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De Bello Civili
Il De bello civili abbraccia gli avvenimenti degli anni 49 e 48 a.C. La vicenda
ha inizio quando, nel gennaio del 49, vengono respinte dal senato le proposte di
Cesare per un componimento pacifico della contesa con Pompeo. Si ordina a Cesare
di abbandonare il comando delle legioni galliche e di rientrare a Roma come
semplice cittadino, se intende porre la sua candidatura al consolato per l'anno
successivo.
Dichiarato nemico della repubblica, Cesare marcia su Roma, mentre Pompeo, i
consoli e gran parte dei senatori fuggono dalla Capitale, per imbarcarsi poi a
Brindisi e trovare scampo a Durazzo. Cesare non giunge in tempo per bloccare
l'avversario e passa in Spagna: a Ilerda sbaraglia un esercito pompeiano (l. I).
Anche Marsiglia, che si era schierata dalla parte di Pompeo, cade in mano di
Cesare; in Africa Curione, legato di Cesare subisce una dura sconfitta e viene
ucciso (l. II). Nominato console, Cesare riprende la campagna contro Pompeo,
sbarca in Epiro e assedia Durazzo. Ma Pompeo riesce a creare gravi difficoltà
all'esercito avversario, forzando l'assedio. I due eserciti muovono quindi verso
l'interno. La battaglia decisiva viene combattuta a Farsàlo in Tessaglia nel 48:
Pompeo, nonostante la superiorità delle forze e la richezza delle risorse, è
sconfitto, fugge in Egitto e qui viene ucciso (l. III).
Ai libri cesariani seguono tre operette anonime, il Bellum Alexandrinum, il
Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, che narrano le vicende successive: la
campagna d'Egitto del 47, quella d'Africa (battaglia di Tapso) del 46 e quella
di Spagna (battaglia di Munda) del 45.
(Testo/Traduzione)
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Libro I
Libro II
Libro III
LIBRO TERZO
1
Cesare in qualità di dittatore convoca i comizi elettorali; vengono eletti
consoli Giulio Cesare e Publio Servilio; era infatti questo l'anno in cui,
secondo le leggi, gli era concesso di diventare console. Ciò compiuto, dal
momento che in tutta Italia il credito era in grave crisi e non venivano
pagati i debiti, dispose che fossero nominati degli arbitri e che per
mezzo di essi si facesse la stima dei beni mobili ed immobili per sapere
quanto valesse, prima della guerra, ciascuno di questi beni, e che essi
fossero consegnati ai creditori. Stimò che questo provvedimento fosse
molto opportuno sia per fugare o diminuire il timore di nuovi libri dei
conti, cosa che quasi sempre suole accadere dopo guerre e discordie
civili, sia per tutelare la fiducia verso i debitori. Parimenti, a mezzo
di proposte di legge sottoposte al popolo dai pretori e dai tribuni della
plebe, reintegrò in tutti i loro diritti parecchi cittadini condannati in
forza della legge di Pompeo sui brogli, al tempo in cui Pompeo aveva in
città il presidio delle legioni, quando si svolgevano in un solo giorno
processi in cui alcuni giudici ascoltavano, altri emettevano la sentenza.
Questi cittadini all'inizio della guerra civile si erano offerti a Cesare,
se egli voleva avvalersi dei loro servigi in guerra, perciò li giudicò
come se se ne fosse servito, dal momento che si erano messi a sua completa
disposizione. Aveva infatti stabilito che costoro dovessero venire
reintegrati per giudizio popolare piuttosto che sembrare riabilitati per
suo favore, per non apparire o ingrato nel dimostrare la propria
riconoscenza o arrogante nel sottrarre al popolo un suo privilegio.
2
Impiega undici giorni per sbrigare queste cose, per celebrare le Ferie
latine e per portare a termine tutti i comizi; rinuncia alla dittatura,
parte da Roma e giunge a Brindisi. Aveva ordinato che si recassero colà
dodici legioni e tutta la cavalleria. Ma di navi trovò solo un numero
sufficiente a trasportare, a mala pena, quindicimila legionari e
cinquecento cavalieri. Solo questo [la scarsità delle navi] mancò a Cesare
per condurre a termine la guerra in breve tempo. Inoltre quelle stesse
legioni che vengono fatte imbarcare sono al di sotto del numero effettivo
di uomini in quanto molti di essi erano venuti a mancare in tante guerre
galliche, e il lungo viaggio dalla Spagna ne aveva di molto diminuito il
numero e l'autunno insalubre in Puglia e attorno a Brindisi aveva messo a
prova la salute di tutto l'esercito che proveniva dalle salutari regioni
della Gallia e della Spagna.
3
Pompeo, che aveva avuto un intero anno per mettere insieme le truppe,
tranquillo poiché in tale periodo non vi era stata guerra e interventi da
parte dei nemici, aveva raccolto dall'Asia, dalle isole Cicladi, da
Corcira, da Atene, dal Ponto, dalla Bitinia, dalla Siria, dalla Cilicia,
dalla Fenicia e dall'Egitto una grande flotta; aveva comandato che
un'altra grande flotta fosse costruita in ogni luogo, aveva preteso e
ottenuto una considerevole quantità di denaro richiesta in Asia e in Siria
e da tutti i re, dinasti e tetrarchi e dai liberi popoli dell'Acaia, aveva
costretto le società di cavalieri delle province in suo possesso a
versargli una grande quantità di denaro.
4
Aveva allestito nove legioni di cittadini romani; cinque le aveva
trasportate dall'Italia, una di veterani dalla Cilicia, che chiamava
"gemella" perché formata da due legioni, una da Creta e dalla Macedonia
composta di soldati veterani che, congedati da precedenti comandanti, si
erano fermati in quelle province, due dall'Asia che il console Lentulo
aveva fatto arruolare. Inoltre, a completamento degli effettivi, aveva
distribuito fra le legioni un gran numero di soldati provenienti dalla
Tessaglia, Beozia, Acaia ed Epiro; a questi aveva unito i soldati di
Antonio. Oltre a queste aspettava due legioni provenienti dalla Siria con
Scipione. Aveva tremila arcieri giunti da Creta, da Sparta, dal Ponto,
dalla Siria e da altre città, due coorti di frombolieri ciascuna formata
di seicento uomini, e settemila cavalieri. Di questi, seicento erano Galli
portati da Deiotaro, cinquecento li aveva portati Ariobarzane dalla
Cappadocia; circa un medesimo numero aveva procurato dalla Tracia Coto,
che aveva mandato il figlio Sadala; della Macedonia ve ne erano duecento,
al cui comando era Rascipoli, uomo di grande valore; cinquecento, Galli e
Germani, provenivano da Alessandria ed erano fra quei gabiniani che A.
Gabinio lí aveva lasciato di presidio presso il re Tolomeo, e Pompeo
figlio li aveva condotti con la flotta; ottocento li aveva raccolti fra i
suoi servi e pastori; trecento li avevano dati dalla Gallogrecia Castore
Tarcondario e Domnilao (uno era venuto di persona, l'altro aveva mandato
il figlio); duecento erano stati mandati dalla Siria da Antioco Commagene,
al quale Pompeo diede grandi ricompense, e di questi la maggior parte
erano arcieri a cavallo. A questi aveva aggiunto Dardani, Bessi in parte
mercenari in parte arruolati o volontari, e inoltre Macedoni, Tessali e
uomini di altre nazioni e città; in tal modo aveva formato quel numero che
sopra abbiamo detto.
5
Aveva radunato dalla Tessaglia, dall'Asia, dall'Egitto, da Creta, da
Cirene e da altre regioni una grandissima quantità di frumento. Aveva
deciso di svernare a Durazzo, ad Apollonia e in tutte le città marittime
per impedire a Cesare di attraversare il mare e a tal fine aveva disposto
una flotta su tutto il litorale. Era a capo delle navi egiziane Pompeo
figlio, di quelle asiatiche D. Lelio e C. Triario, delle siriache C.
Cassio, di quelle di Rodi C. Marcello e C. Coponio, della flotta liburnica
e achea Scribonio Libone e Marco Ottavio. M. Bibulo, pur se preposto a
tutte le operazioni marittime aveva tuttavia anche la direzione generale;
a lui apparteneva il comando supremo.
6
Cesare, non appena giunse a Brindisi, tenne un discorso ai soldati dicendo
che, poiché si era ormai giunti al termine delle fatiche e dei pericoli,
di buon animo lasciassero in Italia schiavi e bagagli e salissero sulle
navi senza impedimenti in modo che un maggiore numero di soldati potesse
venire imbarcato e che ponessero ogni speranza nella vittoria e nella sua
liberalità. Poiché tutti insieme gli avevano gridato di comandare ciò che
voleva e che avrebbero fatto di buon animo qualunque cosa avesse
comandato, salpò il 4 gennaio. Come si è detto, furono imbarcate sette
legioni. Il giorno dopo raggiunse la terra dei Germini. Tra le scogliere
dei Cerauni e altri luoghi pericolosi trovato un posto tranquillo, temeva
infatti ogni porto, poiché li credeva tutti in mano ai nemici, sbarcò i
soldati dalle navi, tutte incolumi dalla prima all'ultima, presso quella
località chiamata Paleste.
7
A Orico vi erano Lucrezio Vespillo e Minucio Rufo con diciotto navi
asiatiche delle quali essi erano a capo per ordine di D. Lelio; a Corcira
vi era M. Bibulo con centodieci navi. Ma quelli, non fidandosi delle
proprie forze, non osarono uscire dal porto, sebbene Cesare avesse
condotto di scorta in tutto solo dodici navi lunghe da guerra, fra cui
quattro coperte; e Bibulo, a sua volta, dal momento che non aveva le navi
in ordine per salpare e i rematori erano dispersi, non lo affrontò in
tempo poiché Cesare fu visto vicino a terra prima che la notizia del suo
arrivo si fosse sparsa in quei luoghi.
8
Sbarcati i soldati, Cesare rimanda nella stessa notte le navi a Brindisi
perché si potessero trasportare le altre legioni e la cavalleria. A questa
operazione era stato preposto il luogotenente Fufio Caleno, che doveva
trasportare velocemente le legioni. Ma le navi, che avevano preso troppo
tardi il largo e non ebbero dalla loro la brezza notturna, sulla via del
ritorno incontrarono una cattiva sorte. Bibulo infatti, informato a
Corcira dell'arrivo di Cesare, sperando di potersi imbattere in qualche
nave carica, incontrò quelle vuote; e incrociatene circa una trentina,
contro di loro sfogò la rabbia dovuta alla sua negligenza e alla sua
esasperazione: le incendiò tutte e nel medesimo incendio uccise marinai e
comandanti delle navi, sperando di atterrire gli altri con la gravità del
castigo. Compiuta questa impresa, occupò con la flotta, in lungo e in
largo, gli ancoraggi e tutti i litorali da Sasone al porto di Curico e,
scaglionati più scrupolosamente i corpi di guardia, egli stesso,
nonostante il rigore dell'inverno pernottava sulle navi vigilando,
disprezzando ogni fatica o incarico, senza aspettarsi un aiuto, pure di
potere venire alle armi con Cesare ...
9
Dopo la partenza delle navi liburniche dall'Illiria M. Ottavio giunse a
Salona con le sue navi. Qui, dopo avere sollevato i Dalmati e gli altri
barbari, provocò la rottura dell'alleanza di Issa con Cesare; ma non
potendo, né con preghiere né con minacce, smuovere la cittadinanza di
Salona, decise di assediare la città (è questa protetta sia dalla natura
del luogo sia da un colle). Ma in poco tempo i cittadini romani
costruirono delle torri di legno per difendersi e non potendo opporre
resistenza per l'esiguo numero di uomini, indeboliti dalle molte ferite,
ricorsero al rimedio estremo e liberarono tutti i servi in età giovanile
e, dopo avere tagliato i capelli di tutte le donne, fecero corde per le
macchine da guerra. Ottavio, venuto a conoscenza del loro piano, cinse la
città con cinque accampamenti e cominciò a incalzarla contemporaneamente
con assedio e assalti. Quelli, pur disposti a sopportare tutto, erano
tormentati sopra ogni cosa dalla mancanza di viveri. Perciò mandarono
ambasciatori a Cesare per chiedergli aiuto. Sostenevano da soli, come
potevano, gli altri disagi. Dopo molto tempo, poiché la durata
dell'assedio aveva reso i soldati di Ottavio alquanto trascurati,
cogliendo il momento del mezzogiorno quando i nemici si allontanavano,
disposti fanciulli e donne sulle mura, perché le abitudini quotidiane
sembrassero immutate, formata una schiera con quelli che avevano da poco
liberati, fecero irruzione nel più vicino degli accampamenti di Ottavio.
Espugnatolo, con lo stesso impeto assalirono il secondo, quindi il terzo e
il quarto e poi il quinto e cacciarono i nemici da tutti i campi e,
uccisone un gran numero, costrinsero i rimanenti e lo stesso Ottavio a
trovare rifugio sulle navi. Questo fu l'esito dell'assedio. E già si
avvicinava l'inverno e, subìti tanti danni, Ottavio, non sperando più di
espugnare la città, si ritirò a Durazzo presso Pompeo.
10
Abbiamo detto che L. Vibullio Rufo, prefetto di Pompeo, era caduto due
volte in potere di Cesare e da questo rimesso in libertà, una volta a
Corfinio, una volta in Spagna. Cesare, per i benefici che gli aveva
concesso, aveva giudicato costui idoneo per essere mandato con proposte da
Cn. Pompeo, per l'ascendente che su di lui, come sapeva, egli esercitava.
Queste per sommi capi erano le proposte: entrambi dovevano porre fine alla
loro ostinazione, deporre le armi e non tentare più a lungo la Fortuna.
Entrambi avevano ricevuto danni abbastanza grandi, che potevano servire di
lezione e di esempio sì da temerne altri: Pompeo, scacciato dall'Italia,
dopo avere perduto la Sicilia e la Sardegna e le due Spagne e centotrenta
coorti di cittadini romani in Italia e Spagna; lui, Cesare, con la morte
di Curione e la perdita dell'esercito africano e la resa di Antonio e dei
soldati presso Curitta. Non dovevano danneggiare se stessi e lo stato dal
momento che essi con i loro guai erano prova sufficiente di quanto può la
Fortuna in guerra. Era proprio questo il momento irripetibile per trattare
la pace, finché tutti e due confidavano in se stessi e le forze sembravano
pari; ma se per caso la Fortuna avesse fatto qualche piccola concessione a
uno dei due, chi si credeva superiore non avrebbe voluto sapere di
condizioni di pace, né si sarebbe contentato di parti uguali colui che
confidasse di potere avere tutto. Dal momento che prima non ci si era
potuti accordare, le condizioni di pace dovevano essere chieste al senato
e al popolo romano. Ciò conveniva allo stato ed era opportuno che piacesse
anche a loro. Se entrambi, immediatamente, alla presenza dei soldati,
avessero giurato di congedare entro tre giorni l'esercito, deposte le armi
e sciolte le truppe ausiliarie, nelle quali ora ponevano fiducia, di
necessità entrambi avrebbero di buon animo accettato il giudizio del
popolo e del senato. Affinché questa proposta potesse essere più
facilmente accettata da Pompeo, avrebbe congedato tutte le sue truppe
terrestri e le milizie delle città...
