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LA CUCINA D’UNA VOLTA
Il
gran focolare della cucina era il centro della vita familiare. Di
mattino presto (non ci si vedeva ancora) la rezdora toglieva le ceneri
dal camino e rinnovava la carica di legna che accendeva col “sufiatt”.
Appendeva alla catena una pentola d’acqua e sistemava un pentolino di
latte, su un piccolo treppiede, per la colazione degli uomini che si
erano già alzati e avevano preparato le bestie. Le grosse fette di pane
andavano a tuffarsi nelle enormi scodelle di caffè (matto) e latte. I
mobili della cucina erano pochi, lo stretto indispensabile. Si usavano
stipetti e vetrine a muro con una tenda per le suppellettili, mentre il
pane (settimanale) si conservava nella “panareina” con la farina. I
formaggi o gli insaccati avviati si tenevano dentro una gabbia di rete
metallica a trama fitta per difenderli dai topi. Il resto sale,
zucchero, olio era in vista su ripiani.
Nelle famiglie numerose la
dispensa (mobile o credenza a muro con serratura) era tenuta chiusa a
chiave per ovvi motivi. In cantina si teneva il vino e tutto quello che
si conservava fuori dai raggi solari: carne salata, burro e uova in
calce per il periodo invernale. Padelle e pentole in rame erano appese
sul lavatoio o al muro. Nella casa più arcaica il focolare era ancora
al centro del locale e in questo caso la stanza n’era talmente
annerita che solo in alcune ore centrali della giornata ci si vedeva. La
cucina di regola andava imbiancata tutti gli anni, ma c’era anche chi
la imbiancava direttamente di grigio, così si vedeva meno il fumo.
Nelle case più ricche i camini erano delle vere e proprie officine con
saliscendi ed altre diavolerie. Dal 1300 (data a cui si fa ascendere il
camino moderno) questa fu la soluzione migliore, anche se scaldava
l’ambiente solo nelle immediate vicinanze. Per scaldare le altre
stanze chi se lo poteva permettere installava un camino in ogni stanza,
altrimenti si usavano pericolosi bracieri che mangiavano l'ossigeno.
Quando il processo sinergico
fra carbone e ferro, portò alla produzione di ghisa a buon prezzo,
iniziarono a diffondersi le cucine dette “economiche” dai modelli più
primitivi (1780) a quelle chiuse del 1840. Il combustibile ideale per
queste cucine era il carbon coke o di legna che già da secoli si
produceva per le fonderie. All’inizio le cucine economiche erano
sistemate dentro l'ex camino. Con il calore instradato all’interno
della stufa, si perfezionò anche una camera di cottura. Il forno in
casa permetteva di cuocere autonomamente e senza disagi proprie pietanze
(almeno alcune). Con i tubi di scarico della cucina economica si
potevano raggiungere anche angoli dell’ambiente mai riscaldati fino ad
allora. Molti ora potevano permettersi a piano terra un pavimento in
cotto (mattone) più pratico ed igienico di quello in terra
battuta. Le pentole, con la cucina economica d’ultima generazione, non
erano più a contatto col fuoco e non annerivano. Si poteva regolare la
fiamma per un minor consumo e/o migliore cottura. Nella serpentina di
dispersione aveva trovato posto anche una piccola caldaia per l’acqua
calda. L’acqua calda era un gran bel progresso, specie nelle mattine
invernali quando per lavarsi bisognava spaccare il ghiaccio della
brocca. Questo tipo di cucina economica, nonostante l’avvento del gas
(1880), continuò a sopravvivere nelle campagne e in tutti quei luoghi
che solo in seguito furono allacciati. Il Gas, detto di città, già
regolarmente distribuito per l’illuminazione pubblica dal 1840 (era un
sottoprodotto delle cokerie), poteva raggiungere anche le case private e
i locali pubblici. Le stufe a gas erano più contenute, per ambienti
divenuti più piccoli, e la produzione d’acqua calda e riscaldamento
aveva preso già una strada separata. Cominciava a diffondersi nelle
abitazioni collettive (condomini) della media e piccola borghesia il
termosifone. L’abitazione collettiva era una nuova diavoleria del
progresso, a volte era il padrone stesso della fabbrica a costruirla per
metterci dentro i suoi dipendenti ex contadini. La metratura non era
molta ma il vantaggio di stare in città non era poi indifferente.
