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                                              De Bello Civili

 


Il De bello civili abbraccia gli avvenimenti degli anni 49 e 48 a.C. La vicenda ha inizio quando, nel gennaio del 49, vengono respinte dal senato le proposte di Cesare per un componimento pacifico della contesa con Pompeo. Si ordina a Cesare di abbandonare il comando delle legioni galliche e di rientrare a Roma come semplice cittadino, se intende porre la sua candidatura al consolato per l'anno successivo.
Dichiarato nemico della repubblica, Cesare marcia su Roma, mentre Pompeo, i consoli e gran parte dei senatori fuggono dalla Capitale, per imbarcarsi poi a Brindisi e trovare scampo a Durazzo. Cesare non giunge in tempo per bloccare l'avversario e passa in Spagna: a Ilerda sbaraglia un esercito pompeiano (l. I). Anche Marsiglia, che si era schierata dalla parte di Pompeo, cade in mano di Cesare; in Africa Curione, legato di Cesare subisce una dura sconfitta e viene ucciso (l. II). Nominato console, Cesare riprende la campagna contro Pompeo, sbarca in Epiro e assedia Durazzo. Ma Pompeo riesce a creare gravi difficoltà all'esercito avversario, forzando l'assedio. I due eserciti muovono quindi verso l'interno. La battaglia decisiva viene combattuta a Farsàlo in Tessaglia nel 48: Pompeo, nonostante la superiorità delle forze e la richezza delle risorse, è sconfitto, fugge in Egitto e qui viene ucciso (l. III).
Ai libri cesariani seguono tre operette anonime, il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, che narrano le vicende successive: la campagna d'Egitto del 47, quella d'Africa (battaglia di Tapso) del 46 e quella di Spagna (battaglia di Munda) del 45.

 

                                       (Testo/Traduzione)

 

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Libro I

Libro II

Libro III

 


Libro II

 
1

Mentre in Spagna avvengono questi fatti, il legato Caio Trebonio, che era
stato lasciato ad assediare Marsiglia, incomincia a fare condurre da due
parti verso la città un terrapieno e fare portare davanti ad essa vinee e
torri. Una parte era vicina al porto e ai cantieri navali, l'altra alla
porta per dove si entra provenendo dalla Gallia e dalla Spagna, presso
quel tratto di mare che tocca la foce del Rodano. Infatti Marsiglia è
bagnata dal mare quasi da tre lati della città; il quarto è quello che
offre accesso dalla parte di terra. Anche la parte di questo spazio che si
estende fino alla rocca della città, protetta dalla natura del luogo e da
una valle profondissima, necessita di un lungo e difficile assedio. Per
condurre a termine questi lavori C. Trebonio fa venire da tutta la
provincia un gran numero di giumenti e di uomini; dà ordine che siano
portati vimini e legname. Radunato ciò, fa costruire un terrapieno alto
ottanta piedi.

2
Ma tante erano in città, da molto tempo, le attrezzature belliche di ogni
tipo e tanto grande la moltitudine delle baliste che nessuna vinea, per
quanto coperta di vimini, poteva sostenere la loro violenza. Infatti travi
di dodici piedi, munite di punte di ferro e scagliate da enormi balestre,
si configgevano in terra dopo avere trapassato quattro ordini di graticci.
E così, congiungendo insieme travi dello spessore di un piede, si
costruivano gallerie, attraverso le quali si passava di mano in mano il
materiale per il terrapieno. Procedeva innanzi una testuggine di sessanta
piedi per spianare il terreno, costruita anch'essa di aste di legno molto
resistente e ricoperta di tutto ciò che poteva proteggere da pietre e
proiettili incendiari. Ma l'imponenza dei lavori, l'altezza del muro e
delle torri, la moltitudine delle macchine da guerra rallentavano tutto
l'andamento dell'assedio. Venivano anche fatte numerose incursioni fuori
della città da parte degli Albici e si cercava di appiccare il fuoco al
terrapieno e alle torri; i nostri soldati con facilità respingevano tali
tentativi e inoltre, infliggendo loro gravi perdite, ricacciavano in città
gli incursori.

3

Frattanto L. Nasidio, mandato da Pompeo in aiuto a L. Domizio e ai
Marsigliesi con una flotta di sedici navi, di cui poche corazzate,
attraversato lo stretto giunge con le navi a Messina, senza che Curione se
ne accorga o se lo aspetti; per l'improvviso terrore i capi e i senatori
fuggono dalla città ed egli porta via dai cantieri navali una nave nemica.
Aggiuntala alle altre sue, fa rotta verso Marsiglia e, di nascosto mandata
avanti una piccola nave, avvisa Domizio e i Marsigliesi del suo arrivo e
li esorta vivamente a combattere di nuovo contro la flotta di Bruto,
essendo venute in aiuto le sue forze.

4

I Marsigliesi, dopo la precedente sconfitta, avevano riparato le vecchie
navi, tratte fuori dagli arsenali nello stesso numero di quelle perdute, e
le avevano armate con grande cura (disponevano di un buon numero di
rematori e di comandanti); vi avevano aggiunto battelli da pesca che
avevano coperto per protezione, perché i rematori fossero al sicuro dal
getto dei proiettili; riempirono tutte queste imbarcazioni di saettatori e
di macchine da guerra. Allestita in tal modo la flotta, incitati dalle
preghiere e dal pianto di tutti, vecchi, madri e fanciulle, a venire in
aiuto alla città in un momento di estremo pericolo, s'imbarcano con non
meno coraggio e fiducia che nella precedente battaglia. Infatti per una
normale debolezza della natura umana avviene che in presenza di situazioni
insolite e sconosciute si abbia maggiore fiducia [e più fortemente si
tema]; allora accadde così; infatti l'arrivo di L. Nasidio aveva riempito
la città di grande speranza e di ardore. Approfittando di un vento
favorevole escono dal porto e giungono a Tauroento, che è una piazzaforte
dei Marsigliesi, presso Nasidio e qui dispongono le navi in ordine di
battaglia e di nuovo si rinsaldano nella volontà di combattere e discutono
i piani di battaglia. L'ala destra è assegnata ai Marsigliesi, quella
sinistra a Nasidio.

5

Verso il medesimo luogo si dirige Bruto, dopo avere incrementato il numero
delle navi. Infatti a quelle costruite ad Arles per ordine di Cesare aveva
aggiunto le sei navi prese ai Marsigliesi. E così esorta i suoi a
disprezzare da vinti quei nemici che avevano debellato quando erano
intatti nelle forze e, pieno di buona speranza e di coraggio, muove contro
di loro. Era facile dall'accampamento di Trebonio e da tutte le alture
vedere dentro la città tutta la gioventù che era ivi rimasta e tutti gli
anziani con i figli e le mogli nei luoghi pubblici, nei posti di guardia e
sulle mura tendere le mani al cielo o andare nei templi degli dèi
immortali e, prostrati davanti alle statue, chiedere loro la vittoria. E
fra tutti non vi era nessuno che non pensasse che il destino di tutti loro
dipendeva dall'esito di quella giornata. E infatti i giovani di nobile
nascita e i più ragguardevoli cittadini di ogni età, chiamati
nominatamente e pregati di imbarcarsi, erano saliti sulle navi; sapevano
bene che, se accadeva qualche disgrazia, non rimaneva loro nulla da
tentare; se invece risultavano vincitori, confidavano nella salvezza della
città grazie alle loro forze o ad aiuti esterni.