11
Vibullio, dopo avere riferito queste proposte [a Corcira], ritenne non
meno necessario informare Pompeo dell'improvviso arrivo di Cesare affinché
potesse prendere decisioni in merito prima di iniziare a esaminare
l'ambasceria. E così, senza interrompere il cammino né di giorno né di
notte e, per andare veloce, cambiando i cavalli in tutte le stazioni, si
dirige da Pompeo per annunziargli l'arrivo di Cesare. In quel momento
Pompeo era a Caldavia e dalla Macedonia si dirigeva ad Apollonia e a
Durazzo nei quartieri invernali. Ma, turbato dall'avvenimento inatteso,
con marce più veloci cominciò a dirigersi ad Apollonia affinché Cesare non
si impadronisse delle città della costa. Ma Cesare, sbarcate le truppe,
nel medesimo giorno si dirige a Orico. Quando vi giunse, L. Torquato, che
per ordine di Pompeo era a capo della città e qui teneva un presidio di
Partini, fece chiudere le porte e tentò di difendere la città; quando
ordinò ai Greci di salire sulle mura e di prendere le armi, quelli dissero
di non avere intenzione di combattere contro l'autorità del popolo romano;
poi spontaneamente i cittadini tentarono di accogliere Cesare. Torquato,
perduta ogni speranza di aiuto, aprì le porte e consegnò la città e se
stesso a Cesare, che lo lasciò incolume.
12
Capitolata Orico, Cesare si dirige senza alcun indugio ad Apollonia. Alla
notizia del suo arrivo L. Staberio, che qui comandava, cominciò a fare
portare acqua nella rocca e a fortificarla e a richiedere ostaggi dagli
abitanti di Apollonia. Ma questi dissero che non glieli avrebbero dati e
che non avevano intenzione di chiudere le porte al console né di assumere
deliberazioni contrarie a quelle dell'intera Italia [il popolo romano].
Conosciuto il loro parere, Staberio fugge di nascosto da Apollonia. Gli
abitanti mandano ambasciatori a Cesare e lo accolgono in città. Seguono il
loro esempio gli abitanti di Billide, di Amanzia e le altre città vicine e
tutto l'Epiro; mandati ambasciatori a Cesare, promettono di eseguire i
suoi ordini.
13
Ma Pompeo, venuto a conoscenza di quanto era avvenuto a Orico e ad
Apollonia e temendo la perdita di Durazzo, vi si dirige marciando giorno e
notte, mentre si andava dicendo che Cesare si avvicinava. Una paura tanto
grande si impadronì del suo esercito che, poiché nella fretta faceva della
notte giorno, non interrompendo la marcia, quasi tutti i soldati
dell'Epiro e quelli provenienti dalle regioni vicine disertavano, parecchi
gettavano le armi e la marcia pareva simile a una fuga. Ma quando Pompeo
si fermò presso Durazzo e ordinò di porre il campo, poiché l'esercito era
ancora in preda al terrore, Labieno per primo si fa avanti e giura di non
lasciarlo e di essere pronto ad andare incontro alla medesima sorte che la
Fortuna avesse riservato a Pompeo. Lo stesso giuramento fanno gli altri
luogotenenti; li seguono i tribuni dei soldati e i centurioni e il
medesimo giuramento fa tutto l'esercito. Cesare, visto che la marcia su
Durazzo era stata prevenuta da Pompeo, finisce di marciare in fretta e
pone il campo presso il fiume Apso nel territorio degli Apolloniati,
perché le città benemerite fossero difese da fortini e posti di guardia [a
difesa] e stabilisce di aspettare qui l'arrivo delle altre legioni
dall'Italia e di svernare in tenda. Altrettanto fa Pompeo e, posto il
campo al di là del fiume Apso, vi conduce tutte le milizie e le truppe
ausiliarie.
14
Caleno, imbarcate a Brindisi legioni e cavalleria, quel tanto che le navi
potevano contenerne, come era stato comandato da Cesare, salpa e,
allontanatosi un po' dal porto, riceve una lettera da Cesare che lo
informa che i porti e tutto il litorale sono in mano alla flotta nemica.
Venuto a conoscenza di ciò, fa ritorno in porto e richiama tutte le navi.
Una di esse, che continuò la navigazione e non obbedì al comando di
Caleno, poiché non c'erano soldati a bordo ed era comandata da un privato,
spintasi fino a Orico, fu presa da Bibulo che sfogò il proprio odio sui
servi e su tutti gli uomini liberi, non risparmiando neppure i fanciulli,
uccidendo tutti. Così da un breve intervallo di tempo e da un caso
accidentale dipese la salvezza di tutto l'esercito.
15
Bibulo, come si è visto sopra, era sulla flotta presso Orico e come egli
impediva a Cesare la via di mare e l'ingresso ai porti, così era impedito
a lui stesso lo sbarco in tutti i punti di quelle regioni. Infatti
collocati qua e là dei presidi, tutte le coste erano in mano a Cesare e
non vi era modo né di fare legna e acqua né di ormeggiare le navi. La
situazione era di estrema difficoltà e i Pompeiani erano tormentati dalla
totale mancanza del necessario sì da essere costretti a portare da Corcira
con navi da carico oltre che i viveri anche legna e acqua. Ciò nonostante
sopportavano pazientemente e di buon animo queste difficoltà e ritenevano
di non dovere togliere la sorveglianza alle coste e lasciare i porti. Ma
trovandosi nelle difficoltà che ho detto e essendosi unito Libone a
Bibulo, entrambi, dalle navi, dialogano con i luogotenenti M. Acilio e
Stazio Murco, dei quali l'uno era preposto alla difesa delle mura della
città, l'altro alle difese di terra: dicono di volere discutere con Cesare
di cose della massima importanza, se a loro viene concessa la possibilità.
A conferma di ciò aggiungono poche parole per mostrare di avere intenzione
di negoziare un trattato. Frattanto chiedono un armistizio e lo ottengono.
Di grande importanza infatti sembrava la proposta che presentavano e
sapevano che la cosa era molto desiderata da Cesare e si pensava che si
sarebbe ottenuto qualche risultato dalle proposte di Vibullio.
16
Cesare in quel tempo, partito con una sola legione per ricevere la
sottomissione delle città più meridionali e per procurarsi del frumento di
cui aveva penuria, si trovava nei pressi di Butroto, città di fronte a
Corcira. Qui, informato per lettera da Acilio e Murco delle richieste di
Libone e Bibulo, lascia la legione e fa ritorno a Orico. Giuntovi, i
Pompeiani vengono convocati a colloquio. Libone si fa avanti e porge le
scuse per l'assenza di Bibulo, poiché questi era di carattere fortemente
iracondo e aveva con Cesare un'inimicizia anche privata nata al tempo
dell'edilità e della pretura; per questo motivo aveva evitato il colloquio
affinché la sua irascibilità non turbasse il negoziato che si sperava di
grandissima utilità. È, dice, e fu sempre grandissimo desiderio di Pompeo
che si venisse a un accordo e si deponessero le armi; essi non hanno
nessun potere per trattare, perché secondo il decreto del consiglio il
comando supremo della guerra e di tutto il resto era stato affidato a
Pompeo. Ma, una volta conosciute le richieste di Cesare, essi le avrebbero
fatte pervenire a Pompeo e Pompeo, esortato da loro, avrebbe da solo preso
le rimanenti decisioni. Durasse frattanto l'armistizio in modo che si
potesse fare ritorno da Pompeo e nessuno dei due avversari potesse
danneggiare l'altro. A ciò aggiunge poche parole sulle ragioni del
conflitto e sulle proprie truppe e milizie ausiliarie.
17
A queste ultime considerazioni Cesare non ritenne di dovere per il momento
rispondere né pensiamo ora che ci sia un motivo sufficiente per
ricordarle. Cesare chiedeva che gli fosse possibile mandare ambasciatori a
Pompeo senza pericolo e che essi stessi garantissero il buon esito della
cosa oppure li prendessero in consegna e li conducessero alla presenza di
Pompeo. Per quanto concerneva la tregua, la situazione della guerra era in
questi termini che essi con la flotta erano di ostacolo alle sue navi e
alle truppe ausiliarie, mentre egli li teneva lontani dalla terraferma e
dall'approvvigionamento di acqua. Se volevano che questo ostacolo venisse
tolto, rinunziassero al blocco navale; se essi tenevano duro, anch'egli
aveva intenzione di tenere duro. Ciò nonostante si poteva trattare
dell'accordo, anche senza concessioni e ciò non era per loro un
impedimento. Libone rispose di non potere né accettare la tutela degli
ambasciatori di Cesare né garantire per la loro sicurezza; faceva ricadere
ogni responsabilità su Pompeo: su un solo punto insisteva, la tregua che
esigeva con grande insistenza. Quando Cesare comprese che egli aveva
ordito tutto il suo discorso per ovviare al pericolo presente e alla
mancanza di provviste e che non recava alcuna speranza o condizione di
pace, ricondusse il suo pensiero alla guerra.
18
Bibulo, al quale da molti giorni era impedito lo sbarco, gravemente
ammalato a causa della fatica e del freddo, non potendo essere curato e
non volendo abbandonare l'incarico assunto, non sopportò la virulenza
della malattia. Dopo la sua morte nessuno ebbe da solo il comando supremo,
ma ciascuno comandava le proprie navi autonomamente e secondo il proprio
giudizio. Vibullio, sedato il tumulto suscitato dall'improvviso arrivo di
Cesare, appena il momento gli parve opportuno, assistito da Libone, L.
Lucceio e Teofane, con i quali Pompeo era solito consultarsi sugli affari
della massima importanza, cominciò a discutere delle proposte di Cesare.
Aveva appena cominciato a parlare quando Pompeo lo interruppe e gli impedì
di proseguire oltre il discorso: "Che importa a me", disse "della vita o
dei diritti civili, se sembreranno da me posseduti per la benevolenza di
Cesare? E questa opinione non potrà essere cancellata, poiché sembrerà che
io sia stato ricondotto a forza in Italia, dalla quale mi sono
allontanato". Terminata la guerra, Cesare venne a conoscenza di questi
fatti da coloro che furono presenti al colloquio. Ciò nonostante tentò in
altro modo di fare trattative di pace mediante abboccamenti.
19
Tra i due campi di Pompeo e di Cesare vi era soltanto il fiume Apso e i
soldati avevano fra di loro frequenti colloqui e, come da loro comune
accordo, non veniva nel frattempo scagliato alcun dardo. Cesare manda il
luogotenente P. Vatinio sulla riva del fiume stesso per fare ciò che gli
pareva essere più utile per la pace: domandare, più volte e a gran voce,
se non era lecito a cittadini romani inviare ad altri cittadini romani
ambasciatori per trattative di pace, cosa che è concessa anche agli
schiavi che fuggono dai Pirenei e ai predoni, sopra tutto perché tentavano
di impedire che ci fosse uno scontro armato fra concittadini. Parlò a
lungo con tono supplichevole, come egli doveva, trattandosi della salvezza
sua e di tutti, e fu ascoltato in silenzio da entrambi gli eserciti. Dai
Pompeiani fu risposto che Aulo Varrone dichiarava che il giorno dopo
sarebbe andato al colloquio e che insieme a loro avrebbe esaminato in che
modo gli ambasciatori potessero venire senza pericolo ed esporre ciò che
volevano. Viene fissata una certa ora per l'incontro. E il giorno dopo
quando ci si incontrò da entrambe le parti si radunò una grande folla;
grande era l'attesa dell'evento e l'animo di tutti sembrava rivolto alla
pace. In mezzo a questa moltitudine avanza Tito Labieno e con tono
moderato incomincia a parlare di pace e a discutere con Vatinio.
All'improvviso dardi scagliati da ogni parte interrompono a metà i loro
discorsi; Vatinio, riparato dalle armi dei soldati, li evita; tuttavia
vengono feriti molti, fra i quali Cornelio Balbo, M. Plozio, L. Tiburzio,
alcuni centurioni e soldati. Allora Labieno: "Smettetela dunque di parlare
di accordi; infatti nessuna pace vi può essere con noi se non quando verrà
portata la testa di Cesare".
20
In quel medesimo tempo il pretore M. Celio Rufo si assunse la causa dei
debitori e, all'entrata in carica, pose il suo seggio accanto a quello di
Caio Trebonio, pretore urbano, e, se qualcuno ricorreva in appello sugli
estimi e sui pagamenti imposti dal giudice, prometteva di aiutarlo secondo
quanto Cesare aveva stabilito quando era a Roma. Ma per l'equità del
decreto e l'umanità di Trebonio, che riteneva che in quelle circostanze si
dovesse esercitare il diritto con clemenza e moderazione, avveniva che non
si poteva trovare chi per primo si appellasse contro le sentenze. Infatti
è forse proprio di un animo mediocre prendere a pretesto la povertà e
lamentarsi delle disgrazie proprie o di quelle dei tempi e mettere avanti
le difficoltà di vendita all'asta, ma mantenere intatti i propri beni,
quando si riconoscono i propri debiti, quale coraggio o impudenza
richiede? E così non si poteva trovare nessuno che presentasse tale
richiesta. E Celio si mostrò più duro di quelli stessi ai quali la cosa
era d'utilità. E, dopo un simile inizio, per non sembrare di essersi dato
inutilmente a una causa ingiusta, promulgò una legge che prevedeva il
pagamento dei debiti entro sei anni senza interesse.
21
Poiché il console Servilio e altri magistrati si opponevano ed egli
otteneva meno successo di quanto aveva previsto, Celio Rufo, per eccitare
le passioni degli uomini, abrogata la legge precedente, ne promulgò altre
due, una con la quale abbuonò agli inquilini l'affitto di un anno, l'altra
con la creazione di nuovi registri di debiti. Il popolo si sollevò contro
C. Trebonio, vi furono alcuni feriti ed egli fu cacciato dal suo seggio.
Di questi avvenimenti il console Servilio riferì al senato il quale
decretò che Celio doveva essere rimosso dalla carica. In base a tale
decreto il console gli impedì l'accesso al senato e, mentre tentava di
pronunciare un discorso, lo fece scendere dalla tribuna degli oratori.
Celio, turbato dalla vergogna e dal dolore, pubblicamente finse di andare
da Cesare; di nascosto mandò messi a Milone, che, ucciso Clodio, era stato
esiliato per tale crimine, e lo richiamò in Italia, poiché egli, che aveva
dato grandi spettacoli, possedeva ancora un certo numero di gladiatori;
Milone, unitosi a lui, fu mandato a Turi per sollevare i pastori. Egli era
giunto a Casilino quando le sue insegne militari e le sue armi furono
prese a Capua e fu scoperta a Napoli la schiera di gladiatori che tramava
per la resa della città; conosciuti i suoi piani, fu bandito da Capua.