C’erano svaghi, scuole, ospedali ed altro. Del resto le città
crescevano a dismisura, i centri storici, le nuove urbanizzazioni
vedevano crescere in altezza anche bei palazzi signorili con altre
finiture s’intende. Il faticoso lavoro dei campi, con i suoi pasti
ipercalorici che seguivano le stagioni, continuava ad essere l’impiego
lavorativo prevalente. Gli orari della giornata erano scanditi, dalla
colazione del mattino, molto anticipata a seconda delle stagioni, poi da
quella di metà mattina che corrisponderebbe ora a quella d’un
impiegato. A mezzogiorno s'era di nuovo tutti a casa dove si consumava
il pranzo o almeno si cercava di metterlo assieme. La cena della sera,
arrivava molto presto prima dell’imbrunire e spesso era costituita da
sola polenta. Nei mesi invernali, quando il lavoro dei campi veniva
sospeso, tutta la vita del cortile si riversava nella stalla. Dopo aver
rigovernato la casa e le bestie, le donne si dedicavano ai lavori
femminili: filavano la canapa, la lana, cucivano, aggiustavano,
ricamavano, lavoravano ai ferri (calze e scialli). Gli uomini, che
durante il giorno avevano riparato attrezzi, preparato il foraggio per
gli animali, spalato neve e quant’altro ci fosse da fare, quando la
luce affievoliva, raggiungevano le donne e i bambini nella stalla, dove
tutte le sere veniva recitato il rosario. Era il momento magico: dalle
labbra dei vecchi, tutti riuniti intorno al lume ad olio, nel tepore
della stalla, uscivano racconti di streghe, di maghi, di ricchezze e i
grandi romanzi. Un angolo della narrazione era sempre riservato
alla Storia Sacra e alla storia del paese. I piccoli così, a bocca
aperta, imparavano quelle che erano le basi della loro formazione
cristiana, contadina e civile. Era una "scuola" veramente
ricca e magica. Questi incontri si dicevano “andare a vegg” e
l’usanza era anche quella di sere prestabilite da l’una o l’altra
famiglia in uno scambio vicendevole e solidale. La domenica pomeriggio
si trascorreva giocando a tombola, unico vizio concesso ai più.
IL
MANGIARE
Il
progresso aveva portato concimi azotati, con maggiori rese e più beni a
disposizione, ma col calo della mortalità infantile il numero dei
contadini tendeva a crescere. Le diavolerie meccaniche e tecnologiche
contribuiranno più avanti al sovrappiù e alla conseguente emigrazione.
L’industria italiana a fine 800 non era in grado, per mancanza di
capitali, di assorbire l’eccedenza che si liberava dalle campagne,
specie nel sud. Il commercio (mercato libero) introduceva in Europa
derrate a prezzi più bassi delle nostre. Arrivavano anche quei generi
che per svariati motivi erano sempre stati fuori dal consumo abituale.
Il caffè buono, i dadi per brodo, la cioccolata, la nostra frutta
“esotica” del sud, etc... Le calorie medie che un lavoratore doveva
ingerire per tenere un buon tono fisico erano dalle 3 alle 4.000 (oggi
più che dimezzate) a cui mancavano sempre, per cronica carenza,
le proteine animali dirette. La parte calorica era sostenuta da grassi
animali (vedi maiale, lardo e strutto) o vegetali, pane e farinacei
(quasi un kilo a testa a giorno) e zuccheri (miele-frutta). Le mucche
erano allevate per il latte e la riproduzione e solo dopo anni
finivano alla
macellazione invariabilmente in lessi e stufati. Il vino non era
per tutti, poiché solo il contadino e i signori potevano permettersi di
tenere una cantina propria. Il vino oltre che bevanda era considerato
cibo per le calorie, zuccheri, che apportava. Le qualità variavano
moltissimo; dal comune giornaliero detto anche “Puntalone” a quello
buono delle ricorrenze. La maggior parte d’operai e braccianti non
avevano infatti la somma da anticipare per l’acquisto dell’annata e
si limitavano alle piccole scorte in bottiglieria od osteria. Il giorno
di paga, in città, le mogli si presentavano davanti al cancello di
fabbrica, altrimenti il marito prima d’arrivare a casa s’era già
bevuto tutto il salario !!!. Andando indietro nel tempo si può
osservare che il menù era ripetitivo e prevalentemente costituito da
zuppe di verdura e legumi in cui veniva “affogato” il pane,
condimento poco, frutta di stagione, latticini (molto meno importanti e
presenti d’adesso) e quando capitava, animali da cortile od altro a
seconda delle zone geografiche e climatiche (es. mais in zone temperate,
patate in zone fredde etc).