6

Attaccata battaglia, niente offuscò il valore dei Marsigliesi. Ma, memori
delle esortazioni che avevano ricevuto poco prima dai loro, combattevano
con tanto coraggio da sembrare di non potere avere in futuro nessun'altra
occasione per ripetere il tentativo, pensando che coloro che perdevano la
vita in battaglia precedevano di poco la sorte degli altri cittadini che,
una volta presa la città, avrebbero dovuto patire il medesimo destino di
guerra. E, poiché le nostri navi si erano a poco a poco allontanate le une
dalle altre, si presentava ai comandanti nemici l'occasione per mostrare
la loro abilità e l'agilità delle navi. E se talora i nostri, cogliendo il
momento opportuno, avevano abbordato una nave con ganci di ferro, i nemici
da ogni parte venivano in soccorso di chi si trovava in difficoltà. E
invero gli Albici, che si erano ad essi uniti, erano non inferiori nel
combattimento corpo a corpo e non molto lontani dal valore dei nostri. Nel
medesimo tempo la grande violenza dei dardi lanciati a distanza dalle navi
più piccole arrecava molte ferite ai nostri che venivano colpiti
all'improvviso, senza aspettarselo e mentre erano impegnati nel
combattimento. Due triremi, vista la nave di D. Bruto, che con facilità
poteva essere riconosciuta dall'insegna, l'avevano attaccata da due parti.
Ma Bruto, previsto l'attacco, forzò la velocità della nave sì da
precederle, pur se di poco. Quelle, lanciate a piena velocità, si
scontrarono tra di loro così violentemente da risentire entrambe in modo
grave dello scontro; anzi una, spezzatosi il rostro, si sfasciò
completamente. Alla vista di ciò, le navi della flotta di Bruto più
prossime attaccano quelle navi in difficoltà e in poco tempo le affondano
entrambe.

7

Ma le navi di Nasidio non furono di alcuna utilità e ben presto si
allontanarono dal combattimento; infatti né la vista della patria né
l'esortazione dei parenti li spingeva a fare fronte all'estremo pericolo
della vita. Perciò nessuna di quelle navi fu perduta; cinque navi della
flotta marsigliese furono affondate, quattro prese, una fuggì con le navi
di Nasidio, che si diressero tutte verso la Spagna Citeriore. Ma una delle
navi rimaste fu mandata a Marsiglia per portare questa notizia e, quando
già si avvicinava alla città, tutta la cittadinanza si precipitò per
sapere e, avuta la notizia, cadde in un così grande dolore che la città
sembrava essere stata conquistata dal nemico proprio in quel momento.
Tuttavia i Marsigliesi nondimeno cominciarono a completare gli ultimi
preparativi per la difesa della città.

8

I legionari, che erano impegnati nei lavori d'assedio sul lato destro,
capirono dalle continue sortite dei nemici che poteva essere loro di
grande aiuto, se avessero costruito lì da un lato sotto le mura una torre
a guisa di castello e di riparo. In un primo momento ne costruirono una
piccola e poco elevata contro gli attacchi improvvisi. In essa si
rifugiavano; da essa, se erano incalzati da un assalto più violento, si
difendevano; da essa si lanciavano a respingere e inseguire il nemico.
Questa torre era larga in ogni lato trenta piedi; lo spessore delle pareti
era di cinque piedi. In seguito invero, poiché in ogni cosa l'esperienza è
maestra, quando vi si aggiunge l'intelligenza dell'uomo, si capì che
poteva essere di grande utilità estenderla in altezza. In questo modo fu
fatto.

9

Quando l'altezza della torre giunse al primo piano, incastrarono le travi
del tavolato nelle pareti così che le estremità delle tavole venissero
protette dalla muratura esterna, affinché nulla sporgesse a cui il nemico
potesse appiccare il fuoco. Sopra questa travatura, per quanto lo
permetteva il riparo del pluteo e delle gallerie, continuarono la
costruzione con mattoni e sopra questo muro, non lontano dalle estremità
delle pareti, appoggiarono di traverso due travi su cui poggiare quella
travatura che doveva essere di tetto alla torre. E sopra quelle travi
posero perpendicolarmente dei travicelli che unirono con assi. Fecero
questi travicelli un po' più lunghi e sporgenti della parte esterna delle
pareti in modo che fosse possibile appendervi stuoie per difendersi dai
proiettili e respingerli, mentre sotto quel tavolato continuavano ad
essere costruite le pareti. Coprirono la parte superiore dell'impalcatura
con mattoni e fango perché il fuoco nemico non potesse essere di danno e
sopra vi gettarono imbottiture affinché i proiettili scagliati con le
macchine non rompessero la travatura o i sassi scagliati dalle catapulte
non sconnettessero i muri. Poi con funi d'ancora fecero tre stuoie lunghe
come le pareti della torre e larghe quattro piedi e, lasciandole pendere
intorno alla torre, le legarono alle travi che sporgevano, dalle tre parti
che davano sul nemico; questo era il solo genere di copertura
esperimentato in altre circostanze che non poteva essere trapassato né da
dardo né da proiettile. Quando invero quella parte della torre che era
stata terminata fu coperta e protetta da ogni tiro dei nemici, portarono
via i plutei per usarli in altro lavoro. A partire dal primo piano
dell'impalcatura cominciarono a sollevare e a innalzare con leve il tetto
della torre che faceva parte a sé. Quando lo avevano innalzato tanto
quanto lo permetteva l'altezza delle stuoie, nascosti e protetti dentro
queste coperture, costruivano le mura con i mattoni e di nuovo con
un'operazione di leve creavano lo spazio per continuare l'edificazione.
Quando pareva il momento di costruire un altro piano, come prima
collocavano travi protette dalle estremità dei muri e a partire da quella
travatura di nuovo sollevavano il tetto e le stuoie. Così con sicurezza e
senza alcun danno o pericolo costruirono sei piani e, dove parve
opportuno, lasciarono nella costruzione alcune feritoie per il lancio dei
proiettili.

10

Quando furono sicuri che da quella torre potevano difendere le opere
d'assedio tutt'intorno, cominciarono a costruire una galleria coperta
lunga sessanta piedi con travi di due piedi, che potesse condurre dalla
torre di mattoni alla torre e al muro dei nemici. Questa la forma della
galleria: dapprima sono poste sul terreno due travi di uguale lunghezza
distanti tra di loro quattro piedi e su di esse vengono conficcate
colonnette alte cinque piedi. Congiungono tra di loro queste colonnette
con cavalletti con lieve inclinazione, dove collocare le travi che
dovevano coprire la galleria. Sopra collocano travi di due piedi e le
assicurano con lamine e chiodi di ferro. All'estremità del tetto e delle
travi fissano asticelle quadrate larghe quattro dita per tenere fermi i
mattoni collocati sulla galleria. Così con il tetto a punta costruito in
successione, a mano a mano che le travi sono collocate sui cavalletti, la
galleria viene coperta di mattoni e di fango per essere protetta dal fuoco
lanciato dalle mura. Strisce di cuoio vengono stese sui mattoni perché
acqua eventualmente incanalata e immessa non potesse sconnettere i
mattoni. Il cuoio poi viene coperto di materassi per non venire distrutto
a sua volta dal fuoco e dalle pietre. Questa opera è condotta a termine
fino alla torre tutta al riparo delle vinee e subitamente, senza che i
nemici se l'aspettassero, con una tecnica navale, sottoponendo dei rulli,
l'avvicinano alla torre nemica, fino a congiungerla alla costruzione.

11

Atterriti da questo pericolo, subito gli assediati spingono con delle leve
macigni quanto più grossi possibile e, fattili precipitare dal muro, li
fanno cadere sulla galleria. La solidità del materiale sostiene il colpo e
tutto ciò che cade scivola lungo gli spioventi del tetto. Vedendo ciò, i
nemici cambiano piano; incendiano barili pieni di pece e resina e li
gettano dal muro sulla galleria. I barili, rotolando, precipitano; caduti
a terra ai fianchi, vengono allontanati dalla galleria con forche e
pertiche. Frattanto sotto la galleria i soldati con leve scalzano alla
base della torre dei nemici le pietre che ne costituivano le fondamenta.
La galleria viene difesa dai nostri con frecce e proiettili scagliati
dalla torre di mattoni; i nemici si allontanano dalle mura e dalle torri;
non è più concessa la possibilità di difendere il muro. Rimosse molte
pietre dalla torre vicina alla galleria, all'improvviso una parte di
quella torre crolla, la rimanente parte a sua volta stava per cadere,
quando i nemici, atterriti per l'eventuale saccheggio della città, inermi
si precipitano tutti quanti fuori dalla porta con le sacre bende, tendendo
supplichevolmente le mani ai luogotenenti e all'eser-_cito.

