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De Bello Civili
Il De bello civili abbraccia gli avvenimenti degli anni 49 e 48 a.C. La vicenda
ha inizio quando, nel gennaio del 49, vengono respinte dal senato le proposte di
Cesare per un componimento pacifico della contesa con Pompeo. Si ordina a Cesare
di abbandonare il comando delle legioni galliche e di rientrare a Roma come
semplice cittadino, se intende porre la sua candidatura al consolato per l'anno
successivo.
Dichiarato nemico della repubblica, Cesare marcia su Roma, mentre Pompeo, i
consoli e gran parte dei senatori fuggono dalla Capitale, per imbarcarsi poi a
Brindisi e trovare scampo a Durazzo. Cesare non giunge in tempo per bloccare
l'avversario e passa in Spagna: a Ilerda sbaraglia un esercito pompeiano (l. I).
Anche Marsiglia, che si era schierata dalla parte di Pompeo, cade in mano di
Cesare; in Africa Curione, legato di Cesare subisce una dura sconfitta e viene
ucciso (l. II). Nominato console, Cesare riprende la campagna contro Pompeo,
sbarca in Epiro e assedia Durazzo. Ma Pompeo riesce a creare gravi difficoltà
all'esercito avversario, forzando l'assedio. I due eserciti muovono quindi verso
l'interno. La battaglia decisiva viene combattuta a Farsàlo in Tessaglia nel 48:
Pompeo, nonostante la superiorità delle forze e la richezza delle risorse, è
sconfitto, fugge in Egitto e qui viene ucciso (l. III).
Ai libri cesariani seguono tre operette anonime, il Bellum Alexandrinum, il
Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, che narrano le vicende successive: la
campagna d'Egitto del 47, quella d'Africa (battaglia di Tapso) del 46 e quella
di Spagna (battaglia di Munda) del 45.
(Testo/Traduzione)
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Libro I
Libro II
Libro III
Libro 1
1
Dopo che la lettera di Cesare fu consegnata ai consoli, si ottenne con
difficoltà, nonostante la forte insistenza dei tribuni della plebe, che
essa fosse letta in senato; non si poté invece ottenere che se ne
discutesse ufficialmente. I consoli presentano una relazione sulla
situazione dello stato. Il console L. Lentulo aizza il senato; promette di
non fare mancare il suo sostegno allo stato, se i senatori vorranno
esprimere il loro parere con coraggio e forza; ma se essi hanno riguardo
per Cesare e ricercano il suo favore, come hanno fatto nei tempi passati,
egli prenderà posizione nel proprio interesse senza sottostare
all'autorità del senato; del resto anch'egli ha modo di trovare rifugio
nel favore e nell'amicizia di Cesare. Con il medesimo tono si esprime
Scipione: è intenzione di Pompeo difendere lo stato, se il senato lo
asseconda; ma se il senato esita o agisce con troppa mollezza, invano
implorerà il suo aiuto, se in seguito lo vorrà.
2
Questo discorso di Scipione, poiché la seduta del senato si teneva in
città e Pompeo era vicino, sembrava uscire dalle labbra dello stesso
Pompeo. Qualcuno aveva espresso un parere più moderato, come in un primo
tempo M. Marcello che, presa la parola in quell'intervento, sostenne che
non era il caso di discutere della cosa in senato prima che si facessero
in tutta Italia leve e si arruolassero eserciti, sotto la cui protezione
il senato avrebbe osato decretare con sicurezza e liberamente il proprio
volere; come M. Calidio, che proponeva che Pompeo tornasse nelle sue
province, perché non vi fosse motivo di ricorso alle armi; Cesare temeva,
egli diceva, che, essendogli state sottratte due legioni, Pompeo le
trattenesse presso la città, tenendole di riserva con intenzioni ostili
nei suoi confronti; come M. Rufo, che faceva suo il parere di Calidio,
addirittura mutandone solo poche parole. Tutti costoro, travolti dalla
clamorosa protesta del console L. Lentulo, erano oggetto di violenti
attacchi. Lentulo dichiarò di non avere assolutamente intenzione di
mettere in votazione la mozione di Calidio; Marcello, atterrito dalle
clamorose proteste, ritirò la sua. Così la maggior parte dei senatori,
trascinata dalle grida del console, dalla paura che suscitava la vicinanza
dell'esercito, dalle minacce degli amici di Pompeo, pur controvoglia e per
costrizione, approva la proposta di Scipione: che Cesare, prima di un dato
giorno, smobiliti l'esercito; se non lo fa, risulti chiaro che egli ha
intenzione di agire contro lo stato. Fanno opposizione i tribuni della
plebe, M. Antonio e Q. Cassio. Subito si pone in discussione il veto dei
tribuni. Vengono espressi pareri pesanti; quanto più ciascuno parla con
arroganza e durezza, tanto più è colmato di lodi dagli avversari di
Cesare.
3
Conclusa verso sera la seduta del senato, tutta la classe dei senatori
viene convocata da Pompeo fuori della città. Pompeo loda i risoluti e li
incoraggia per l'avvenire, rimprovera e sprona quelli troppo esitanti. Da
ogni parte, con la speranza di ricompense e di promozioni, vengono
richiamati alle armi molti soldati delle vecchie truppe di Pompeo; sono
richiamati in servizio molti soldati provenienti dalle due legioni
consegnate da Cesare. La città si riempie di commilitoni di Pompeo, di
tribuni, di centurioni, richiamati in servizio. Tutti gli amici dei
consoli, i clienti di Pompeo e coloro che avevano vecchi rancori verso
Cesare vengono radunati nel senato; le loro grida e il loro accorrere in
massa atterriscono i più deboli, rassicurano gli incerti; ai più invero è
sottratto il potere di deliberare liberamente. Il censore L. Pisone, e
parimenti il pretore L. Roscio, si dichiarano disponibili ad andare da
Cesare, per metterlo al corrente di questi avvenimenti; chiedono sei
giorni di tempo per portare a termine la missione. Da alcuni viene anche
proposto di inviare ambasciatori a Cesare, che gli espongano il volere del
senato.
4
A tutte queste proposte fa resistenza e opposizione l'intervento del
console, di Scipione e di Catone. Vecchi rancori nei riguardi di Cesare e
il dolore del suo insuccesso elettorale aizzano Catone. Lentulo è mosso
dalla grande quantità di debiti, dalla speranza di avere un esercito e
delle province e dai doni degli aspiranti al titolo di re. Tra i suoi si
vanta di star per diventare un secondo Silla nelle cui mani ritornerà il
potere supremo. Stimola Scipione una medesima speranza di governo di
province e di comando di eserciti che, per legami di parentela, pensa di
potere dividere con Pompeo; e nello stesso tempo lo stimolano il timore di
processi e la propria vanità e l'adulazione dei potenti che in quel tempo
avevano grandissima influenza nello stato e nei tribunali. Lo stesso
Pompeo, incitato dagli avversari di Cesare e poiché non voleva che nessuno
gli fosse pari per prestigio, si era del tutto allontanato dalla sua
amicizia e si era riconciliato con comuni avversari, che, in gran parte,
egli stesso aveva procurato a Cesare al tempo della loro parentela.
Contemporaneamente, indotto dal disonore di avere trattenuto a sostegno
della propria influenza e supremazia politica due legioni destinate
all'Asia e alla Siria, manovrava affinché la contesa fosse condotta a un
confronto armato.
5
Per queste ragioni tutto viene fatto in fretta e confusamente. Non si dà
tempo ai congiunti di Cesare di informarlo né viene concessa ai tribuni
della plebe la possibilità di allontanare da sé il pericolo né di
conservare il supremo diritto di veto, che L. Silla aveva loro lasciato;
ma, dopo solo sette giorni, sono costretti a pensare alla propria
incolumità, la qual cosa quei turbolentissimi tribuni della plebe dei
tempi passati solevano prendere in esame e temere solo all'ottavo mese
delle loro funzioni. Si giunge precipitosamente a quel gravissimo ed
estremo decreto del senato, al quale prima mai si ricorse nonostante
l'audacia dei relatori se non, per così dire, quando la città fu in mezzo
alle fiamme e quando si disperò della salvezza di tutti: provvedano i
consoli, i pretori, i tribuni della plebe e i proconsoli che sono vicini
alla città affinché lo stato non subisca alcun danno. Ciò viene registrato
con decreto del senato il 7 gennaio. E così nei primi cinque giorni in cui
si poterono tenere le sedute del senato, dal giorno in cui Lentulo diede
inizio al proprio consolato, fatta eccezione per i due giorni dedicati al
comizio, si prendono gravissime e rigorosissime delibere nei confronti del
potere militare di Cesare e di persone assai ragguardevoli, i tribuni
della plebe. Subito i tribuni della plebe fuggono da Roma e si rifugiano
presso Cesare. In quel tempo egli era a Ravenna e attendeva risposte alle
sue così moderate richieste, sperando che, per un senso di umana
moderazione, il conflitto si potesse risolvere pacificamente.
6
Nei giorni successivi, le sedute del senato si tengono fuori Roma. Pompeo
presenta quelle medesime proposte che aveva fatto conoscere per bocca di
Scipione; loda la fermezza e la coerenza del senato; enumera le sue forze;
afferma di avere pronte dieci legioni; inoltre di avere appreso e
accertato che i soldati sono ostili a Cesare: non li si può indurre a
difenderlo o, soltanto, a seguirlo. Circa le altre questioni viene
proposto al senato quanto segue: si facciano leve in tutta Italia; Fausto
Silla sia mandato in Mauritania come propretore; sia data facoltà a Pompeo
di usare il denaro dell'erario pubblico. Si presentano proposte anche nei
riguardi del re Giuba: sia dichiarato alleato e amico. Marcello nega di
potere per il momento sottoscrivere la proposta. Filippo, tribuno della
plebe, pone il veto alla mozione relativa a Fausto. Vengono registrati i
decreti del senato riguardanti gli altri punti. A privati vengono
assegnate le province, due consolari, le altre pretorie. A Scipione tocca
in sorte la Siria, a L. Domizio la Gallia. Filippo e Cotta vengono esclusi
per manovre di parte e i loro nomi non sono posti nell'urna. In tutte le
altre province vengono inviati pretori. E non attendono - come era
accaduto negli anni precedenti - che il loro potere sia ratificato dal
popolo, e, con addosso il paludamento di porpora, dopo avere fatto i
sacrifici rituali, escono dalla città. I consoli, cosa non mai accaduta
prima, ... si allontanano dalla città e privati cittadini, contrariamente
a ogni esempio del passato, tengono littori in città e sul Campidoglio. In
tutta Italia si fanno leve, si obbliga a fornire armi, si esige denaro dai
municipi, denaro viene sottratto dai templi, tutte le leggi divine e umane
vengono sovvertite.
7
Cesare, venuto a conoscenza di questi fatti, parla ai soldati. Rammenta
gli affronti fattigli dagli avversari in ogni tempo; e si duole che
Pompeo, per invidia e gelosia della sua gloria, sia stato da essi sedotto
e corrotto, mentre egli stesso lo ha sempre aiutato nella carriera e ne è
stato il sostenitore. Lamenta che è stato introdotto un precedente,
insolito nello stato, cioè che il veto dei tribuni, che negli anni
addietro era stato ristabilito con le armi, con le armi ora venga infamato
e soffocato. Silla, pur avendo spogliato il potere dei tribuni di ogni
forza, tuttavia aveva lasciato libero il veto; Pompeo, che sembra avere
restituito i privilegi perduti, ha tolto anche quelli che i tribuni hanno
avuto in passato. Ogniqualvolta si decretò che i magistrati provvedessero
affinché lo stato non ricevesse alcun danno (e con questa formula e con
questo decreto il popolo romano veniva chiamato alle armi), ciò fu fatto
in caso di leggi perniciose, di azioni di forza dei tribuni, di sommosse
popolari, con l'occupazione di templi e di posizioni dominanti; e rammenta
che questi fatti del passato sono stati espiati con la morte di Saturnino
e dei Gracchi. In quel tempo nulla di questo fu fatto e neppure pensato:
non fu promulgata nessuna legge, non vi fu inizio di ricorso al popolo,
non venne fatta alcuna sommossa. Esorta i soldati a difendere dagli
avversari la reputazione e l'onore del comandante sotto la cui guida,
durante nove anni, hanno servito fedelmente lo stato e combattuto
moltissime battaglie con esito favorevole, hanno portato pace in tutta la
Gallia e la Germania. Elevano un grido di approvazione i soldati della
XIII legione che era presente (questa infatti egli aveva richiamato
all'inizio del disordine, le altre invece non erano ancora giunte),
proclamando di essere pronti a respingere le ingiurie arrecate al loro
comandante e ai tribuni della plebe.
8
Cesare, conosciuta la disposizione d'animo dei soldati, si dirige con
quella legione a Rimini e qui incontra i tribuni della plebe che presso di
lui erano venuti a trovare rifugio; richiama dagli accampamenti invernali
le rimanenti legioni con l'ordine di seguirlo. Lì giunge il giovane L.
Cesare, il cui padre era luogotenente di Cesare. Costui, terminato il
discorso su altri argomenti, per i quali era venuto, dichiara di avere per
lui da parte di Pompeo messaggi di carattere privato: dice che Pompeo
vuole scusarsi dinanzi a Cesare, che non prenda per offesa personale le
azioni che egli ha compiuto per il bene dello stato; dice che alle
amicizie personali egli ha sempre anteposto l'interesse pubblico. Anche
Cesare, in considerazione della sua posizione, deve per il bene dello
stato sacrificare il proprio interesse e il proprio risentimento e non
adirarsi con gli avversari così violentemente da risultare, sperando di
danneggiarli, di danno allo stato. Aggiunge poche considerazioni del
medesimo tono che unisce alle scuse di Pompeo. Il pretore Roscio presenta
a Cesare quasi i medesimi argomenti e con le medesime parole, dimostrando
di essere stato ben istruito da Pompeo.
