiammifero che nella sua versione primitiva iniziò dopo pochi anni ad
essere commercializzato in confezioni dal costo di un fiorino. Il
problema nasceva per l’accensione. Infatti, era necessario immergere
la capocchia nell’acido solforico.
da la voce del
collezionista feb. 73 Gr. Naz. Fillumenia
Fiammiferi e scatole di
fiammiferi
Il grido stridente dei venditori di fiammiferi era nell’antica Roma tra
quelli che spinsero il poeta Marziale a fuggire la città per rifugiarsi
nella vita calma e senza rumori della campagna. Ebbene sì: già
nell’antichità si vendevano fiammiferi. Erano di legno. bianco. impregnati
di solfo alle estremità. Venivano venduti a mazzi. I mercanti di
fiammiferi non erano altro che dei venditori ambulanti sempre in giro di
città in città, di strada in strada. Ne parla Plinio. I poeti Marziale e
Stazio ci descrivono la loro vita. I fiammiferi non erano allora venduti
in cambio di soldi ma barattati con pezzi di vetro frantumati (è questo
un esempio antichissimo del baratto, che è continuato fino al XIX secolo).
Questi pezzi di vetro i commercianti di fiammiferi li rivendevano ai
vetrai e senza dubbio c’era più guadagno in questa seconda operazione che
non nella prima. Lo smercio maggiore di fiammiferi si aveva, nei Saturnali
per la grande illuminazione delle serate. Nel Medio Evo i fiammiferi con
il fusto di canna fortemente impregnati di solfo erano i più richiesti. «
Fiammiferi! » si gridava tutte le mattine nelle strade della Parigi del
XVI secolo. In questo periodo tutto o quasi si vendeva per strada (esistevano
nel 1545 ben 107 differenti grida di venditori)
« Fiammiferi secchi! »
precisavano, nella speranza di attirare il cliente rassicurandolo. Il
mestiere del commerciante in fiammiferi nel XVI secolo non era certo molto
lucroso. Uno di questi diceva ironicamente in versi:
«Dopo tutta la fatica che ci ho messo
Alla ricchezza ancor non sono avvezzo.
Ho un bel gridar come un ossesso
Ma i fiammiferi son a troppo poco prezzo! »
Rabelais racconta che Pan tagruel aveva nelle sue tasche oltre ai
fiammiferi una pietra focaia e un acciarino, pezzettino d’acciaio su cui
si sfregava la pietra per far scoccare la scintilla. In questi tempi il
fiammifero era solamente un veicolo per il fuoco (passare il fuoco da
un braciere all’altro, da un camino all’altro, da una famiglia alla vicina
di casa. Ricordiamo che c’era anche il sistema di passarsi le braci
incandescenti o di dar fuoco a uno stecco ma con le sue pericolose
limitazioni ) e non ancora lo strumento che permetteva di produrlo. Si
dovrà attendere fino al XIX secolo per trovare il sistema di produrre il
fuoco sfregando gli stessi fiammiferi senza più utilizzare pietra ed
acciarino. Questo non perché gli antichi non conoscessero il fosforo o la
possibilità di mescolarlo con lo solfo ma perché la chimica non trovava
allora, applicazioni pratiche se non nella magia. Nel Medio Evo il fosforo
era ancora considerato un elemento magico. Quando sotto Enrico II uno
sconosciuto, che si diceva venuto dall’India, ne portò un pezzo si gridò
al miracolo. Nel 1680 il chimico Robert Boyle fabbricò con dei fiori di
solfo e del fosforo un miscuglio che esplodeva al minimo urto. Ma egli non
si spinse oltre nel suo esperimento e quindi si continuarono a vendere gli
stessi fiammiferi d’una volta. Questo non impedì ai fabbricanti del XVII e
XVIII secolo di fare fortuna. Con molto lavoro e un po’ di intraprendenza
si poteva in quei tempi divenire negoziante e finire in ricchezza i propri
giorni. E’ questo il caso di un tizio, di cui parla La Place, che esportò
fiammiferi in Spagna, nelle Indie e in tutte le colonie inglesi ed
olandesi. Non parlerò qui di quali furono le invenzioni e le modificazioni
del fiammifero chimico, come noi lo conosciamo, dal 1805 al 1831.
