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IL FUOCO E IL PAIOLO dal "Foglio" della dispensa di Amerigo http://www.amerigo1934.it/

Il fuoco e il paiuolo sono stati per secoli gli elementi chiave della cucina contadina. Nell’età preindustriale il paiuolo, appeso alla catena del camino, bolliva lentamente e dall'acqua salata, con l'aggiunta di lardo e verdure, si ricavava la zuppa. Più sotto si stendevano le ceneri del focolare in cui cuocevano patate, pannocchie, cipolle. Il camino caliginoso  metteva in comunicazione la casa con l'immensità dei cieli: la befana, i grilli parlanti: i messaggi del vento potevano scender da questo imbuto e impaurire o portare doni, poi ritornare nel nulla, mentre i vecchi leggevano nella cenere "la ventura". La casa di campagna era posta al centro di un sistema economico-sociale: la stalla, il fienile, il porcile, il pollaio e poi il forno. La casa contadina di montagna, più piccola e diversa da quella del piano , aveva anche una camera per l'essicatura delle castagne: il vitto delle popolazioni dell'Appennino consiste in castagne cotte, arrosto o seccate e ridotte in farina. I "ciacci" costituivano un elemento d’identità, preparati a file tra le tigelle. In montagna non si conoscevano né bicchieri né tazze ma si usavano boccali e scodelle posti in mezzo alla tavola: Così un viaggiatore verso la fine del '500 descrive i rozzi costumi e le dure condizioni di vita nel Frignano (Itinerario di un pellegrino incognito).

"in mezzo sta il boccale e la scodella / il pan in braccio a tavola si porta / e di lavar le mani non importa / o tondo (piatto) o tovagliol non aspettare / ma di viver si convien secondo l'uso / nettarsi alla tovaglia !!! e mani e muso". "dove carne non si magna / e dove bolle il macco [polenta di fave] in la caldara"

Tre secoli dopo una inchiesta confermava lo stesso regime alimentare: pochissima carne, pane di farina di castagne, minestra di frumento condita con il lardo, molte castagne in polenta, molto granoturco. I braccianti e i giornalieri in genere formavano la massa dei "malnutriti". I contadini con i contratti di mezzadria consegnavano al padrone capponi a Natale, galline a carnevale, uova a Pasqua, polli a luglio, castagne (due terzi), marroni (tre quarti), l'uva delle pergole, le olive... (Palmieri, La montagna bolognese). Ricercato e caro era il miele; in luogo dello zucchero di canna scarso e costoso si usava anche il mosto d'uva, cotto e non fermentato. Nel "bassopiano", a valle e a risaia, il regime alimentare consisteva in farina di castagne stesa sulla polenta, minestra di pasta e fagioli cotta  in acqua, in polenta di granoturco lessata o fritta o abbrustolita, in lardo fritto come companatico, in un’arringa affumicata. Le erbe venivano consumate in grande quantità: radicchi di campo con pancetta e aceto, frittata di cipolla, di cicoria, di gambi di porro, di  rosolacci campestri (ciocapiat in Emilia). La sfoglia, per risparmiare, era fatta col minor numero di uova; i tortelli si riempivano con erbe tritate (barbabietole, foglie di rape, rosolacci) oppure con patate e zucca (parmense). Gli gnocchi si preparavano con farina d'orzo e patate e, più anticamente, con miglio. La monotonia di un regime alimentare assai modesto veniva spezzata nei giorni di mietitura e di trebbiatura, giorni di festa e di allegria collettiva, durante i quali i pranzi assumevano un significato rituale: gli animali da cortile venivano sacrificati per solennizzare la festa. 

Oltre a questi vi sono quelli del ciclo umano, i rituali familiari: pranzo nuziale, pranzo per la nascita del figlio, pranzo funebre. Per la nascita si consumano due minestre con uova, formaggio e pane grattugiato e poi pagnotte e cappone; in alcuni villaggi il maschio si festeggia con gnocchi di farina di frumento o di mistura cotti nel latte; la femmina con minestra di lasagne. Nel complesso cerimoniale della morte si inseriva anche il pranzo mortuario, su una tavola spoglia, con minestra di ceci o, in alcuni villaggi, di lasagne, e lesso di carne. I ceci erano chicchi simbolici della vita che continua oltre la morte; ugualmente il pane, che veniva fatto subito dopo il decesso, poiché indicava la vita nuova e il trionfo sulla morte. Il pane assumeva forme tonde come la piada o la tigella, sulla quale venivano stilizzati simboli solari che nel mondo precristiano erano emblemi della fecondità e della rigenerazione. Verso la fine di giugno, nei giorni della mietitura del grano e della "seganda dei fieni" un grande, ininterrotto pranzo rituale veniva accompagnato da un'esplosione di vitalità e di gioia di vivere, in un'atmosfera di eccitata sensualità. Il primo ciclo dei grandi raccolti estivi terminava, dunque, con una concitata festa di solstizio, nel giorno di San Giovanni Battista, Guazza, momento orgiastico secondo il calendario agrario. Giornate come queste erano, comunque, assolutamente eccezionali: la quotidianità era costituita dal paiolo che bolliva e dalle ceneri sotto le quali si cuoceva  pane (pan cot sotta la sandra). Per "secondo", quando c'era, si intingeva abbondante pane negli umidi (il tocc emiliano-veneto). Inoltre le carestie e la fame erano un'abituale realtà e, in mancanza di meglio si sacrificavano animali decrepiti spesso immangiabili. 