9
Era chiaro che tutto ciò non serviva a cancellare le offese; tuttavia
Cesare, approfittando di uomini adatti, tramite i quali poteva trasmettere
il suo volere a Pompeo, chiede a entrambi, dal momento che gli hanno
riferito le ambascerie di Pompeo, di non rifiutarsi di riferire a lui
anche le sue richieste, per vedere se mai, con poca fatica, fossero in
grado di sanare grandi controversie e liberare dal timore tutta l'Italia.
Dice che egli ha sempre posto l'onore al primo posto, considerandolo più
importante della vita. Che ha provato dolore perché, con atto oltraggioso,
gli è stato strappato dagli avversari un privilegio concesso dal popolo
romano e, privato di sei mesi di comando, egli è stato richiamato a Roma,
benché il popolo avesse deliberato che nei prossimi comizi si ritenesse
valida la sua candidatura, pur se assente. Tuttavia, per il bene dello
stato, ha sopportato di buon grado questo danno; quando ha mandato una
lettera al senato, chiedendo che tutti i comandanti venissero allontanati
dagli eserciti, neppure questo ha ottenuto. In tutta Italia si fanno
arruolamenti, sono trattenute le due legioni che gli sono state sottratte
col pretesto della guerra contro i Parti; la popolazione è in armi. A che
volgono tutte queste manovre se non a suo danno? Pur tuttavia egli è
pronto a rassegnarsi e a tutto sopportare per il bene dello stato. Pompeo
se ne ritorni nelle sue province, tutti e due congedino gli eserciti,
tutti in Italia lascino le armi, il popolo venga liberato dal timore,
siano garantiti al senato e al popolo romano liberi comizi e l'esercizio
della cosa pubblica. Perché ciò si possa fare più facilmente e con patti
sicuri, sanciti da giuramento, o Pompeo si avvicini o lasci che sia Cesare
ad avvicinarsi; tutte le controversie si potrebbero dirimere tramite
contatti diretti.
10
Assuntosi l'incarico, Roscio insieme a L. Cesare giunge a Capua, dove
trova i consoli e Pompeo; riferisce le richieste di Cesare. Dopo essersi
consultati, danno una risposta e, tramite loro, per iscritto rimettono a
Cesare le loro proposte, i cui punti principali sono questi: Cesare
ritorni in Gallia; si allontani da Rimini, congedi l'esercito; Pompeo
sarebbe andato in Spagna quando egli avesse eseguito questi ordini. Nel
contempo, fino a che non sarebbe stato certo che Cesare avrebbe mantenuto
le sue promesse, i consoli e Pompeo non avrebbero interrotto gli
arruolamenti.
11
Era proposta ingiusta esigere che Cesare si ritirasse da Rimini e
ritornasse nella sua provincia, mentre Pompeo conservava e le sue province
e le legioni altrui; pretendere che venisse congedato l'esercito di
Cesare, quando Pompeo faceva le leve; promettere di partire per la sua
provincia e non fissare la data della partenza, così che, se anche, una
volta terminato che fosse il proconsolato di Cesare, non fosse ancora
partito, non sarebbe tuttavia apparso vincolato da alcuno scrupolo di
mentire; inoltre il non fissare una data per l'abboccamento e il non
promettere di incontrarlo facevano fortemente disperare dei propositi di
pace. E così manda M. Antonio da Rimini ad Arezzo con cinque legioni; egli
con due legioni si ferma a Rimini e qui si dispone a fare leve; con una
coorte per città si impossessa di Pisa, Fano, Ancona.
12
Informato nel frattempo che il pretore Termo con cinque legioni tiene
Gubbio e che fortifica la città e che tutti gli Iguvini sono ottimamente
disposti nei suoi confronti, invia Curione con tre coorti che aveva a Pisa
e a Rimini. Venuto a conoscenza del loro arrivo, Termo, che non si fidava
del consenso del municipio, ritira le coorti dalla città e si dà alla
fuga. I suoi soldati, durante la marcia, disertano e se ne tornano a casa.
Curione si impadronisce di Gubbio col massimo consenso di tutti.
Conosciuti i fatti, confidando nei consensi dei municipi, Cesare ritira
dai presidi le coorti della tredicesima legione e marcia su Osimo; questa
posizione era tenuta da Azzio che vi aveva introdotto le coorti e faceva,
mandando in giro senatori, leve in tutto il Piceno.
13
Alla notizia dell'arrivo di Cesare, i decurioni di Osimo, in gran numero,
si recano da Azzio Varo; gli dichiarano che non spetta a loro giudicare;
che né loro né gli altri municipi possono accettare che il comandante C.
Cesare, benemerito dello stato, autore di tante imprese, sia tenuto
lontano dalla città e dalle sue mura; Varo, dunque, tenga conto del
giudizio dei posteri e del proprio pericolo. Indotto da queste parole,
Varo ritira dalla città il presidio che vi aveva introdotto e si dà alla
fuga. Pochi soldati dell'avanguardia di Cesare, dopo averlo inseguito, lo
costrinsero a fermarsi. Attaccata battaglia, Varo viene abbandonato dai
suoi; una parte dei soldati se ne torna a casa; i rimanenti raggiungono
Cesare. Viene fatto prigioniero e condotto insieme a quelli L. Pupio,
centurione primipilo, che prima aveva avuto quel medesimo grado
nell'armata di Cn. Pompeo. Cesare, poi, si congratula con i soldati di
Azzio, lascia libero Pupio, ringrazia gli Osimati e promette di serbare il
ricordo del loro operato.
14
Giunta notizia a Roma di questi fatti, si diffuse all'improvviso un
terrore tanto grande che il console Lentulo, che era andato ad aprire
l'erario e a prelevare, secondo le disposizioni del senato, il denaro da
dare a Pompeo, dopo avere aperto la sala in cui era conservata la riserva
del tesoro pubblico, subito se ne fuggì da Roma. Si andava infatti
falsamente dicendo che Cesare stava per sopraggiungere e che i suoi
cavalieri erano vicini. Lentulo fu seguito dal collega Marcello e dalla
maggior parte dei magistrati. Cn. Pompeo, partito da Roma il giorno prima,
si dirigeva verso le legioni che aveva ricevuto da Cesare e che aveva
stanziato a svernare in Puglia. Gli arruolamenti intorno a Roma vengono
sospesi; a tutti risulta lampante che al di qua di Capua non vi è
sicurezza. Solamente a Capua ci si rincuora e si ritrova il coraggio e si
incomincia ad arruolare i coloni che, in conseguenza della legge Giulia,
erano stati qui insediati. Vengono condotti in piazza i gladiatori della
scuola gladiatoria di Cesare a Capua; Lentulo li rende risoluti con la
speranza di libertà; fornisce loro cavalli e dà l'ordine di seguirlo. In
seguito, criticato dai suoi per tale iniziativa biasimata da tutti, li
divide, affinché fossero sorvegliati insieme agli schiavi delle comunità
campane.
15
Cesare, uscito da Osimo, attraversa tutto l'Agro Piceno. Tutte le
prefetture di quella regione lo accolgono con grande entusiasmo e danno
ogni sorta di aiuto al suo esercito. Giungono da lui ambasciatori
provenienti anche da Cingoli, cittadina che era stata fondata da Labieno e
costruita con il suo denaro, e gli assicurano una completa e diligente
esecuzione degli ordini. Cesare fa richiesta di soldati; glieli inviano.
Nel frattempo la dodicesima legione raggiunge Cesare. Alla testa di queste
due legioni egli si dirige ad Ascoli Piceno. Questa città era occupata da
Lentulo Spintere e dalle sue dieci coorti. Costui, alla notizia
dell'arrivo di Cesare, fugge via dalla città e nel tentativo di
trascinarsi dietro le coorti viene abbandonato da gran parte dei soldati.
Rimasto con pochi uomini durante la marcia incontra Vibullio Rufo, che era
stato mandato da Pompeo nel Piceno per rassicurare gli abitanti. Vibullio,
venuto a conoscenza da lui della situazione del Piceno, si fa consegnare i
soldati e lo congeda. Così pure raggruppa dalle regioni confinanti quante
coorti può fra i soldati arruolati da Pompeo; fra questi raccoglie Lucilio
Irro, in fuga da Camerino, con le sei coorti che qui egli aveva tenuto di
presidio. Con i soldati raccolti, forma tredici coorti. E con esse, a
marce forzate, giunge a Corfinio presso Domizio Enobarbo e gli annuncia
che Cesare con le due legioni è vicino. Da parte sua Domizio aveva messo
insieme circa venti coorti, raccogliendo uomini da Alba, dai Marsi, dai
Peligni e dalle regioni confinanti.
16
Dopo la capitolazione di Fermo e la cacciata di Lentulo, Cesare fa
ricercare i soldati che hanno disertato le file di Lentulo e ordina gli
arruolamenti. Egli stesso, dopo un solo giorno di sosta per gli
approvvigionamenti, marcia su Corfinio. Quando vi giunse, cinque coorti,
che Domizio Marso in precedenza aveva inviato dalla città, stavano
tagliando il ponte sul fiume distante dalla città circa tre miglia. Qui
l'avanguardia di Cesare attaccò battaglia e in breve tempo i soldati di
Domizio furono scacciati dal fiume e costretti alla ritirata in città.
Cesare, fatto attraversare il fiume alle legioni, si fermò presso Corfinio
e si accampò vicino alle mura.
17
Domizio, venuto a conoscenza di come stavano i fatti, manda a Pompeo in
Puglia, con la promessa di grandi ricompense, uomini pratici del posto con
una lettera, per chiedere e supplicare di andare in suo soccorso: "Con due
eserciti, in luoghi stretti, è facile accerchiare Cesare e tagliargli
l'approvvigionamento. Se Pompeo non viene in aiuto, egli stesso e più di
trenta coorti e un gran numero di senatori e cavalieri romani si
troveranno in pericolo". Nel frattempo Domizio, dopo avere incoraggiato i
suoi, dispone le macchine da guerra sulle mura e assegna a ciascuno di
essi un suo settore per la difesa della città; ai soldati convocati in
assemblea promette terreni di sua proprietà, quindici iugeri a ciascuno e
in quantità proporzionale ai centurioni e ai soldati richiamati dal
congedo.
18
Frattanto viene annunciato a Cesare che gli abitanti della città di
Sulmona, che dista da Corfinio sette miglia, desiderano obbedire ai suoi
ordini, ma che ne sono impediti dal senatore Q. Lucrezio e da Azzio
Peligno, che con l'aiuto di sette coorti occupavano questa città. Cesare
invia colà M. Antonio con cinque coorti della tredicesima legione. Gli
abitanti di Sulmona, alla vista delle nostre insegne, aprirono le porte e
tutti quanti, civili e soldati, uscirono esultanti incontro ad Antonio.
Lucrezio e Azzio balzarono giù dalle mura. Azzio, condotto davanti ad
Antonio, chiede di essere mandato da Cesare. Antonio fa ritorno con le
coorti e con Azzio il giorno stesso in cui era partito. Cesare riunì
quelle coorti al suo esercito e lasciò andare Azzio sano e salvo. Nei
primi giorni Cesare provvede a fortificare il suo accampamento con grandi
strutture di difesa, a fare giungere dai municipi vicini provviste di
frumento, in attesa delle altre truppe. Nei primi tre giorni si uniscono a
lui l'ottava legione, ventidue coorti formate con i recenti arruolamenti
in Gallia e circa trecento cavalieri, inviati dal re del Norico. Al loro
arrivo pone un secondo accampamento dall'altra parte della città, al cui
comando mette Curione. Nei giorni successivi provvede a cingere la città
con un vallo e con bastioni. Il lavoro è in gran parte ultimato quando
fanno ritorno i messaggeri inviati a Pompeo.
19
Letta attentamente la risposta, Domizio, dissimulandone il vero contenuto,
comunica in consiglio che Pompeo sarebbe presto giunto in loro aiuto;
esorta i presenti a non perdersi d'animo e ad allestire le strutture di
difesa della postazione. Lo stesso Domizio, in un colloquio segreto con
pochi suoi intimi, manifesta invece la decisione di darsi alla fuga. Dal
momento che il volto di Domizio non s'accordava con le sue parole ed egli
in ogni suo atto agiva con troppa esitazione e timidezza rispetto al suo
solito comportamento dei giorni precedenti e più del solito si tratteneva
molto a parlare in segreto con i suoi con la scusa di doversi consigliare,
mentre evitava le assemblee ufficiali e le riunioni, non si poté per
troppo tempo nascondere e dissimulare la verità. Pompeo infatti aveva
risposto di non avere intenzione di trascinare la situazione alle estreme
conseguenze; Domizio non era andato a Corfinio per suo consiglio o per suo
ordine: quindi, se ne aveva possibilità, che facesse da lui ritorno con
tutte le milizie. Ma questo era impossibile per l'assedio e per le linee
di fortificazione attorno alla città.
