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IL
BUCATO E L’IGIENE - SAPONI E LISCIVE*
“Ogni
due mesi diventava
un’impresa accendere il fuoco della fornacella di pietra o Fugon, far
bollire secchi e secchi d’acqua dal pozzo (o dalla fonte anche
lontana) per il calderone di rame e fare il bucato. I mastelli di legno
andavano bagnati prima, affinché le doghe si rinsaldassero, poi la
biancheria vi era sistemata secondo i colori a strati. Quando l’acqua
bolliva vi si buttava la cenere del focolare, poi si rimestava con un
bastone questo liquido grigiastro denominato lisciva*. Questo composto
si riversava sulla biancheria avendo cura di interporre un riquadro di
tela grossolana che fungesse da filtro (la cenere non doveva venire a
contatto col bucato). Il
mastello, di forma troncoconica, posto su un cavalletto di legno a forma
di croce recava sulla base un foro chiuso da un grosso tappo di legno. Dopo
alcune ore si toglieva il tappo al mastello e tutta la lisciva
fuoriuscita si rimetteva nel pentolone aggiungendo altra acqua. Si
ribolliva il tutto e si riversava sulla biancheria. In genere questo
travaso si ripeteva almeno tre volte prima di lasciare il bucato in
ammollo (un’intera notte). Si usava coprire il mastello con assi e
sopra porre altri panni per impedire al " besmoi"( acqua +
lisciva ) di raffreddarsi rapidamente. Il mattino seguente si toglieva
nuovamente la lisciva dal mastello grande, la si metteva in un altro più
piccolo aggiungendovi acqua calda per i capi colorati. Sulle doghe si
poneva un’asse da lavare e mediante spazzole di saggina la massaia
strofinava e sbatteva i panni precedentemente insaponati col sapone (di
Marsiglia). Le donne, a due a due, con un paletto posto di traverso
sulle spalle (basto), trasportavano la biancheria al lavatoio pubblico o
al canale per procedere ad un lungo risciacquo. Al ritorno la biancheria
veniva posta a gocciolare ed infine distesa sui fili ad asciugare. Nella
bella stagione la "Bugheda" si stendeva sull’erba bagnata di
rugiada e la si esponeva all’azione sbiancante del sole o dentro casa
per l’ultimo atto che era la stiratura. “Tutto questo in ogni stagione, col caldo e col freddo.
“Pensare che c’erano donne che si offrivano per pochi soldi e
companatico per questi lavori…i polsi fasciati per evitare la
corrosione della lisciva, le mani gelate....” *I saponi una dura
conquista.
Per
2500 anni il lavaggio del corpo e dei panni è stato fatto trattando
empiricamente i grassi con le ceneri delle piante. Sarebbe stato
necessario aspettare la metà dell'800 per capire che il processo dava
luogo alla formazione di sali di potassio o di sodio (presenti nei
grassi) che si combinavano con la glicerina. Tali combinazioni si
chiamano saponi; si attribuisce la loro origine ai fenici e il nome
Marsiglia perché forse
importati da questo porto o qui fabbricati. Nell'acqua di mare, molto
ricca di sali di calcio, i saponi non lavano del tutto bene. Per fare il
sapone si partiva sempre dalla lisciva (forte, satura) bollendola con il
grasso, sia d’origine animale, che vegetale e addensandola con sale.
Grazia Furferi
(Calabria): Fare il sapone …… ecco che mia zia comincia a raccontare
di quanto lungo e faticoso era lavare i panni una volta, di come ogni
cosa che serviva allo scopo doveva essere preparata in casa. Si
cominciava dal sapone. Nelle famiglie tutto era importante, non si
buttava via niente. L’olio, per esempio, era prezioso sempre. Anche
quello fritto, andato a male od il fondo degli orci. Servivano per il
sapone. Questo olio di scarto veniva pesato e diluito per la metà del
suo peso, con acqua e versato in un recipiente di rame detto "Cardara"
che si metteva al fuoco sopra un tripode. Prima che cominciasse a
scaldarsi troppo, veniva aggiunta la soda nelle proporzioni d’un chilo
per ogni cinque d’olio e acqua. Con un lungo mestolo di legno o con un
manico di scopa, bisognava mescolare fino a quando alzando il mestolo
non filava. Era l'ora di levare il recipiente dal fuoco. Si mescolava
ancora per qualche tempo quindi si copriva e si lasciava finire di
rassodare fino al giorno dopo. A questo punto il sapone era pronto.
Veniva staccato dal recipiente e versato sopra un piano di legno,
quindi, servendosi d’un lungo coltello bagnato, tagliato in pezzi più o meno
regolari e messo in un posto arieggiato (la cantina o la soffitta) per
farlo seccare e mantenere per l'uso. Era il sapone per il bucato e in
molte famiglie anche per la pulizia personale e di casa. L’alternativa alla lisciva era quindi
la soda caustica che divenne a buon mercato solo alla fine del
settecento. Sui saponi spesso gravavano tasse o gabelle (tasse su merci
che si spostano da una città all’altra) che ne rendevano l’uso
elitario attenuato solo con l’introduzione di saponi industriali a metà
800. La capacità di farsi il sapone in casa era oltremodo utile in
tempo di guerra quando le materie prime sparivano. Nella Roma
dell’Ottocento i lavatoi (luoghi pubblici attrezzati per la lavatura
dei panni)si configuravano come spazi utilizzati prevalentemente dalle
donne (lavannare o bucataie), ma anche dagli uomini (lavandieri o
bucatai) che per mestiere lavavano i panni per tutti. Per pulire e
sbiancare il bucato veniva adoperata la lisciva, che era fabbricata in
casa, utilizzando acqua bollente e cenere di legna (ranno). La lisciva,
così come il sapone, realizzato utilizzando i grassi alimentari
residui, era uno dei pochi generi la cui produzione, fin dai primi anni
del ‘700, era libera da restrizioni e dunque chiunque poteva
provvedere autonomamente al proprio fabbisogno. Gli strumenti del
mestiere erano il sapone solido a pezzi, la cenere di legna, la tavola
da lavare, il colatoio (vaso di terracotta, forato in basso), il
mastello, il telo di canapa (ceneraccio), la brocca (broccuccia), la
conca, la caldaia, il fornello, il mestolo di metallo (cazza), il
bastone di legno biforcuto. Le
popolane raffigurate nel dipinto, abbigliate con il caratteristico
costume regionale con il copricapo a tovaglia, si recavano al lavatoio
portando in equilibrio sul capo il fagotto con i panni da lavare,
dimostrando una notevole abilità nell'incedere con il voluminoso peso
sulla testa. In passato nelle comunità agro-pastorali del Lazio la
tecnica, esclusivamente femminile, del portar pesi sulla testa (cariare)
era largamente praticata e ancora oggi sopravvive tra alcune donne, sopra i sessanta anni di età, che
abitano nelle comunità montane del basso Lazio. Il dipinto
è ambientato nel complesso monumentale di via del Nazareno dove le
acque condotte dall'Acquedotto Vergine affioravano in superficie.
L'acquedotto è l'unico, tra i più antichi, rimasto quasi inalterato
attraverso i secoli. In funzione fin dai tempi di Augusto, ancora oggi
fornisce acqua alle fontane di piazza.
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