12

Presentatasi questa insolita situazione, ogni operazione di guerra viene
sospesa e i soldati desistono dal combattimento, mossi dal desiderio di
ascoltare e sapere. I nemici, giunti al cospetto dei luogotenenti e
dell'esercito, si gettano tutti ai loro piedi; scongiurano di aspettare
l'arrivo di Cesare. Essi, dicono, vedono la loro città presa; le opere
d'assedio completate, la torre abbattuta e perciò rinunciano alla difesa.
Dicono inoltre che, se essi, quando giungerà Cesare, non eseguiranno i
suoi ordini, non ci sarà nessun motivo per indugiare nel distruggerla
subito, a un suo cenno. Spiegano che, se la torre cadrà del tutto, non si
potrà impedire ai soldati, desiderosi di preda, di irrompere nella città,
distruggendola. Queste e molte altre simili considerazioni vengono esposte
da uomini colti quali erano, con pianti e tono tale da suscitare grande
pietà.

13

Commossi da questi pianti e preghiere i luogotenenti ritirano i soldati
dalle opere d'assedio, desistono dall'attacco; lasciano posti di guardia
innanzi ai lavori. Raggiunta per un sentimento di compassione una sorta di
tregua, si attende l'arrivo di Cesare. Dalle mura i nostri non scagliano
nessun dardo; come se la guerra fosse finita, tutti attenuano l'attenzione
nella sorveglianza. Cesare infatti aveva per iscritto vivamente
raccomandato a Trebonio di non permettere l'espugnazione a forza della
città affinché i soldati, troppo scossi e dall'odioso tradimento e dal
disprezzo verso di loro e dalla continua fatica, non massacrassero tutti
gli adulti; e ciò essi minacciavano di fare. E a stento furono allora
trattenuti dal fare irruzione nella città e mal volentieri sopportarono
quel divieto poiché pareva che il non avere preso la città dipendesse da
Trebonio.

14

Ma i nemici, in mala fede, cercano un momento favorevole per un subdolo
inganno e, lasciato passare qualche giorno, mentre i nostri se ne stanno
rilassati e tranquilli, a mezzogiorno, all'improvviso, quando alcuni si
sono allontanati, altri sui posti stessi dei lavori si sono concessi un
riposo dalla lunga fatica e tutte le armi sono state messe via e coperte,
irrompono fuori dalle porte, e danno fuoco ai lavori di assedio
approfittando di un vento forte e favorevole. Il vento propagò il fuoco
così velocemente che in un momento trincea, gallerie, testuggine, torre,
macchine da guerra furono in fiamme e tutto ciò fu distrutto prima che si
potesse capire in che modo l'incendio era avvenuto. I nostri, scossi
dall'improvvisa sciagura, afferrano le armi che possono, altri si lanciano
fuori dal campo. Assaltano i nemici, ma le frecce e i proiettili scagliati
dalle mura impediscono di inseguire i fuggitivi. Quelli si ritirano ai
piedi del muro e qui, senza ostacolo, incendiano la galleria e la torre di
mattoni. Così il lavoro di molti mesi in un attimo va in rovina per la
perfidia dei nemici e la violenza della tempesta. Il giorno dopo i
Marsigliesi fecero il medesimo tentativo. Favoriti dalla medesima tempesta
con maggiore temerarietà fecero una sortita e attaccarono presso l'altra
torre e l'altra trincea e appiccarono molti incendi. Ma i nostri, come nei
giorni precedenti avevano allentato tutta l'attenzione, così messi in
guardia dal fatto dell'ultimo giorno, avevano preparato tutto per la
difesa. E così, dopo avere ucciso molti nemici, ricacciarono in città i
rimanenti senza che questi avessero portato a termine il loro piano.

15

Trebonio cominciò a organizzare la ricostruzione di ciò che era stato
distrutto con un entusiasmo dei soldati molto maggiore. Infatti quando
videro che con la distruzione delle opere belliche tante loro fatiche
erano andate perdute, provando profondo dolore poiché, violata la tregua
con l'inganno, erano stati scherniti nel loro valore, dal momento che non
rimaneva materiale per costruire di nuovo una trincea giacché, per lungo e
per largo nel territorio di Marsiglia, tutti gli alberi erano stati
tagliati e portati via, decisero di costruire un terrapieno di nuovo tipo,
mai visto prima, con due mura di mattoni di sei piedi di spessore, uniti
da un tavolato, quasi della stessa larghezza di quello che era stato
costruito con il legname trasportato. Laddove l'intervallo tra i muri o la
debolezza del legname sembrano richiederlo, si interpongono dei pilastri,
si pongono di traverso travi che possano essere di sostegno e si copre di
graticci tutta la travatura, i graticci vengono cosparsi di fango. Al
riparo i soldati, protetti a destra e sinistra dal muro e di fronte da una
protezione di tavole, portano senza pericolo qualunque materiale serva per
la costruzione. Il lavoro viene condotto velocemente; la perdita di un
lavoro costato lungo tempo viene in poco tempo sanata dalla velocità e dal
valore dei soldati. Vengono lasciate nel muro, là dove pareva opportuno,
delle porte per potere fare delle sortite.

16

I nemici si accorsero che con un duro lavoro in pochi giorni erano state
ricostruite quelle opere che essi speravano non potessero essere rifatte
se non in un lungo tempo, sicché non vi era per loro occasione di inganno
o sortita e non rimaneva alcun punto attraverso cui arrecare danno ai
soldati con le armi o ai lavori con il fuoco. Parimenti comprendono che
tutta quanta la città, dalla parte di terra, poteva essere accerchiata dal
muro e dalle torri, sicché non sarebbe stato loro possibile resistere a
piè fermo sulle loro stesse fortificazioni: il nostro esercito infatti
sembrava quasi costruire le mura del terrapieno appoggiate alle mura della
città così che i proiettili potevano essere scagliati a mano, mentre per
il poco spazio non potevano usare le loro macchine da guerra, in cui
avevano posto grande speranza. Quando comprendono che sul muro e sulle
torri il combattimento può essere condotto nelle stesse condizioni e che
essi non possono eguagliare i nostri in valore, ricorrono alle medesime
condizioni di resa della volta precedente.

17

Nella Spagna Ulteriore Marco Varrone, in un primo tempo, venuto a
conoscenza degli avvenimenti verificatisi in Italia e diffidando del
successo di Pompeo parlava di Cesare molto favorevolmente: diceva di
essere impegnato con Pompeo, che lo aveva nominato luogotenente e di
essere quindi costretto a mantenersi fedele. Ciò nonostante non meno
stretto era il suo rapporto di amicizia con Cesare ed egli non ignorava
quale è il dovere di un luogotenente con un incarico di fiducia; sapeva
quali erano le sue forze e quale la disposizione d'animo verso Cesare in
tutta la provincia. Riprendeva queste argomentazioni in tutti i suoi
discorsi, senza propendere verso alcun partito. Ma quando in seguito seppe
che Cesare si tratteneva presso Marsiglia, che le truppe di Petreio si
erano congiunte con l'esercito di Afranio, che si erano radunate grandi
forze ausiliarie, nella speranza e nell'attesa di molte altre, che tutta
la provincia citeriore era dalla loro parte, e quando poi venne a sapere
ciò che era capitato a Ilerda per mancanza di vettovaglie, notizie queste
inviategli per iscritto da Afranio che le aveva gonfiate ed esagerate,
anch'egli cominciò a muoversi dove muoveva la Fortuna.