20
Divulgatosi il piano di Domizio, i soldati di stanza a Corfinio alle prime
luci della sera si appartano e, tramite i tribuni dei soldati, i
centurioni e quelli che fra essi godevano di maggiore credito, così fra
loro discutono: sono assediati da Cesare; i lavori di fortificazione sono
quasi terminati; il loro capo Domizio, con il quale sono rimasti, in lui
fiduciosi e pieni di speranza, li tradisce tutti e decide di fuggire;
devono pensare alla loro salvezza. In un primo tempo cominciano a non
essere d'accordo su queste decisioni i Marsi che s'impossessano di quella
parte della città che sembra la meglio fortificata; tra di essi sorge un
tale disaccordo da rischiare di venire alle mani e dirimere la contesa con
le armi; ma poco tempo dopo, in seguito a uno scambio di messaggeri da
entrambe le parti, vengono a conoscenza di ciò che ignoravano, il progetto
di fuga di L. Domizio. Così, di comune accordo, fanno uscire allo scoperto
Domizio, lo circondano, lo prendono prigioniero e mandano a Cesare
ambasciatori, scelti tra di loro, per comunicargli che sono pronti ad
aprirgli le porte, a eseguire i suoi ordini, a consegnare nelle sue mani
L. Domizio vivo.
21
Venuto a conoscenza di questi fatti, Cesare, sebbene giudicasse di grande
interesse impadronirsi al più presto della postazione e trasferire nel
proprio accampamento le legioni colà stanziate, per evitare che o
elargizioni o pressioni o false notizie facessero mutare volere (infatti
in guerra spesso da avvenimenti di poco conto nascono grandi pericoli),
temendo tuttavia che l'ingresso dei soldati, con il favore della notte,
agevolasse il saccheggio della città, colma di lodi gli ambasciatori che
erano da lui giunti, li rimanda in città, dà loro ordine di vigilare porte
e mura. Egli stesso dispone i soldati su quelle strutture di
fortificazione che aveva fatto costruire, non a intervalli prestabiliti,
secondo la consuetudine dei giorni precedenti, ma con distaccamenti di
sorveglianza continua, vicini gli uni agli altri per garantire una totale
protezione; fa svolgere servizio di pattuglia ai tribuni dei soldati e ai
prefetti con l'incarico non solo di ostacolare sortite, ma anche di stare
in guardia contro sortite clandestine di singoli individui. E in verità
quella notte nessuno di loro fu così trascurato o ignavo da dormire. E
tanto grande era l'attesa di come sarebbero andate a finire le cose che
ciascuno con la mente e con il desiderio si volgeva a opposti pensieri e
si chiedeva che cosa sarebbe accaduto agli abitanti stessi di Corfinio, a
Domizio, a Lentulo, a tutti gli altri e quale destino sarebbe toccato a
ciascuno.
22
Sul finire della notte Lentulo Spintere, dall'alto delle mura, dice alle
sentinelle e alle nostre guardie di volere, se possibile, incontrare
Cesare. Concesso il permesso, lo lasciano uscire dalla città; i soldati di
Domizio non si allontanano da lui finché non giunge al cospetto di Cesare.
Con lui inizia a trattare la propria salvezza; lo prega e lo scongiura di
risparmiarlo, gli ricorda l'antica amicizia e passa in rassegna i
benefici, per altro veramente grandi, ricevuti da Cesare: grazie al suo
aiuto era entrato nel collegio dei pontefici, dopo la pretura aveva
ottenuto la provincia di Spagna, era stato sostenuto nella candidatura al
consolato. Cesare interrompe le sue parole: gli ricorda che è uscito dalla
sua provincia non per fare del male, ma per difendersi dalle ingiurie
degli avversari, per ristabilire nei loro poteri i tribuni della plebe
cacciati dalla città in quell'occasione, per vendicare se stesso e il
popolo romano, la cui libertà era stata soffocata da un pugno di fanatici.
Lentulo, rinfrancato dalle sue parole, chiede il permesso di tornare in
città: assicura a Cesare che anche per gli altri sarà di conforto e
speranza l'avere egli ottenuto da lui grazia; lo informa che alcuni sono
così atterriti da arrivare a darsi la morte. Ottenuto il permesso, si
allontana.
23
Alle prime luci, Cesare ordina che dinanzi a lui siano condotti tutti i
senatori e i loro figli, i tribuni dei soldati e i cavalieri romani.
Appartenevano all'ordine senatorio L. Domizio, P. Lentulo Spintere, L.
Cecilio [Spintere] Rufo, il questore Sex. Quintilio Varo, L. Rubrio; vi
erano inoltre il figlio di Domizio e moltissimi altri giovinetti e un gran
numero di cavalieri romani e di decurioni che Domizio aveva fatto venire
dai municipi. Li fa condurre tutti davanti a sé e proibisce ai soldati di
insultarli e beffeggiarli; rivolge poche parole, lamentando che da parte
loro non è stata dimostrata gratitudine per i grandissimi favori che egli
ha loro fatto; li congeda lasciandoli tutti incolumi. I sei milioni di
sesterzi, che Domizio aveva portato e depositato nella cassa pubblica,
consegnati a Cesare dai duumviri di Corfinio, vengono restituiti a
Domizio; Cesare non voleva infatti apparire più equilibrato nei confronti
della vita degli uomini che nei confronti del denaro, pur consapevole che
quello era denaro dello stato, dato a Domizio da Pompeo per la paga dei
soldati. Ordina ai soldati di Domizio di giurargli fedeltà e, lo stesso
giorno, muove l'accampamento e, dopo una sosta a Corfinio, in tutto sette
giorni, si mette in cammino marciando a ritmo regolare e, attraversato il
territorio dei Marrucini, dei Frentani, dei Larinati, giunge in Puglia.
24
Pompeo, venuto a conoscenza dei fatti accaduti a Corfinio, da Lucera va a
Canosa e di qui a Brindisi. Fa radunare da ogni parte presso di sé tutte
le truppe formate dai nuovi coscritti; arma servi e pastori; fornisce loro
cavalli; con essi mette insieme circa trecento cavalieri. Il pretore L.
Manlio fugge via da Alba con sei coorti, il pretore Rutilio Lupo con tre
da Terracina; quando queste truppe vedono da lontano la cavalleria di
Cesare, comandata da Vibio Curio, abbandonato il pretore, portano le
insegne dalla parte di Curio e passano sotto il suo comando. Parimenti
nelle tappe successive, alcune coorti si imbattono nell'esercito di
Cesare, altre nella sua cavalleria. N. Magio, di Cremona, comandante del
genio dell'esercito di Pompeo, fatto prigioniero durante la marcia, viene
condotto al cospetto di Cesare. Egli lo rimanda da Pompeo con queste
proposte: poiché fino a quel momento non era stato possibile un colloquio
ed egli stesso stava per giungere a Brindisi, nell'interesse dello stato e
per la salvezza di tutti era necessario che egli incontrasse Pompeo;
invero, quando, costretti da grande distanza, si conducono negoziati
tramite altre persone, le cose procedono ben diversamente da quando la
discussione avviene direttamente.
25
Inviate queste proposte, Cesare giunse a Brindisi con sei legioni, tre di
veterani e le altre formate dalle nuove leve e completate durante la
marcia; infatti aveva subito mandato da Corfinio in Sicilia le coorti di
Domizio. Venne a conoscenza che i consoli erano partiti con gran parte
dell'esercito alla volta di Durazzo e che Pompeo era a Brindisi con venti
coorti; ma non aveva potuto sapere con sicurezza se Pompeo era rimasto per
mantenere in suo possesso Brindisi, per avere con più facilità il
controllo di tutto il mare Adriatico, a partire dalle estreme parti
dell'Italia e dai territori della Grecia, ed essere in grado di condurre
la guerra dai due fronti, o se qui si era fermato per carenza di navi;
Cesare, nel timore che Pompeo non avesse intenzione di lasciare l'Italia,
stabilì di bloccare ogni via d'uscita e il libero uso del porto di
Brindisi. Questo era il piano dell'operazione. Dall'una e dall'altra
estremità del litorale, nel punto in cui l'imboccatura del porto era più
stretta, faceva innalzare un molo e un argine, perché il mare in quel
tratto era poco profondo. Man mano che ci si allontanava da quei due
punti, non potendo essere costruito un terrapieno per la maggiore
profondità dell'acqua, faceva collocare, in continuazione della diga,
coppie di zattere della larghezza di trenta piedi per lato. Le faceva
fissare con quattro ancore, una da ciascun lato, perché non venissero
spostate dai flutti. Una volta completate e messe al loro posto queste
zattere, ne faceva successivamente aggiungere altre di pari grandezza. Le
faceva riempire di terra e di altro materiale, affinché fosse possibile
passarvi sopra e accorrere alla difesa; faceva proteggere la parte
frontale ed entrambi i fianchi con graticci e palizzate; sopra ogni quarta
zattera faceva innalzare una torre di due piani per una migliore difesa
contro l'abbordaggio e gli incendi.
26
In risposta a questi preparativi, Pompeo faceva allestire grandi navi da
carico, prese nel porto di Brindisi. Su di esse faceva innalzare torrette
a tre piani e, riempitele con molte macchine da guerra e con ogni genere
di armi, le lanciava contro i lavori di sbarramento, che Cesare stava
facendo, per distruggere le zattere e fare azione di disturbo. Così ogni
giorno da entrambe le parti si combatteva da lontano con fionde, frecce e
altri tipi d'arma. Cesare, pur dirigendo queste operazioni, non credeva
tuttavia che si dovessero interrompere le trattative di pace. Sebbene si
stupisse molto che Magio, inviato a Pompeo con le sue proposte, non gli
venisse rimandato e sebbene i reiterati tentativi di pace rallentassero il
suo slancio e i suoi piani, tuttavia giudicava di dovere perseverare con
ogni mezzo in quel proposito. E così manda il luogotenente Caninio Rebilo,
intimo e parente di Scribonio Libone, a parlare con costui; gli affida
l'incarico di esortare Libone a essere mediatore di pace; chiede sopra
tutto di potere avere un colloquio con Pompeo; sottolinea di avere piena
fiducia che, se ciò sarà possibile, si metterà fine alla guerra con giuste
trattative; fa presente che, se si porrà fine alle armi per
l'intercessione e l'intervento di Libone, egli conseguirà grande parte di
gloria e onore. Libone, dopo l'abboccamento con Caninio, parte per andare
da Pompeo. Poco dopo riferisce che, essendo andati via i consoli, senza di
essi non è possibile iniziare una trattativa. E così Cesare, dopo avere
troppe volte invano tentato di giungere alla pace, ritiene di dovere
finalmente abbandonare tale proposito e pensare alla guerra.
27
Cesare ha quasi terminato metà dei suoi lavori, gli erano serviti nove
giorni, quando fanno ritorno a Brindisi, rimandate dai consoli, le navi
che avevano trasportato a Durazzo la prima parte dell'esercito. Pompeo, o
scoraggiato dai lavori di Cesare o perché sin da subito aveva deciso di
lasciare l'Italia, all'arrivo delle navi incomincia a preparare la
partenza e, per ritardare con più facilità l'attacco di Cesare, fa murare
le porte per evitare che i soldati, al momento stesso della partenza,
facciano irruzione in città, fa barricare le vie e le piazze, fa scavare
fosse attraverso le vie e vi fa collocare pali e tronchi con la punta
aguzza. Livella il terreno facendo coprire i buchi con terra e sottili
graticci; infine con grandissime travi dalla punta aguzza, fissate al
suolo, sbarra le vie d'accesso e le due strade che al di qua delle mura
portavano al porto. Fatti questi preparativi, ordina ai soldati di
imbarcarsi in silenzio; dispone poi sulle mura e sulle torri a distanza
gli uni dagli altri soldati armati alla leggera, scegliendoli fra gli
arcieri e i frombolieri richiamati in servizio. Dà disposizione che si
ritirino a un segnale convenuto, quando tutti i soldati si sono imbarcati:
e lascia loro, in un posto di facile accesso, imbarcazioni leggere e
veloci.
28
Gli abitanti di Brindisi, risentiti per il comportamento sprezzante di
Pompeo e per i soprusi dei suoi soldati, stavano dalla parte di Cesare. E
così, venuti a sapere della partenza di Pompeo, mentre tutti correvano qua
e là impegnati in quel preparativo, mandavano ovunque segnali dai tetti.
Cesare, venuto a conoscenza di ciò che accadeva grazie a loro, dà ordine
di preparare delle scale e di armare i soldati, per non perdere
l'opportunità di intervenire. Pompeo sul fare della notte salpa. I soldati
che erano stati posti di guardia sulle mura vengono richiamati al segnale
convenuto e, per il percorso stabilito, si precipitano sulle navi. I
soldati, collocate le scale, salgono sulle mura, ma avvertiti dagli
abitanti di Brindisi di fare attenzione alla palizzata nascosta e alle
fosse, si fermano e, guidati da loro su un percorso più lungo, arrivano al
porto e, raggiunte con barche e zattere due navi piene di soldati che si
erano incagliate sul molo fatto costruire da Cesare, se ne impadroniscono.
29
Cesare, pur ritenendo di grande importanza per il compimento della sua
impresa riunire una flotta, attraversare il mare e inseguire Pompeo prima
che costui potesse fare affidamento su aiuti di oltre mare, temeva
tuttavia la lentezza di quella operazione, che necessitava di gran tempo,
poiché Pompeo gli aveva tolto per il momento la possibilità di inseguirlo
avendo egli già fatto incetta di tutte le navi. Non rimaneva che attendere
le navi provenienti dalle più lontane regioni della Gallia e del Piceno e
dallo stretto di Messina. E, data la stagione, la cosa sembrava lunga e
difficile. Inoltre Cesare non voleva che, durante la sua assenza, si
rinforzassero l'esercito veterano di Pompeo e le due Spagne, una delle
quali era molto legata a Pompeo per i grandissimi favori ricevuti, che
venissero organizzate truppe ausiliarie e una cavalleria e che si cercasse
di sollevare l'Italia e la Gallia.