Ricorderò solo che le invenzioni che hanno permesso di ottenere il fuoco
sfregrando il fiammifero su di un materiale particolare hanno ugualmente
permesso di riporre i fiammiferi in scatolette con al di fuori una
striscia necessaria allo sfregamento.
La più antica scatola conosciuta reca il nome del farmacista inglese
Walker ed è datata 1830. Non ha illustrazioni e riporta solo che il
fabbricante di quei fiammiferi era fornitore ufficiale del re
d’Inghilterra Guglielmo IV. Ma i fiammiferi di Walker erano difficili e
pericolosi da usare e fu il francese Samia, allievo del collegio di Dòle,
che può essere considerato l’inventore dei fiammiferi a frizione, a
renderli veramente utilizzabili. Nel 1832 si vendevano dei fiammiferi «
pirogeni ». Una di queste scatole conservata alla Biblioteca Nazionale e
illustrata molto graziosamente, è senz’altro la più antica della Francia.
L’uso delle scatole di fiammiferi si propagò immediatamente in tutto il
mondo. Le scatolette continuarono ancora per molto tempo a essere vendute
da ambulanti per le strade e di porta in porta nei villaggi. Una scatola
del 1840 rappresenta uno di questi con la sua mercanzia. Egli spiega ad
una donna che sembra interessata a comprare questi fiammiferi: « Fate come
me: sfregateli »; Questa scatola porta, la dicitura: « Al piccolo
ambulante. Parigi » e precisa « Fiammiferi chimici tedeschi - J.T.M. Albec,
unico fabbricante in Parigi ». Perché « tedeschi »? Perché dopo il 1833 —
anno del perfezionamento apportato nella loro fabbricazione da
Wurtembourgeois Kammerer — i fiammiferi tedeschi si erano conquistati la
fama di essere i migliori.
Tommy Fazio
Nel 1827 John Walker
intraprese la produzione e la vendita di fiammiferi chiamati congreves.
Questi ultimi avevano la capocchia formata dal clorato di potassio,
solfuro di antimonio e gomma, che si infiammavano se sfregati su carta
vetrata. Per la produzione su scala mondiale bisognerà aspettare altri
tre anni. Ma in quello stesso periodo, anche a Napoli iniziavano ad
accendersi delle piccole luci grazie a Sansone Valobra che, pur
piemontese, fabbricava proprio nella città partenopea, fiammiferi con
capocchia a base fosforica, subito venduti alla corte dei Borboni per un
ducato a confezione: ogni scatola ne conteneva venti pezzi. Qualche ano
più tardi, per l’esattezza nel 1845, un commerciante di origine
genovese, Francesco Lavaggi, impiantò a Trofarello, in provincia
di Torino, uno stabilimento per la produzione dei, si può dire
“neonati”, fiammiferi. fosforo bianco e fosforo rosso
L’invenzione,
comunque, si sarebbe perfezionata nel tempo. Dal primo uso di fosforo
bianco per le capocchie che però aveva l’inconveniente di essere
tossico e pericoloso per gli operai delle fabbriche, facile agli incendi
e alle esplosioni, si giunse finalmente, nel 1884, alla sostituzione di
quello con il fosforo rosso. La scoperta del fosforo rosso fu brevettata
dagli svedesi Gustav Erk Pasch e Johan Edward Lundstrom, professore
della Reale Accademia Svedese delle Scienze il primo e lungimirante
industriale il secondo, che, agli inizi della seconda metà
dell’Ottocento, unirono le loro forze e diedero origine ai fiammiferi
di sicurezza, per l’appunto gli svedesi. Tuttavia, al contrario degli
altri tipi di fiammiferi, gli svedesi sono gli unici a non possedere il
fosforo rosso sulla capocchia; infatti la sostanza è spalmata sulla
striscia ruvida dell’accensione, della scatolina. Ma per
l’inesorabile fine dell’impiego del fosforo bianco bisognava
aspettare il 1906, quando la nascita del primo sistema industriale per
la produzione del sesquisolfuro di fosforo e il brevetto di una formula
di composizione di nuove “teste” accendibili ovunque della società
inglese Albright & Wilson, avrebbero messo al bando la pericolosa
sostanza. Per l’Italia, va a Perugia l’esordio nella produzione dei
fiammiferi igienici: tra il 1899 e il 1903 i fratelli Luigi e
Attilio Purgotti ottennero ben sette brevetti di fabbricazione.