La pasta asciutta, all’uovo o senza, è
una conquista post unitaria anche se preesistente, in forme molto
diverse dalle attuali, su gran parte dell’Italia. Le paste si
dividevano genericamente in lasagne, tutte quelle spianate da cui poi le
tagliatelle (al nord grano tenero) e quelle stirate poi al torchio
(bucate) dette maccheroni, e spaghetti quando si
assottigliano (grano duro al sud). La dieta mediterranea, oggi tanto
celebrata e mitizzata, era a tutti gli effetti una dieta (tirare la
cinghia). Tra la fine dell'800 e gli inizi del 900 la situazione
alimentare di molta parte del nostro Paese era abbastanza critica al
confronto con quella degli altri europei. Prima ancora di mangiare poco
e male, quello che si guadagnava veniva speso quasi tutto per comprare
alimentari di prima necessità. Nel 1880 gli italiani spendevano in
media l'80% dello stipendio per il cibo. La componente principale
dell'alimentazione, a quest’epoca, era la farina prevalentemente di
granturco o di cereali inferiori, perché il frumento era riservato al
consumo dei ceti urbani benestanti (pane bianco). Di farina di granturco
era fatta la polenta, che certo saziava gli stomaci ma che, costituendo
l'unica fonte di sostentamento, facilitava il diffondersi della
pellagra, malattia come altre del monofagismo. Sempre a base di farina
era il pane, che si produceva e consumava in forme e miscele diverse:
miscela di segale, granturco e miglio era quello della pianura padana,
con farina di frumento e crusca quello Toscano, con aggiunta di farina
di ghiande quello dell'Appennino marchigiano, senza contare le farine di
castagne. Al pane però si accompagnava sempre poco, troppo poco:
qualche legume, fagioli, fave, verze e cavoli e qualche raro prodotto
della pastorizia. Ancora sul finire del secolo era raro il consumo di
patate considerato "…quel cibo maledetto che si nasconde nel
ventre della terra" retaggio di superstizioni. Anche il consumo di
riso era limitato alla pianura Padana con il contrappeso che la
popolazione soffriva di scorbuto, causato da carenza di vitamina C:
l’abbondanza d’acqua, necessaria alla pianta da riso, faceva marcire
le radici d’ortaggi e frutta. Tra gli altri alimenti, rare erano pure
le uova, destinate per la maggior parte al mercato. Passava l’omino
delle uova (uvarol) che aveva tutte le volte il suo prezzo, prendere o
lasciare. Poca era la carne, anzi pochissima dovremmo dire, destinata
alle occasioni di festa o a sostenere il malato durante una lunga
convalescenza.
Proprio il consumo di carne, ambito, desiderato,
immaginato per le sue virtù proteiche e nutritive, costituì il vero
fattore di novità per gli emigranti italiani di fine Ottocento e inizio
Novecento.
Questa
ad esempio è la tabella delle razioni giornaliere del soldato
dell’Esercito Italiano (considerate buone) dell’anno 1870 in grammi.
Il pane aveva un aggettivo significativo. Si chiamava pane da munizione.
In effetti i 750 grammi entravano dappertutto, colazione, pranzo, cena.
La carne a testimonianza generale era di pessima qualità. Anche
insaccati e scatolame non destavano miglior entusiasmo.
pane
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carne
di bue
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riso
o pasta
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lardo
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maiale
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formaggio
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liquore
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vino
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zucchero
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caffè
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750
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220
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225
|
20
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Distribuzioni
straordinarie
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250
|
15
|
10
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DIARIO
(Brianza)
Quando anche ai contadini
viene data l’opportunità di acquistare il loro pezzo di terreno,
l'alimentazione diventa più varia e la vita meno dura. Le case, che si
aprivano allora nel cortile, erano composte d’una grande stanza al
piano terra. Il pavimento era di mattoni. C'era un gran focolare dove si
cucinava con pentole di rame stagnato. La camera da letto era al piano
superiore e vi s'accedeva mediante la scala esterna comune. Il letto
aveva il materasso di piume d'oca, che appoggiava direttamente su un
gran sacco riempito di foglie di granoturco. Le lenzuola e molta
biancheria intima erano cucite con pezze di tessuto che le donne di casa
filavano personalmente con le fibre di canapa o lino. In una camera vi
dormiva tutta la famiglia, che spesso era composta d’otto o più
persone, sistemate in grandi letti matrimoniali. I mobili consistevano
in un grande comò, una cassapanca e un porta catino con relativa brocca
per l’igiene. Durante la notte non si usciva per utilizzare il
gabinetto, spesso staccato dal fabbricato principale, ma ci si serviva
dei vasi da notte (smaltati o in ceramica), che la mattina venivano
svuotati. L'alimentazione era molto povera. Per colazione, una zuppa di
verdura (patate e cavoli con un po' di lardo) oppure latte con pane di
segale fatto in casa e portato al forno per la cottura una o due volte
la settimana. Il pranzo consisteva in una scodella di minestrone, di
riso o di pasta ed eventualmente una fetta di pane nero. La cena era una
scodella di "cagliata" cioè latte lasciato avariare all'aria
per qualche giorno: lo strato denso della panna veniva raccolto per
farne burro e formaggi. Il siero veniva utilizzato come cena. Dopo
l'uccisione del maiale, si cucinavano cotenne e verze che si
accompagnavano alla polenta: ed era un giorno di festa. I contadini non
mangiavano le uova, il burro e i polli di loro produzione, ma li
vendevano ai benestanti di Milano. I bambini piccoli venivano nutriti
con latte materno il più possibile. Lo svezzamento veniva fatto con
"pappine" a base di latte, pane bianco e zucchero. Spesso le
neomamme, per guadagnare qualche soldo, si prestavano ad allattare oltre
al proprio bambino, anche i figli di benestanti milanesi. Capitava
allora che questo "estraneo" si aggiungesse alla famiglia e
vivesse in campagna nella casa della balia e venisse curato più e
meglio degli altri piccoli suoi coetanei. Il momento più socializzante
era proprio quello dei pasti che venivano consumati fuori casa. Ognuno
in famiglia, aveva la propria scodella (della dimensione adatta all'età
e al lavoro) che si portava o sotto il porticato o sotto il gelso
chiacchierando con gli altri della corte. |
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