30
E così per il momento Cesare tralascia di inseguire Pompeo; decide di
partire alla volta della Spagna; ordina ai duumviri di ogni municipio di
procurarsi delle navi e farle pervenire a Brindisi. Manda in Sardegna con
una legione il luogotenente Valerio, in Sicilia il propretore Curione con
tre legioni; gli ordina, non appena presa la Sicilia, di trasportare
subito in Africa l'esercito. M. Cotta governava la Sardegna, M. Catone la
Sicilia; l'Africa era toccata in sorteggio a Tuberone. Gli abitanti di
Cagliari,di propria iniziativa, non appena seppero che da loro era stato
inviato Valerio, e prima ancora che egli lasci l'Italia, cacciano dalla
città Cotta. Costui, atterrito perché capiva che tutta la provincia la
pensava allo stesso modo, fugge dalla Sardegna in Africa. In Sicilia
Catone faceva riparare vecchie navi da guerra, e ne richiedeva delle nuove
alle città. Lavorava con grande impegno. In Lucania e nel Bruzzio faceva
leve di cittadini romani tramite i suoi luogotenenti; esigeva dalle città
della Sicilia un certo numero di cavalieri e fanti. Quando queste
operazioni erano quasi compiute, Catone, venuto a conoscenza dell'arrivo
di Curione, in una adunanza pubblica si lamenta di essere stato
abbandonato e tradito da Cn. Pompeo che, senza alcun preparativo, aveva
intrapreso senza necessità una guerra e, alle sue domande e a quelle del
senato, aveva assicurato di avere preparato e predisposto tutto all'uopo.
Dopo essersi così lamentato in assemblea, fugge via dalla provincia.
31
Approfittando dell'assenza di governo, con l'esercito Valerio sbarca in
Sardegna, Curione in Sicilia. Quando Tuberone giunge in Africa, trova al
governo di questa provincia Azzio Varo; costui, perse le truppe presso
Osimo, come si è detto, subito dopo la fuga era sbarcato in Africa e,
trovatala senza governatore, di sua testa se ne era impadronito e, fatte
le leve, aveva messo insieme due legioni; esperto com'era dei luoghi e
degli uomini, pratico della provincia trovò facilmente il modo di
intraprendere tali imprese, poiché pochi anni prima, dopo la pretura, ne
aveva ottenuto il governo. Varo impedisce l'accesso al porto e alla città
a Tuberone che con le navi si avvicinava a Utica, non gli consente neppure
lo sbarco del figlio malato, ma lo costringe a levare le ancore e ad
allontanarsi da quella zona.
32
Fatto questo, Cesare, volendo usare il tempo che gli rimaneva per fare
riposare i soldati, li conduce nei municipi più vicini; egli invece si
dirige alla volta di Roma. Convoca il senato ed espone le ingiurie
arrecategli dagli avversari. Dichiara di non avere cercato nessun potere
illegittimo, ma, dopo avere atteso il tempo stabilito dalla legge per il
consolato, di essere stato pago di questa carica che era concessa a tutti
i cittadini. Ricorda che, nonostante l'opposizione dei suoi avversari e la
resistenza violentissima di Catone, il quale secondo una sua antica
abitudine guadagnava giorni e giorni tirando per le lunghe con i suoi
discorsi, al tempo del consolato di Pompeo era stato proposto da dieci
tribuni che si tenesse conto della sua candidatura, pur se egli era
assente: se Pompeo fosse stato contrario alla proposta, perché avrebbe
permesso che essa venisse presentata? E se era favorevole, perché avrebbe
impedito che egli si servisse di tale beneficio voluto dal popolo? Fa
notare la sua tolleranza, avendo egli per primo chiesto il congedo degli
eserciti, mostrandosi con tale proposta disposto a perdere dignità e
onore. Mette in luce l'accanimento degli avversari che rifiutano di fare
ciò che pretendono dagli altri e preferiscono porre tutto quanto a
soqquadro piuttosto che lasciare potere ed esercito. Fa notare l'ingiuria
a lui arrecata togliendogli le legioni, la crudeltà e l'insolenza nel
limitare il potere dei tribuni; ricorda le proposte di pace che egli ha
avanzato, gli abboccamenti richiesti e rifiutati. In nome di ciò prega e
chiede ai senatori di assumere il governo e amministrare la cosa pubblica
insieme a lui. Ma se essi fuggono per timore, dichiara di non avere
intenzione di sottrarsi a questo onere: di governare da solo lo stato.
Sostiene che è opportuno mandare ambasciatori a Pompeo per trattare un
accordo e dichiara di non temere ciò che poco prima Pompeo aveva detto in
senato, cioè che a quelli ai quali si inviano ambasciatori si attribuisce
autorità e che il mandarli è segno della paura di chi li manda. Queste
affermazioni sono opinioni di chi è piccolo e debole. Egli invero, come ha
cercato di primeggiare con le sue imprese, così vuole essere superiore per
giustizia ed imparzialità.
33
Il senato approva la proposta di mandare ambasciatori, ma non si trovava
chi mandare e, sopra tutto, ciascuno rifiutava, per timore, questo
incarico di ambasciatore. Pompeo infatti, allontanandosi dalla città,
aveva detto in senato che avrebbe considerato alla stessa stregua coloro
che fossero rimasti a Roma o che fossero stati nell'accampamento di
Cesare. Così si perdono tre giorni in dispute e rifiuti. Gli avversari di
Cesare sobillano anche il tribuno della plebe Lucio Metello per mandare in
lungo la cosa e impedire quanto altro Cesare avesse deciso di fare.
Cesare, venuto a conoscenza di tale piano, dopo avere invano perduto
alcuni giorni, per non sprecare il tempo che gli rimaneva, parte da Roma e
giunge nella Gallia Ulteriore.
34
Quando vi giunge, viene a sapere che Pompeo aveva mandato in Spagna
Vibullio Rufo che egli, pochi giorni prima, aveva fatto prigioniero a
Corfinio e poi lasciato andare; e che Domizio era parimenti partito per
occupare Marsiglia con sette navi molto veloci che aveva sequestrato a
cittadini privati nell'isola del Giglio e nel territorio di Cosa,
equipaggiate con servi, liberti e suoi contadini; che prima erano stati
mandati a Marsiglia in qualità di ambasciatori dei giovani nobili
marsigliesi che Pompeo, nel lasciare Roma, aveva esortato a non
dimenticare gli antichi suoi benefici per quelli di recente ricevuti da
Cesare. Accolto questo invito, i Marsigliesi avevano chiuso le porte a
Cesare; avevano chiamato presso di loro gli Albici, gente barbara che fin
dai tempi antichi era sotto la loro protezione e abitava le montagne sopra
Marsiglia; avevano fatto venire grano in città dai paesi vicini e da tutti
i castelli; avevano predisposto in città fabbriche di armi; riparavano le
mura, le porte, la flotta.
35
Cesare convoca presso di sé i quindici notabili di Marsiglia. Porta avanti
con loro trattative affinché i Marsigliesi non diano origine alla guerra;
ricorda che loro dovere è seguire l'esempio autorevole di tutta l'Italia
più che obbedire alla volontà di uno solo. Ricorda loro le altre ragioni
che crede utili a farli rinsavire. I quindici notabili, dopo avere
riferito il discorso di Cesare ai concittadini, così gli rispondono in
loro nome: comprendono che il popolo romano è diviso in due partiti, non
compete loro né sono in grado di stabilire quale dei due partiti difenda
una causa più giusta. Capi di queste fazioni sono Cn. Pompeo e C. Cesare,
entrambi protettori della città: uno ha ceduto loro pubblicamente i
territori dei Volci Arecomici e degli Elvi, l'altro ha loro assegnati come
tributari i Salii vinti in guerra e ha aumentato i proventi. Pertanto,
dinanzi a uguali benefici, devono pagare un uguale tributo di
riconoscenza, e non aiutare l'uno contro l'altro né accogliere (i
contendenti) in città o nel porto.
36
Durante questi colloqui, Domizio giunge con le navi a Marsiglia e, accolto
dai Marsigliesi, viene messo a capo della città; a lui è affidata la
suprema direzione della guerra. Al suo comando la flotta viene inviata
ovunque; si impossessano delle navi onerarie ove possono e le conducono in
porto; si servono di quelle poche provviste di ferro, legname o altri
attrezzi per riparare e armare le altre; raccolgono nei magazzini dello
stato il frumento che viene trovato; mettono in serbo altri tipi di merce
e vettovaglie da utilizzare nel caso di un assedio della città. Cesare,
mosso da tali affronti, conduce tre legioni davanti a Marsiglia; ordina la
costruzione di torri e casotti mobili per l'assedio della città, ad Arles
fa costruire dodici navi da guerra. Esse vengono costruite e armate dopo
soli trenta giorni dal taglio del legname; condotte a Marsiglia, Cesare le
pone sotto il comando di D. Bruto e lascia il suo luogotenente C. Trebonio
all'assedio della città.
37
Mentre porta avanti e dirige questi preparativi, manda innanzi in Spagna
il luogotenente C. Fabio con tre legioni, che aveva lasciato a svernare a
Narbona e dintorni, e ordina che siano occupati in breve tempo i passi dei
Pirenei, che al momento teneva con dei presidi il luogotenente pompeiano
L. Afranio. Ordina alle altre legioni, che svernavano più lontano, di
seguire Fabio, che, secondo gli ordini, ha rapidamente scacciato il
presidio dai passi pirenei e, a marce forzate, si è diretto contro
l'esercito di Afranio.
38
All'arrivo di L. Vibullio Rufo, che come si è detto era stato mandato in
Spagna da Pompeo, Afranio, Petreio e Varrone, luogotenenti di Pompeo, dei
quali il primo controllava con tre legioni la Spagna Citeriore, il
secondo, con due legioni, quella Ulteriore dal valico di Castulo all'Anas,
il terzo, con un uguale numero di legioni, a partire dall'Anas il
territorio dei Vettoni e la Lusitania, si dividono tra di loro i compiti:
Petreio, dalla Lusitania attraverso il territorio dei Vettoni, si deve
congiungere, insieme con tutte le milizie, con Afranio, Varrone con le
legioni in suo possesso deve difendere tutta la Spagna Ulteriore.
Stabilito ciò, Petreio fa richiesta di cavalieri e truppe ausiliarie a
tutta la Lusitania, Afranio alla Celtiberia, ai Cantabri e a tutti i
barbari confinanti con l'Oceano. Radunate queste forze, Petreio, passando
per il territorio dei Vettoni, raggiunge in breve tempo Afranio; per
comune accordo stabiliscono di condurre le operazioni di guerra presso
Ilerda, a causa della sua posizione strategica.
39
Come prima si è detto, le legioni di Afranio erano tre, quelle di Petreio
due; inoltre le coorti provenienti dalla Spagna Citeriore, armate di
scudo, e dalla Spagna Ulteriore, armate di scudo leggero, erano circa
trenta e i cavalieri provenienti da entrambe le province erano circa
cinquemila. Cesare aveva inviato in Spagna sei legioni, circa seimila
fanti ausiliari, tremila cavalieri, che aveva avuto con sé in guerre
precedenti, e un uguale numero provenienti dalla Gallia che aveva
pacificato, arruolando con chiamate nominali i più nobili e valorosi di
tutte le città; duemila uomini del nobile popolo degli Aquitani e di
quello che abita le montagne che confinano con la Gallia. Aveva sentito
dire che Pompeo si dirigeva in Spagna con le legioni passando per la
Mauritania e che vi sarebbe giunto in breve tempo. Subito prese in
prestito denaro dai tribuni dei soldati e dai centurioni e lo distribuì
all'esercito. Con tale iniziativa ottenne due risultati: con tale debito
vincolò la volontà dei centurioni e con l'elargizione riconquistò il
favore dei soldati.
40
Fabio, con lettere e messaggeri, tentava di guadagnarsi le simpatie delle
popolazioni vicine. Aveva fatto costruire sul fiume Segre due ponti
distanti fra loro quattro miglia. Attraverso questi ponti mandava a fare
rifornimenti, poiché nei giorni precedenti era stato consumato tutto ciò
che era al di qua del fiume. La stessa cosa, e per il medesimo motivo,
facevano i comandanti dell'esercito di Pompeo e spesso entrambi si
scontravano con attacchi di cavalleria. Un giorno che due legioni di
Fabio, uscite come di consueto per presidiare quelli che andavano in cerca
di viveri, avevano attraversato il fiume dal ponte più vicino, seguite da
tutta la cavalleria e dai carri, all'improvviso per la violenza dei venti
e la piena del fiume il ponte fu interrotto e una gran parte della
cavalleria fu tagliata fuori. Petreio e Afranio vennero a conoscenza della
cosa, poiché terra e graticci venivano trascinati dalla corrente. Subito
Afranio, attraverso il suo ponte che congiungeva la città con il suo
accampamento fece passare quattro legioni e tutta la cavalleria muovendo
contro le due legioni di Fabio. Alla notizia del suo arrivo, L. Planco,
che era a capo delle legioni, costretto dalla necessità occupa una zona
elevata e schiera i soldati su due fronti per non essere circondato dalla
cavalleria. Così, venuto alle mani, pur con forze impari, sostiene
l'impetuoso assalto di legioni e cavalieri. Quando i cavalieri hanno dato
inizio alla battaglia, si scorgono da lontano, da entrambe le parti, le
insegne delle due legioni che C. Fabio aveva mandato in aiuto ai nostri
dal ponte più lontano, sospettando che sarebbe accaduto ciò che avvenne,
cioè che i comandanti nemici mettessero a frutto la situazione e l'aiuto
della Fortuna per assalire i nostri. Al loro arrivo la battaglia viene
troncata e i due comandanti riconducono le loro legioni nell'accampamento.