18

In tutta la provincia fece reclutamenti; completate due legioni, aggiunse
a esse circa trenta coorti di milizie ausiliarie. Raccolse una grande
quantità di frumento da inviare ai Marsigliesi e parimenti ad Afranio e
Petreio. Ordinò ai Gaditani di costruire dieci navi da guerra, inoltre ne
fece costruire molte altre a Ispali. Fece portare dal tempio di Ercole
nella città di Gades tutto il denaro e tutti gli oggetti preziosi; mandò
colà di presidio dalla provincia sei coorti e mise a capo della città di
Gades Gaio Gallonio, cavaliere romano amico di Domizio, che qui era giunto
mandato da Domizio come procuratore in una questione di eredità; fece
radunare tutte le armi pubbliche e private nella casa di Gallonio. Egli
stesso pronunciò parole dure contro Cesare. Spesso dal palco affermò che
Cesare aveva subito sconfitte, che un gran numero di suoi soldati erano
passati dalla parte di Afranio; e che egli era venuto a sapere ciò da
messaggeri sicuri, da fonti sicure. Costrinse i cittadini romani della sua
provincia, atterriti da queste notizie, a promettere, per la pubblica
amministrazione, diciotto milioni di sesterzi, ventimila libbre d'argento
e centoventi moggi di grano. Imponeva oneri più pesanti alle città che
credeva essere amiche di Cesare e vi mandava presidi e autorizzava
processi contro i privati che avevano pronunciato parole o discorsi contro
lo stato e confiscava i loro beni. Costringeva tutta la provincia a
giurare fedeltà a lui e a Pompeo. Venuto a sapere di ciò che era avvenuto
nella Spagna Citeriore, si preparava alla guerra. Il suo piano di guerra
era il seguente: recarsi con due legioni a Gades, concentrare là le navi e
tutto il frumento; aveva saputo infatti che l'intera provincia era
favorevole a Cesare. Una volta raccolti nell'isola frumento e navi,
riteneva non difficile tirare in lungo la guerra. Cesare, sebbene
richiamato in Italia da molte questioni urgenti, aveva tuttavia stabilito
di non lasciare in Spagna nessun focolaio di guerra, poiché sapeva che
nella provincia citeriore grandi erano i benefizi di Pompeo e molti erano
i suoi clienti.

19

Pertanto mandate nella Spagna Ulteriore due legioni con Quinto Cassio,
tribuno della plebe, egli stesso con seicento cavalieri avanza a marce
forzate e si fa precedere da un editto, fissando il giorno in cui voleva
che i magistrati e i capi di tutte le città gli si presentassero a
Cordova. Dopo la promulgazione di questo editto in tutta la provincia non
vi fu città che non mandasse a Cordova, alla data stabilita, una
rappresentanza del senato, non vi fu cittadino romano di una certa
importanza che non vi giungesse nel giorno fissato. Contemporaneamente la
stessa colonia di Cordova, di propria iniziativa, chiuse le porte a
Varrone, dispose sulle torri e sulle mura sentinelle e corpi di guardia e
trattenne presso di sé per la difesa della città le due coorti che erano
dette coloniali, giunte colà per caso. Nel medesimo tempo gli abitanti di
Carmona, di gran lunga la città più potente di tutta la provincia, di
propria iniziativa cacciarono le tre coorti, mandate da Varrone a
presidiare la rocca della città, e chiusero le porte.

20

Per questi motivi Varrone si affrettava a giungere quanto prima con le
legioni a Gades perché la via di terra e il passaggio di mare non gli
venissero bloccati; tanto e così benevolo favore nei confronti di Cesare
si poteva constatare nella provincia. Aveva fatto poca strada quando gli
viene recapitata una lettera proveniente da Gades per informarlo che, non
appena si era avuta conoscenza dell'editto di Cesare, i notabili di Gades
si erano accordati con i tribuni delle coorti che erano lì di guarnigione
per scacciare dalla città Gallonio e salvaguardare città e isola per
Cesare. Presa questa decisione, intimarono a Gallonio di lasciare Gades
spontaneamente finché gli era concesso di farlo senza pericolo; ma se egli
non l'avesse fatto, avrebbero preso le opportune decisioni. Spinto da
questo timore Gallonio lasciò Gades. Venuta a conoscenza di ciò, una delle
due legioni che erano dette provinciali, disertò dal campo di Varrone, in
sua presenza e sotto i suoi occhi, e ritornò a Ispali e, senza arrecare
danno, sostò nel foro e sotto i portici. E i cittadini romani di quella
colonia approvarono a tal punto quel gesto che ciascuno accolse
ospitalmente e con gran piacere presso di sé i legionari. Varrone,
atterrito da questi fatti, cambiò direzione di marcia e mandò a dire che
sarebbe andato a Italica, ma dai suoi fu informato che gli erano state
chiuse le porte. Allora invero, preclusa ogni strada, manda a dire a
Cesare di essere pronto a consegnare la legione a chi egli ordinava.
Cesare gli manda Sesto Cesare e gli ordina di consegnarla a lui.
Consegnata la legione, Varrone giunge a Cordova presso Cesare; dopo avere
reso lealmente i conti della pubblica amministrazione, gli consegna il
denaro che aveva con sé e gli mostra quanto frumento e navi possedeva e
dove erano.

21

Convocata in Cordova un'assemblea, Cesare porge a tutti un ringraziamento
distinto per singole categorie: ai cittadini romani, poiché si erano
impegnati a tenere la città in loro potere, agli Spagnoli, poiché avevano
scacciato la guarnigione, agli abitanti di Gades, poiché avevano
annientato gli sforzi dei nemici e avevano riacquistato la libertà; ai
tribuni dei soldati e ai centurioni, che erano giunti colà per la difesa,
poiché avevano appoggiato col loro valore le decisioni di quella gente.
Condona il denaro che i cittadini romani avevano promesso a Varrone per
l'erario; restituisce i beni a coloro ai quali erano stati confiscati,
come era venuto a sapere, per avere parlato troppo liberamente. Ad alcune
popolazioni consegna premi da destinare alla cosa pubblica e a privati e
colma gli animi delle altre popolazioni di speranza per il futuro;
fermatosi due giorni a Cordova, si dirige a Gades; ordina che siano
riportati nel tempio il denaro e gli oggetti preziosi che dal tempio di
Ercole erano stati portati in casa privata. Mette a capo della provincia
Quinto Cassio; gli assegna quattro legioni. Egli stesso con quelle navi
che M. Varrone aveva fatto costruire e con quelle che, per comando di
Varrone, gli abitanti di Gades avevano costruito, giunge in pochi giorni a
Tarragona. Qui legazioni di quasi tutta la provincia citeriore attendevano
il suo arrivo. Con lo stesso criterio attribuiti onori e ricompense,
privatamente e pubblicamente, ad alcune città, parte da Tarragona e
giunge, via terra, a Narbona e di qui a Marsiglia. Qui viene a sapere che
era stata promulgata una legge per la nomina di un dittatore e che egli
stesso era stato eletto dittatore dal pretore Marco Lepido.

22

I Marsigliesi, sfiniti da ogni genere di mali, ridotti all'estrema penuria
di viveri, sconfitti due volte in battaglie navali, sconfitti in frequenti
sortite, travagliati anche da una grave pestilenza dovuta al lungo assedio
e al cambiamento in peggio del vitto (tutti infatti si nutrivano di panìco
raffermo e di orzo guasto che avevano raccolto da tempo per una situazione
del genere e portato nei magazzini pubblici), diroccata una torre,
crollata gran parte delle mura, perduta ogni speranza di aiuto da parte di
province o di eserciti, che avevano saputo essere caduti in potere di
Cesare, decidono di arrendersi lealmente. Ma, pochi giorni prima, L.
Domizio, venuto a conoscenza dell'intenzione dei Marsigliesi, allestite
tre navi, due delle quali aveva assegnato a suoi familiari, mentre egli
stesso era salito sulla terza, partì approfittando del tempo burrascoso.
Quando le navi, che per ordine di Bruto facevano quotidiana guardia presso
il porto, lo videro, levate le ancore cominciarono a inseguirlo. Delle tre
navi solo quella di Domizio accelerò e continuò a fuggire e col favore
della burrasca si sottrasse alla vista, mentre le altre due navi,
atterrite dall'accorrere delle nostre, si rifugiarono nel porto. Gli
abitanti di Marsiglia portano fuori dalla città, come era stato comandato,
armi e macchine da guerra, fanno uscire le navi dal porto e dai cantieri,
consegnano il denaro dell'erario pubblico. Fatto ciò, Cesare, risparmiando
quei cittadini più per la fama e l'antica origine che per i meriti della
città nei suoi riguardi, lascia qui due legioni di presidio, manda tutte
le altre in Italia; egli stesso parte alla volta di Roma.

