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LA CUCINA DI
FRATTA: Confessioni d’un
italiano di Ippolito Nievo
Bisogna andare
ad esplorare il castello di Colloredo per trovare la Cucina di
Fratta. Fratta non è Colloredo, il nome è quello di un altro antico
castello scomparso 250 anni fa. Ippolito Nievo lo vide già diroccato, usò
soltanto il nome del luogo che è vicino a Portogruaro. Il disegno però
lo prese a Colloredo, per eternare nelle "Confessioni di un
italiano" una cucina acherontica, settecentesca, che intravide sotto
le arcate buie del castello dove abitava. Già allora questo leggendario
focolare era seminascosto nei sotterranei del castello. Io vissi per molti
anni, un secolo dopo lui, nella stessa dimora, abitai la stessa camera e
scrissi dove lui scrisse. Così tentai il recupero della "Cucina di
Fratta", nel luogo dove lui l'aveva disegnata ma forse mai vista
fisicamente. Scavai, sprofondando lentamente ad un piano dove affioravano
resti di piedritti, vetri, vasi, alari. E con l'aiuto dell'archeologo
Vinicio Tomadin e dei suoi collaboratori, portammo alla superficie la
struttura di un focolare secentesco, almeno così è l'impianto, forse in
seguito allargato a cucina del 700.
Stanislao
Nievo
Ippolito Nievo nacque a Padova il 30 novembre 1831, figlio di Antonio,
avvocato di nobili origini mantovane, e di Adele Marin, discendente dai
Colloredo di Mont’Albano nel Friuli. Studia a Verona, dove il padre si è
trasferito e nel 1847, superati gli esami, torna nella casa di famiglia a
Mantova. A Mantova Nievo partecipa al tentativo insurrezionale del 1848,
fallito il quale, lascia deluso la città insieme all’amico Attilio Magri.
Nel 1852, dopo la laurea a Pavia, inizia infatti la sua attività di
pubblicista, che proseguirà sempre accanto al lavoro letterario. Nel 1854
esce presso l’editore Vendrame di Udine il primo volumetto dei Versi,
raccolta di poesie pubblicate in precedenza sulla rivista «L’Alchimista
friulano». Nello stesso anno Nievo esordisce anche come drammaturgo: viene
rappresentato a Padova, in verità con scarso successo, il suo dramma Gli
ultimi giorni di Galileo Galilei. Unitosi alle truppe garibaldine, il 5
maggio del 1860, Nievo salpa da Quarto a bordo del Lombardo con Nino Bixio
e Giuseppe Cesare Abba; si distinguerà a Calatafimi e a Palermo, e
Garibaldi gli affiderà la viceintendenza generale della spedizione.
Tornato al Nord tra il 1860 e il 1861, a febbraio Ippolito riceve l’ordine
di tornare a Palermo per raccogliere la documentazione necessaria a
smentire una campagna di dicerie calunniose montata contro
l’amministrazione garibaldina. Il 4 marzo si imbarca sul piroscafo Ercole,
di ritorno verso il continente: la nave si inabisserà nel Tirreno, al
largo di Napoli. Il relitto non verrà mai ritrovato.
Io
vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il quale adesso è nulla
più d'un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado sassi e
rottami per le fonde dei gelsi; ma l'era a quei tempi un gran caseggiato
con torri e torricelle, un gran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia
e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lemene e il
Tagliamento. In tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di veder
fabbrica che disegnasse sul terreno una piú bizzarra figura, né che
avesse spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far meglio contenti
tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa dei venti. Gli angoli poi
erano combinati con sí ardita fantasia, che non n'avea uno che vantasse
il suo compagno; sicché ad architettarli o non s'era adoperata la
squadra, o vi erano stancate tutte quelle che ingombrano lo studio d'un
ingegnere…Un’altra anomalia di quel fabbricato era la moltitudine dei
fumaiuoli; i quali alla lontana gli davano l'aspetto d'una scacchiera a
mezza partita e certo se gli antichi signori contavano un solo armigero
per camino, quello doveva essere il castello meglio guernito della
Cristianità. …perfino il campanile della cappella portava schiacciata
la pigna dai ripetuti saluti del fulmine. Ma la perseveranza va in qualche
modo gratificata, e siccome non mugolava mai un temporale senzaché la
chioccia campanella del castello non gli desse il benarrivato, cosí era
suo dovere il rendergli cortesia con qualche saetta: i villani dicevano
che, siccome lo abitava il diavolo, cosí di tratto in tratto gli veniva
qualche visita de' suoi buoni compagni; i padroni del sito avvezzi a veder
colpito solamente il campanile, s'erano accostumati a crederlo una specie
di parafulmine, e cosí volentieri lo abbandonavano all'ira celeste, purché
ne andassero salve le tettoie dei granai e la gran cappa del camino di
cucina. Ma eccoci giunti ad un punto che richiederebbe di per sé un'assai
lunga descrizione….Bastivi il dire che
per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le piramidi d'Egitto,
la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che
abbiano mai gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di San Pietro son qualche cosa, ma
non hanno di gran lunga l'uguale impronta di grandezza e di solidità: un
che di simile non mi ricorda averlo veduto altro che nella Mole Adriana;
benché mutata in Castel Sant'Angelo la sembri ora di molto impiccolita.
La cucina di Fratta era un vasto locale, d'un indefinito numero di lati
molto diversi in grandezza, il quale s'alzava verso il cielo come una
cupola e si sprofondava dentro terra piú d'una voragine: oscuro anzi nero
di una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni
diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde e delle guastade appese
ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze, da armadi
colossali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della
notte da una quantità incognita di gatti bigi e neri, che gli davano
figura d'un laboratorio di streghe. - Tuttociò per la cucina. - Ma nel
canto piú buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro
acherontico, una caverna ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre
erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre
finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e
vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là
sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di
figure gravi arcigne e sonnolente. Quello era il focolare e la curia
domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l'Avemaria della
sera, ed era cessato il brontolio dell'Angelus Domini, la scena cambiava
ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della
luce. La vecchia cuoca accendeva quattro lampade ad un solo lucignolo; due
ne appendeva sotto la cappa del focolare, e due ai lati d'una Madonna di
Loreto. Percoteva poi ben bene con un enorme attizzatoio i tizzoni che si
erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra una bracciata di rovi e di
ginepro. Le lampade si rimandavano l'una all'altra il loro chiarore
tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante e s'ergeva a
spire vorticose fino alla spranga trasversale di due alari giganteschi
borchiati di ottone, e gli abitanti serali della cucina scoprivano alla
luce le loro diverse figure.
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