Temendo il pericolo, poiché la città aveva preso le armi e lo considerava
un nemico pubblico, abbandonò il suo piano e mutò cammino.
22
Frattanto Milone, diramata ai vari municipi una lettera con la quale
comunicava di agire in ossequio al comando e al volere di Pompeo,
trasmessigli da Vibullio, istigava coloro che pensava essere oppressi dai
debiti. Ma, non potendo con essi ottenere risultati, aprì alcuni ergastoli
e iniziò l'attacco di Compsa nell'agro Irpino. Qui, con una legione dal
pretore Q. Pedio ..., fu colpito da una pietra scagliata dalle mura e
morì. E Celio, partito, come andava dicendo, alla volta di Cesare, giunse
a Turi. Qui, mentre sobillava alcuni abitanti di quel municipio e
prometteva denaro a cavalieri di Cesare, galli e spagnoli, mandati là di
guarnigione, venne ucciso da costoro. E così la fase iniziale di
avvenimenti importanti, che tenevano in ansia l'Italia perché i governanti
erano occupati in altre faccende e le circostanze suscitavano
preoccupazione, ebbe una fine rapida e facile.
23
Libone, partito da Orico alla testa di una flotta di cinquanta navi,
giunse a Brindisi e occupò l'isola che si trova di fronte al porto, poiché
riteneva preferibile difendere con sorveglianza stretta un solo luogo, per
dove era necessario che i nostri passassero, piuttosto che tutti i lidi e
i porti. Costui, arrivato all'improvviso, si imbatté in alcune navi da
carico che incendiò; ne portò con sé una carica di frumento e cagionò ai
nostri grande paura; sbarcati di notte fanti e sagittari, scacciò il
presidio di cavalieri e approfittò del favore della posizione a tal punto
da mandare una lettera a Pompeo, dicendo che, se voleva, desse l'ordine di
tirare in secco le navi per le riparazioni: egli con le sue navi era in
grado di impedire che Cesare ricevesse aiuti.
24
In quel tempo Antonio si trovava a Brindisi; confidando nel valore dei
soldati protesse con graticci e parapetti circa sessanta scialuppe delle
navi grandi; vi imbarcò soldati scelti e le dispose in parecchi luoghi
separatamente lungo il litoraneo; ordinò alle due triremi, che aveva fatto
costruire a Brindisi, di portarsi verso l'imboccatura del porto col
pretesto di esercitare i rematori. Quando Libone vide che esse erano
avanzate con troppa audacia, sperando di poterle sorprendere mandò contro
di esse cinque quadriremi. Quando queste erano vicine alle nostre navi, i
nostri veterani si rifugiavano nel porto, quelli, eccitati dal loro
ardore, con troppa imprudenza le inseguivano. Così, a un segnale
convenuto, all'improvviso da ogni parte le scialuppe di Antonio si
lanciarono contro i nemici e, al primo assalto, si impadronirono di una di
queste quadriremi con i rematori e i difensori e costrinsero le altre a
fuggire vergognosamente. A questo insuccesso si aggiunse il fatto che i
cavalieri disposti da Antonio lungo la costa impedivano ai nemici
l'approvvigionamento di acqua. Libone, indotto da questa necessità e
dall'onta, si allontanò da Brindisi e tolse l'assedio ai nostri.
25
Erano già passati molti mesi e l'inverno era quasi finito e da Brindisi
non giungevano a Cesare né navi né legioni. E a Cesare sembrava che si
fossero perdute alcune occasioni propizie, dal momento che più di una
volta erano soffiati venti favorevoli ai quali pensava che avrebbero
dovuto senz'altro affidarsi. E quanto più il tempo passava, tanto più i
comandanti della flotta nemica stavano vigili a sorvegliare e avevano
maggiore speranza di tenere lontano i nostri. E con frequenti lettere di
Pompeo venivano rimproverati, poiché non avevano saputo impedire in un
primo momento l'arrivo di Cesare; ed erano pertanto ora incitati a
ostacolare il resto dell'esercito; e così ogni giorno li aspettava una
situazione più difficile per la navigazione a causa di venti sempre più
deboli. Cesare turbato da questa situazione scrisse con tono alquanto duro
ai suoi a Brindisi che, colto un vento propizio, non si lasciassero
sfuggire l'opportunità di prendere il mare, per vedere se potevano
dirigere la rotta verso il lido di Apollonia e condurre colà le navi.
Questi luoghi erano completamente privi di sorveglianza, perché le navi
nemiche non osavano allontanarsi troppo dai porti.
26
I Cesariani danno prova di audacia e coraggio e, sotto il comando di Marco
Antonio e Fufio Caleno, per incitamento degli stessi soldati che non si
tiravano indietro di fronte a nessun pericolo per la salvezza di Cesare,
approfittando del vento australe, salpano e il giorno dopo passano davanti
ad Apollonia e Durazzo. Avvistatili dalla terraferma, Coponio, che a
Durazzo comandava la flotta di Rodi, fa uscire dal porto le navi e, quando
già si era avvicinato alle nostre navi favorito da un vento piuttosto
debole, l'Austro cominciò a soffiare in modo violento e fu di aiuto ai
nostri. Egli, invero, non demordeva per questo dal suo tentativo, ma con
lo sforzo e la fatica dei marinai sperava di potere vincere la violenza
della burrasca e di inseguire non di meno i nostri che pure avevano
oltrepassato Durazzo grazie alla grande forza del vento. I nostri, pur
favoriti dalla Fortuna, tuttavia temevano l'attacco della flotta nemica
nel caso che il vento si fosse calmato. Trovandosi di fronte il porto,
chiamato Ninfeo, a tre miglia da Lisso, vi fecero entrare le navi (questo
porto era protetto dall'Africo, ma non riparato dall'Austro), giudicando
il pericolo della tempesta minore di quello della flotta avversaria. Non
appena furono entrati, per un incredibile colpo di fortuna, l'Austro che
aveva soffiato per due giorni si mutò in Africo.
27
Fu possibile allora vedere un improvviso capovolgimento della Fortuna.
Coloro che poco prima avevano temuto per la propria salvezza, erano
accolti in un porto sicurissimo; quelli che avevano messo in pericolo le
nostre navi erano costretti a temere per la propria salvezza. E così,
mutata la situazione, la tempesta protesse i nostri e si abbatté contro le
navi rodie: tutte e sedici le navi coperte, dalla prima all'ultima,
vengono distrutte e affondate e del gran numero di rematori e combattenti
una parte, sbattuta contro gli scogli, rimane uccisa, una parte viene
tratta in salvo dai nostri. Cesare a tutti risparmiò la vita e li mandò a
casa.
28
Due nostre navi, che avevano navigato più lentamente, sorprese dalla
notte, non sapendo quale rotta avessero preso le altre, gettarono le
ancore di fronte a Lisso. Otacilio Crasso, comandante del presidio di
Lisso, si apprestava ad assalirle con battelli e parecchie imbarcazioni di
piccola stazza; contemporaneamente iniziava trattative per la resa e
prometteva salvezza a chi si arrendeva. Una delle due navi aveva imbarcato
duecentoventi uomini di una legione di reclute, l'altra poco meno di
duecento di una legione di veterani. Questi uomini fecero comprendere
quanto può aiutare la forza d'animo. Infatti le reclute, atterrite dalla
moltitudine delle navi e sfinite dal rollio e dal mal di mare, sentiti i
nemici giurare che non avrebbero recato loro alcun danno, si arresero a
Otacilio; tutti costoro, condotti dinanzi a lui, a dispetto del vincolo
del giuramento, vengono crudelmente uccisi in sua presenza. Ma i soldati
della legione veterana, parimenti tormentati dalla violenza della tempesta
e dalla puzza della sentina, giudicarono di non dovere affatto desistere
dal valore di un tempo, e, fatta trascorrere la prima parte della notte
discutendo le condizioni di una ipotetica resa, costringono il comandante
a fare approdare la nave. Trovato un luogo adatto, passarono qui il resto
della notte e all'alba, quando Otacilio mandò loro contro i cavalieri che
sorvegliavano quella parte di spiaggia, circa quattrocento, e gli armati
che li seguivano dal presidio di Lissa, si difesero e, dopo averne uccisi
alcuni, incolumi fecero ritorno dai nostri.
29
In seguito a questi avvenimenti, la colonia di cittadini romani che
occupava Lisso, città un tempo data loro e fatta fortificare da Cesare,
accolse Antonio e lo aiutò in ogni modo. Otacilio, temendo per sé, fugge
dalla città e si ricongiunge con Pompeo. Antonio, sbarcate tutte le
truppe, il cui effettivo totale era di tre legioni di veterani, una di
reclute e di ottocento cavalieri, rimanda in Italia la maggior parte delle
navi per il trasporto degli altri cavalieri e soldati; lascia a Lisso le
navi grosse, di tipo gallico, con il piano che, se per caso Pompeo,
ritenendo l'Italia priva di difesa, vi avesse trasportato l'esercito (e
questa era la voce corrente), Cesare avrebbe avuto una possibilità di
inseguirlo. In gran fretta manda messaggeri a Cesare per comunicargli in
quali regioni aveva fatto sbarcare l'esercito e quanti soldati aveva
trasportato.
30
Cesare e Pompeo, quasi nel medesimo tempo, vengono a sapere queste
notizie. Infatti avevano visto passare le navi oltre Apollonia e Durazzo
[avevano fatto rotta in quella direzione], ma i primi giorni non sapevano
dove erano andate. Informati della cosa, i due prendono decisioni opposte:
Cesare di congiungersi al più presto con Antonio, Pompeo di opporsi,
durante la marcia, ai nemici che sopraggiungevano e assalirli,
possibilmente sorprendendoli con agguati. Nel medesimo giorno entrambi
conducono gli eserciti fuori dagli accampamenti invernali stanziati presso
il fiume Apso; Pompeo di nascosto e di notte; Cesare alla luce del giorno,
davanti agli occhi di tutti. Ma Cesare doveva percorrere un cammino più
lungo e fare un ampio giro, rimontando il fiume per poterlo attraversare a
guado; Pompeo, procedendo speditamente poiché non doveva attraversare il
fiume, a marce forzate si dirige contro Antonio. Quando Pompeo si rese
conto di essere vicino, scelto un luogo adatto, vi fermò le milizie,
trattenne tutti i suoi soldati nel campo e impedì di accendere fuochi per
celare meglio il suo arrivo. La cosa viene subito riferita dai Greci ad
Antonio. Egli, mandati ambasciatori a Cesare, si trattenne per un giorno
solo nel campo; il giorno seguente Cesare giunse presso di lui. Pompeo,
venuto a conoscenza del suo arrivo, per non essere circondato da due
eserciti, si allontana da quella posizione e con tutte le milizie giunge
ad Asparagio di Durazzo e qui pone il campo in un luogo adatto.
31
In quel tempo Scipione, nonostante qualche perdita subìta presso il monte
Amano, si era proclamato comandante supremo. Fatto ciò aveva imposto il
pagamento di forti somme alle città e ai sovrani, aveva parimenti preteso
dagli appaltatori della sua provincia il pagamento delle tasse arretrate
di due anni; dai medesimi si era fatto anticipare, come prestito, la somma
delle imposte dell'anno successivo e aveva ordinato a tutta la provincia
un arruolamento di cavalieri. Ottenuto ciò, lasciandosi alle spalle, alla
frontiera, quei nemici, i Parti, che poco prima avevano ucciso il generale
Marco Crasso e assediato M. Bibulo, porta via dalla Siria le legioni e i
cavalieri. Ma la provincia della Siria era profondamente preoccupata e
timorosa di una guerra con i Parti e si sentiva dire dai soldati che essi
erano pronti, se fossero stati guidati ad assalire il nemico, ma non
avrebbero preso le armi contro un concittadino e un console. Pertanto egli
condusse le legioni nei quartieri invernali a Pergamo e nelle città più
ricche; fece grandissime elargizioni e, per assicurarsi il favore dei
soldati, permise loro di saccheggiare le città.
32
Frattanto in tutta la provincia si esigeva con grande severità il
versamento dei contributi imposti. Inoltre, per desiderio di denaro,
venivano escogitate molte nuove imposte, secondo le classi dei cittadini;
sulle singole persone, schiavi o liberi, veniva imposto un tributo; veniva
richiesta un'imposta sulle colonne, sulle porte, sul frumento, sui
soldati, sulle armi, sui rematori, sulle macchine da guerra, sui
trasporti; purché si potesse trovare il nome di una cosa, questo sembrava
essere motivo sufficiente per esigere denaro. Non solo alle città, ma
quasi a ogni borgata e singolo villaggio venivano preposti capi con
comando militare. E chi di questi aveva agito con maggiore durezza e
crudeltà veniva giudicato il migliore degli uomini e dei cittadini. La
provincia era piena di littori e di autorità, zeppa di esattori e di
prefetti che, oltre che alle tasse imposte, pensavano anche al proprio
guadagno personale; infatti andavano dicendo che, espulsi dalla patria e
dalla casa, mancavano di ogni cosa necessaria, per coprire con una
etichetta d'onestà un comportamento vergognosissimo. A ciò si aggiungevano
i pesantissimi interessi, come per lo più suole accadere in tempo di
guerra, quando a tutti vengono imposti tributi; e in queste circostanze
dicevano essere una donazione il differimento del pagamento di un sol
giorno. E così il debito della provincia in quel biennio si moltiplicò. E
per questo motivo non solo ai cittadini romani di quella provincia, ma
anche alle singole comunità e alle singole cittadinanze venivano imposti
determinati tributi e andavano dicendo che quelle somme venivano richieste
in prestito in base a un decreto del senato; agli appaltatori delle
imposte pubbliche, poiché avevano racimolato dei capitali, venivano
richiesti in prestito i tributi dell'anno successivo.
33
Inoltre Scipione aveva ordinato di portare via dal tempio di Diana a Efeso
il denaro che era stato depositato in passato. E nel giorno stabilito per
questa operazione si era giunti nel tempio con parecchi senatori che
Scipione aveva convocato presso di sé, quando viene recapitata a Scipione
una lettera da parte di Pompeo che annunciava che Cesare aveva passato il
mare con le legioni, invitandolo ad affrettarsi a giungere da lui con
l'esercito e a rimandare ogni altro impegno. Ricevuta questa lettera,
Scipione congeda i senatori convocati; egli stesso comincia a preparare il
viaggio per la Macedonia e dopo pochi giorni partì. Questa circostanza
salvò il denaro di Efeso.