23

Nel medesimo tempo C. Curione, partito dalla Sicilia per l'Africa e
tenendo in poco conto sin da principio le milizie di P. Azzio, trasportava
due legioni delle quattro che aveva ricevuto da Cesare e cinquecento
cavalieri; dopo due giorni e tre notti di navigazione approda in un luogo
detto Anquillaria, distante ventiduemila passi da Clupea, che durante
l'estate offre un discreto ancoraggio ed è chiuso da due alti promontori.
L. Cesare figlio, che aspettava il suo arrivo presso Clupea con le dieci
navi da guerra, che, tratte in secco a Utica dopo la guerra con i pirati,
P. Azzio aveva fatto riparare per questa guerra, temendo per il numero
delle navi di Curione era rientrato dall'alto mare e, spinta verso la riva
più vicina una trireme protetta, abbandonandola poi sul lido, era fuggito
verso Adrumeto per via di terra. C. Considio Longo difendeva questa città
con il presidio di una legione. Le altre navi di Cesare, dopo la sua fuga,
si rifugiarono ad Adrumeto. Il questore Marcio Rufo, seguitolo con dodici
navi che Curione aveva fatto venire dalla Sicilia come scorta alle navi da
carico, quando vide sul lido la nave abbandonata, la trasse in mare a
rimorchio; egli stesso con la flotta ritorna da C. Curione.

24

Curione manda avanti a Utica Marcio con le navi; egli stesso con
l'esercito vi si dirige e, dopo un percorso di due giorni, giunge presso
il fiume Bagrada. Qui lascia con le legioni il luogotenente C. Caninio
Rebilo; egli va avanti con la cavalleria a esplorare il campo Cornelio,
poiché quella località era giudicata molto adatta per l'accampamento. Si
tratta infatti di un colle ripido a picco sul mare, erto e scosceso da
entrambe le parti, ma tuttavia con un pendio un po' più dolce dalla parte
rivolta verso Utica. In linea retta dista da Utica poco più di mille
passi. Ma su questa via vi è una fonte, dove il mare per ampio tratto si
insinua e in quel punto si forma un vasto ristagno d'acqua. Per evitarlo,
si giunge in città con un giro di sei miglia.

25

Esplorata questa località, Curione vede il campo di Varo addossato al muro
della città presso la porta che è detta Belica, assai protetto dalla
natura del luogo, da una parte dalla stessa città di Utica, dall'altra dal
teatro che si trova davanti alla città, essendo l'accesso all'accampamento
difficile e stretto poiché le fondamenta del teatro sono immense.
Contemporaneamente s'accorge che molte merci, che per timore di un
repentino tumulto sono condotte dalla campagna nella città, vengono
portate da ogni parte e che le vie sono stipate. Manda qui la cavalleria
per fare preda e saccheggio; contemporaneamente per proteggere quel
convoglio Varo manda dalla città seicento cavalieri numidi e quattromila
fanti che il re Giuba pochi giorni prima aveva inviato in aiuto a Utica.
Costui aveva con Pompeo rapporti di amicizia per l'ospitalità a lui data
dal padre e un sentimento di rancore verso Curione, poiché quando questi
era tribuno della plebe aveva promulgato una legge con la quale aveva
proposto di confiscare il regno di Giuba. I cavalieri si scontrano e
invero i Numidi non poterono reggere il primo assalto dei nostri, ma, dopo
che ne rimasero uccisi circa centoventi, gli altri si rifugiarono nel
campo presso la città. Frattanto all'arrivo delle navi da guerra Curione
ordina che sia comunicato alle navi da carico, che stavano davanti a Utica
in numero di circa duecento, che egli avrebbe considerato nemici coloro i
quali non avessero immediatamente indirizzato le navi verso il campo
Cornelio. Fatta questa intimazione, levate in un istante le ancore, tutte
le navi lasciano Utica e si recano dove è stato comandato. Tale azione
procurò all'esercito abbondanza di ogni cosa.

26

Compiuto ciò, Curione si ritira nell'accampamento presso Bagrada e per
acclamazione dell'intero esercito viene salutato comandante supremo; il
giorno seguente conduce l'esercito a Utica e pone il campo presso la
città. Quando non erano ancora compiuti i lavori dell'accampamento, i
cavalieri dagli avamposti annunciano l'arrivo a Utica di grandi rinforzi
di cavalleria e fanteria mandati da Giuba; contemporaneamente si vedeva
una grande nube di polvere e in un attimo era in vista l'avanguardia.
Curione, scosso da questo fatto inatteso, manda avanti la cavalleria per
sostenere il primo impeto e fermare l'avanzata del nemico; egli stesso,
distolte in breve tempo le legioni dai lavori di costruzione del campo, le
schiera in ordine di battaglia. I cavalieri attaccano battaglia e, prima
che le legioni possano spiegarsi completamente e prendere posizione, tutti
i rinforzi del re, impediti dai bagagli e senza ordine, poiché avevano
fatto il cammino scompostamente perché senza timore, sono messi in fuga.
La cavalleria rimane quasi del tutto incolume, poiché si ritira
velocemente lungo il litorale nella città, ma viene ucciso un gran numero
di fanti.

27

La notte successiva due centurioni marsi con ventidue soldati delle loro
compagnie fuggono dal campo di Curione presso Azzio Varo. Costoro, sia che
gli riferissero realmente la loro opinione sia che lo compiacessero
dicendo cose gradite (e infatti crediamo volentieri a ciò che vogliamo e
speriamo che gli altri provino ciò che noi stessi proviamo), lo assicurano
che l'animo di tutto quanto l'esercito è contrario a Curione e che è sopra
tutto necessario che gli eserciti si incontrino e abbiano possibilità di
parola. Spinto da questo parere Varo, la mattina dopo, porta fuori dal
campo le legioni. La medesima cosa fa Curione ed entrambi schierano le
truppe in una valle non grande che tra loro si frapponeva.

28

Nell'esercito di Varo vi era Sesto Quintilio Varo che, come si è detto
sopra, era stato a Corfinio. Costui, lasciato in libertà da Cesare, era
venuto in Africa, là dove Curione aveva condotto quelle legioni che Cesare
in tempi precedenti aveva ricevuto provenienti da Corfinio, sicché, ad
eccezione di pochi centurioni sostituiti, centurie e manipoli erano
rimasti gli stessi. Quintilio, colta questa occasione per parlare,
incominciò a girare intorno alla schiera di Curione e a scongiurare i
soldati di non dimenticare il giuramento fatto a Domizio e a lui quando
era questore, e a non portare le armi contro quelli che avevano avuto la
medesima Fortuna e, durante l'assedio, avevano sofferto i medesimi mali, e
a non combattere in favore di quelli dai quali venivano con disprezzo
chiamati disertori. A queste aggiunse poche altre parole per suscitare
speranza di premi che dovevano aspettarsi dalla sua liberalità, se
avessero seguito lui ed Azzio. Nonostante questo discorso, da parte
dell'esercito di Curione non vi fu alcun tipo di reazione e così entrambi
i comandanti riconducono nel campo le proprie truppe.