Dopo l’
”intuizione luminosa” dell’inglese John Walker, che nel 1840
inventò il fiammifero, fu immediata l’idea di raccogliere quei
focherelli in un astuccio da tenere a portata di mano, per accendere la
pipa o un sigaro al club. Nessun gentiluomo usciva più di casa senza
mettere nel panciotto questo indispensabile accessorio. Talmente
indispensabile da influenzare anche la moda; i sarti del tempo
iniziarono a disegnare e a creare abiti da uomo con apposito taschino
all’interno della giacca per tenervi il portafiammiferi. Nacque
un’incredibile varietà di modelli che si susseguirono freneticamente,
a cominciare dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Venti
del Novecento,
quando vennero soppiantati dagli accendini meccanici. Erano muniti di
coperchio a scatto e di una striscia abrasiva, e realizzati nei
materiali più disparati. Quelli in oro e argento avevano la punzonatura
che permette, oggi, di identificare il periodo di fabbricazione. Il
massimo della raffinatezza era far incidere le proprie iniziali, e
c’era chi andava oltre, chiedendo all’artigiano di realizzare
l’accessorio in veste di biglietto da visita di smalto, sul quale
imprimere nome e indirizzo. Eleganti e di pregio quelli in tartaruga,
filigrana e pietre preziose. Meno cari, ovviamente, gli astucci in
legno, pelle e metalli vari che recavano impresso di tutto compreso
quelli maliziosamente erotici. Il portafiammiferi venne poi recepito
come un validissimo strumento pubblicitario che si veicola in migliaia
di rivoli, considerati i numerosissimi e irriducibili
tabacco-dipendenti. Così, le Esposizioni Universali, di gran moda a
cavallo tra i due secoli, se ne impadronirono immediatamente, e così
fecero le aziende di liquori, di champagne e di birra, che vi impressero
il proprio logo.
Una bella storia
quella dei fiammiferi, alla quale non mancano toni pittoreschi e curiosi
legati alla passione per il collezionismo delle loro scatole. Vero e
proprio album di immagini dalla seconda metà dell’Ottocento, la
passione per le “copertine” dei fiammiferi si può considerare coeva
alla loro invenzione. Raccoglitori di scatole ve ne sono stati in tutti
i tempi e ve ne sono tuttora; nella “belle époque” si usarono
persino paralumi e porta giornali di figurine ritagliate e cucite
insieme. Edmondo De Amicis disse che era più numerosa la schiera dei
collezionisti di scatole di fiammiferi che non quella dei collezionisti
di libri. Nel 1934 Giuseppe Donati, un sarto fiorentino, lasciava alla
biblioteca della sua città una ricca collezione di figurine, e ben
sessantamila scatole vantava di possedere un tale Lucca. Nel 1941, alla
“Mostra del tabacco nei tempi e nel costume” di Verona, Ottone De
Batta Suana espose una raccolta di ventimila pezzi, incollati su cartoni
e divisi per soggetto. Poco più tardi, una libreria antiquaria di
Bologna inserì nel proprio catalogo “Figurine di scatole di
fiammiferi dal 1860 al 1910”. Il perfezionarsi dell’arte della
litografia nella cromolitografia dava inizio alla produzione di scatole
con figurine a colori, le serie umoristiche, quelle dei grandi
musicisti, degli uomini politici, degli scienziati, degli sportivi.