34
Cesare, unitosi all'esercito di Antonio, dopo avere ritirato da Orico la
legione che qui aveva posto per difendere la costa, giudicava di dovere
mettere alla prova le province e avanzare oltre; ed essendo a lui giunti
dalla Tessaglia e dall'Etolia ambasciatori a promettere che, se fosse
stato mandato un presidio, le cittadinanze di quei popoli avrebbero
eseguito gli ordini, mandò in Tessaglia L. Cassio Longino con la legione
di reclute chiamata la ventisettesima e con duecento cavalieri e in Etolia
C. Calvisio Sabino con cinque coorti e pochi cavalieri; li esortò, in modo
particolare, a provvedere all'approvvigionamento, poiché quelle regioni
erano vicine. Ordinò a Cn. Domizio Calvino di partire per la Macedonia con
due legioni, la undicesima e la dodicesima, e con cinquecento cavalieri;
Menedemo, mandato come ambasciatore dalla zona di quella provincia, che
era chiamata libera, e che di quelle regioni era il capo, assicurava uno
straordinario favore di tutti i suoi verso Cesare.
35
Fra questi Calvisio, accolto al suo arrivo col massimo consenso di tutti
gli Etoli, respinti i presidi nemici da Calidone e da Naupatto, si
impadronì di tutta l'Etolia. Cassio giunse in Tessaglia con una legione.
Qui, poiché vi erano due fazioni, trovava differenti disposizioni d'animo
fra i cittadini: Egesareto, uomo di antica potenza, era favorevole a
Pompeo; Petreo, giovane di grande nobiltà, aiutava Cesare con tutte le sue
forze e con i mezzi suoi e della sua fazione.
36
Nel medesimo tempo Domizio giunse in Macedonia; e quando già cominciavano
a venire da lui numerose legazioni delle città, fu annunciato, con grande
risonanza e clamore generale, che Scipione era vicino con le legioni e che
presso tutti aveva suscitato grande fama e stima; infatti, per lo più, di
fronte a una situazione nuova il clamore supera la realtà. Costui, senza
fermarsi in nessun luogo della Macedonia, con grande impeto marciò verso
Domizio e, quando distò da lui ventimila passi, all'improvviso si diresse
in Tessaglia contro Cassio Longino. E fece ciò così celermente che la
notizia del suo avvicinamento e quella del suo arrivo furono
contemporanee. E, per marciare più velocemente, lasciò presso il fiume
Aliacmone, che divide la Macedonia dalla Tessaglia, M. Favonio con otto
coorti di scorta agli impedimenti delle legioni e ordinò di costruire qui
un campo fortificato. Nel medesimo tempo la cavalleria del re Coto, che di
solito si trovava presso i confini della Tessaglia, si diresse al volo
verso il campo di Cassio. Allora questi, sconvolto dalla paura, venuto a
conoscenza dell'arrivo di Scipione e visti i cavalieri che pensava fossero
suoi, si diresse sui monti che circondano la Tessaglia e di qui cominciò a
marciare verso Ambracia. Ma Scipione, mentre si affrettava a inseguirlo,
ricevette una lettera da parte di M. Favonio che gli annunciava che
Domizio era vicino con le legioni e di non potere, senza l'aiuto di
Scipione, mantenere il presidio affidatogli. Ricevuta questa lettera,
Scipione muta piano e direzione; cessa di inseguire Cassio, si affretta a
portare aiuto a Favonio. E così, con marcia forzata di giorno e di notte,
lo raggiunse proprio al momento giusto per potere contemporaneamente
scorgere la polvere dell'esercito di Domizio e vedere le prime avanguardie
di Scipione. Così la scaltrezza di Domizio salvò Cassio, la velocità di
Scipione Favonio.
37
Scipione, fermatosi due giorni nell'accampamento stabile presso il fiume
Aliacmone che scorreva fra il suo campo e quello di Domizio, il terzo
giorno all'alba fa guadare il fiume all'esercito e, posto il campo, il
mattino del giorno dopo dispone dinanzi ad esso le milizie a battaglia.
Domizio allora ritenne di non dovere esitare a fare uscire le legioni e
attaccare battaglia. Ma dal momento che la pianura fra i due campi era di
circa tremila passi, Domizio fece avanzare il proprio schieramento fin
sotto il campo di Scipione, mentre quest'ultimo continuava a non
allontanarsi dal vallo. Ma, quantunque i soldati di Domizio fossero a
stento tenuti a freno, accadde che non si attaccasse battaglia,
massimamente perché un ruscello dalle rive scoscese, posto sotto il campo
di Scipione, impediva l'avanzare dei nostri. Scipione, quando vide il loro
ardente desiderio di combattere, all'idea che il giorno dopo o sarebbe
stato costretto, suo malgrado, al combattimento o sarebbe rimasto nel suo
campo con grande infamia, egli, che aveva suscitato tanta attesa col suo
arrivo, dopo la sua avanzata temeraria si ritirò ignominiosamente e di
notte, senza neppur dare il segnale di togliere il campo, attraversò il
fiume e ritornò là donde era venuto e ivi, vicino al fiume, pose il campo
su di un luogo elevato. Pochi giorni dopo, di notte con la cavalleria
preparò un agguato ai nostri, nel posto in cui quasi sempre, nei giorni
precedenti, erano soliti foraggiare; e quando, secondo l'abitudine di ogni
giorno, giunse Q. Varo, prefetto della cavalleria di Domizio, quelli
all'improvviso balzarono fuori dai loro appostamenti. Ma i nostri con
coraggio sostennero il loro attacco e in breve tempo ciascuno rientrò nei
propri ranghi e tutti insieme a loro volta contrattaccarono i nemici. Fra
i quali circa ottanta furono uccisi, gli altri furono messi in fuga; i
nostri, perduti due uomini, tornarono al campo.
38
Dopo questo fatto Domizio, sperando di potere indurre Scipione a
combattere, finse di essere costretto a togliere il campo per scarsezza di
cibo e dato l'ordine secondo il costume militare, allontanatosi tremila
passi, fece fermare tutto l'esercito e la cavalleria in un luogo adatto e
nascosto. Scipione, che si era preparato a inseguirlo, mandò avanti in
esplorazione gran parte della cavalleria, per conoscere il percorso di
Domizio. Dopo che questi erano avanzati e i primi squadroni erano caduti
nell'agguato, gli altri, insospettiti dal nitrito dei cavalli, ripiegarono
e quelli che li seguivano, vista la loro veloce ritirata, si fermarono. I
nostri, scoperto l'agguato [dei nemici], tanto per non aspettare invano
gli altri, imbattutisi in due squadroni nemici, li fecero prigionieri.
Fuggì soltanto M. Opimio, prefetto della cavalleria. Tutti gli altri
furono o uccisi o condotti prigionieri da Domizio.
39
Cesare, dopo avere ritirato i presidi dalla costa, come si è detto sopra,
lasciò a Orico tre coorti per difendere la città e ad esse assegnò la
difesa delle navi da guerra che aveva condotto dall'Italia. Il
luogotenente Canino era preposto a questo incarico e alla città. Costui
fece portare le nostre navi in una zona più interna del porto, dietro la
città, e le fece ormeggiare a terra e all'ingresso del porto fece
collocare una nave da carico che era stata affondata e a questa ne unì una
seconda, sul davanti della quale fece costruire una torre rivolta
all'ingresso del porto e la riempì di soldati, affidando loro la difesa
contro attacchi improvvisi.
40
Venuto a conoscenza di ciò, Cn. Pompeo figlio, che era a capo della flotta
egiziana, venne a Orico e, presa a rimorchio la nave sommersa,
adoperandosi con molte funi riuscì a trascinarla via. L'altra nave,
collocata a difesa da Acilio, egli la assalì con molte navi sulle quali
aveva fatto erigere delle torri di pari altezza sia per combattere da una
posizione più elevata, sostituendo in continuazione soldati freschi a
quelli sfiancati, sia per tentare contemporaneamente l'assalto delle mura
della città da varie parti, da terra con le scale e dalle navi, in modo da
dividere le forze nemiche. A prezzo di sforzi e con una grande quantità di
proiettili sconfisse i nostri e, respinti i difensori che si rifugiarono
sui battelli e fuggirono, catturò quella nave. Nel medesimo tempo si
impossessò, dall'altra parte, della diga naturale posta di fronte alla
città che fa di essa una penisola; portò in una parte più interna del
porto quattro triremi spinte a forza di leve, dopo avervi messo sotto dei
rulli. E così assalite da entrambe le parti le navi da guerra che erano
ormeggiate a terra e senza difesa, ne condusse via quattro e incendiò le
rimanenti. Portata a compimento questa impresa, lasciò D. Lelio,
trasferito dalla flotta asiatica, per impedire che giungessero
approvvigionamenti in città da Billide e Amanzia. Egli stesso, recatosi a
Lisso, assalì trenta navi da carico lasciate dentro il porto da M. Antonio
e le incendiò tutte. Dopo avere tentato di espugnare Lisso, che era difesa
da cittadini romani che appartenevano a quella colonia, e da soldati
mandati da Cesare a presidiarla, rimasto là tre giorni, perduti pochi
soldati nell'assedio, se ne partì senza portare a compimento l'impresa.
41
Cesare, venuto a sapere che Pompeo era ad Asparagio, si diresse qui con
l'esercito, ed espugnata lungo il percorso la città dei Partini, dove
Pompeo aveva un presidio, il terzo giorno raggiunse Pompeo [in Macedonia]
e pose il campo vicino a lui e il giorno dopo, condotte fuori tutte le
truppe e schieratele in ordine di battaglia, offrì a Pompeo l'occasione di
combattere. Quando comprese che egli se ne stava sulle sue posizioni,
ricondotto l'esercito nell'accampamento, pensò di dovere seguire un altro
piano. E così il giorno dopo partì alla volta di Durazzo con tutte le
milizie, facendo un grande giro lungo un percorso difficile e angusto, con
la speranza di potere o ricacciare Pompeo in Durazzo o tagliarlo fuori da
quella città, dove egli aveva trasportato tutte le vettovaglie e il
materiale necessario per tutta la guerra. E così accadde. Pompeo infatti
in un primo momento, ignorando il piano di Cesare e vedendo che era
partito in direzione opposta a quella della città, pensava che se ne fosse
andato via per mancanza di cibo; informato in seguito da esploratori, il
giorno dopo levò il campo con la speranza di andargli incontro per una via
più breve. Cesare, sospettando che sarebbe accaduto ciò, esortò i soldati
a sopportare di buon animo la fatica e, sospesa la marcia solo per un
breve periodo della notte, al mattino giunse a Durazzo, proprio mentre si
vedeva da lontano l'avanguardia di Pompeo, e qui pose il campo.
42
Pompeo, tagliato fuori da Durazzo, quando vede fallito il suo primo piano,
ne utilizza un secondo e, in una zona elevata, detta Petra, che offre un
piccolo accesso alle navi e le protegge da alcuni venti, fortifica il
campo in una posizione elevata. Dà ordine che colà si riunisca parte delle
navi da guerra e sia portato frumento e vettovaglie dall'Asia e da tutte
le regioni in suo potere. Cesare, pensando che la guerra si sarebbe
trascinata troppo alle lunghe e disperando di avere rifornimenti
dall'Italia, poiché tutte le coste erano sorvegliate con grande diligenza
dai Pompeiani e tardavano ad arrivare le sue navi fatte costruire durante
l'inverno in Sicilia, in Gallia e in Italia, inviò in Epiro per
l'approvvigionamento i luogotenenti Q. Tillio e L. Canuleio e, poiché
queste regioni erano troppo lontane, stabilì di creare granai in
determinati posti e divise fra le città vicine il compito di trasportare
il frumento. Parimenti ordinò di requisire il frumento che si trovava a
Lisso e fra i Partini e in tutti i villaggi. Era pochissimo sia per la
natura del terreno stesso, poiché i luoghi sono aspri e montuosi e per lo
più si usava frumento importato, sia perché Pompeo aveva previsto ciò e
nei giorni precedenti aveva depredato i Partini e aveva fatto trasportare
a Petra dai cavalieri tutto il frumento raccolto dopo avere depredato e
spogliato le case dei Partini.
43
Venuto a conoscenza di ciò, Cesare studia un piano tenendo conto della
natura del luogo. Circondavano infatti il campo di Pompeo moltissime
colline elevate e scoscese. In un primo momento le occupò con dei presidi
e vi fece costruire dei fortilizi. Poi, come richiedeva la conformazione
di ciascun luogo, fatte condurre linee fortificate da un fortilizio
all'altro, iniziò a circondare Pompeo con un vallo, mirando a questi fini:
poiché il vettovagliamento scarseggiava e Pompeo aveva a disposizione
molti cavalieri, rifornire da ogni parte, con minore pericolo, frumento e
vettovaglie all'esercito, impedire contemporaneamente il foraggiamento a
Pompeo e rendere la sua cavalleria impossibilitata ad agire, in terzo
luogo sminuire il prestigio di cui Pompeo sembrava godere sopra tutto
presso le popolazioni straniere, poiché si sarebbe diffusa in tutto il
mondo la notizia che Pompeo era assediato da Cesare e non osava venire a
battaglia.
44
Pompeo non voleva allontanarsi né dal mare né da Durazzo, dove aveva
concentrato tutto il materiale da guerra, i proiettili, le armi, le
macchine e dove faceva portare con le navi il frumento per l'esercito, né
poteva d'altra parte impedire le opere di fortificazione di Cesare, a meno
di non volere venire a battaglia: cosa che aveva stabilito per il momento
di non dovere fare. Non rimaneva che ricorrere all'estrema risorsa della
guerra: occupare il maggior numero di colline, tenere presidi su una zona
il più possibile vasta e frazionare, quanto più poteva, le truppe di
Cesare; e così accadde. Infatti vennero costruiti ventiquattro fortilizi,
che abbracciavano una zona di quindici miglia, entro cui si effettuava il
foraggiamento e che comprendeva molti luoghi coltivati, che potevano
servire al momento per pascolare il bestiame. E come i nostri avevano
costruito da un fortilizio all'altro fortificazioni ininterrotte, affinché
in nessun posto i Pompeiani facessero irruzione assalendoli alle spalle,
così quelli, nel loro spazio interno, costruivano linee fortificate
ininterrotte perché i nostri non potessero in nessun posto penetrare e
attaccarli alle spalle. Ma i Pompeiani erano più veloci nei lavori, poiché
erano superiori per numero di soldati e, essendo all'interno, avevano un
perimetro minore da fortificare. E quando Cesare doveva prendere una di
quelle posizioni, Pompeo, sebbene avesse deciso di non impiegare nel
contrasto tutte le sue forze e di non attaccare battaglia, tuttavia
mandava in posizioni strategiche arcieri e frombolieri, di cui aveva un
gran numero. E molti dei nostri rimanevano feriti e s'era diffusa una
grande paura delle frecce e quasi tutti i soldati si erano confezionate
tuniche o coperture con imbottiture, coperte e pelli per evitare i dardi.