29

Ma nel campo di Curione un grande timore assalì tutti gli animi; in breve
tempo esso viene accresciuto dai diversi discorsi dei soldati. Infatti
ognuno metteva in piedi delle congetture e a ciò che aveva sentito dire da
un altro aggiungeva qualcosa del proprio timore. Quando una diceria, pure
essendo frutto di uno solo, si propaga a più persone, e uno la trasmette a
un altro, le fonti di essa sembrano essere diverse. †Era una guerra
civile, un genere di uomini che è lecito agiscano liberamente e seguano il
loro volere, queste le legioni che poco prima erano state nel campo
avverso ... infatti anche la consuetudine con la quale venivano concessi
aveva mutato il beneficio di Cesare ... anche i municipi erano uniti a
partiti diversi ... e infatti non da Marsi e Peligni venivano come coloro
che nella notte precedente nelle tende e alcuni commilitoni ... discorsi
dei soldati, cose troppo gravi, dubbiose più dubbiosamente venivano
accolte†. Infatti alcune cose venivano inventate da coloro che volevano
apparire i più informati.

30

In conseguenza di ciò riunitosi il consiglio, si incomincia a deliberare
sulla situazione generale. Alcuni erano del parere che in ogni modo si
dovesse fare uno sforzo e assalire l'accampamento di Varo, poiché
giudicavano che l'ozio era dannoso più di ogni altra cosa in
considerazione della disposizione d'animo dei soldati; dicevano poi che
era meglio tentare valorosamente in battaglia la sorte della guerra
piuttosto che patire l'estremo supplizio, abbandonati e traditi dai propri
soldati. Vi era chi proponeva di ritirarsi verso la mezzanotte al campo
Cornelio affinché il maggior lasso di tempo intercorso contribuisse a
sanare l'animo dei soldati; se poi qualcosa di più grave fosse accaduto,
grazie alla grande moltitudine di navi con più sicurezza e facilità
avrebbero trovato rifugio in Sicilia.

31

Curione disapprova entrambi i pareri e diceva che quanto una proposta
mancava di coraggio, tanto l'altra ne presentava in eccesso: gli uni
contavano su di una fuga vergognosissima, gli altri pensavano di dovere
combattere anche in una posizione sfavorevole. "Con che fiducia", disse,
"confidiamo di potere espugnare un campo oltremodo protetto per natura del
luogo e per lavori di fortificazione? O invero che vantaggio avremo se
rinunciamo all'assalto del campo dopo avere ricevuto gravi perdite? Come
se non fosse il buon esito delle azioni a conciliare ai capi la
benevolenza dei soldati e la sconfitta gli odi! E il cambiamento poi del
campo che cosa comporta, se non una turpe fuga, la perdita di ogni
speranza e il malumore dei soldati? E infatti non è conveniente che i
buoni soldati sospettino che si ha poca fiducia in loro né che i cattivi
siano consci di essere temuti, poiché la nostra paura agli uni aumenta la
sfrenatezza, agli altri riduce l'ardore. Che se anche", continuò,
"giudicassimo certo ciò che si dice sul malanimo dell'esercito, cosa che
io invero confido essere del tutto falsa o sicuramente meno grave di
quello che si pensa, non è meglio dissimularla e tenerla nascosta
piuttosto che confermarla col nostro operato? Non è forse vero che, come
le ferite di un corpo, così le debolezze di un esercito vanno tenute
nascoste per non accrescere nei nemici la speranza? E inoltre aggiungono
che si parta a mezzanotte, perché, come io credo, coloro che tentano di
tradire possano farlo con maggiore facilità. E infatti azioni di tal fatta
sono tenute a freno o dalla vergogna o dal timore, di cui la notte è sopra
tutto nemica. Per tali motivi non ho tanta audacia da pensare che si
debba, ancorché senza speranza, attaccare l'accampamento, né tanto timore
da perdermi d'animo; penso che prima si debba esaminare ogni possibilità e
confido di potere ben presto prendere insieme a voi una decisione sul da
farsi".

32

Sciolto il consiglio di guerra, Curione convoca l'assemblea dei soldati.
Ricorda quale ardore è stato riscontrato in loro presso Corfinio da
Cesare, che, col loro aiuto ed esempio, ha occupato gran parte d'Italia.
"Tutti i municipi, uno dopo l'altro", dice, "hanno seguito voi e la vostra
condotta e, non senza ragione, Cesare su voi espresse giudizi molto
favorevoli, i suoi nemici invece molto severi. Pompeo infatti, pure senza
essere stato vinto in alcuna battaglia, traendo un infausto auspicio dal
vostro comportamento ha lasciato l'Italia; Cesare ha affidato alla vostra
lealtà me, a lui molto caro, la provincia di Sicilia e l'Africa, senza le
quali Roma e l'Italia non possono essere difese. Ora vi sono coloro che vi
esortano a ribellarvi a noi. Che cosa infatti vi è di più desiderabile per
loro che contemporaneamente sopraffare noi e legare voi con la complicità
di una azione scellerata? O nella loro ira che cosa di peggio possono
augurare per voi se non questo, che inganniate quelli che riconoscono di
esservi in tutto debitori e vi diate nelle mani di chi pensa di essere
perduto per causa vostra? E poi non avete udito le imprese di Cesare in
Spagna? Due eserciti messi in fuga; due generali vinti; due province
sottomesse; questo è ciò che è stato fatto in quaranta giorni, dal momento
in cui Cesare è giunto al cospetto degli avversari. Forse che coloro che
non sono stati in grado di opporre resistenza quando avevano le forze
intatte, ora che sono in rovina potrebbero resistere? Voi poi, che avete
seguito Cesare quando la vittoria era incerta, ora che ormai la sorte
della guerra è decisa, quando dovreste ricevere il premio dei vostri
servizi seguirete il vinto? Infatti essi dicono di essere stati
abbandonati e traditi da voi e rammentano il primo giuramento. Invero
avete voi abbandonato L. Domizio o L. Domizio voi? Non è forse vero che
egli vi ha abbandonato quando voi eravate pronti a subire l'estrema sorte?
Non è forse vero che di nascosto a voi ha cercato di salvarsi fuggendo?
Non è forse vero che, traditi da lui, siete stati salvati dalla clemenza
di Cesare? Come avrebbe potuto tenervi legati dal giuramento colui che,
gettati i fasci e deposto il comando, era egli stesso caduto, privato
cittadino e prigioniero, in potere altrui? Ecco un nuovo tipo di obbligo:
disprezzare quel giuramento dal quale siete vincolati e rispettare quello
che è stato sciolto per la capitolazione del comandante e per la perdita
dei diritti civili. Ma, credo, voi siete contenti di Cesare, malcontenti
di me. Io non ho intenzione di parlare dei miei meriti nei vostri
confronti, che fino a ora sono minori di quanto io voglia e voi vi
aspettiate, ma tuttavia i soldati sono soliti chiedere il premio della
loro fatica sempre dopo l'esito della guerra e neppure voi dubitate quale
esso sarà. Perché invero dovrei passare sotto silenzio il mio zelo
nell'adempiere i doveri o la mia Fortuna, considerando a che punto finora
sono giunte le cose? Vi rincresce forse che io abbia trasportato
l'esercito sano e salvo, senza avere perso neppure una nave? Che, appena
arrivato, abbia sconfitto al primo assalto la flotta dei nemici? Che due
volte in due giorni sia risultato vittorioso in battaglie equestri? Che
abbia stanato dal porto e dal golfo duecento navi da carico nemiche e
abbia ridotto i nemici a non potersi rifornire di viveri né per via terra
né con le navi? Ripudiata questa Fortuna e questi comandanti, seguirete
voi l'ignominia di Corfinio, la fuga d'Italia, la resa della Spagna,
presagi della guerra d'Africa? Quanto a me, volevo essere chiamato soldato
di Cesare, voi mi avete dato il titolo di comandante supremo. Se vi
pentite di ciò, rinuncio per voi al beneficio, restituite a me il mio nome
affinché non paia che mi abbiate dato quell'onore per oltraggiarmi.