In una Cronaca (1544) dell'Appennino emiliano si legge di una famiglia, vinta dalla fame, che uccide l'asina di 26 anni e ne mangia "la testa, le budella, il fidigo". Similmente, la “Pratica agraria del Battana” ricorda che nel '700, fortunato era chi poteva "aver pan di ghiande e di fave", mentre altri erano ridotti a "pascolarsi nel verno di radici d'erbe" o "macinavano sementi di viti e facevan pane". I villani si sono sempre nutriti con pane di cereali inferiori come l'orzo, la segale, l'avena, il miglio la spelta, mentre ai cittadini era riservato quello di grano. Il consumo del pane di mistura è testimoniato fin verso la metà dell'ottocento, quando esce a Modena l'istruzione di P. G. Grimelli : “Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino”. Vi si legge: "Le farine specialmente dei cereali minori, commiste alle patate fresche o lessate sono acconcie ed opportune..." Le stesse ghiande bollite e ribollite con farina di formentone o di fava si prestavano alla confezione di una buona e nutritiva polenta e minestra.

Nei "giorni più lunghi" - come li chiamava Bertoldo - quelli della fame e della carestia, loglio, radici, cardi, foglie varie, marruca cercavano di ingannare i morsi del ventre vuoto. Scriveva nel 1602 il canonico G. B. Segni nel suo Trattato: "Di segatura sottile d'arbori giovani, come peri, meli, ceriegi e scorze loro in forno e polverizzate... con gramigna, rape e finocchio fermentato si compone una specie di pane che, essendo ben cotto, sostenta i poveri... Di sementi coltivanti, seccati e polverizzati , di castagne, di giande, di farina di ogni sorta di piante e di legumi... si cava una sorta di pane..." Il mais veniva citato dallo stesso Segni come curiosità di cui aveva avuto notizie da una fonte libresca. La fava, oltre che cibo per le bestie, serviva ai contadini come minestra, così come la polenta bianchiccia di cereali inferiori (come quella grigia di grano saraceno) che soltanto nel corso del XVIII secolo verrà soppiantata a poco a poco dalla polenta gialla di formentone. Importante era anche il miglio con il quale si preparavano anche gli gnocchi (o "strozzapreti"). Dal pane, elemento primario e fondamentale si ricavavano anche minestre e zuppe come il "pancotto", la "tritura" e i "passatelli". Le minestre e i dolci pasquali erano ricchi di uova, perché l'uovo era ritenuto simbolo di rinascita, di vita aurorale, nucleo stesso della vita perennemente rinnovatesi. Il Natale non aveva nel mondo contadino la stessa importanza della Pasqua: era una festa solstiziale vissuta nella notte come momento magico dedicato ai presagi attinti alla cenere del grande ciocco (zoc); la minestra era costituita da cappelletti cotti nel brodo di cappone e composta di "ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolta in pasta, detta sfoglia di lasagne" (M. Placucci). L'erbazzone, molto diffuso nel modenese e nel reggiano, ripropone ancor oggi l'antica dialettica dolce/salato: si tratta di una torta di spinaci e bietole condita con lardo e formaggio cotta al forno avvolta da una pasta-foglia, molto affine alla "torta di bietole fatta preparare da Bertoldo a sua madre per il re. 

Quasi scomparso è il "sapore" savor, ridottissimo l'uso della Saba, concentrato di mosto bollito usato nelle frittelle carnevalesche; in declino i sughi, vanto della cucina emiliana, a base di mosto bollito e di fior di farina o di mais. La zucca conosceva nella cucina contadina una gamma molto estesa di utilizzazioni: nella minestra (caplett ed zoca), come condimento alla polenta, oppure messa in frittata sulla graticola o al forno. Dopo l'introduzione in Europa delle nuove piante alimentari importate dall'America, la cucina contadina si andò modificando con grande celerità: pressoché scomparsi gli uomini dei campi, spezzati i loro rituali sociali, spenti i forni nei casolari abbandonati, i paioli buttati alle ortiche, l'alluminio ha preso il posto del rame, la bombola a gas ha sostituito il focolare, la legna e la carbonella. Nell'ottocento la polenta, da bianchiccia o cenerina, diventa gialla: il consumo di mais però non è uniforme in tutta la regione: molto forte nell'Emilia del nord, nettamente inferiore in Romagna. La geografia alimentare va rapportata alla geografia sociale: già l’Inchiesta Agraria Jacini sottolineava che "i tipi di vitto cambiano colla diversità dei luoghi e delle classi, secondo la rispettiva loro forza economica". Seguendo la traccia dell’Inchiesta si può dire che nel parmense l’alimentazione "sembra sufficiente per i coloni, non per i braccianti... granoturco in polenta, minestra, erbaggi, legumi, poca carne e poco vino"; in montagna "legumi, castagne e patate, spariscono il pane puro e il vino". Anche nel circondario di Reggio Emilia le condizioni alimentari sono le stesse e i regimi alimentari rispecchiano le diversità fra le categorie sociali: per il colono agiato pane e minestra, e ogni otto giorni carne e vino schietto; per il colono meno agiato polenta quasi tutto l’anno con patate e fagioli; per il bracciante giornaliero sempre polenta e spesso senza condimento, e acqua pura "A la mateìna far clazion / aqua 'd foss e pan tiron" si cantava. 

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