45
Entrambi si impegnavano con grande sforzo per occupare buone posizioni:
Cesare per stringere Pompeo in uno spazio il più possibile ristretto,
Pompeo per impossessarsi del maggior numero di colline in un perimetro il
più ampio possibile; e per questo motivo le scaramucce si facevano
frequenti. In una di queste, una volta, avendo la nona legione di Cesare
occupato una certa posizione, di cui aveva iniziata la fortificazione,
Pompeo, che si era impadronito di un colle vicino che fronteggiava questo
luogo, cominciò a impedire ai nostri il lavoro. E, dal momento che aveva
da una parte un accesso quasi pianeggiante, dapprima dispose intorno
arcieri e frombolieri, poi inviò una grande moltitudine di soldati armati
alla leggera e fece avanzare le macchine da guerra, ostacolando i nostri
lavori; non era infatti facile per i nostri contemporaneamente difendersi
e lavorare. Cesare, vedendo che i suoi uomini venivano da ogni parte
colpiti, ordinò la ritirata e l'allontanamento dalla zona. La ritirata si
faceva per un pendio. Così i Pompeiani incalzavano con più accanimento e
non permettevano ai nostri la ritirata, poiché a loro sembrava che i
nostri lasciassero la posizione mossi da paura. Si dice che in
quell'occasione Pompeo, pavoneggiandosi con i suoi, affermasse che
accettava di essere giudicato comandante di nessun valore, se le legioni
di Cesare fossero riuscite, senza ricevere un grandissimo danno, a
ritirarsi da dove s'erano temerariamente spinte.
46
Cesare, temendo per la ritirata dei suoi, ordinò di portare graticci verso
l'estremità della collina di fronte al nemico, collocandoli a sbarramento
e, protetti così i soldati, al di qua dei graticci fece scavare un fossato
di media larghezza e rendere ovunque il terreno quanto più possibile
impraticabile. Egli stesso collocò in luoghi adatti dei frombolieri che
fossero di aiuto ai nostri nella ritirata. Compiute queste operazioni
ordinò alla legione di ritirarsi. I Pompeiani, quindi, con maggiore
insolenza e audacia incominciarono a premere e incalzare i nostri e, per
superare i fossati, abbatterono i graticci collocati a difesa. Cesare,
accortosi di ciò, temendo che sembrasse non una ritirata, ma una fuga e
che ne derivasse un danno maggiore, quasi a metà del percorso, fatti
esortare i suoi da Antonio, che era a capo della legione, ordinò di dare
con la tromba il segnale di combattimento e di attaccare i nemici. I
soldati della nona legione, ritrovata d'un tratto l'intesa, scagliarono
dardi e, con una corsa veloce risalito il pendio dalla posizione più
bassa, respinsero a precipizio i Pompeiani costringendoli alla fuga. Ma i
graticci rovesciati, i pali nascosti e le fosse scavate furono di grande
impedimento alla loro ritirata. I nostri invero, ai quali bastava
ripiegare senza danno, dopo avere ucciso molti nemici e perduti soltanto
cinque uomini, si ritirarono in tutta tranquillità e, occupate altre
colline un poco al di qua di quel luogo, condussero a compimento i lavori
di fortificazione.
47
Era un modo di combattere nuovo e fuori dal comune sia per il grande
numero di fortilizi, per la vastità dell'area, per le imponenti
fortificazioni, per le complesse tecniche di assedio, sia per altri
motivi. Infatti chiunque tenta un assedio, serra il nemico incalzandolo
dopo che esso è stato fiaccato o indebolito o superato in battaglia o
provato da qualche insuccesso, forte della sua superiorità nel numero di
soldati e cavalieri; scopo poi dell'assedio di solito è questo: impedire
il vettovagliamento ai nemici. Ma in quel frangente Cesare, con un numero
inferiore di soldati, serrava un esercito integro, in buona salute e che
aveva abbondanza di tutto; infatti ogni giorno una gran numero di navi
giungeva da ogni parte a portare provviste e non poteva soffiare alcun
vento che non fosse favorevole almeno a una parte delle navi. Cesare
invece, consumata tutta la scorta di frumento raccolta in lungo e in largo
nella zona, si trovava in grandissime difficoltà. Ciò nonostante i soldati
sopportavano questa situazione con straordinaria resistenza. Ricordavano
infatti che nell'anno precedente in Spagna con gli stessi patimenti, e con
la loro fatica e resistenza, avevano portato a termine una guerra
durissima; non dimenticavano di avere sofferto una grande carestia presso
Alesia, una ancora più grande presso Avarico e di essere risultati
vincitori di popoli fortissimi. Ed essi non rifiutavano l'orzo e i legumi,
quando venivano loro distribuiti, ma gradivano molto il bestiame,
proveniente dall'Epiro, dove ve ne è in grande abbondanza.
48
Gli uomini che facevano parte delle truppe ausiliarie trovarono anche un
tipo di radice, detta "cara", che, unita al latte, alleviava molto la
mancanza di cibo. Ne facevano una specie di pane. Ve ne era in grande
quantità. Pani fatti con questa radice, quando i Pompeiani rivolgevano
loro parole di scherno rinfacciando ai nostri la fame, venivano scagliati
da ogni parte contro di loro per frustrare la loro speranza.
49
E ormai il frumento incominciava a maturare e la speranza stessa aiutava a
sopportare la carestia, poiché i nostri confidavano di avere entro breve
tempo abbondanza di cibo; e durante le veglie e nei dialoghi si sentiva
dire spesso dai soldati che, piuttosto che lasciarsi sfuggire di mano
Pompeo, avrebbero mangiato la corteccia degli alberi. Con piacere venivano
anche a sapere dai disertori che i cavalli dei nemici venivano tenuti in
vita, ma che il restante bestiame era tutto morto e che i nemici stessi
non erano più in buona salute, tormentati come erano dalla mancanza di
spazio, dal puzzo nauseabondo proveniente da una moltitudine di cadaveri,
dalle fatiche quotidiane, loro che non erano avvezzi a lavorare, e
dall'assoluta mancanza di acqua. Infatti tutti i fiumi e i ruscelli che si
dirigevano al mare Cesare o li aveva fatti deviare o li aveva sbarrati con
grandi lavori ed essendo le valli, a causa delle asperità dei luoghi,
strette e di difficile transito, egli le aveva sbarrate, piantando per
terra dei pali e ammassando contro di essi della terra per trattenere
l'acqua. E così i nemici erano per necessità costretti a cercare luoghi
bassi e paludosi ove scavare dei pozzi e questa fatica si aggiungeva ai
lavori quotidiani. Ma quelle sorgenti si trovavano troppo lontane da
alcuni presidi e, inoltre, per il caldo velocemente si prosciugavano. Al
contrario l'esercito di Cesare godeva ottima salute, aveva acqua in grande
abbondanza e vettovaglie di ogni genere, ad eccezione del frumento, in
grande quantità. Stando così le cose, vedevano ogni giorno la situazione
migliorare e, col maturare del grano, aumentare la speranza.
50
In questo nuovo tipo di guerra nuovi metodi di combattimento venivano
escogitati da entrambe le parti. I nemici, poiché avevano capito dai
fuochi notturni che le nostre coorti bivaccavano presso le fortificazioni,
si avvicinavano in silenzio e lanciavano una pioggia di frecce sulla
moltitudine, ritirandosi subito presso i loro. In seguito a queste vicende
in nostri, resi accorti dall'esperienza, ricorrevano a questo rimedio,
accendere altrove i fuochi ...
51
Frattanto P. Silla, che Cesare alla sua partenza aveva messo a capo del
campo, informato dei fatti venne in aiuto alla coorte con due legioni; al
suo arrivo i Pompeiani furono respinti con facilità. E infatti non ressero
alla vista e all'impeto dei nostri e, mentre le prime file furono
sbaragliate, gli altri volsero le spalle e abbandonarono la posizione. Ma
Silla chiamò indietro i nostri che si erano dati all'inseguimento perché
non andassero troppo avanti. Ma i più ritengono che la guerra avrebbe
potuto finire proprio in quel giorno, se egli avesse voluto inseguire con
più tenacia. Ma la sua decisione non sembra da biasimare, infatti diversi
sono i compiti del luogotenente e del comandante supremo: il primo deve
agire in tutto e per tutto secondo gli ordini, il secondo deve liberamente
decidere in base alla situazione generale. Silla, che era stato lasciato
da Cesare nell'accampamento, una volta liberati i suoi, fu contento e non
volle venire alle armi, anche se vi era la possibilità di un felice esito
dell'azione, e fece ciò per non dare l'impressione di avere assunto le
funzioni del comandante supremo. Una circostanza rendeva ai Pompeiani
molto difficile la ritirata. Infatti, partiti da una posizione più bassa,
si erano fermati sulla cima di un colle: se si fossero ritirati per il
pendio, temevano l'inseguimento dei nostri da una posizione più elevata;
inoltre non mancava molto al tramonto perché, nella speranza di concludere
l'azione, avevano protratto il combattimento quasi fino alla notte.
Pertanto Pompeo, decidendo in base alla necessità del momento, occupò una
collinetta abbastanza distante dal nostro fortilizio tanto da non potere
essere a tiro dei proiettili scagliati dalle macchine da guerra; vi si
fermò, fortificò la posizione e vi riunì tutte le milizie.
52
Nel medesimo tempo, inoltre, si combatté in due luoghi. Infatti Pompeo
aveva assalito più fortilizi contemporaneamente per dividere le forze in
modo da impedire l'invio di soccorsi dai presidi vicini. Nel primo di
questi luoghi Volcacio Tullo con tre coorti sostenne l'impeto di una
legione e la respinse; nel secondo i Germani, usciti dalle nostre
fortificazioni, uccisero parecchi nemici e ritornarono sani e salvi dai
loro.
53
E così in un solo giorno furono combattute sei battaglie, tre presso
Durazzo, tre presso le fortificazioni; fatto il bilancio di tutti questi
combattimenti, ci risultava che le perdite pompeiane erano di circa
duemila uomini, fra cui veterani richiamati e parecchi centurioni, fra i
quali Valerio Flacco L. figlio di colui che aveva ottenuto la pretura in
Asia; furono prese sei insegne militari. Non più di venti dei nostri
uomini caddero in tutte queste battaglie. Ma nel fortilizio non vi fu
nessun soldato che non venisse ferito e quattro centurioni della coorte
ottava persero gli occhi. Volendo, inoltre, rendere testimonianza delle
fatiche e del pericolo da essi sostenuti, contarono davanti agli occhi di
Cesare circa trentamila frecce lanciate contro il fortilizio, inoltre
sullo scudo del centurione Sceva, presentato a Cesare, furono trovati
centoventi fori. Cesare gli donò, per i suoi meriti verso di lui e verso
lo stato, duecentomila denari e pubblicamente lo promosse da centurione di
ottavo ordine a centurione di primo ordine (infatti era chiaro che il
fortilizio era stato salvato sopra tutto per il suo contributo); poi
elargì alla coorte un doppio stipendio e, con grande generosità, frumento,
vestiario, cibo e decorazioni militari.
54
Pompeo, accresciute poderosamente di notte le fortificazioni, nei giorni
seguenti costruì delle torri e, fatti edificare i baluardi alti quindici
piedi, coprì con vinee quella parte dell'accampamento. Cinque giorni dopo,
approfittando di un'altra notte nuvolosa, fece ostruire tutte le porte del
campo per sbarrare il passaggio e, poco dopo mezzanotte, condusse fuori
l'esercito in silenzio e si rifugiò nel campo precedente.
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(56) Tutti i giorni successivi Cesare fece uscire nella pianura l'esercito
in formazione di combattimento, caso mai Pompeo volesse venire a
battaglia, e spinse le legioni fin quasi sotto il suo campo: la sua prima
fila distava dalle fortificazioni del campo di Pompeo quel tanto da essere
fuori dalla portata di proiettili scagliati a mano o con macchine da
guerra. Pompeo, a sua volta, per non perdere la propria reputazione e
credibilità presso i soldati, schierava l'esercito davanti al campo in
modo che la terza fila fosse a ridosso del vallo e tutto l'esercito
schierato potesse essere difeso con i proiettili lanciati dal vallo
stesso.
56
(55) Una volta ricevute in sottomissione l'Etolia, l'Acarnania e
l'Anfilochia, grazie, come abbiamo detto, a Cassio Longino e Calvisio
Sabino, Cesare ritenne opportuno attaccare l'Acaia e procedere un poco
oltre. E così mandò colà Q. Caleno insieme a Salino e Cassio con le loro
coorti. Alla notizia del loro arrivo Rutilio Lupo, che era stato mandato
da Pompeo a governare l'Acaia, diede ordine di fortificare l'istmo per
tenere Fufio lontano dall'Acaia. Caleno ottenne la sottomissione spontanea
di Delfi, Tebe e Orcomeno; prese alcune città con la forza, si adoperò,
mediante l'invio di ambasciatori, per portare le altre a un accordo con
Cesare. Queste attività assorbivano quasi completamente Fufio.
57
Mentre questi fatti accadevano in Acaia e presso Durazzo, si viene a
sapere che Scipione era giunto in Macedonia. Cesare, non dimentico del
primitivo disegno, gli invia Aulo Clodio, amico comune, che, da lui
presentato e raccomandato fin da prima, era considerato uno dei suoi
intimi. Gli consegna una lettera e messaggi per Scipione, che così in
breve si possono riassumere: egli tutto aveva tentato per la pace,
pertanto pensava che, se non si era concluso nulla, era solo per colpa di
quelli che egli aveva voluto fossero gli artefici della trattativa, poiché
essi avevano timore di recare i suoi messaggi a Pompeo in momento non
opportuno. Ma Scipione aveva tanta autorità non solo per esporre
liberamente il suo pensiero, ma anche, in larga misura, per fare pressione
e correggere chi sbagliava; d'altra parte era a capo di un suo esercito e,
oltre all'autorità, aveva anche le forze per fare opera di costrizione. Se
avesse fatto ciò, la pace dell'Italia, la quiete delle province, la
salvezza della nazione sarebbero state attribuite da tutti a lui solo.
Clodio porta a Scipione questa ambasciata e, nei primi giorni viene
ascoltato volentieri, almeno sembrava, nei successivi non è più ammesso al
colloquio, poiché Scipione era stato rimproverato da Favonio, come poi si
seppe a guerra finita; tornò quindi da Cesare senza avere portato a
termine l'incarico.
58
Cesare, per immobilizzare più facilmente la cavalleria di Pompeo presso
Durazzo e impedirle il foraggiamento, sbarrò con grandi opere di
fortificazione i due accessi, che, come abbiamo detto, erano molto stretti
e innalzò qui dei fortilizi. Pompeo, dopo alcuni giorni, quando s'accorse
che la cavalleria non gli era di alcun vantaggio, la fece di nuovo
rientrare con le navi presso di sé all'interno delle fortificazioni. La
penuria di foraggio era grandissima, così che nutrivano i cavalli con
foglie raccolte dagli alberi e tenere radici di canna pestate; infatti
avevano consumato tutto il frumento che era stato seminato entro le
fortificazioni. Erano costretti a fare giungere frumento da Corcira e
dall'Acarnania con un lungo tragitto per mare, e, poiché la quantità era
inferiore al bisogno, erano costretti ad aggiungere orzo e a nutrire i
cavalli in questo modo. Ma quando vennero a mancare non solo l'orzo e il
foraggio e l'erba tagliata in tutti i campi, ma anche le foglie sugli
alberi e i cavalli erano consunti dalla magrezza, Pompeo giudicò di dovere
fare un tentativo di sortita.
