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Testimonianze di storia locale
Il diario di Tomio Agostino

Nel 1891 avevo sette anni, essendo nato nel 1884 a Revine, mi chiamo Tomio Agostino di Lorenzo detto Popi, ho frequentato la terza classe elementare a Revine, era insegnante il maestro Favero Domenico e era Sindaco Antonio Sonego……….
Grande miseria e molta fame, le famiglie erano numerose, rari i genitori che avessero meno di 5-6 figli, molti ne avevano 10-15 figli e anche 18, per esempio mia nonna Fraretta madre di mio padre ne ha partoriti 18, ma la mortalità infantile era tanto grande che, solo i più forti sopravvivevano, a mia nonna ne sono sopravvissuti solo cinque , e cioè tre maschi e due femmine. Così anche nelle altre famiglie, pensate che nemmeno polenta ce n’era abbastanza, il pane era una cosa molto rara, solo un malato, ma di buona famiglia, poteva avere un panettino per farsi una zuppa con l’olio e il pepe, a Revine c’era un solo forno e faceva solo 5 kg di pane bianco e 10 kg di pane misto con farina di mais cioè farina da polenta.
Ricordo che tutti i venerdì il Parroco di Revine Don Demetrio Del Zotto faceva una grande polenta e la distribuiva nel cortile della canonica che guarda sulla piazza, agli scolari più poveri che a mezzogiorno uscivano di scuola e si mettevano in fila nel cortile ognuno riceveva una fetta di polenta e due fichi secchi o un pezzettino di arringa salata che divorava con avidità…