41
Due giorni dopo, Cesare con novecento cavalieri che si era tenuto di
scorta giunge nell'accampamento. Il ponte, interrotto per la tempesta, era
quasi rifatto; diede ordine che fosse completato nella notte. Studiata la
natura dei luoghi, lascia di scorta al ponte e all'accampamento sei
legioni e tutto il bagaglio; il giorno dopo, con tutte le milizie
schierate su tre file, parte per Ilerda e si ferma sotto l'accampamento di
Afranio e lì per un po' indugiando in armi offre occasione di battaglia in
una posizione favorevole. Presentatasi l'occasione, Afranio conduce fuori
le truppe e si ferma a metà del colle sotto l'accampamento. Cesare, come
vide che dipendeva da Afranio se non si attaccava battaglia, ordina di
porre l'accampamento a circa quattrocento passi dai piedi del monte e,
affinché i soldati durante le operazioni di lavoro non fossero sorpresi da
improvvisi assalti dei nemici e distolti dal lavoro, proibì che si
facessero fortificazioni con bastioni, che dovevano necessariamente essere
di alte dimensioni e visibili da lontano, ma diede ordine che venisse
scavata, di fronte al nemico, una fossa di quindici piedi. La prima e la
seconda fila rimaneva in armi, come era stata schierata dall'inizio;
dietro di loro la terza schiera, di nascosto, portava avanti il lavoro.
Così tutto fu completato prima che Afranio comprendesse che l'accampamento
veniva fortificato. Verso sera Cesare ritira le legioni al di qua di
questa fossa e qui, in armi, trascorre tranquillamente la notte seguente.
42
Il giorno dopo trattiene tutto l'esercito al di qua del fossato e, poiché
si doveva cercare alquanto lontano materiale per la trincea, ordina per il
momento lavori simili a quelli del giorno prima; assegna alle singole
legioni la fortificazione dei singoli lati dell'accampamento e dà ordine
che si scavino fosse della medesima larghezza. Afranio e Petreio, per
seminare scompiglio e impedire i lavori, fanno avanzare le loro milizie
fino alle più basse pendici del monte e provocano a battaglia; ma nemmeno
per questo Cesare interrompe i lavori, confidando nell'aiuto delle tre
legioni e nella difesa della fossa. Quelli, dopo essersi fermati non a
lungo e senza spingersi troppo lontano dai piedi del colle, riconducono le
milizie nell'accampamento. Il terzo giorno Cesare fortifica l'accampamento
con una palizzata e dà ordine che siano ivi condotti i bagagli e le coorti
che aveva lasciato nell'accampamento precedente.
43
Vi era tra la città di Ilerda e il colle vicino, dove Petreio e Afranio
avevano l'accampamento, una pianura di circa trecento passi; quasi nel
punto intermedio vi era una modesta altura. Cesare sperava che, se se ne
fosse impossessato e l'avesse fortificata, avrebbe tagliato fuori gli
avversari dal ponte, dalla città e da tutte le vettovaglie in essa
accumulate. Con questa speranza conduce fuori dall'accampamento tre
legioni e, disposte le file di battaglia in luoghi idonei, ordina
all'avanguardia di una sola legione di avanzare e occupare quel colle. Una
volta che ciò fu noto, le coorti di Afranio che erano di guarnigione
davanti all'accampamento vengono velocemente mandate per una via più breve
a occupare il medesimo luogo. Si giunge a battaglia e, poiché per primi
erano sopraggiunti sul colle i soldati di Afranio, i nostri vengono
respinti e, in seguito all'invio di altri aiuti nemici, vengono costretti
alla fuga e a ritirarsi presso le legioni.
44
La tattica dei soldati di Afranio era di avanzare subito con grande
impeto, prendere audacemente posizione, non conservare le file, combattere
qua e là in piccoli gruppi; se venivano incalzati, giudicavano non
vergognoso ritirarsi e abbandonare la posizione, perché con i Lusitani e
con altri barbari si erano abituati a un metodo rozzo di combattimento;
avviene quasi sempre che ogni soldato risenta delle abitudini dei luoghi
in cui ha servito a lungo. In quell'occasione questa tattica sconvolse i
nostri non avvezzi a quel genere di combattimento; poiché gli avversari
avanzavano di corsa uno a uno, i nostri pensavano di venire attaccati dal
fianco scoperto; avevano inoltre pensato di dovere conservare le proprie
file, non allontanarsi dalle insegne e, senza grave causa, non lasciare
quella posizione che avevano raggiunto. E così per lo scompiglio
dell'avanguardia la legione che si trovava in quell'ala non fu in grado di
tenere la propria posizione e si ritirò sul colle vicino.
45
Cesare, poiché inaspettatamente e insolitamente quasi tutto l'esercito era
in preda allo scompiglio, rincuora i suoi e fa venire loro in aiuto la
nona legione; sbaraglia i nemici che inseguivano i nostri con accanimento
e baldanza e li costringe di nuovo a volgere le spalle e a ritirarsi verso
la città di Ilerda e a fermarsi sotto le mura. Ma i soldati della nona
legione, trasportati dal desiderio di riparare il danno ricevuto,
inseguiti sconsideratamente troppo a lungo i fuggitivi, avanzano in un
luogo sfavorevole e salgono su per il monte dove vi era la città di
Ilerda. Quando poi vogliono ritirarsi da lì, di nuovo i soldati di Afranio
da una posizione più alta li incalzano. Il luogo era scosceso, ripido da
entrambi i lati, e si stendeva tanto in larghezza da essere riempito da
tre coorti schierate, né potevano essere inviati aiuti dai lati né i
cavalieri potevano venire in soccorso a chi si trovava in difficoltà.
Dalla parte della città vi era poi un luogo leggermente declive che si
protraeva in lunghezza per circa quattrocento passi. Da questa parte si
svolgeva la ritirata dei nostri, perché fin là si erano spinti
sconsideratamente mossi dal loro ardore. Si combatteva in questo luogo
sfavorevole sia per la sua angustia sia perché i nostri si erano fermati
proprio alle pendici del monte così che nessun dardo veniva lanciato
invano contro di loro. Tuttavia con il valore e la costanza si facevano
forza e sopportavano colpo su colpo. Le forze nemiche aumentavano e
dall'accampamento, attraverso la città, di continuo venivano inviate
coorti per sostituire soldati stanchi con quelli riposati. Cesare tentava
di operare lo stesso avvicendamento; inviando in zona di battaglia coorti
fresche, faceva ritirare i soldati stanchi.
46
In tal modo si combatté ininterrottamente per cinque ore e i nostri,
siccome erano incalzati troppo massicciamente dal numero degli avversari e
non avevano più giavellotti, si lanciano su per il monte contro le coorti
nemiche a spade sguainate; ne uccidono pochi, ma costringono gli altri a
ripiegare. Spinte le truppe sotto le mura e in parte, per il terrore,
cacciatele nella città, ai nostri fu data facilmente la possibilità di
ritirata. Inoltre, sebbene la nostra cavalleria si fosse fermata in basso
in una zona avvallata, tuttavia tenta, con grandissimo valore, di salire
sul colle e, cavalcando in mezzo alle due schiere, permette ai nostri una
ritirata più facile e sicura. Così si combatté con esito vario. Nel primo
scontro caddero circa settanta dei nostri e fra essi Q. Fulginio, primo
centurione degli astati della legione XIV, il quale era giunto dai gradi
inferiori a quella posizione per il suo valore; i feriti sono più di
seicento. Tra i seguaci di Afranio vengono uccisi T. Cecilio, centurione
del primo manipolo e oltre a lui quattro centurioni e più di duecento
soldati.
47
Ma fu opinione comune a entrambe le parti di essere risultate vincitrici
di questa giornata: quelli di Afranio poiché, sebbene a giudizio di tutti
sembrassero essere inferiori, avevano resistito per così tanto tempo nel
corpo a corpo e avevano sostenuto l'impeto dei nostri e dall'inizio
avevano tenuto la posizione e il colle, e ciò era stato causa di
battaglia, e nel primo attacco avevano costretto i nostri a darsi alla
fuga; i nostri invece poiché avevano retto per cinque ore a una battaglia
in posizione sfavorevole con un numero non pari di forze, poiché erano
saliti sul monte con le spade in pugno, poiché avevano costretto gli
avversari a fuggire da un luogo elevato e li avevano respinti in città. I
soldati di Afranio fortificarono con grandi opere di difesa quella
collinetta per la quale si combatté e vi posero un presidio.
48
Due giorni dopo questi avvenimenti accade una improvvisa disgrazia. Si
scatena infatti un temporale così forte come non mai si diceva fosse
accaduto in quei luoghi. Inoltre su tutti i monti si sciolsero le nevi e
le acque superarono le più alte rive del fiume e in un solo giorno
interruppero entrambi i ponti che C. Fabio aveva fatto costruire. La cosa
recò all'esercito di Cesare grandi difficoltà. Infatti essendo
l'accampamento, come si è detto sopra, tra i due fiumi Sicori e Cinga, per
un tratto di trenta miglia non era possibile passare né l'uno né l'altro e
inevitabilmente tutti erano trattenuti in questo spazio ristretto; le
città che si erano alleate con Cesare non potevano inviargli frumento e
coloro che si erano molto allontanati per cercare foraggio, tagliati fuori
dai fiumi, non potevano fare ritorno e non potevano giungere
all'accampamento i grandi approvvigionamenti provenienti dall'Italia e
dalla Gallia. La stagione, poi, era particolarmente sfavorevole poiché non
vi era frumento nei granai e mancava molto al nuovo raccolto e le città
erano state saccheggiate, poiché Afranio prima dell'arrivo di Cesare aveva
trasportato quasi tutto il frumento a Ilerda; e se ne era rimasto Cesare
lo aveva consumato nei giorni precedenti; le città confinanti, a causa
della guerra, avevano mandato lontano il bestiame che durante la carestia
poteva essere un aiuto alternativo. Coloro che si erano allontanati in
cerca di foraggio e frumento venivano incalzati dai Lusitani armati alla
leggera e dai soldati cetrati della Spagna Citeriore, pratici di quei
luoghi; avevano facilità ad attraversare a nuoto il fiume, poiché secondo
la loro consuetudine non andavano sotto le armi senza otri.
49
Di contro l'esercito di Afranio aveva ogni cosa in abbondanza. Nei giorni
precedenti era stato raccolto e trasportato molto frumento; molto ne
veniva portato da ogni provincia; vi era foraggio in grande quantità. Il
ponte di Ilerda offriva la possibilità di avere senza alcun pericolo tutto
e i luoghi al di là del fiume erano integri nelle loro risorse perché
Cesare non poteva assolutamente raggiungerli.
50
Questa piena durò parecchi giorni. Cesare tentò di ricostruire i ponti, ma
la piena del fiume non lo permetteva e le coorti nemiche disposte lungo la
riva ostacolavano il completamento dei lavori. Era loro facile essere
d'ostacolo sia per la configurazione dello stesso fiume e per la altezza
delle acque sia perché da tutte le rive venivano scagliati dardi in un
solo posto e per di più angusto. Risultava difficile portare a termine i
lavori sul fiume in rapida e contemporaneamente evitare i dardi.
51
Viene comunicato ad Afranio che grandi approvvigionamenti, diretti a
Cesare, erano fermi presso il fiume. Erano qui giunti arcieri ruteni,
cavalieri della Gallia con molti carri e grandi bagagli, come l'uso
gallico richiede. Vi erano inoltre circa seimila uomini di ogni categoria
sociale con i servi e i figli; ma nessun ordine, nessun comando sicuro vi
era, ciascuno agiva secondo il proprio giudizio e tutti procedevano senza
timore, senza disciplina come nei giorni e nelle tappe precedenti. Vi
erano parecchi giovani di nobile famiglia, figli di senatori e di
cavalieri, vi erano ambascerie delle città, vi erano luogotenenti di
Cesare. A tutti costoro la strada era preclusa dalla piena. Afranio con
tutta la cavalleria e tre legioni si muove di notte per annientarli e,
mandati avanti i cavalieri, li assale all'improvviso. Tuttavia la
cavalleria dei Galli si appronta velocemente e attacca battaglia. Finché
il combattimento fu condotto ad armi pari, costoro, pur essendo pochi,
fecero fronte a un gran numero di nemici; ma, quando incominciarono ad
avvicinarsi le insegne delle legioni, perduti pochi soldati, si rifugiano
sui monti vicini. La durata di questa battaglia fu decisiva per la
salvezza dei nostri; infatti, approfittando di questo tempo, si ritirarono
sulle alture. In quel giorno si persero circa duecento sagittari, pochi
cavalieri, un numero non grande di addettial trasporto dei bagagli e non
molte salmerie.
52
Di conseguenza per tutti questi motivi, i prezzi rincararono, rincaro che
di solito diventa pesante non solo per la carestia presente, ma anche per
il timore del futuro. Già il grano per la carestia era salito a cinquanta
denari il moggio e la mancanza di frumento aveva fiaccato le forze dei
soldati e il disagio cresceva di giorno in giorno. E così in pochi giorni
si era verificato un grande cambiamento della situazione e la Sorte era
così peggiorata che i nostri lottavano contro la totale mancanza delle
cose necessarie, mentre i nemici abbondavano di tutto e si ritenevano
superiori. Cesare, dal momento che non vi era abbondanza di frumento,
esigeva dalle città alleate bestiame; inviava alle città più lontane
addetti al trasporto; ed egli si difendeva dalla carestia presente con i
mezzi che poteva.