33

I soldati, scossi da questo discorso, di continuo lo interrompevano mentre
parlava: appariva evidente che essi sopportavano con grande dolore il
sospetto di tradimento; invero mentre egli si allontana dall'assemblea
tutti quanti lo esortano a essere coraggioso e a non esitare ad attaccare
battaglia in qualsiasi luogo e a mettere alla prova la loro fedeltà e
valore. In seguito a ciò, mutata l'opinione e la volontà di tutti e con il
consenso generale, Curione stabilisce di affidare l'esito alla battaglia,
presentandosene appena l'opportunità; e il giorno seguente fa uscire le
truppe dal campo e le colloca in ordine di combattimento nel medesimo
luogo dove si era fermato nei giorni precedenti. Neppure Azzio Varo esita
a condurre fuori le truppe per non lasciarsi sfuggire l'occasione che gli
capitava sia di provocare i soldati nemici sia di combattere in posizione
favorevole.

34

Vi era fra i due eserciti, come si è detto sopra, una valle, non molto
grande, ma era difficile e ripida la via per salirvi. L'uno e l'altro dei
comandanti aspettava per attaccare battaglia in posizione più favorevole,
nel caso le milizie nemiche avessero deciso di attraversarla ... Frattanto
dal lato sinistro di P. Azzio si vedeva tutta la cavalleria e, mescolati
ad essa, numerosi armati alla leggera scendere nella valle. Contro di essi
Curione lancia la cavalleria e due coorti di Marrucini; la cavalleria
nemica non resse il loro primo impeto, ma, a briglia sciolta, trovò
rifugio presso i suoi; i fanti armati alla leggera, abbandonati da coloro
con i quali si erano lanciati all'assalto, venivano circondati e uccisi
dai nostri. Tutto l'esercito di Varo, rivolto da questa parte, vedeva la
fuga e l'annientamento dei suoi. Allora Rebilo, luogotenente di Cesare,
che Curione aveva condotto con sé dalla Sicilia, poiché sapeva essere
grande esperto di arte militare, disse: "Curione, vedi il nemico
atterrito; perché indugi ad approfittare dell'occasione?". Ed egli, dopo
avere detto ai soldati solo questo, di tenere a mente ciò che il giorno
prima gli avevano promesso, ordina di seguirlo e si slancia davanti a
tutti. La valle era così impervia che i primi non riuscivano facilmente a
salire senza il sostegno dei compagni. Ma i soldati di Azzio, cui la fuga
e la strage dei loro aveva colmato l'animo di terrore, non pensavano
affatto a resistere e si vedevano già ormai tutti quanti circondati dalla
cavalleria. E così, prima che si potesse tirare una freccia o che i nostri
avanzassero oltre, tutta la schiera di Varo volse le spalle e cercò
rifugio nel campo.

35

Durante questa fuga un Peligno, di nome Fabio, che aveva uno dei gradi più
bassi dell'esercito di Curione, raggiunta la prima fila dei fuggitivi,
andava in cerca di Varo chiamandolo per nome ad alta voce sì da sembrare
essere uno dei suoi soldati e volerlo avvertire e parlargli. Quando Varo,
dopo essere stato più volte chiamato, lo vide, si fermò, e chiese chi
fosse e che cosa volesse, quello tirò un colpo di spada al fianco e mancò
poco che uccidesse Varo; egli, alzato lo scudo per difendersi
dall'attacco, evitò questo pericolo. Fabio circondato dai soldati che
erano più vicini viene ucciso. Le porte dell'accampamento vengono ostruite
da una moltitudine disordinata di fuggitivi e viene impedito il passaggio;
muoiono più soldati in quel luogo senza ricevere ferita che in battaglia o
durante la fuga e non mancò molto che venissero scacciati dal campo;
alcuni uomini, senza interrompere la corsa, si diressero verso la città.
Ma l'accesso era allora impedito per un verso dalla natura del luogo e
dalle fortificazioni e per l'altro dal fatto che i soldati di Curione,
usciti per combattere, mancavano di quei mezzi necessari per espugnare il
campo. E così Curione riconduce l'esercito nell'accampamento con tutti i
suoi soldati incolumi, eccetto Fabio; mentre fra i nemici ne furono uccisi
circa seicento e feriti mille. Alla partenza di Curione tutti costoro e
molti altri, che si fingevano feriti, lasciano l'accampamento e si
rifugiano, per la paura, nella città. Varo, accortosi di ciò, visto il
terrore dell'esercito, lasciati nel campo un trombettiere e poche tende
per ingannare il nemico, verso mezzanotte, in silenzio, riconduce
l'esercito in città.

36

Il giorno successivo Curione intraprende l'assedio di Utica e il suo
accerchiamento con un vallo. Vi era nella città una moltitudine non
avvezza alla guerra, per il lungo periodo di pace; gli Uticensi grazie ad
alcuni benefici ricevuti da Cesare gli erano molto favorevoli; la colonia
di cittadini romani era formata da varie classi; grande era il terrore che
avevano prodotto le battaglie precedenti. E così già tutti parlavano
apertamente di resa e trattavano con P. Azzio perché con la sua
ostinazione non volesse mettere in pericolo la sorte di tutti. Durante
queste trattative, giunsero ambasciatori mandati dal re Giuba per
annunciare che egli era vicino con grandi truppe e per esortarli a
custodire e difendere la città. Questa notizia confortò il loro animo
sconvolto.

37

La medesima notizia veniva annunciata a Curione, ma per un certo tempo non
ci poté credere tanto grande era la fiducia che aveva nella sua fortuna. E
già da messaggeri e da lettere venivano riferiti in Africa i successi di
Cesare in Spagna. Esaltato da queste notizie pensava che il re non avrebbe
tentato nulla contro di lui. Ma quando venne a sapere da fonti certe che
le truppe di Giuba distavano da Utica meno di venticinque miglia, lasciate
le opere di fortificazione, si rifugiò nel Campo Cornelio. Cominciò ad
ammassare qui frumento, a fortificare il campo, a radunare legname e inviò
subito in Sicilia l'ordine di mandargli due legioni e il resto della
cavalleria. L'accampamento era adattissimo a condurre la guerra ad
oltranza per la natura del luogo e il modo in cui era fortificato, per la
vicinanza del mare, per l'abbondanza di acqua e di sale, di cui una grande
quantità era stata portata colà dalle vicine saline. Il legname non poteva
mancare per la quantità di alberi, non poteva mancare il frumento di cui
erano pieni i campi. E così, col consenso di tutti i suoi, Curione si
apprestava ad aspettare le rimanenti truppe e a trascinare in lungo la
guerra.

38

Definito ciò e approvati questi piani, Curione viene a sapere da alcuni
disertori della città che Giuba, richiamato da una guerra con un popolo
vicino e da controversie con gli abitanti di Leptis, si era fermato nel
suo regno e che il suo prefetto Saburra, che era stato mandato con poche
truppe, era vicino a Utica. Credendo sconsideratamente a queste fonti,
muta piano e stabilisce di risolvere la questione con il combattimento.
Molto contribuiscono a questa decisione la giovinezza, il grande coraggio,
i successi del passato, la speranza di condurre a buon fine l'impresa.
Mosso da ciò, sul fare della notte manda tutta la cavalleria verso
l'accampamento dei nemici nei pressi del fiume Bagrada; di tale campo era
capo Saburra, di cui prima si era detto; ma il re con tutte le milizie gli
teneva dietro e si era fermato a una distanza di sei miglia da Saburra. I
cavalieri, inviati da Curione, compiono di notte il cammino e assaltano i
nemici che, impreparati, non se lo aspettavano. I Numidi, secondo
un'abitudine dei barbari, si erano sdraiati qua e là senza alcun ordine.
Assalitili mentre erano immersi nel sonno e sparpagliati, ne uccidono un
gran numero; molti fuggono in preda al terrore. Compiuta questa azione i
cavalieri fanno ritorno da Curione e gli conducono i prigionieri.