59
Vi erano presso Cesare, nella sua cavalleria, due fratelli Allobrogi,
Roucillo ed Eco, figli di Adbucillo, che per molti anni era stato al
comando del suo popolo, uomini di singolare valore, della cui opera,
eccellente e valorosissima, Cesare si era servito in tutte le guerre
galliche. A costoro in patria, per questi motivi, aveva fatto affidare
cariche molto importanti e li aveva, eccezionalmente, fatti eleggere
senatori; aveva dato loro in Gallia terreni sottratti ai nemici e grandi
premi in denaro, facendoli, da poveri che erano, ricchi. Costoro, per il
loro valore, erano non solo stimati da Cesare, ma anche considerati
dall'esercito; ma, fiduciosi dell'amicizia di Cesare e trascinati da una
stolta arroganza tipica dei barbari, disprezzavano i loro compagni,
defraudavano la paga dei cavalieri e sottraevano tutto il bottino per
mandarlo a casa. I cavalieri, irritati da questi fatti, andarono tutti
insieme da Cesare e si lamentarono pubblicamente dei loro soprusi e in più
aggiunsero che da quelli era stato dichiarato un falso numero di cavalieri
per appropriarsi indebitamente della loro paga.
60
Cesare, giudicando che quello non era il momento per punizioni, con atto
di grande condiscendenza per il loro valore, differì l'intera disputa; li
rimproverò privatamente per i guadagni sui cavalieri, ricordando loro che
dovevano attendersi ogni bene solo dalla sua amicizia e sperare, come per
il passato, in altri suoi favori. Questa vicenda tuttavia recò loro grande
offesa e il disprezzo da parte di tutti, e tale disprezzo lo coglievano
sia dai rimproveri degli altri sia dal giudizio e rimorso della propria
coscienza. Spinti da questa vergogna e credendo forse di non essere
assolti, ma di venire risparmiati solo temporaneamente, decisero di
allontanarsi da noi e tentare una nuova sorte, sperimentando nuove
amicizie. E accordatisi con qualche loro cliente, che osarono mettere a
parte di una simile azione delittuosa, dapprima tentarono di uccidere il
prefetto di cavalleria C. Voluseno, come in seguito, a guerra finita, si
venne a sapere, per potere trovare rifugio da Pompeo con qualche
benemerenza; quando la cosa apparve troppo difficile e non vi era
possibilità di condurla a termine, preso a prestito quanto più denaro
poterono, come se volessero dare soddisfazione ai loro compagni e
restituire il mal tolto, dopo avere comprato molti cavalli, passarono
dalla parte di Pompeo con i complici del loro piano.
61
Poiché erano di nobile famiglia, ed erano giunti riccamente equipaggiati e
con grande scorta e con molti giumenti ed erano considerati uomini
valorosi ed erano stati tenuti in grande onore presso Cesare, e poiché
inoltre la situazione si presentava nuova e insolita, Pompeo li ostentava
conducendoli in giro per i presidi. Infatti prima di allora nessuno, né
fante né cavaliere, era passato da Cesare a Pompeo, mentre quasi ogni
giorno c'era chi disertava Pompeo per Cesare, addirittura in massa
disertavano i soldati arruolati in Epiro e in Etolia e i soldati di tutte
quelle terre in mano a Cesare. Ma i due Allobrogi, informati su tutto,
sulle fortificazioni non ancora portate a termine e sui relativi punti
deboli, almeno a parere degli esperti militari, avevano inoltre preso nota
delle ore delle operazioni, delle distanze tra i luoghi, della diligenza
con cui erano vigilati i posti di guardia, diversa secondo lo zelo o il
carattere di chi era preposto alla guardia e avevano riferito tutto quanto
a Pompeo.
62
Pompeo, venuto a conoscenza di queste cose e avendo deciso già in
precedenza, come si è detto, di fare una sortita, ordina ai soldati di
preparare con vimini coperture per gli elmi e di ammassare materiale per
formare un terrapieno. Predisposto ciò, di notte fa salire su battelli e
navi veloci un gran numero di soldati armati alla leggera e di arcieri e
caricare tutto il materiale per il terrapieno. Intorno a mezzanotte fa
uscire fuori dal campo maggiore e dai presidi sessanta coorti conducendole
da quella parte delle fortificazioni rivolta verso il mare e molto lontana
dall'accampamento più grande di Cesare. Colà manda le navi cariche, come
si è detto, di soldati armati alla leggera e del materiale e le navi da
guerra di stanza a Durazzo e a ciascuno impartisce ordini dettagliati.
Presso quelle fortificazioni Cesare aveva disposto il questore Lentulo
Marcellino con la nona legione. A costui, che non godeva di buona salute,
aveva affiancato, come aiutante, Fulvio Postumo.
63
In quel luogo vi era una fossa di quindici piedi e, dirimpetto al nemico,
una palizzata alta dieci piedi, il cui terrapieno si estendeva altrettanto
in larghezza; a una distanza di seicento piedi vi era, rivolto dalla parte
opposta, un altro vallo con una fortificazione un po' più bassa. Infatti
Cesare, nei giorni precedenti, aveva fatto costruire un duplice vallo in
quel luogo, temendo che i nostri venissero circondati dalle navi, in modo
da potere resistere nel caso si fosse combattuto su due fronti. Ma la mole
del lavoro e l'ininterrotta fatica di ogni giorno non permettevano il
compimento dell'impresa, poiché la lunghezza della linea delle
fortificazioni era di diciassette miglia. E così il bastione posto
trasversalmente di fronte al mare che doveva congiungere queste due
fortificazioni non era ancora terminato. E il fatto, noto a Pompeo, poiché
gli era stato riferito dai disertori Allobrogi, recò grande danno ai
nostri. Infatti, quando le nostre coorti [della nona legione] avevano
finito il turno di guardia presso il mare, all'improvviso all'alba
giunsero i Pompeiani [vi fu l'arrivo dell'esercito]: i soldati imbarcati
sulle navi, giunti alle spalle, scagliavano proiettili contro il bastione
esterno, altri riempivano di materiale le fosse e contemporaneamente i
legionari, appoggiate le scale, atterrivano i difensori della
fortificazione interna, scagliando a mano e con macchine proiettili di
ogni tipo, mentre una grande moltitudine di arcieri incalzava da entrambi
i lati. La copertura di vimini posta sopra gli elmi era una valida difesa
dai colpi di pietra, unica arma in mano ai nostri. E così, mentre i nostri
venivano incalzati in ogni modo e a fatica resistevano, ci si rese conto,
come sopra si è detto, del difetto della fortificazione; i Pompeiani,
sbarcati nel tratto di mare fra i due bastioni, là dove il lavoro di
fortificazione non era stato completato, fecero impeto contro i nostri
alle spalle e li cacciarono da entrambe le linee di fortificazione
costringendoli a fuggire.
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All'annuncio di questo assalto improvviso, Marcellino manda dal campo
coorti ... in aiuto ai nostri in difficoltà, ma queste trovarono i nostri
in fuga e non poterono col loro arrivo infondere coraggio; esse stesse non
sostennero l'assalto nemico. E così, qualunque aiuto inviato, contaminato
dal terrore dei fuggitivi, aumentava a sua volta terrore e pericolo:
infatti la ritirata veniva impedita dal gran numero di uomini. In quella
battaglia un aquilifero, ferito gravemente, mentre già gli venivano meno
le forze, alla vista dei nostri cavalieri disse: "Quest'aquila io da vivo
per molti anni l'ho difesa con grande zelo e ora, morendo, la restituisco
a Cesare con la medesima fedeltà. Vi prego, non permettete che sia
commesso atto vergognoso per l'onore militare, cosa che mai è avvenuta
prima nell'esercito di Cesare, e consegnategliela intatta". In tal modo
l'aquila fu salvata, sebbene fossero uccisi tutti i centurioni della prima
coorte, eccetto il centurione al comando della prima centuria.
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E già i Pompeiani si avvicinavano al campo di Marcellino con grande strage
dei nostri e recando non poco terrore alle altre coorti, quando Marco
Antonio, che era a capo del posto di presidio più vicino, annunciatagli la
disfatta viene visto scendere dalle alture con dodici coorti. Il suo
arrivo arrestò i Pompeiani e rincuorò i nostri, cosicché si rinfrancarono
dalla tremenda paura. E non molto dopo Cesare, non appena un segnale di
fumo da fortino a fortino lo avvertì, secondo l'usanza dei tempi passati,
giunse nel medesimo luogo con alcune coorti tratte dai presidi. Venuto a
conoscenza della sconfitta subìta e visto che Pompeo era uscito dalle
trincee e fortificava il campo lungo il mare per potere foraggiare
liberamente e avere possibilità di accesso alle navi, Cesare cambia il
piano di guerra, poiché non aveva ottenuto gli scopi prefissati, e ordina
di trincerarsi vicino a Pompeo.
66
Terminata questa fortificazione, gli esploratori di Cesare videro, dietro
a una foresta, alcune coorti, che sembravano avere l'effettivo di una
legione e venivano condotte verso un vecchio accampamento. La posizione
del campo era questa. Nei giorni precedenti la nona legione di Cesare,
dopo essersi opposta alle truppe pompeiane e, come si è detto, dopo avere
costruito una cinta di fortificazioni, aveva posto qui il suo campo. Tale
campo era vicino a una foresta e distava dal mare non più di trecento
passi. In seguito Cesare, mutato il piano per certi motivi, portò il campo
un poco oltre quella posizione; pochi giorni dopo Pompeo aveva occupato
questo medesimo luogo e, poiché aveva intenzione di tenere lì un maggiore
numero di legioni, lasciata la trincea interna, ne aveva aggiunta una più
ampia. E così il campo minore incluso in quello maggiore faceva da fortino
e da roccaforte. Parimenti dall'angolo sinistro del campo aveva condotto
fino al fiume una linea di fortificazioni di circa quattrocento passi
perché i soldati potessero più liberamente e senza pericolo
approvvigionarsi di acqua. Ma anche Pompeo, mutato piano per certi motivi
che non è necessario ricordare, si era allontanato da quel luogo. Così per
parecchi giorni il campo era rimasto vuoto, e tutto il sistema di difesa
era intatto.
67
Gli esploratori informarono Cesare che in quel campo erano state portate
le insegne della legione; avvistamenti da alcuni fortilizi più elevati
confermarono la stessa cosa. Questo luogo distava dal nuovo campo di
Pompeo circa cinquecento passi. Cesare, sperando di potere piombare
addosso a questa legione e desiderando vendicare il danno ricevuto in quel
giorno, lasciò nelle fortificazioni due coorti per fare credere che si
compissero lavori di rafforzamento; egli stesso condusse verso la legione
e il campo minore di Pompeo, con un percorso discosto e il più
segretamente possibile, le rimanenti legioni schierate su due file, in
numero di trentatré, fra cui vi era la nona legione che aveva perduto
molti centurioni e che aveva un ridotto numero di soldati. E la sua prima
convinzione non fu fallace. Infatti giunse prima che Pompeo potesse
accorgersene, e, nonostante le fortificazioni del campo fossero imponenti,
dall'ala sinistra, dove egli stesso si trovava, colpì con un rapido
attacco i Pompeiani e li scacciò dal vallo. Una trave irta di punte di
ferro era posta dinanzi alle porte. Qui si combatté per un po': i nostri
tentavano di fare irruzione e i Pompeiani di difendere il campo; qui
combatté da eroe Tito Pullione, per opera del quale, come abbiamo detto,
fu tradito l'esercito di C. Antonio. Ma i nostri vinsero per il loro
valore e, distrutta la trave, dapprima fecero irruzione nel campo
maggiore, poi anche nel fortilizio che si trovava dentro il campo più
grande, poiché là si era ritirata la legione che era stata respinta;
uccisero alcuni nemici che qui facevano resistenza.
68
Ma la Fortuna, che ha grande potere in tutti gli altri eventi ma sopra
tutto in guerra, in breve spazio di tempo produce grandi mutamenti, e così
avvenne allora. Le coorti dell'ala destra di Cesare, non conoscendo il
posto, avanzarono lungo il trinceramento, che, come sopra abbiamo detto,
si estendeva dal campo al fiume, alla ricerca di una porta pensando che
quello fosse il trinceramento del campo. Ma quando ci si accorse che esso
andava a finire al fiume,dopo avere distrutta la fortificazione senza che
nessuno opponesse difesa, la oltrepassarono e tutta la nostra cavalleria
seguì quelle coorti.
69
Frattanto Pompeo, trascorso questo lasso di tempo abbastanza lungo,
all'annuncio del fatto mandò in aiuto ai suoi cinque legioni tolte dalle
opere di fortificazione; nel medesimo tempo la sua cavalleria si
avvicinava alla nostra; i nostri che avevano occupato il campo vedevano
l'esercito schierato e improvvisamente tutta la situazione mutò. La
legione di Pompeo, rassicurata dalla speranza di un pronto aiuto, tentava
di fare resistenza alla porta decumana e, inoltre, contrattaccava i
nostri. La cavalleria di Cesare, poiché si trovava a salire per un angusto
passaggio attraverso il terrapieno, temendo di non potersi ritirare dava
inizio alla fuga. L'ala destra, che era separata dalla sinistra, accortasi
che i cavalieri erano in preda al panico, perché temevano di essere
schiacciati entro la fortificazione, si ritirava dal lato dal quale aveva
fatto irruzione e la maggior parte di questi soldati, per non imbattersi
in strettoie, si gettavano da un bastione alto dieci piedi nelle fosse e,
schiacciati i primi che erano caduti, gli altri, passando sui loro corpi,
guadagnavano uscita e salvezza. I soldati dell'ala sinistra, vedendo dal
vallo che Pompeo si avvicinava e che i loro compagni fuggivano, temendo di
trovarsi rinchiusi in strettoie con il nemico dentro e fuori, cercavano la
ritirata per dove erano giunti. Ovunque vi era tumulto, paura, fuga,
sicché, sebbene Cesare strappasse le insegne dalle mani di chi fuggiva e
ordinasse di fermarsi, alcuni, lasciati i cavalli, continuavano la loro
fuga, altri per il timore abbandonavano anche le insegne e proprio nessuno
faceva resistenza.