Quanta miseria e quanta fame per merenda i ragazzi ed anche i vecchi ricevevano 20-25 castagne o 3-4 patate così per cena. Le famiglie più ricche erano i Frare, Bernardi, Rossi, figlia di Antonio Rossi era mia moglie Attilia, morta nel 1918 aveva 30 anni. E solo queste famiglie avevano polenta abbastanza e potevano allevare il maiale che era una cosa rara e da grandi Signori. A Revine vi era una specie di macelleria, era di Giovanni Chiarel, Malte, Titta Grava, Picchet e soci, che, una volta la settimana macellavano un a capra e una pecora, mucche solo se qualcuna si ammazzava o se si rompeva una gamba in montagna, la carne costava 30-40 centesimi il Kg. Ed il vino costava, 30 centesimo il litro in osteria e 8-10 centesimi dai privati. Vino non ce n’era tanto perché le viti non erano coltivate ma solo raminghe sui pioppi o altri alberi, non si irrigavano con il solfato di rame, ma la piccola produzione era genuina e naturale. Ricordo quando fu introdotto il solfato di rame, verderame, tutti erano restii nell’applicarlo però visto che chi lo applicava faceva buona vendemmia un po’ per anno in 5-6 anni tutti lo usavano. Ripeto grande miseria, lavori non ce n’erano, un operaio che ogni tanto fosse stato assunto a giornata a zappare o falciare l’erba lavorava 12-14 ore e riceveva il vitto e 80 centesimi al giorno e ringraziava Iddio che lo chiamassero.
I pasti erano così: mattina niente, alle ore 11 ½ una donna o un ragazzo portava il pranzo nel campo o in montagna che consisteva in polenta e formaggio magro oppure una fetta di salame e per bere solo acqua, fortunati quelli che ricevevano un po’ di vino “piccolo” cioè mischiato con l’acqua all’atto della fermentazione.
L’emigrazione ha alleviato un po’ la miseria, i primi emigrarono in Transilvania-Romania. Mio padre era un provetto capo – assistente – per la costruzione di ferrovie e strade, ponti, gallerie ecc… Ha avuto la fortuna di emigrare in Austria a Vienna rimanendovi fino a 22 anni di età imparando la lingua tedesca, era l’unico a Revine che parlava il tedesco perciò ha avuta la fortuna di far subito l’assistente e portava con sé 40/50 operai in Svizzera. Gli operai si fermavano 8/9 mesi e risparmiavano circa 250/300 lire, cioè tutto quel tempo per così poche lire, però la lira costava molto, paragonate per esempio con 10-12 lire si comprava un sacco di granoturco, la carne costava 30-40 centesimi il kg. il vino dai produttori, 8/10 cent. il litro, il formaggio di montagna 10/15 centesimi il kg. un paio di scarpe di lusso 2.50/3.00 lire il paio. Mio padre, ricordo, che ha comperato una mucca sul mercato a Vittorio e l’ha pagata 75 lire, il mercato delle bestie era nella piazza, di fronte all’attuale Ospitale, ogni lunedì.
Sappiate che non vi era nessun mezzo di trasporto, sempre e dappertutto a piedi niente biciclette, niente motori, automobili, aeroplani, ecc. nemmeno in sogno.Eppure, malgrado tanta miseria, carestia e molta fame, si viveva contenti e beati, Revine sembrava una sola famiglia, figuratevi che gli operai giovani e vecchi, prima di partire per l’estero andavano in quasi tutte le famiglie a salutare e complimentare e quando ritornavano erano complimenti e salute a tutti, oggigiorno invece – nel 1963 – si parte e si ritorna senza che nessuno ne sappia. Non è più quell’attaccamento, quella cordialità di allora, adesso egoismo, invidia, anche fra i più stretti parenti. Tutti diffidenti e maligni. Dovete sapere che a Revine erano occupate anche le case più vecchie e brutte, su nei Piai pure tutto occupato, eravamo quasi duemila anime. Quando in una famiglia vi era 2-3 sacchi di granoturco e una o due forme di formaggio magro e duro – detto Pincion – si era contenti e pacifici per tutto l’inverno, formaggio, poina, renghe e scopettoni era il mangiare di quei tempi, anche baccalà il venerdì. Carne molto poca e rarissime volte, almeno due volte al giorno polenta calda. Non vi erano cucine economiche ma solo fogoler – larin – con catena per appendere la caldaia o stagnada per polenta oppure minestra di fagioli condita con olio e cipolla fritta ecco tutto il mangiare di allora. Solo i più ricchi potevano avere un maiale, e solo 5-6 famiglie in tutta Revine. Queste sono verità sacrosante. I più poveri, polenta e fighet – ficchi secchi – o un pezzetto d’aringa salata cotta sulle brace e non tutti polenta e sazietà. Erano anni di grande miseria e poca civiltà, pensate che quasi nessuno si sedeva al tavolo quando mangiava, si versava la polenta, che si tagliava subito con un filo, e tutti i componenti della famiglia ne prendevano una fetta e un pezzetto di formaggio duro e magro, e se ne andava o nel cortile, o nella stalla dietro il fuoco e magari nella camera o sulla strada e la mangiavano così in piedi o camminando. Se qualche famiglia aveva la possibilità di avere, rare volte, un po’ di carne allora si andava addirittura col piattino sulla strada per farci vedere.
Quando ero ragazzetto, ricordo che c’era penuria di zolfanelli per accendere il fuoco, malgrado che un mazzetto di fiammiferi costasse solo un cent. di lire. Per risparmiare un fiammifero le vecchie donne e le più povere andavano ogni mattina da una famiglia vicina a domandare se aveva fuoco acceso, allora con una piccola paletta, vanghetta, si prendeva un po’ di brace che portava in casa sua la metteva sul focolaio e soffiando sulle braci e legna secca accendeva il fuoco. Di sera quelli che avevano gran fuoco fino a tardi lo coprivano con la cenere per poi al mattino seguente trovare ancora le brace accese sotto la cenere. Queste non sono balle, ma autentiche verità.
Un curioso particolare: mia nonna paterna si chiamava Frare Maria, andò balia da latte a Venezia circa nell'anno 1849 finito il servizio ritornò a casa dai suoi genitori, prima di partire le regalarono un mazzetto di zolfanelli che portò con se a Revine; si noti che accendevano il fuoco con l’acciarino, cioè  si batteva con un pezzo di ferro o acciaino su una pietra detta focaia o silice, le scintille che uscivano battendo accendevano un battufolo di stoppa o canapa così si accendeva il fuoco, mia nonna prese un fiammifero, lo accese e tutti a bocca aperta non credevano ai loro occhi, era un miracolo, un po’ per volta venne introdotto il fiammifero anche nei piccoli villaggi. Solo dopo la prima guerra mondiale 1915-1918 vennero in uso le cucine economiche, erano rozze di lamiere e foderate con mattoni all’interno, sopra la piastra di ghisa con due, tre buchi per le caldaie da polenta e altre, però non si fidavano a comperarle perché sul focolaio si poteva fare di più, si metteva, per esempio, vicino al fuoco la pignata fatta di terracotta che si faceva a Resera, anche mia nonna materna nativa di Resera sapeva farle. Lavoravano 12 ore al giorno e prendevano 70-80 centesimi al giorno. Naturalmente anche i viveri erano a  buon prezzo: vino 10 cent. pane 14, carne 40-50 cent. il kg. Le vecchiette ghiotte di caffè andavano in bottega e prendevano – 3 schei par sort e un panet – sarebbe 3 cent. di zucchero 3 di caffè e un pane con 10 cent. che erano fatti di rame con l’effige del Re, e si chiamava una pallanca che erano 5 centesimi pure in rame quelli da 20 erano in nichel quelli da una, due, dieci lire, erano in carta e la carta più grande era quella di lire cento, poi vi erano molti marenghi in oro che valevano 20 lire, e anche 5 lire in argento.

Oggi è il giorno di S. Nicolò, 1963 la tradizione vuole che porti tanti regali ai bambini, ebbene sapete ciò che portava S. Nicolò quando ero bambino io?. Ecco, si metteva un po’ di fieno o croste di polenta in una scarpa si metteva la scarpa sulla porta di camera, si andava presto a letto e il mattino seguente si trovava nella scarpa non più il fieno o croste, perché ci dicevano che l’ha mangiate l’asinello di S. Nicolò, ma si trovava 5-6 fichi secchi, qualche carruba, 8-10 noci, un po’ di nocciole, qualche castagna cotta, un pezzetto di mandorlato -  torrone – questo era tutto ma solo nelle famiglie più benestanti, nelle altre un po’ di castagne qualche noce e 2 mele ecco tutto vedete bambini come e in quale miseria eravamo noi tutti.

Si portava un po’ di fieno anche in casa dei santoli di Cresima o Battesimo, che preparavano pure qualche sorpresa ma sempre le solite frutta o un po’ di mandorlato, cioccolato non esisteva a quei tempi, - parlo del 1889 fino al 1914 – cioè prima della guerra del 1915-18.

Tratto dal testo "Revine Lago-Amministrazione Comunale 1975/1980" 

 

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