53
Afranio, Petreio e i loro amici mandavano a Roma ai loro queste notizie,
anzi le amplificavano ed esageravano. Le dicerie accrescevano ancora le
esagerazioni, sicché la guerra sembrava essere quasi terminata. Giunte a
Roma queste lettere e queste notizie, vi era un grande accorrere alla casa
di Afranio e ci si felicitava; molti partivano dall'Italia e andavano da
Cn. Pompeo, alcuni per essere i primi a portare tale notizia, altri per
non sembrare di avere atteso l'esito della guerra ed essere arrivati
ultimi fra tutti.
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Essendo la situazione così difficile e tutte le vie essendo occupate dai
soldati e dai cavalieri di Afranio e non potendo essere ricostruiti i
ponti, Cesare ordina ai soldati di fabbricare navi di quel tipo che
l'esperienza britannica negli anni passati gli aveva fatto conoscere. Le
chiglie e l'ossatura erano fatte di legno leggero; il rimanente corpo
delle navi era intessuto di vinchi e rivestito di pelli. Quando sono
compiute, di notte le fa portare, con dei carri uniti, a circa ventidue
miglia dall'accampamento e con queste navi trasporta i soldati al di là
del fiume e occupa di sorpresa il colle vicino alla riva. Lo fortifica in
fretta prima che gli avversari se ne accorgano. Poi trasporta qui la
legione e in due giorni, lavorando da entrambi i lati, fa completare il
ponte. E così senza pericolo fa arrivare presso di sé i viveri e coloro
che erano usciti in cerca di frumento, incominciando a rendere più facile
l'approvvigionamento.
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Nello stesso giorno fece passare il fiume a una gran parte dei cavalieri.
Costoro, assaliti i foraggiatori avversari che non se l'aspettavano e
quelli che stavano qua e là sparsi senza alcun timore, prendono un
grandissimo numero di giumenti e di uomini e, quando vengono mandate in
aiuto le coorti cetrate di Afranio, abilmente si dividono in due gruppi,
gli uni per presidiare la preda, gli altri per fare resistenza a quelli
che sopraggiungevano e per respingerli. E una coorte che temerariamente
davanti a tutte era avanzata oltre la linea di combattimento, isolata
dalle rimanenti, viene circondata e distrutta. I soldati di Cesare,
incolumi, ritornano con una grande preda nell'accampamento attraverso il
medesimo ponte.
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Mentre si svolgono questi avvenimenti nei pressi di Ilerda, gli abitanti
di Marsiglia, valendosi del consiglio di L. Domizio, armano diciassette
navi da guerra, delle quali undici erano coperte. A queste aggiungono
molte piccole barche per incutere col numero stesso terrore alla nostra
flotta. Imbarcano un gran numero di sagittari e di Albici, dei quali si è
parlato prima, e li incitano con promesse di premi. Domizio si riserva un
determinato numero di navi e le equipaggia di coloni e pastori che si era
portato appresso. E così allestita la flotta di ogni cosa, con grande
baldanza si dirigono verso le nostre navi comandate da D. Bruto e ancorate
presso l'isola che si trova di fronte a Marsiglia.
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Bruto si trovava in grande inferiorità per il numero di navi, ma Cesare
aveva assegnato alla sua flotta uomini valorosissimi scelti fra tutte le
legioni, alfieri e centurioni che avevano fatto richiesta di tale
incarico. Costoro avevano preparato ramponi e raffi di ferro e si erano
armati con un gran numero di giavellotti, aste e armi di altro tipo. Così,
venuti a conoscenza dell'arrivo dei nemici, traggono fuori dal porto le
loro navi e attaccano battaglia con i Marsigliesi. Da entrambe le parti si
combatté con grande coraggio e accanimento; e gli Albici, fieri montanari
abituati alle armi, non erano molto inferiori ai nostri per valore.
Costoro da poco tempo si erano separati dai Marsigliesi e conservavano nel
cuore le loro recenti promesse, e i pastori di Domizio, eccitati dalla
speranza di libertà, si sforzavano di dare prova del loro valore sotto gli
occhi del padrone.
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Gli stessi Marsigliesi, confidando nella velocità delle navi e
nell'abilità dei timonieri, si prendevano gioco dei nostri e schivavano i
loro assalti e, finché era loro possibile prendere il largo, estesa per un
tratto più ampio la linea del combattimento, si sforzavano di circondare i
nostri o di assalire a una a una le nostre navi con un gran numero di loro
navi o, se era possibile, di affiancarsi e rompere i remi. Quando poi non
potevano fare a meno di venire abbordati, messa da parte l'arte e le
astuzie dei piloti, facevano ricorso al valore dei montanari. I nostri non
solo avevano rematori meno addestrati e nocchieri meno accorti, che erano
stati presi in gran fretta dalle navi da carico e non avevano ancora
imparato il vocabolario tecnico degli attrezzi, ma erano anche impediti
dalla lentezza e dal peso delle navi. Erano infatti state costruite in
fretta con legname non stagionato e non avevano lo stesso vantaggio della
celerità. E così pur di avere modo di combattere da vicino, volentieri si
scagliavano con una singola nave contro due e, lanciate le mani di ferro,
tenendo ferme entrambe le navi, combattevano da una parte e dall'altra,
arrembando le navi dei nemici. Uccidono un gran numero di Albici e di
pastori, affondano parte delle navi, ne catturano alcune con l'equipaggio,
ricacciano nel porto le altre. In quel giorno andarono perdute nove navi
marsigliesi, comprese quelle catturate.
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Nei pressi di Ilerda viene riferita a Cesare questa prima buona notizia e
contemporaneamente, completato anche il ponte, la sorte in breve tempo
muta. Gli avversari, sconvolti dal valore della cavalleria, si muovevano
con minore libertà e audacia; talora, senza allontanarsi troppo
dall'accampamento per assicurare una pronta ritirata, si procuravano
foraggio in spazi ristretti, talora, con un giro assai lungo, cercavano di
evitare le sentinelle e i posti di guardia della cavalleria o, quando
ricevevano qualche danno o vedevano da lontano la cavalleria, trovandosi a
mezza strada, gettavano i bagagli e si davano alla fuga. Alla fine avevano
stabilito di sospendere per parecchi giorni il foraggiamento e di andare
in cerca di foraggio di notte contrariamente all'abitudine di tutti.
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Frattanto gli Oscensi e i Calagurritani, che erano tributari degli
Oscensi, inviano a Cesare ambasciatori e promettono di eseguire i suoi
comandi. Li seguono i Tarragonesi, gli Iacetani, gli Ausetani e, pochi
giorni dopo, gli Ilergaoni, che confinano con il fiume Ebro. A tutti
costoro Cesare chiede forniture di frumento. Le promettono e, requisite da
ogni parte tutte le bestie da soma, le trasportano nell'accampamento.
Anche una coorte degli Ilergaoni, conosciuta la decisione della loro
città, passa dalla parte di Cesare, togliendo le insegne dal posto di
guardia afraniano per portarle nel suo campo. In breve tempo un grande
mutamento della situazione: completato il ponte, ottenuta l'amicizia di
cinque grandi città, risolto il problema del vettovagliamento, cessate le
voci sulle legioni che si dicevano venire in aiuto, condotte da Pompeo,
passando per la Mauritania; molte popolazioni, anche alquanto lontane,
abbandonano Afranio e si alleano con Cesare.
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Mentre gli animi degli avversari erano atterriti da questi eventi, Cesare,
per non dovere sempre fare transitare la cavalleria per il ponte con un
lungo giro, trovato un luogo idoneo, fece costruire parecchie fosse larghe
trenta piedi con le quali deviare una parte del fiume Sicori e creare un
guado in questo fiume. Quasi terminati questi lavori, Afranio e Petreio
sono colti dal grande timore di essere completamente tagliati fuori dai
rifornimenti di frumento e foraggio, poiché Cesare era molto forte nella
cavalleria. Così essi stessi decidono di lasciare quei luoghi e trasferire
in Celtiberia l'azione bellica. Veniva in appoggio a questa decisione
anche il fatto che delle due opposte fazioni che nella guerra precedente
avevano parteggiato per Q. Sertorio, le popolazioni vinte temevano il nome
e il potere di Pompeo, benché lontano, quelle che erano rimaste
nell'alleanza, colmate di grandi benefici, lo amavano, mentre il nome di
Cesare fra quelle popolazioni barbare risultava alquanto poco noto. Qui in
Celtiberia speravano in un gran numero di cavalieri e di truppe ausiliarie
e, su un territorio a loro favorevole, pensavano di potere trascinare la
guerra fino al periodo invernale. Presa questa decisione danno ordine di
radunare le navi reperite lungo tutto il corso del fiume Ebro e di
condurle a Octogesa, città sulla riva del fiume a venti miglia
dall'accampamento. Presso questa località ordinano di costruire un ponte
di navi; conducono due legioni al di là del fiume Sicori e fortificano
l'accampamento con un vallo di dodici piedi.
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Venuto a conoscenza della cosa tramite esploratori, Cesare, con durissimo
lavoro dei soldati, senza posa di giorno e di notte, era giunto a tal
punto nel deviare il fiume, che i cavalieri, sebbene con difficoltà e a
stento, potevano tuttavia osarne l'attraversamento, ma i fanti stavano
fuori solo con le spalle e la parte superiore del petto ed erano
ostacolati nel passaggio dall'altezza delle acque e talora anche dalla
rapidità delle correnti. Ma tuttavia quasi nel medesimo tempo veniva
diffusa la notizia che il ponte sull'Ebro era quasi completato e che si
era trovato un guado nel Sicori.
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Allora invero più che mai i nemici pensavano di dovere affrettare la
partenza. E così lasciate due coorti ausiliarie di guardia a Ilerda, con
tutte le milizie attraversano il Sicori e si uniscono alle due legioni che
l'avevano passato nei giorni precedenti. A Cesare non rimaneva che
molestare e assalire con la cavalleria la schiera nemica. Infatti il
passaggio sul suo ponte prevedeva un lungo giro, mentre i nemici potevano
giungere all'Ebro con un tragitto più breve. I cavalieri inviati da Cesare
attraversano il fiume e, quando intorno alla mezzanotte Afranio e Petreio
iniziano la marcia, si mostrano all'improvviso alla retroguardia nemica e,
sparsisi in gran numero all'intorno, incominciano a creare ostacoli e a
impedire la marcia.
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Allo spuntare del giorno dalle alture vicine all'accampamento di Cesare si
scorgeva la retroguardia nemica, violentemente incalzata dagli attacchi
della nostra cavalleria, talora resistere e talora venire sbaragliata;
altre volte i nemici muovevano all'assalto e, con l'impeto di tutte le
coorti insieme, facevano indietreggiare i nostri, poi di nuovo i nostri
inseguivano i nemici dopo averli costretti a fare cambiamento di fronte.
In tutto l'accampamento poi si formavano capannelli di soldati che si
lagnavano che Cesare si lasciasse sfuggire di mano il nemico e che la
guerra di conseguenza andasse troppo per le lunghe. Si rivolgevano ai
tribuni dei soldati e ai centurioni a pregarli che per mezzo loro Cesare
venisse informato di non badare alle loro fatiche o pericoli: essi erano
pronti, erano in grado e osavano attraversare il fiume nel punto in cui
era stata fatta passare la cavalleria. Incoraggiato dalle loro voci e dal
loro ardore, Cesare, pur temendo di esporre l'esercito alla piena di un
fiume tanto grande, giudica tuttavia opportuno rischiare e fare il
tentativo. Ordina pertanto di selezionare fra tutte le compagnie i soldati
più deboli il cui coraggio e forza sembravano non essere all'altezza
dell'impresa. Lascia costoro con una legione a guardia dell'accampamento;
conduce fuori le rimanenti legioni senza bagagli e, posto un grande numero
di bestie da tiro e da soma al di sopra e al di sotto del guado, fa
attraversare all'esercito il fiume. A pochi di questi soldati le armi
furono portate via dalla corrente; vengono raccolti e sostenuti dalla
cavalleria; nessuno tuttavia perde la vita. Fatto passare incolume
l'esercito, Cesare schiera le milizie e incomincia a condurre avanti
l'esercito disposto su tre file. E nei soldati tanto fu l'ardore che,
nonostante l'allungamento della marcia con un giro di sei miglia e il
lungo indugio nel guadare il fiume, prima delle tre del pomeriggio
raggiunsero quelli che erano usciti dall'accampamento dopo la mezzanotte.
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Quando Afranio con Petreio li scorse di lontano e li riconobbe, atterrito
dalla situazione inaspettata, si fermò nei luoghi più elevati e schierò
l'esercito in ordine di battaglia. Cesare lascia riposare l'esercito in
pianura per non esporlo stanco al combattimento. Insegue e cerca di
trattenere il nemico che tenta di nuovo di riprendere il cammino. I nemici
sono costretti ad accamparsi prima di quanto avevano stabilito. Infatti le
montagne erano a ridosso e a distanza di cinque miglia li attendevano
strade difficili e strette. Desideravano entrare fra questi monti per
sfuggire alla cavalleria di Cesare e, dopo avere posto presidi nelle zone
più anguste, impedire l'avanzata del suo esercito e potere essi stessi
senza pericolo e paura condurre le milizie al di là dell'Ebro. Essi
dovevano tentare e portare a termine a ogni costo tale operazione; ma
stanchi per il combattimento di tutto il giorno e per la fatica del
cammino rimandarono al giorno successivo il progetto. Anche Cesare pone
l'accampamento su un colle vicino.