70
In questa situazione di massima gravità concorreva a impedire che tutto
l'esercito fosse distrutto il fatto che Pompeo, temendo, penso, degli
agguati, poiché questi fatti erano accaduti oltre ogni sua speranza,
avendo egli visto poco prima fuggire dal campo i suoi soldati, non osò per
un certo tempo avvicinarsi alle fortificazioni e la sua cavalleria, per
l'angustia dei passaggi e per il fatto che erano stati occupati dai
soldati di Cesare, era lenta nell'inseguimento. Così fatti di poco conto
ebbero grande importanza per entrambe le parti. Le fortificazioni,
condotte dal campo al fiume, impedirono infatti, quando ormai il campo di
Pompeo era preso, la vittoria di Cesare quasi ormai certa. Lo stesso
ostacolo rallentò la velocità degli inseguitori e recò salvezza ai nostri.
71
Nelle due battaglie di questa sola giornata Cesare perse novecentosessanta
soldati e noti cavalieri romani, Tuticano Gallo, figlio di un senatore, C.
Fleginate da Piacenza, A. Granio di Pozzuoli, M. Sacrativiro di Capua,
cinque tribuni militari e trentadue centurioni. In gran parte tutti
costoro morirono senza alcuna ferita ma, per il terrore e la fuga dei loro
compagni, schiacciati nelle fosse, sulle fortificazioni e sulle rive del
fiume. Si persero trentadue bandiere. Pompeo venne in quella battaglia
salutato col nome di imperator. Mantenne questo titolo e in seguito
permise di essere salutato in tal modo, ma non fu solito usarlo nelle sue
lettere né pose sui fasci la corona d'alloro. Invece Labieno, ottenuta da
lui la consegna dei prigionieri, fattili condurre tutti dinanzi a sé, per
ostentare maggiormente, come sembrava, la propria fedeltà a Pompeo, pur
essendo egli un disertore, li chiamò commilitoni e, dopo avere chiesto
loro con parole fortemente oltraggiose se i soldati veterani fossero
soliti fuggire, li uccise alla presenza di tutti.
72
In seguito a queste vittorie nei Pompeiani la baldanza e la presunzione
crebbero tanto che non pensarono più al modo di condurre la guerra,
credendo ormai di avere vinto. Essi non capivano che a causare la
sconfitta fossero stati lo scarso numero dei nostri soldati, il luogo
sfavorevole, il difficile accesso a un campo già occupato dal nemico, la
duplice paura dentro e fuori le fortificazioni, l'esercito separato in due
parti, sicché l'una non aveva potuto portare aiuto all'altra. A ciò non
aggiungevano inoltre che non era stato condotto alcun attacco violento,
che non si era combattuta una vera battaglia e che i nostri, con il loro
stesso ammassarsi in grande moltitudine entro luoghi angusti, avevano
arrecato a se stessi maggiore danno di quello ricevuto dal nemico. Non
ricordavano infine una situazione tipica della guerra: quanto spesso cause
di piccolissimo conto o di falso sospetto o di improvviso terrore o di
scrupolo religioso hanno arrecato grandi danni; quante volte o per
incapacità del comandante o per colpa di un tribuno l'esercito subisce uno
scacco; ma come se avessero vinto per valore né potesse accadere alcun
mutamento di sorte, diffondevano per tutto il mondo, mediante messaggi e
lettere, la vittoria di quel giorno.
73
Cesare, costretto a rinunciare ai suoi precedenti progetti, pensò di
dovere cambiare totalmente il piano di guerra. E così, richiamati
contemporaneamente tutti i presidi e abbandonato l'assedio e riunito in un
solo posto l'esercito, tenne un discorso ai soldati esortandoli a non
addolorarsi per quanto era avvenuto, a non lasciarsi demoralizzare dagli
avvenimenti e a non anteporre a molte battaglie favorevoli una sconfitta
sola e per di più di poco conto. Dovevano ringraziare la Fortuna perché
avevano conquistato l'Italia senza subire perdite; perché avevano
pacificato le due Spagne, comandate da capi esperti e molto abili e per di
più alla guida di soldati animati da grande spirito bellico; perché
avevano in loro potere le province confinanti, ricche di frumento;
dovevano infine ricordare con quanta fortuna, in mezzo alle flotte
nemiche, erano stati trasportati tutti incolumi, mentre non solo i porti,
ma anche i lidi erano pieni di nemici. Se poi non andava tutto per il
meglio, si doveva aiutare la Fortuna con l'azione. E la responsabilità del
danno subito era da attribuirsi a chiunque altro ma non a lui. Egli aveva
scelto un luogo adatto per il combattimento, si era impadronito del campo
nemico, aveva cacciato e vinto quelli che opponevano resistenza. Ma se il
loro turbamento o qualche sbaglio o anche la Fortuna avevano impedito una
vittoria sicura e già alla portata di mano, tutti dovevano darsi da fare
per rimediare col valore al danno subito. Se così facevano, il danno si
sarebbe mutato in bene, come era avvenuto presso Gergovia, ed essi, che
prima avevano avuto paura di combattere, si sarebbero offerti
spontaneamente al combattimento.
74
Tenuto questo discorso, bollò d'infamia alcuni portabandiera e li rimosse
dal grado. E invero un dolore grande per la sconfitta e un desiderio di
riparare la vergogna si diffusero in tutto l'esercito così che ognuno,
senza aspettare il comando di un tribuno o di un centurione, imponeva a se
stesso come castigo fatiche più gravi del solito e tutti, all'unisono,
ardevano dal desiderio di combattere; anzi alcuni ufficiali superiori,
spinti da ragioni militari, giudicarono di dovere rimanere in quel luogo e
rimettere la sorte al combattimento. Cesare, al contrario, non poneva
abbastanza fiducia in soldati sconvolti e riteneva di dovere lasciare
passare un po' di tempo per rinfrancare gli animi; inoltre, poiché aveva
lasciato le fortificazioni, era grandemente preoccupato per
l'approvvigionamento.
75
E così, senza porre indugio, avuta cura solo dei feriti e dei malati, in
silenzio sul fare della notte dal campo inviò tutti i bagagli ad Apollonia
e diede l'ordine di non fare sosta prima di avere terminato il cammino. Di
scorta fu mandata una sola legione. Fatto ciò, trattenne nel campo due
legioni; verso le tre di notte condusse fuori le altre da varie porte e le
fece procedere per la stessa via; dopo un po', per conservare gli usi
militari e perché la sua partenza apparisse il più normale possibile,
ordinò l'adunata; subito dopo uscì e raggiunse la retroguardia e in breve
tempo fu fuori dalla vista del campo. Pompeo, capito il suo piano, non
pose alcun indugio all'inseguimento, ma proponendosi lo stesso fine di
potere sorprendere i nostri impediti nella marcia, condusse l'esercito
fuori dal campo e mandò innanzi la cavalleria per fermare la retroguardia
nemica. Non poté tuttavia raggiungerla, perché Cesare era avanzato molto
dal momento che marciava libero senza bagagli. Ma quando si giunse al
fiume Genuso, che aveva le rive scoscese, la cavalleria raggiunse la
retroguardia e cercò di fermarla provocandola a battaglia. Ad essa Cesare
oppose i suoi cavalieri e vi aggiunse quattrocento antesignani, armati
alla leggera; costoro furono di grande utilità perché, una volta attaccato
il combattimento equestre, respinsero tutti i nemici e ne uccisero
parecchi e, senza accusare perdite, si riunirono alla loro colonna.
76
Completata regolarmente la marcia da lui prevista per quel giorno e
trasportato l'esercito al di là del fiume Genuso, Cesare si fermò nel suo
vecchio campo di fronte ad Asparagio e trattenne tutti i fanti entro le
fortificazioni. Mandò fuori la cavalleria col pretesto del foraggiamento,
ma diede ordine che rientrasse subito nel campo per la porta decumana.
Parimenti Pompeo, compiuto il percorso fissato per quel giorno, si fermò
nel suo vecchio campo presso Asparagio. I suoi soldati non erano impegnati
in alcun lavoro, poiché le fortificazioni erano integre; pertanto alcuni
si allontanavano un po' troppo per fare legna o per cercare foraggi,
altri, poiché avevano ricevuto all'improvviso l'ordine della partenza e
avevano abbandonato gran parte dei bagagli piccoli e grandi e d'altronde
il vecchio campo era vicino e si potevano riprendere le cose abbandonate,
depositate le armi nelle tende, lasciavano la trincea. Poiché i Pompeiani
non erano in grado di inseguirlo, come egli aveva previsto che sarebbe
accaduto, Cesare, dato il segnale di partenza intorno a mezzogiorno,
condusse fuori l'esercito e, facendo una marcia lunga il doppio in un solo
giorno, si allontanò da quel luogo di otto miglia; Pompeo, essendosi
allontanati i suoi soldati, non poté fare altrettanto.
77
Il giorno successivo allo stesso modo Cesare sul fare della notte manda
innanzi i bagagli e, intorno alla quarta vigilia, esce anch'egli, in modo
da potere affrontare un attacco improvviso con l'esercito non impedito dai
bagagli, qualora si fosse presentata la necessità di combattere. La stessa
cosa fece anche nei giorni successivi. In tal modo riuscì a non subire
danni, nonostante fiumi molto profondi e strade piene di ostacoli. Pompeo,
per l'indugio del primo giorno, nonostante gli inutili sforzi di quelli
successivi, benché procedesse a marce forzate, desiderando raggiungere i
nostri che l'avevano preceduto, il quarto giorno pose fine
all'inseguimento e pensò bene di seguire un altro piano.
78
Era necessario a Cesare raggiungere Apollonia per lasciarvi i feriti, per
dare la paga ai soldati, per rassicurare gli alleati, per lasciare presidi
nelle città. Per assolvere questi impegni impiegò solo il tempo
necessario, perché aveva una grande fretta; temeva che Domizio fosse colto
all'improvviso dall'arrivo di Pompeo e, spinto da tale ansietà, si
dirigeva verso di lui il più rapidamente possibile. Secondo Cesare il
piano di tutta l'azione bellica si basava su questi punti: se Pompeo si
fosse diretto lì, Cesare lo avrebbe costretto a combattere privo di
frumento e vettovaglie, lontano dal mare e da quelle truppe che aveva
radunato a Durazzo, pertanto a condizioni pari alle sue; se Pompeo fosse
invece passato in Italia, Cesare si sarebbe unito all'esercito di Domizio
e, passando per l'Illiria, avrebbe portato aiuto all'Italia; se poi Pompeo
avesse tentato di assalire Apollonia e Orico, tagliandolo fuori da tutti i
lidi, Cesare, assediando Scipione, lo avrebbe costretto ad accorre in
aiuto ai suoi. Pertanto, mandati innanzi messi, Cesare scrisse a Cn.
Domizio, chiarendogli il proprio piano e, disposte quattro coorti di
presidio ad Apollonia, una a Lissa, tre a Orico, lasciati quelli che erano
inabili per le ferite, cominciò a marciare attraverso l'Epiro e
l'Atamania. Anche Pompeo, prevedendo il piano di Cesare, giudicava
opportuno raggiungere in fretta Scipione; se Cesare si dirigeva colà, egli
avrebbe portato aiuto a Scipione; se Cesare non voleva allontanarsi dalla
costa e da Orico, poiché attendeva legioni e cavalleria dall'Italia, egli
avrebbe assalito Domizio con tutte le truppe.
79
Per questi motivi entrambi volevano fare presto, e per essere di aiuto ai
loro e per non perdere l'occasione di annientare i nemici. Ma il transito
per Apollonia aveva allontanato Cesare dalla via più breve, Pompeo invece,
passando attraverso la Candavia, aveva un percorso agevole verso la
Macedonia. Inoltre improvvisamente sorse un'altra difficoltà, poiché
Domizio che aveva per più giorni tenuto il campo di fronte a Scipione si
era allontanato per fare provviste e si era diretto a Eraclea [Sentica che
si trova ai piedi dei monti della Candavia], così che sembrava che la
Fortuna stessa lo facesse incontrare con Pompeo. Fino a quel momento
Cesare ignorava questi fatti. Contemporaneamente, a causa delle lettere
sul combattimento svoltosi presso Durazzo, inviate da Pompeo in tutte le
province e città, lettere in cui i fatti venivano ampliati e gonfiati, si
era diffusa la voce che Cesare era stato battuto e messo in fuga e che
aveva perduto quasi tutte le truppe. Queste notizie avevano reso
pericoloso il cammino di Cesare, queste notizie alienavano parecchie città
dalla sua amicizia. In seguito a questi fatti avvenne che i messi inviati
per diverse vie da Cesare a Domizio e da Domizio a Cesare non poterono in
alcun modo portare a termine il loro viaggio. Ma gli Allobrogi, famigliari
di Roucillo e di Eco, che, come abbiamo detto, erano fuggiti presso
Pompeo, visti lungo il percorso gli esploratori di Domizio, un po' per la
loro antica amicizia, poiché avevano combattuto insieme in Gallia, un po'
perché spinti da vanagloria, riferirono tutto quanto l'accaduto e li
informarono della partenza di Cesare e dell'arrivo di Pompeo. Domizio,
informato da questi, precedendo grazie a loro il nemico di appena quattro
ore, evitò il pericolo e andò incontro a Cesare che giungeva presso
Eginio, città situata di fronte alla Tessaglia.
80
Una volta congiuntisi gli eserciti, Cesare giunse a Gonfi, la prima città
della Tessaglia per chi giunge dall'Epiro; pochi mesi prima la popolazione
di questa città aveva mandato spontaneamente ambasciatori a Cesare per
mettergli a disposizione tutti i propri beni, chiedendogli un presidio di
soldati. Ma già era giunta colà, gonfiata in molte parti, la notizia, di
cui parlammo, della battaglia di Durazzo. Pertanto Androstene, pretore
della Tessaglia, preferendo essere compagno della vittoria di Pompeo
piuttosto che alleato di Cesare nelle avversità, raduna dai campi nella
città tutta la moltitudine di schiavi e liberi, chiude le porte e manda
ambasciatori a Scipione e a Pompeo, chiedendo di venire in suo aiuto: egli
confidava nelle fortificazioni della città, se avesse ricevuto soccorso in
breve tempo; ma non era in grado di sostenere un assedio di lunga durata.
Scipione, venuto a conoscenza della partenza degli eserciti da Durazzo,
aveva condotto le legioni a Larissa; Pompeo non era ancora vicino alla
Tessaglia. Cesare fortificò il campo e diede ordine di costruire scale e
gallerie coperte e di preparare graticci in vista di un assalto
improvviso. Portati a termine questi lavori, dopo avere esortato i
soldati, mostrò loro di quanta utilità sarebbe stato, per alleviare la
mancanza di ogni cosa, impadronirsi di una città ricca e ben fornita e
nello stesso tempo, con l'esempio di questa, incutere terrore alle altre
città e fare ciò in breve tempo, prima dell'arrivo degli aiuti. E così,
approfittando di un eccezionale ardore dei soldati, nel medesimo giorno in
cui era giunto, dopo le tre pomeridiane, cominciò ad assediare la città
dalle altissime mura e la espugnò prima del tramonto; la lasciò al
saccheggio dei soldati e subito mosse il campo e giunse a Metropoli prima
che vi arrivassero notizie e fama della presa della città.