39

Curione con tutte le milizie prima del giorno era uscito dal campo
lasciandovi di guardia cinque coorti. Avanzato per sei miglia, incontra i
cavalieri e viene a conoscenza della loro azione; chiede ai prigionieri
chi è a capo del campo di Bagrada; rispondono Saburra. Per la fretta di
terminare il viaggio tralascia di chiedere altre informazioni e,
volgendosi alle schiere più vicine, dice: "Vedete, o soldati, che le
parole dei prigionieri collimano con quelle dei disertori? Il re è
lontano, poche sono le milizie inviate e queste non hanno potuto tenere
testa a pochi cavalieri. Dunque affrettatevi verso la preda, verso la
gloria, in modo che io possa già cominciare a pensare ai vostri premi e a
dimostrarvi la mia riconoscenza". L'impresa che i cavalieri avevano
compiuta, per se stessa, era veramente grande, sopra tutto se il loro
esiguo numero veniva paragonato a una moltitudine così grande di nemici.
Tuttavia tale azione era ricordata dagli stessi con troppa esagerazione,
così come gli uomini di solito volentieri parlano dei propri meriti.
Inoltre venivano messe in bella mostra molte spoglie, venivano esibiti
uomini e cavalieri prigionieri sicché ogni indugio sembrava essere un
ritardo per la vittoria. E così alla speranza di Curione si aggiungeva
l'ardore dei soldati. Ordina ai cavalieri di seguirlo e accelera la marcia
per potere assalire i nemici atterriti quanto mai per la fuga. Ma i
cavalieri, sfiniti per la marcia di tutta la notte, non potevano stargli
dietro e si fermavano gli uni qui gli altri là. Neppure ciò diminuiva la
speranza di Curione.

40

Giuba, informato da Saburra dello scontro notturno, gli manda in aiuto
duemila cavalieri spagnoli e galli che era solito tenere con sé a guardia
della propria persona, e quella parte di fanti in cui aveva più fiducia.
Egli stesso con le rimanenti milizie e sessanta elefanti tiene dietro con
passo più lento. Saburra, sospettando che si avvicinasse lo stesso Curione
poiché era stata mandata avanti la cavalleria, schiera fanti e cavalieri e
ordina loro di indietreggiare a poco a poco e ritirarsi fingendo paura;
egli, quando fosse necessario, avrebbe dato il segnale di combattimento,
ordinando ciò che avesse compreso che la situazione richiedeva. Curione fa
scendere le milizie dalle alture alla pianura; infatti nel suo animo,
poiché egli credeva che i nemici fossero in fuga, l'impressione
dell'attuale circostanza si aggiungeva alla precedente speranza.

41

Quando si fu allontanato alquanto da queste alture, poiché l'esercito,
dopo avere percorso sedici miglia, era ormai sfinito dalla stanchezza, si
fermò. Saburra dà il segnale ai suoi, schiera l'esercito in ordine di
battaglia e incomincia ad aggirarsi fra le schiere, esortandole; ma
impiega la fanteria solo in seconda linea tanto per fare impressione col
numero, lanciando invece all'attacco la cavalleria. Curione non viene meno
al suo dovere ed esorta i suoi a riporre nel valore ogni speranza. Né ai
soldati, sebbene stanchi, né ai cavalieri, sebbene pochi e sfiniti dalla
fatica, difettavano zelo e valore per combattere; ma i cavalieri erano in
tutto duecento, poiché gli altri si erano fermati durante la marcia.
Costoro, ovunque andavano all'attacco, costringevano il nemico a
retrocedere, ma non erano in grado di inseguire i fuggitivi troppo oltre
né di incitare i cavalli a maggiore foga. Ma la cavalleria nemica
incomincia a circondare la nostra schiera da entrambi i lati e ad
assalirla alle spalle. Ogni qual volta delle coorti avanzavano all'attacco
staccandosi dallo schieramento, i Numidi freschi di forze velocemente
sfuggivano all'assalto dei nostri e le circondavano e le tagliavano fuori
mentre tentavano di rientrare di nuovo nei loro ranghi. Così non appariva
sicuro né mantenere la posizione e conservare lo schieramento né avanzare
all'attacco e tentare la sorte. Le milizie nemiche aumentavano di continuo
per gli aiuti inviati dal re; ai nostri venivano meno le forze per la
stanchezza e quelli che erano stati feriti non erano in grado né di uscire
dalla schiera né di rifugiarsi in un luogo sicuro, poiché tutto l'esercito
era stretto in una morsa, circondato dalla cavalleria nemica. Costoro,
disperando della propria salvezza, come sono soliti fare gli uomini in fin
di vita, o commiseravano la propria morte o raccomandavano i propri
familiari se mai la Fortuna avesse potuto salvare qualcuno di essi dal
quel pericolo. Ovunque non vi era altro che paura e pianto.

42

Curione, quando capisce che non si dà ascolto né alle sue esortazioni né
alle sue preghiere, essendo tutti attanagliati dal terrore, pensando che,
vista la situazione disastrosa, vi era una sola via di salvezza, ordina a
tutti di occupare i colli vicini e di portarvi le insegne. Ma questi
vengono occupati dalla cavalleria inviata da Saburra. Allora invero i
nostri giungono alla massima disperazione e una parte di essi in fuga
viene uccisa dalla cavalleria, una parte s'accascia a terra pure senza
ferite. Gneo Domizio, comandante della cavalleria, schierandosi con pochi
uomini attorno a Curione, lo esorta a cercare salvezza nella fuga e a
tornare nel campo, e gli promette di non abbandonarlo. Ma Curione dichiara
che mai, dopo avere perduto l'esercito che Cesare gli aveva affidato con
fiducia, sarebbe tornato al suo cospetto e così, mentre combatte, viene
ucciso. Pochissimi cavalieri si salvano dalla battaglia; ma quelli che,
come si è detto, si erano fermati alla retroguardia per ristorare i
cavalli, resisi conto da lontano della fuga dell'esercito intero, incolumi
ritornano al campo. I fanti, dal primo all'ultimo, vengono tutti uccisi.

43

Conosciuti tali fatti, il questore Marco Rufo, lasciato da Curione nel
campo, esorta i suoi a non perdersi d'animo. Quelli lo pregano e lo
scongiurano di riportarli in Sicilia con le navi. Lo promette e ordina ai
comandanti delle navi di tenere, sul fare della sera, tutte le lance
ancorate presso il lido. Ma il terrore di tutti fu così grande che gli uni
dicevano che le truppe di Giuba erano vicine, gli altri che Varo era
addosso con le legioni e già scorgevano la polvere di quelli che
sopraggiungevano, mentre non accadeva proprio nulla di tutto ciò, altri
ancora supponevano che la flotta nemica in breve tempo sarebbe giunta al
volo. E così, poiché erano tutti sconvolti, ognuno pensava a se stesso.
Coloro che erano sulle navi da guerra acceleravano la partenza. La loro
fuga istigava i comandanti delle navi da carico; solo poche barchette si
radunavano per eseguire il loro compito, come era stato ordinato. E sul
lido affollato tanta era la gara a chi, in tale moltitudine, per primo
riuscisse a imbarcarsi, che alcune imbarcazioni affondavano per il peso
della gente, altre tardavano ad avvicinarsi, temendo la stessa fine.

44

Per questi motivi accadde che solo pochi soldati e padri di famiglia, che
erano influenti per autorità o suscitavano commiserazione o erano in grado
di raggiungere a nuoto le navi, furono imbarcati e giunsero sani e salvi
in Sicilia. Le altre truppe, inviati di notte a Varo dei centurioni in
qualità di ambasciatori, si consegnarono a lui. Il giorno dopo Giuba,
vedendo dinanzi alla città le coorti di questi soldati, dichiarò
pubblicamente che erano sua preda di guerra e ordinò che una gran parte di
loro venisse uccisa; pochi soldati, da lui scelti, furono mandati nel suo
regno, sebbene Varo lamentasse, senza però osare opporsi, che egli
offendeva la sua lealtà. Lo stesso re, entrato a cavallo in città, seguito
da parecchi senatori, fra i quali Servio Sulpicio e Licinio Damasippo, in
pochi giorni stabilì e ordinò che cosa voleva si facesse in Utica. E dopo
pochi giorni ritornò con tutte le milizie nel suo regno.
 

 

 


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Ultimo aggiornamento: 21-03-05.