Il più ricercato?
Giuseppe Garibaldi
Tra
le più ricercate dai collezionisti, la serie di confezioni ispirata
alla storia di Giuseppe Garibaldi, realizzate tra il 1880 e il 1905.
Caratteristiche per lo stile epico e per il gusto tutto ottocentesco
dell’immagine, tra esse spiccano quelle formate da Michele Doyen,
autore di vivide vignette goffrate, dai colori vivaci e dalle scene
suggestive.
La prima donna entrò
in una fabbrica di sigari all’Avana nel 1878. Era europea. Ma fino al
1960 nelle manifattura dell’isola cubana non era permesso alle donne
di arrotolare sigari, un mestiere che era riservato solo agli uomini.
Prima di allora il lavoro delle donne consisteva solo nello scegliere e
selezionare le foglie di tabacco. Le donne spesso selezionavano le
foglie appoggiandole sulle loro cosce: nasce così la leggenda che i
sigari venivano arrotolati sulle cosce di belle vergini cubane. Da
sempre la lavorazione della foglia del tabacco è affidata alle esperti
mani femminili. Questa scelta era tradizionalmente attribuita al
principio per il quale i lavori di manipolazione, che richiedevano molta
destrezza, precisione e velocità, erano esclusivo appannaggio del mondo
femminile. In realtà, questa preferenza era dovuta ad un mero conto
economico. Nel nostro Paese, per esempio, il costo della manodopera
rappresentava, prima della meccanizzazione, il 60 – 80% del costo di
produzione e le tariffe salariali applicate alle donne erano più basse
del 20% rispetto a quelle maschili. A queste motivazioni si aggiunsero,
soprattutto dal secondo dopoguerra, l’abbondanza della manodopera
femminile, proveniente dallo sfaldamento della famiglia mezzadrile.
Ma torniamo un passo indietro. Nel 1846 il famoso scrittore inglese
Charles Dickens incontrò in Germania una signora americana con la
propria figlia che lo coinvolsero nella degustazione di un sigaro.
Nell’ 800 le donne europee mostrarono un crescente entusiasmo nel
fumare sigari assaporandoli dietro le porte chiuse dei bagni turchi a
loro riservati o nei loro salotti esclusivi.Alla fine di questo secolo e
ai primi del ventesimo, la pressione sociale negativa verso le donne
fumatrici si fece sentire.
Le
donne che in quel periodo fumavano pubblicamente prediligevano sigari
dal piccolo formato, generalmente aromatizzati, alcuni con dei gentili,
piccoli bocchini di paglia. Quelle che non fumavano sigari certamente li
acquistavano per i loro mariti. La regina di Spagna, durante un viaggio
all’Avana spese 1000 dollari in sigari per il proprio consorte In
Germania, a Berlino, intorno agli anni Venti, sorsero molti clubs di
donne fumatrici di sigaro fondati da artiste, scrittrici, proprietarie
di locali e da donne che avevano perso il loro stato sociale a causa del
loro promiscuo comportamento sessuale. Erano luoghi per donne
progressiste che desideravano incontrarsi, intrattenere relazioni
sociali e amichevoli rapporti ed anche esercitare il loro potere. Alcuni
di questi circoli nacquero anche a New York, a Chicago ed in altre
importanti città degli Stati Uniti, ma oggi di loro esiste solo una
piccola traccia. Essi vissero dietro una fumosa cortina di segretezza e
di mistero; locali fumosi e forse anche equivoci ma frequentati dal bel
mondo, puritano all’esterno e pronto a godere all’interno.