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Intorno alla mezzanotte, Cesare viene informato dai soldati di Afranio che
si erano allontanati per procurare acqua ed erano stati catturati dalla
cavalleria, che i capi nemici in silenzio facevano uscire le truppe
dall'accampamento. Conosciuta la mossa, fa dare il segnale d'allarme e fa
gridare, secondo il costume militare: "Ai bagagli". Gli Afraniani, sentito
chiaramente il baccano, temendo di essere costretti a combattere di notte
impacciati dal peso del bagaglio o di rimanere chiusi dalla cavalleria di
Cesare nelle zone anguste, interrompono la marcia e trattengono le truppe
nell'accampamento. Il giorno dopo Petreio con pochi cavalieri va a
esplorare di nascosto il territorio. Dall'accampamento di Cesare si fa
altrettanto. Viene mandato L. Decidio Saxa con pochi soldati a osservare
la natura del luogo. Entrambi riferiscono ai loro la medesima notizia: le
prime cinque miglia di strada sono in pianura, vengono quindi luoghi aspri
e montuosi; l'esercito che per primo avesse occupato questi passi angusti
avrebbe senza difficoltà tenuto lontano di qui il ne-mico.
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Petreio e Afranio in un consiglio di guerra discutono per fissare il
momento migliore per la partenza. I più proponevano che si marciasse di
notte: si poteva giungere alle gole prima che i Cesariani se ne
accorgessero. Altri, tirando in ballo che la notte precedente era stato
dato l'allarme nell'accampamento di Cesare, sostenevano che non si poteva
partire di nascosto. Dicevano che la cavalleria di Cesare di notte
s'aggirava nei dintorni e presidiava ogni luogo e via; sostenevano che si
dovevano evitare combattimenti notturni, poiché un soldato spaventato in
una guerra civile di solito dà ascolto più alla paura che al giuramento.
Ma la luce del giorno da sola sollecita un senso di vergogna, perché si
agisce davanti agli occhi di tutti; molta vergogna arreca anche la
presenza dei tribuni e dei centurioni. Tutto ciò, di solito, fa sì che i
soldati facciano il loro dovere. Perciò, a ogni costo, dovevano aprirsi un
passaggio; anche a prezzo di qualche perdita si sarebbe salvato il grosso
dell'esercito e si sarebbe potuta raggiungere la postazione desiderata.
Nel consiglio prevale questo parere e stabiliscono di partire il giorno
dopo all'alba.
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Cesare, fatti esplorare i luoghi, all'alba conduce tutte le milizie fuori
dall'accampamento e fa loro fare un lungo giro senza un percorso
prestabilito. Infatti le strade che conducevano all'Ebro e a Octogesa
erano in possesso dei nemici che vi avevano posto di fronte
l'accampamento. Cesare doveva quindi attraversare valli molto estese e
inaccessibili, in molte parti rocce scoscese impedivano il passaggio
sicché era necessario passare le armi di mano in mano e i soldati
avanzavano per gran tratto gli uni tirando su gli altri disarmati. Ma
nessuno rifiutava questa fatica poiché pensavano che, se avessero potuto
impedire al nemico di passare l'Ebro e privarlo del frumento, quella
sarebbe stata la fine di tutte le fatiche.
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In principio i soldati di Afranio uscivano lieti fuori dall'accampamento a
osservare e accompagnavano i nostri con grida di oltraggio: gridavano che
erano costretti a fuggire e a ritornare a Ilerda per mancanza di viveri.
Infatti la marcia era all'opposto della meta proposta e sembrava che si
procedesse in direzione contraria. I loro comandanti invero elogiavano la
decisione dei soldati di essere rimasti nell'accampamento e molto
rinforzava la loro opinione il vedere marciare i nostri senza giumenti e
bagagli; erano pertanto convinti che i nostri non potevano sopportare più
a lungo la mancanza di viveri. Ma quando videro che a poco a poco la
schiera si voltava verso destra e si accorsero che ormai i primi
superavano la linea del loro accampamento, non vi fu nessuno così pigro o
così scansafatiche da non pensare che si doveva subito uscire
dall'accampamento e correre ai ripari. Si grida "all'armi!" e, lasciate lì
poche coorti di presidio, tutte le milizie escono e marciano direttamente
verso l'Ebro.
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La contesa fra chi per primo avrebbe preso possesso delle gole e dei monti
dipendeva tutta dalla velocità, ma le difficoltà delle strade facevano
ritardare l'esercito di Cesare, mentre la sua cavalleria ostacolava le
truppe di Afranio inseguendole. Tuttavia per i seguaci di Afranio la
situazione era giunta a tale nodo cruciale che, se per primi avessero
occupato i monti verso i quali si dirigevano, essi stessi avrebbero
evitato il pericolo, ma non avrebbero potuto salvare i bagagli di tutto
l'esercito e le coorti lasciate nell'accampamento; isolati dall'esercito
di Cesare, non avrebbero potuto in nessun modo ricevere aiuto. Cesare
giunse per primo e, trovata una pianura oltre le grandi rupi, qui schierò
contro il nemico l'esercito in ordine di battaglia. Afranio, poiché la sua
retroguardia era incalzata dalla cavalleria, vedendo davanti a sé il
nemico, trovato un colle vi si fermò. Da questo punto invia quattro coorti
cetrate sul monte che appariva il più alto di tutti. Dà l'ordine di andare
a occuparlo di corsa con l'intenzione di dirigervisi egli stesso con tutte
le forze e di giungere a Octogesa, cambiando strada e passando per le
alture. Mentre i soldati cetrati si dirigevano qui con un percorso
obliquo, la cavalleria di Cesare li vede e li assale; non furono in grado
di sostenere nemmeno per un po' la forza della cavalleria e dopo essere
stati tutti quanti circondati vengono uccisi al cospetto di entrambi gli
eserciti.
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Era il momento opportuno per condurre a buon esito l'azione. E invero non
sfuggiva a Cesare che l'esercito atterrito, subita una così grande perdita
davanti agli occhi di tutti, non era in grado di opporre resistenza,
soprattutto perché circondato da ogni parte dalla cavalleria, qualora si
venisse alle armi in una zona aperta e piana; tutti insistevano perché
attaccasse battaglia. Luogotenenti, centurioni, tribuni dei soldati
accorrevano presso di lui invitandolo a non esitare a combattere: il
morale di tutti i soldati, dicevano, è altissimo, dall'altra parte gli
Afraniani in molte situazioni hanno mostrato i segni del loro timore, non
sono venuti in aiuto ai loro, non sono scesi dal colle, a stento hanno
sostenuto gli attacchi della cavalleria e, riunite in un solo luogo le
insegne, tutti in mucchio, non badano a tenere i ranghi. Se si temeva lo
svantaggio della posizione, si avrebbe avuto la possibilità di combattere
in un luogo qualsiasi, poiché di sicuro Afranio doveva scendere dalla sua
altura non potendo rimanere per tanto tempo senza acqua.
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Cesare aveva sperato di potere portare a termine la campagna senza
combattere e senza danno dei suoi, poiché aveva impedito agli avversari
l'approvvigionamento: perché dunque perdere alcuni dei suoi pur in uno
scontro favorevole? Perché permettere che i suoi soldati, tanto meritevoli
nei suoi confronti, venissero colpiti? Perché infine tentare la Fortuna?
Tanto più che non è meno degno di un comandante vincere col senno
piuttosto che con la spada. Era mosso da pietà anche verso i concittadini
che vedeva in pericolo di vita; preferiva raggiungere lo scopo con la loro
incolumità e salvezza. Tale proposito di Cesare non trovava il consenso
della maggior parte dei soldati; essi invero apertamente tra di loro
andavano dicendo che, se veniva sprecata una tale occasione di vittoria,
quand'anche Cesare lo avesse voluto, essi non avrebbero più combattuto.
Cesare persiste nel suo parere e si allontana un po' da quel luogo per
attenuare il timore dei nemici. Petreio e Afranio, presentatasi
l'opportunità, fanno ritorno nell'accampamento. Cesare, disposti dei
presidi sui monti, impedito ogni passaggio verso l'Ebro, pone il suo
accampamento ben fortificato il più vicino possibile a quello dei nemici.
73
Il giorno successivo i capi degli avversari, assai sconvolti perché
avevano perduto ogni speranza di potere fare approvvigionamenti e di
raggiungere il fiume Ebro, si consultano su ciò che rimaneva da fare. Vi
era una strada, se volevano, per ritornare a Ilerda, un'altra per
raggiungere Tarragona. Mentre stavano deliberando su ciò viene riferito
che i cercatori di acqua sono incalzati dalla nostra cavalleria. Saputa la
cosa, predispongono numerosi posti di guardia di cavalleria e di truppe
ausiliarie e fra di essi collocano coorti di legionari; incominciano a
costruire un vallo dall'accampamento in direzione delle sorgenti per
potersi procurare acqua entro la fortificazione, senza paura e senza
creare posti di guardia. Petreio e Afranio si dividono fra di loro il
lavoro e per portare a compimento l'opera si allontanano alquanto
dall'accampamento.
74
Alla loro partenza i soldati, colta la possibilità di avere colloqui con i
nostri, escono in massa e ognuno cerca e chiama chi nell'accampamento di
Cesare conosceva o aveva compaesano. Per prima cosa tutti quanti
ringraziano tutti i Cesariani poiché il giorno precedente, mentre erano
atterriti, li avevano risparmiati: sono in vita grazie a loro. Quindi
chiedono se potevano fidarsi del comandante, se avrebbero fatto bene a
consegnarsi a lui e si dolgono di non averlo fatto dall'inizio e di avere
portato le armi contro amici e parenti. Incoraggiati da questi discorsi,
chiedono a Cesare che Petreio e Afranio abbiano salva la vita, perché non
sembrasse che avessero macchinato delle azioni delittuose contro di loro
né li avessero traditi. Rassicurati su tali punti, garantiscono di portare
subito le insegne dalla parte di Cesare e gli inviano come ambasciatori i
centurioni dei primi ordini per trattare la pace. Intanto, in seguito a
inviti reciproci, gli uni conducono nel loro accampamento gli amici, gli
altri vengono chiamati fuori dai loro conoscenti, sicché i due
accampamenti sembravano essere ora uno solo. Parecchi tribuni militari e
centurioni si recano da Cesare e a lui si raccomandano; lo stesso avviene
da parte dei capi spagnoli che gli Afraniani avevano fatto venire presso
di sé e che tenevano nell'accampamento come ostaggi. Costoro andavano
cercando i loro parenti e ospiti per avere ognuno, tramite essi, modo di
raccomandarsi a Cesare. Anche il giovane figlio di Afranio, per
intermediazione dell'ambasciatore Sulpicio, trattava con Cesare della
propria salvezza e di quella del padre. Ovunque vi erano manifestazioni di
gioia e testimonianze di gratitudine, da parte di chi aveva evitato
pericoli così gravi e da parte di chi pensava di avere concluso un'impresa
così importante senza danno. A giudizio di tutti, ora Cesare riceveva un
importante frutto della sua moderazione del giorno precedente; da tutti
quanti la sua decisione di non combattere veniva approvata.
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Afranio, venuto a sapere di tali avvenimenti, lascia l'opera iniziata e
rientra nell'accampamento, pronto, come sembrava, a sopportare di buon
animo qualunque accidente gli fosse capitato. Petreio invece non si
scoraggia. Arma la gente del suo seguito; con costoro e con la coorte
pretoria dei cetrati e con pochi cavalieri barbari, suoi beneficiari, che
era solito tenere a guardia della sua persona, vola all'improvviso verso
il vallo, interrompe i discorsi dei soldati, allontana i nostri
dall'accampamento, uccide quelli che cattura. I rimanenti dei nostri si
radunano e, spaventati dall'improvviso pericolo, avvolgono il braccio
sinistro nel mantello e impugnano le spade e così si difendono dai cetrati
e dai cavalieri,confidando nella vicinanza del campo. E si ritirano
nell'accampamento e vengono difesi da quelle coorti che erano di guardia
presso le porte.
76
Compiuto ciò, Petreio in lacrime passa da un manipolo all'altro e chiama i
soldati per nome, li scongiura di non lasciare in balia degli avversari né
lui né Pompeo, il loro comandante assente. Prontamente vi è un
affollamento di soldati davanti alla tenda pretoria. Petreio chiede che
tutti giurino di non tradire e di non abbandonare l'esercito e i
comandanti e di non prendere decisioni, ciascuno per sé, separatamente
dagli altri. Egli stesso per primo pronuncia la formula del giuramento; fa
prestare lo stesso giuramento ad Afranio; seguono i tribuni militari e i
centurioni; i soldati, fatti avanzare per centurie, fanno il medesimo
giuramento. Ordinano che chiunque abbia presso di sé soldati di Cesare li
presenti; al cospetto di tutti uccidono davanti alla tenda pretoria coloro
che sono stati consegnati. Ma i più vengono nascosti da coloro che li
avevano accolti e di notte vengono fatti scappare attraverso la trincea.
Così il terrore cagionato dai capi, la crudeltà del massacro, il nuovo
vincolo del giuramento portarono via la speranza di una resa immediata,
mutarono l'animo dei soldati e ricondussero la situazione alla fase di
prima: la guerra.
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Cesare ordina di ricercare con grande cura e rimettere in libertà i
soldati nemici che erano giunti a colloquio nel suo accampamento. Ma tra i
tribuni militari e i centurioni alcuni di propria volontà rimasero presso
di lui. In seguito Cesare li tenne in grande considerazione; diede ai
centurioni i più alti gradi e ai cavalieri romani la dignità tribunicia.