Hans
Christian Andersen
Figlio
di un ciabattino, morto quando egli era appena undicenne, e di una madre
alcolizzata, che poi finì in ospizio, Hans Christian Andersen nacque a
Odense nel 1805 e morì nel 1875 a Copenaghen. Grazie alla generosità
di alcuni benefattori riuscì ad emanciparsi dalla modesta famiglia
andando a studiare a Copenaghen danza e canto, e riuscendo anche a
frequentare l'Università. Il suo esordio letterario avvenne con un
dramma, "Agnese e l'uomo del mare", ma la fama gli giunse con
le umane e meravigliose fiabe, in tutto 156, i cui motivi derivò dalla
tradizione popolare scandinava ma rielaborò, suggestionato dalla
temperie romantica, ispirato dalla sua fantasia fresca e
spontanea, anche dalle esperienze autobiografiche, in cui brillò vivida
la sua natura di poeta. E' proprio nelle fiabe che confluì l'intera
personalità dello scrittore che, nella sua autobiografia, non a caso
intitolata "La fiaba della mia vita", confidò d'essere
sempre rimasto un fanciullo. Sospese fra realtà e fantasia, spesso
pervase da pessimismo, ma sempre ricche di umanità, di amore, di
comprensione per i diseredati, per gli umili, per chi soffre,
alimentate dalla radice della fede cristiana, in fondo aperte alla
speranza, per la grande sensibilità, per la fine capacità
d'introspezione psicologica, per il linguaggio semplice e chiaro, ancora
oggi continuano ad affascinare e a commuovere grandi e piccini.
Nella
produzione di H. C. Andersen "La piccola fiammiferaia"
appartiene ad un gruppo di novelle improntate ad una fortissima
tragicità e tristezza. La storia della bambina povera, affamata ed
infreddolita nella notte in cui in tutte le case si festeggia il Natale,
che cerca di riscaldarsi con l'illusorio tepore dei fiammiferi (
immaginando una calda stufa, una tavola ben imbandita, un albero pieno
di candeline accese, il dolce sguardo della sua cara nonna), e che muore
quando non ne ha più da accendere, è probabilmente fra le più
commoventi di questo grande scrittore che, con la poeticità delle sue
fiabe, ha saputo varcare i confini dalla letteratura danese ed
entrare in quella universale. La fiaba è stata scritta in un periodo in
cui il fiammifero, non
ancora la versione attuale, era ancora considerato una specie di magia,
una delle tante invenzioni dell’ottocento che stravolgevano le
abitudini quotidiane in
meglio e che forse potevano essere miracolose per la piccola
abbandonata.
La piccola
fiammiferaia
Era
l'ultimo giorno dell'anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare.
Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi.
Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non
aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già
troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così
sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una
strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell'acqua, l'altra era
stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi
dal freddo. Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di
fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade
erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e
le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo.
Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte
le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano
nella strada; era l'ultimo giorno dell'anno e lei non pensava ad altro!
Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l'assaliva sempre più.
Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l'avrebbe
picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla
scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda
e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere
una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi.
Avvicinò i suoi piedini al fuoco... ma la fiamma si spense e la stufa
scomparve. La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce
fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola
ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti
deliziosi, decorati graziosamente. Un'oca arrosto le strizzò l'occhio e
subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani... ma la
visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte.
"Ancora uno!" disse la bambina. Crac! Appena acceso, s'immaginò
di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello
che aveva visto l'anno prima nella vetrina di un negozio. Mille
candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi.
Volle afferrarli... il fiammifero si spense... le fiammelle sembrarono
salire in cielo... ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde,
tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla
nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva
detto spesso: Quando cade una stella, c' è un'anima che sale in
cielo". La bambina prese un'altro fiammifero e lo strofinò sul
muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule
sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con
dolcezza.
- Nonna! - gridò la bambina tendendole le braccia, - portami con te! So
che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di
rame, l'oca arrostita e il bell'albero di Natale. La bambina allora
accese rapidamente i fiammiferi di un'altra scatoletta, uno dopo
l'altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi
diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
"Vieni!" disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e
volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che
arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si
soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell'anno nuovo, i primi
passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che
la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi
le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era
venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era
degno di conoscere un simile segreto! |
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