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Gli Afraniani erano tormentati dalla mancanza di foraggio, a stento
riuscivano ad approvvigionarsi di acqua. I legionari avevano una certa
quantità di frumento, poiché era stato dato loro ordine di condurre da
Ilerda viveri per otto giorni, i cetrati e gli ausiliari non ne avevano
per niente, perché avevano pochi mezzi per procurarlo e un fisico non
abituato a portare pesi. E così ogni giorno un gran numero di loro trovava
rifugio da Cesare. La situazione si trovava in tale punto critico. Ma
delle due proposte presentate sembrava migliore quella di ritornare a
Ilerda, poiché qui avevano lasciato un po' di frumento. Confidavano di
prendere colà altre decisioni. Tarragona distava troppo; comprendevano che
in quel viaggio potevano capitare molti imprevisti. Approvato quel piano,
partono dal campo. Cesare manda innanzi la cavalleria per raggiungere e
trattenere la retroguardia e di persona tiene dietro con le legioni. Non
v'era un momento in cui gli ultimi della retroguardia non venissero
attaccati dai cavalieri.
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Si combatteva in questo modo: le coorti armate alla leggera chiudevano la
retroguardia e nei luoghi piani la maggior parte di esse si fermava. Se si
doveva salire un monte, la natura stessa del luogo facilmente allontanava
il pericolo, poiché dai luoghi superiori quelli che erano andati innanzi
proteggevano i compagni durante la salita; quando erano vicini a una valle
o a un pendio, coloro che erano innanzi non potevano portare aiuto a
quelli che rimanevano indietro; allora la cavalleria, da luoghi più
elevati, lanciava dardi alle spalle dei nemici e la situazione era di
grande pericolo. Quando ci si avvicinava a posti di tal fatta, non
rimaneva che ordinare alle legioni di fermarsi e respingere la cavalleria
con grande impeto e, una volta allontanatala, subito di gran corsa
precipitarsi tutti insieme nelle valli e così, dopo averle attraversate,
di nuovo fermarsi su alture. Infatti non solo non potevano avere aiuto
dalla loro cavalleria, sebbene numerosa, ma, atterrita com'era dai
precedenti scontri, la tenevano in mezzo alle file e per di più la
dovevano difendere. Nessun cavaliere poteva uscire dalla linea di marcia
senza essere catturato dalla cavalleria di Cesare.
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Quando si combatte in tale modo, si avanza lentamente, per brevi tratti e
spesso ci si ferma per recare aiuto ai compagni; e così avvenne allora.
Infatti, dopo essere avanzati quattro miglia, incalzati senza tregua dalla
cavalleria nemica, occupano un monte elevato e qui, senza levare neppure
il bagaglio ai giumenti, pongono il campo, fortificandolo solo dal lato
verso il nemico. Quando s'accorsero che Cesare aveva posto il campo e
innalzate le tende e inviata la cavalleria a cercare foraggio, essi, verso
mezzogiorno, all'improvviso si precipitano fuori e, sperando in una tregua
per l'allontanamento della nostra cavalleria, incominciano a mettersi in
marcia. Cesare, accortosi della cosa, li insegue con le legioni che si
erano riposate e lascia poche coorti di guardia ai bagagli; dà ordine di
seguirlo alle ore sedici e di richiamare i foraggiatori e la cavalleria.
Subito la cavalleria ritorna al suo quotidiano lavoro di disturbo durante
la marcia. Si hanno accaniti combattimenti con la retroguardia sicché
questa quasi si dà alla fuga e parecchi soldati, e anche alcuni
centurioni, vengono uccisi. L'esercito di Cesare incalzava e, tutto
insieme, stava addosso al nemico.
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Allora invero non essendo possibile né trovare un luogo adatto per porre
il campo né avanzare, i Pompeiani sono costretti a fermarsi e ad
accamparsi lontano dall'acqua e in posizione sfavorevole. Ma Cesare, per i
medesimi motivi sopra esposti, non li provocò a battaglia e in quel giorno
non volle che fossero poste le tende affinché tutti fossero più pronti
all'inseguimento, se i nemici, di giorno o di notte, avessero tentato una
sortita. Costoro, accortisi della posizione pericolosa dell'accampamento,
per tutta la notte portano in avanti le linee di difesa e spostano il
campo in altra sede. Continuano lo stesso lavoro anche il giorno
successivo fin dall'alba e vi impiegano tutta la giornata. Ma quanto più
procedevano nel lavoro e spostavano avanti il campo, tanto più erano
lontani dall'acqua e si rimediava al presente male con altri mali. La
prima notte nessuno esce dal campo in cerca d'acqua; il giorno successivo,
lasciato un presidio nel campo, fanno uscire tutte le truppe per
l'approvvigionamento d'acqua, nessuno viene mandato in cerca di foraggio.
Cesare preferiva tenerli in tali tormenti e costringerli alla
capitolazione piuttosto che risolvere il combattimento con le armi. Tenta
tuttavia di circondarli con una trincea e una fossa in modo da impedire al
massimo sortite improvvise, alle quali pensava che per forza avrebbero
dovuto ricorrere. I nemici, costretti dalla mancanza di cibo e per essere
più liberi nei movimenti, fanno uccidere tutte le bestie da soma.
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In queste operazioni e in questi piani si consumano due giorni; il terzo
giorno una gran parte del lavoro di Cesare era ormai terminato. I nemici
per impedire il completamento della rimanente parte di fortificazione,
dato il segnale intorno all'ora nona, portano fuori le legioni e si
mettono in ordine di battaglia dinanzi al campo. Cesare richiama le
legioni dai lavori, ordina a tutta la cavalleria di radunarsi, fa lo
schieramento di battaglia; infatti sembrare di volere fuggire la
battaglia, contro l'opinione dei soldati e l'attesa di tutti, sarebbe
stato svantaggioso. Ma era indotto a non volere combattere dai medesimi
motivi che si sono detti e ancor più perché, anche se i nemici fossero
stati costretti alla fuga, la ristrettezza dello spazio non gli sarebbe
potuta essere di grande aiuto per ottenere una vittoria schiacciante.
Infatti gli accampamenti non distavano tra loro più di duemila piedi. Di
questo spazio due terzi erano occupati dalle schiere; l'altro terzo era
stato lasciato libero per le scorrerie e l'assalto dei soldati. Se si
attaccava battaglia, la vicinanza del campo dava ai vinti un pronto
rifugio dalla fuga. Per questo motivo aveva deciso di opporre resistenza,
se i nemici l'avessero assalito, ma di non essere il primo ad attaccare
battaglia.
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La linea di battaglia afraniana, composta da cinque legioni, era su due
fronti; le coorti ausiliarie collocate sulle ali costituivano una terza
linea di riserva. Lo schieramento di Cesare era su tre file; ma la prima
linea era formata da venti coorti, ossia da quattro coorti provenienti da
ciascuna delle cinque legioni; la seconda linea di sostegno era formata da
tre coorti di ogni legione e la terza da altrettante e ciascuna coorte era
collocata dietro alla propria legione; in mezzo allo schieramento erano
posti i saettatori e i frombolieri; la cavalleria chiudeva i fianchi. Con
tale schieramento sembrava a entrambi gli eserciti di potere mantenere il
proprio piano: Cesare di non attaccare battaglia se non costretto, Afranio
di impedire i lavori di fortificazione di Cesare. In tal modo la
situazione viene protratta alle lunghe e gli schieramenti vengono
mantenuti fino al tramonto; quindi entrambi gli eserciti tornano al campo.
Il giorno successivo Cesare si appresta a terminare le fortificazioni
stabilite; gli Afraniani a tentare di passare il fiume Sicori, se fosse
stato possibile attraversarlo. Accortosi della cosa, Cesare fa passare al
di là del fiume i Germani armati alla leggera e una parte della cavalleria
e dispone sulle rive numerosi posti di guardia.
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Alla fine gli Afraniani, bloccati in ogni modo, ormai da quattro giorni
senza foraggio per gli animali rimasti, mancanti di acqua, legna,
frumento, chiedono un abboccamento, possibilmente in luogo lontano dalla
vista dei soldati. Cesare non accetta questa richiesta, concede solo un
abboccamento al cospetto di tutti; gli viene dato in ostaggio il figlio di
Afranio. L'incontro avviene nel luogo scelto da Cesare. Alla presenza di
entrambi gli eserciti prende la parola Afranio: né loro né i soldati,
dice, sono colpevoli per avere voluto restare fedeli al loro generale Cn.
Pompeo. Ma a sufficienza hanno assolto il loro dovere e a sufficienza
hanno sofferto; hanno sopportato la mancanza di tutto; ora invero,
circondati come fiere, viene loro impedito di bere, di muoversi e non sono
in grado di sopportare col corpo i patimenti e con l'animo la vergogna.
Pertanto si dichiarano vinti; implorano e supplicano, se è rimasto un
sentimento di pietà, di non essere messi in condizione di giungere
all'estremo martirio. Afranio pronuncia tali parole quanto più umilmente e
dimessamente può.
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A tali parole Cesare risponde: a nessuno meno che ad Afranio conviene il
ruolo di chi si lamenta e cerca compassione. Tutti gli altri infatti
avevano fatto il loro dovere: lui, Cesare, che non aveva voluto venire
alle armi anche in condizioni favorevoli, in un luogo e in un momento
conveniente, affinché persistessero al massimo tutte le opportunità di
pace; il suo esercito, che nonostante le ingiurie ricevute e le uccisioni
dei compagni, aveva salvato e protetto i soldati nemici in propria mano; e
infine i soldati dell'esercito nemico, che di propria iniziativa avevano
agito per trattative di pace e in tal modo avevano pensato di provvedere
alla salvezza di tutti i loro compagni. Così ognuno, coerentemente,
secondo il grado, aveva agito in base a un sentimento di pietà. Sono stati
i capi a essere contrari alla pace: essi non hanno mantenuto fede al
diritto di colloquio e di tregua e hanno ucciso con grande crudeltà uomini
senza difese e tratti in inganno col pretesto del colloquio. Era pertanto
accaduto a loro ciò che suole accadere per lo più a uomini troppo ostinati
ed arroganti, cioè di ricorrere, desiderandolo ardentemente, a ciò che
poco prima avevano disprezzato. Ora egli non chiede, approfittando della
loro sottomissione e del favore della circostanza, di che accrescere le
sue forze; ma pretende che siano congedati quegli eserciti mantenuti ormai
per troppi anni contro di lui. Né infatti per altro motivo sono state
mandate in Spagna sei legioni e qui ne è stata arruolata una settima, e
tante e così grandi flotte sono state apprestate e sono stati di nascosto
mandati comandanti esperti di guerra. Nessuno di tali provvedimenti era
stato preso per la pacificazione delle Spagne e per l'utilità della
provincia che durante il periodo di pace non aveva avuto bisogno di nessun
aiuto. Già da tempo tutti i provvedimenti erano rivolti contro di lui,
contro di lui si istituivano comandi di nuovo genere così che una medesima
persona, standosene alle porte di Roma, presiedeva le questioni della
città e, pure assente, teneva per tanti anni due bellicosissime province;
contro di lui venivano mutate le leggi sul conferimento delle magistrature
per essere mandati nelle province non dopo la pretura e il consolato, come
nel passato, ma attraverso l'elezione e l'approvazione di pochi; contro di
lui non valeva più la giustificazione dell'età poiché venivano chiamate al
comando degli eserciti persone segnalatesi in precedenti guerre; contro di
lui solo non si manteneva ciò che era sempre stato concesso a tutti i
generali, di tornare in patria, dopo avere compiuto campagne fortunate, o
con qualche onore o certamente senza ignominia e di congedare l'esercito.
Tuttavia egli ha sopportato con pazienza e sopporterà ancora tutto ciò; e
ora vuole non tenersi l'esercito a loro sottratto, cosa che tuttavia non
sarebbe per lui difficile, ma che non rimanga a loro per potersene servire
contro di lui. Dunque, come è stato detto, ordina di uscire dalle province
e di congedare l'esercito; se ciò viene fatto, egli non ha intenzione di
nuocere a nessuno. Questa è l'unica e l'ultima condizione di pace.
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Ai soldati queste parole di Cesare risultarono graditissime e piacevoli,
come si poté anche comprendere dai segni esteriori: essi si aspettavano
qualche giusto castigo, ottenevano invece, senza richiederlo, il premio
del congedo. Infatti quando si discusse del luogo e del tempo del congedo,
tutti, e con grida e con gesti delle mani, dal vallo dove si trovavano
cominciarono a dare segno di volere essere subito congedati, poiché se,
nonostante le assicurazioni date, il congedo fosse stato rimandato ad
altro tempo, non potevano averne più sicurezza. Dopo una breve discussione
da entrambe le parti, si giunge alla conclusione di congedare subito
quelli che avevano domicilio o proprietà in Spagna, gli altri presso il
fiume Varo; da parte di Cesare si ha la garanzia che non venga fatto loro
alcun danno e che nessuno sia costretto ad arruolarsi contro voglia.
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Cesare promette di fornire frumento da quel momento fino all'arrivo al
fiume Varo. Aggiunge anche che venga restituito ai possessori ciò che è
stato perduto in guerra e sia in possesso dei suoi soldati; fatta una
giusta stima dà ai suoi soldati denaro corrispondente al valore di questi
oggetti. Tutte le controversie sorte tra i soldati furono poi rimesse
spontaneamente al giudizio di Cesare. Poiché le legioni, quasi con una
sorta di rivolta, richiedevano a Petreio e Afranio la paga militare, ed
essi sostenevano che non era ancora giunto il momento, si richiese il
giudizio di Cesare ed entrambe le parti furono soddisfatte della sua
decisione. Una terza parte circa dell'esercito fu congedata in due giorni;
Cesare ordinò a due sue legioni di marciare avanti e alle altre di tenere
dietro, in modo che i campi non fossero lontani fra di loro; affida tale
incarico al luogotenente Q. Fufio Caleno. La marcia dalla Spagna al fiume
Varo avvenne secondo le sue prescrizioni e qui fu congedato il resto
dell'esercito.
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