81
Gli abitanti di Metropoli, presa in un primo tempo la medesima decisione,
in quanto indotti dalle medesime voci, chiusero le porte e riempirono le
mura di armati, ma in seguito, venuti a conoscenza, da prigionieri che
Cesare aveva fatto avvicinare alle mura, di quanto era accaduto a Gonfi,
aprirono le porte. Essi vennero trattati con ogni riguardo e quando si
confrontò la sorte di Metropoli con la situazione di Gonfi non vi fu
nessuna città della Tessaglia, eccetto Larissa, che era occupata da grandi
forze di Scipione, che non ubbidisse a Cesare e non ne eseguisse gli
ordini. Cesare, trovato nella pianura un luogo adatto al rifornimento di
grano, che era ormai quasi maturo, stabilì di attendere qui l'arrivo di
Pompeo e di fissarvi il campo operativo militare.
82
Pompeo giunge in Tessaglia pochi giorni dopo e, tenuto un discorso davanti
a tutto l'esercito, ringrazia i suoi ed esorta i soldati di Scipione, dal
momento che la vittoria era già assicurata, a essere partecipi della preda
e dei premi e, dopo avere riunito in un solo campo tutte le legioni,
divide con Scipione l'onore del comando e ordina che anche per lui
squillino le trombe e che per lui venga allestita una seconda tenda
pretoria. Aumentate le truppe di Pompeo e congiuntisi due grandi eserciti,
viene confermata la precedente opinione di tutti e cresce la speranza di
vittoria, così che ogni momento che passava sembrava ritardare il ritorno
in Italia e se talora Pompeo agiva troppo lentamente o ponderatamente,
dicevano che il compimento della guerra non richiedeva che un giorno solo,
ma che egli si compiaceva del comando e che teneva in conto di schiavi gli
ex consoli e pretori. E già da tempo apertamente contendevano fra loro
ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli
anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani. In un
consiglio vi fu tra di loro una grande controversia se fosse opportuno
tenere conto, nei prossimi comizi pretori, della candidatura di Lucilio
Irro, che era assente in quanto mandato da Pompeo presso i Parti; i suoi
amici imploravano la lealtà di Pompeo, che mantenesse ciò che gli aveva
promesso alla sua partenza, perché non sembrasse essere stato ingannato
per mezzo della sua autorità; gli altri non volevano che uno solo venisse
preferito a tutti, quando uguali erano fatiche e pericoli.
83
Ben presto Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle quotidiane
discussioni sulla successione al pontificato di Cesare, giunsero
pubblicamente a gravissime ingiurie verbali: Lentulo ostentava il
privilegio dell'età, Domizio vantava il favore e l'autorità di cui godeva
a Roma, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo inoltre
accusò, presso Pompeo, L. Afranio del tradimento dell'esercito, che diceva
essere accaduto in Spagna. E L. Domizio in consiglio disse che era
favorevole a che, una volta terminata la guerra, ai senatori che avevano
partecipato con loro alla guerra venissero distribuite tre tavolette di
voto, per esprimere singoli giudizi su chi era rimasto a Roma o chi,
trovandosi nelle terre occupate da Pompeo, non aveva combattuto: una
sarebbe stata la tavoletta per assolvere da ogni imputazione; un'altra per
condannare a morte, la terza per infliggere multe. In una parola tutti
discutevano o delle proprie cariche o delle ricompense in denaro o dei
nemici da perseguire e pensavano non in che modo vincere, ma come mettere
a frutto la vittoria.
84
Provveduto al vettovagliamento e rincuorati i soldati, lasciato
trascorrere dalla battaglia di Durazzo il tempo necessario per conoscere a
sufficienza l'animo dei soldati, Cesare giudicò opportuno di saggiare
l'intenzione e la volontà di Pompeo di combattere. E così condusse fuori
dal campo l'esercito e lo schierò a battaglia, dapprima in posizioni
favorevoli e alquanto lontano dal campo di Pompeo, poi, nei giorni
seguenti, allontanandosi dal suo campo e schierando le truppe ai piedi dei
colli occupati dai Pompeiani. La qual cosa rafforzava di giorno in giorno
il morale del suo esercito. Tuttavia manteneva, per la cavalleria, la
medesima disposizione di cui abbiamo detto: poiché i suoi cavalieri erano
molto inferiori per numero ordinò che giovani e soldati armati alla
leggera, scelti tra gli antesignani, con armi adatte alla velocità,
combattessero in mezzo ad essi, affinché con un esercizio quotidiano
acquisissero esperienza anche di questo genere di combattimento. Il
risultato di ciò fu che un migliaio di cavalieri, impadronitisi della
pratica, erano in grado, anche in campo aperto, di sostenere l'impeto di
settemila pompeiani senza facilmente spaventarsi per la loro grande
superiorità numerica. E infatti in quei giorni combatté con successo una
battaglia equestre, uccidendo con alcuni altri Eco, uno dei due Allobrogi,
che, come sopra abbiamo detto, si erano rifugiati presso Pompeo.
85
Pompeo, che aveva il campo sul colle, schierava l'esercito ai piedi di
esso, aspettando sempre, come sembrava, che Cesare si esponesse in
posizione sfavorevole. Cesare, ritenendo che in nessun modo Pompeo potesse
essere trascinato a battaglia, giudicò essere questa per sé la migliore
tattica di guerra: muovere il campo da quel posto e stare sempre in
marcia, con questi obiettivi: usufruire delle migliori occasioni di
approvvigionamento spostando il campo e toccando luoghi diversi e,
contemporaneamente, durante la marcia, trovare qualche opportunità di
combattimento e, con quotidiane marce, sfinire l'esercito di Pompeo, non
abituato alla fatica. Stabilito ciò, dato già il segnale della partenza e
smontate le tende, ci si accorse che poco prima, contrariamente alla
abitudine di ogni giorno, la schiera di Pompeo si era allontanata un po'
troppo dal vallo, così che sembrava che si potesse combattere in posizione
non sfavorevole. Allora Cesare, quando già la schiera in ordine di marcia
era alle porte, disse ai suoi: "Dobbiamo rimandare al momento la marcia e
pensare al combattimento, come abbiamo sempre desiderato. Siamo pronti a
combattere; non facilmente in seguito troveremo l'occasione". E subito
conduce fuori le truppe pronte a combattere.
86
Anche Pompeo, come poi si venne a sapere, su esortazione di tutti i suoi,
aveva stabilito di venire a battaglia. E infatti, anche nel consiglio di
guerra, nei giorni precedenti aveva detto che l'esercito di Cesare sarebbe
stato annientato prima che le schiere si scontrassero. Essendosi molti
meravigliati di questa affermazione, disse: "So di promettere una cosa
quasi incredibile, ma sentite il piano che ho ideato, affinché andiate
alla battaglia con animo più saldo. Ho consigliato ai nostri cavalieri, e
mi hanno dato assicurazione che lo avrebbero fatto, di dare l'assalto,
quando si sia arrivati molto vicini, all'ala destra di Cesare, ossia dalla
parte scoperta, e, una volta aggirata la schiera alle spalle, di mettere
in fuga l'esercito disorientato prima che dai nostri venga scagliata una
freccia contro il nemico. E così senza pericolo per le legioni e quasi
senza spargimento di sangue concluderemo la guerra. La cosa inoltre non è
difficile dal momento che siamo tanto più forti nella cavalleria".
Contemporaneamente li ammonì di stare pronti per il giorno successivo e,
poiché vi era possibilità di combattere, come spesso avevano chiesto, di
non deludere né la sua né l'altrui aspettativa.
87
Dopo di lui parlò Labieno e, disprezzando le milizie di Cesare, esaltando
con somme lodi il piano di Pompeo, disse: "Non credere, o Pompeo, che
questo sia l'esercito che ha vinto la Gallia e la Germania. Io fui
presente a tutte le battaglie e non dico sconsideratamente cose non
conosciute. Sopravvive una piccolissima parte di quell'esercito; il grosso
è andato perduto, il che doveva necessariamente accadere in tante
battaglie; molti li ha distrutti in Italia la pestilenza dell'autunno,
molti sono tornati a casa, molti sono rimasti nel continente. Forse non
avete sentito dire che fra quelli rimasti per motivi di salute sono state
formate coorti a Brindisi? Queste milizie che vedete sono state formate
con le leve fatte in questi anni nella Gallia Citeriore e la maggiore
parte proviene dalle colonie transpadane. Del resto quella che era la sua
forza si è perduta nelle due battaglie di Durazzo". Dopo avere detto ciò,
giurò di non fare ritorno al campo se non da vincitore e esortò gli altri
a fare lo stesso. Pompeo, lodando questo proposito, fece lo stesso
giuramento; e invero fra gli altri non ci fu nessuno che esitò a giurare.
Fatto questo nel consiglio di guerra, tutti si allontanarono con grande
speranza e gioia; e già pregustavano nel pensiero la vittoria, poiché
sembrava che nulla potesse essere garantito invano da parte di un
comandante tanto esperto a proposito di un fatto così importante.
88
Cesare, avvicinatosi al campo di Pompeo, si accorse che l'esercito di
costui era schierato in questo modo: sull'ala sinistra vi erano le due
legioni mandate da Cesare all'inizio della guerra per decreto del senato,
di queste una era detta "prima", l'altra "terza"; in quella posizione vi
era lo stesso Pompeo. Scipione con le legioni siriache occupava il centro
dell'esercito. La coorte cilicia, unita alle coorti spagnole che, come
dicemmo, furono condotte da Afranio, era stata collocata all'ala destra.
Pompeo pensava che queste fossero le coorti più forti. Aveva collocate le
altre fra il centro e le ali e aveva completato l'effettivo con centodieci
coorti. Vi erano quarantacinquemila uomini; dei veterani richiamati ve ne
erano circa duemila che, esonerati dai lavori pesanti, avevano fatto parte
dei precedenti eserciti e ora si erano uniti a lui. Pompeo li aveva
distribuiti in tutto l'esercito. Aveva dislocato come presidio nel campo e
nei vicini fortilizi le rimanenti sette coorti. Un corso d'acqua dalle
rive impraticabili difendeva la sua ala destra; per questo motivo aveva
collocato tutta la cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri sull'ala
sinistra.
89
Cesare, mantenendo l'ordine di battaglia del passato, aveva disposto la
decima legione sull'ala destra, la nona sulla sinistra, sebbene fosse
stata molto ridotta nelle battaglie di Durazzo; e così a questa aggiunse
la legione ottava, facendone appena una di due; e aveva dato l'ordine che
l'una fosse di sostegno all'altra. Aveva schierate in linea di battaglia
ottanta coorti, il cui contingente era di ventiduemila uomini; aveva
lasciato di presidio nel campo sette coorti. Aveva preposto all'ala
sinistra Antonio, alla destra P. Silla, al centro Cn. Domizio. Egli stesso
si pose di fronte a Pompeo. Non appena si rese conto della tattica bellica
nemica che abbiamo detto, temendo che l'ala destra venisse circondata
dalla moltitudine dei cavalieri, velocemente levò dalla terza schiera una
compagnia per legione e con queste formò una quarta fila che oppose alla
cavalleria e indicò che cosa voleva che si facesse: avvertì che la
vittoria di quel giorno dipendeva dal valore di quelle coorti.
Contemporaneamente ordinò alla terza fila [e a tutto l'esercito] di non
andare all'assalto senza il suo comando: quando avesse voluto l'assalto,
avrebbe dato il segnale col vessillo.
90
Esortato l'esercito alla battaglia secondo il costume militare e messi in
evidenza i propri meriti verso l'esercito in ogni tempo, principalmente
rammentò che poteva provare con la testimonianza dei soldati con quanto
zelo aveva cercato la pace, quali trattative aveva condotto per mezzo di
Vatinio negli abboccamenti, quali per mezzo di Aulo Claudio con Scipione,
in che modo si fosse adoperato con Libone presso Orico perché si
mandassero ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati
né aveva voluto privare la repubblica dell'uno o dell'altro esercito.
Tenuto questo discorso, poiché i soldati lo richiedevano e ardevano dalla
brama di combattere, diede con la tromba il segnale.
91
Nell'esercito di Cesare vi era un veterano richiamato, Crastino, che
nell'anno precedente sotto di lui aveva guidato la prima centuria della
decima legione, uomo di singolare valore. Costui, dato il segnale, disse:
"Seguitemi voi che foste del mio manipolo e servite il vostro comandante,
come avete promesso. Rimane questa sola battaglia; al suo termine Cesare
riavrà la sua dignità e noi la nostra libertà". Contemporaneamente,
volgendo lo sguardo a Cesare, disse: "Oggi, o comandante, farò in modo che
tu abbia a ringraziare me, o vivo o morto". Dopo avere detto queste
parole, per primo corse all'attacco dall'ala destra e circa centoventi
soldati volontari scelti [della medesima centuria] lo seguirono.
92
Tra le due schiere vi era rimasto solo lo spazio che bastava ai due
eserciti per venire all'attacco. Ma Pompeo aveva precedentemente detto ai
suoi di aspettare l'assalto di Cesare e di non muoversi dalla posizione e
di lasciare che l'esercito di Cesare si scompaginasse. Si diceva che, per
consiglio di C. Triario, avesse dato questo ordine di modo che la forza
dei soldati si infrangesse nel primo attacco e la schiera si fiaccasse,
sicché i soldati pompeiani, collocati nelle proprie file, avrebbero potuto
assalire i nemici dispersi. Sperava che, trattenendo sulle loro posizioni
i soldati, i giavellotti sarebbero caduti con danno minore di quello
subito andando incontro ai proiettili scagliati; nello stesso tempo
sperava che i soldati di Cesare venissero fiaccati dalla distanza doppia
che dovevano coprire di corsa. Ma invero ci sembra che Pompeo abbia fatto
ciò senza nessuna ragione, poiché per natura sono innati in tutti
l'entusiasmo e l'esuberanza che vengono accesi dal desiderio di battaglia.
I comandanti non devono reprimerli, ma potenziarli; e non invano
nell'antichità si stabilì che le trombe squillassero da ogni parte e tutti
quanti levassero grida; si pensò di atterrire con questi mezzi i nemici e
di incitare i propri soldati.
93
Ma, dato il segnale di attacco, i nostri soldati, avanzati di corsa con i
giavellotti contro i nemici e accortisi che i Pompeiani non andavano
all'assalto, pratici per esperienza e ammaestrati in battaglie precedenti,
spontaneamente rallentarono e si fermarono quasi a metà distanza per non
avvicinarsi stremati e, dopo un breve intervallo di tempo, ripresa
nuovamente la corsa, lanciarono i giavellotti e rapidamente, come era
stato ordinato da Cesare, misero mano alle spade. Invero i Pompeiani non
vennero meno al loro dovere. Infatti sostennero il lancio dei giavellotti
e l'assalto dei legionari; conservarono le file e dopo avere lanciato i
giavellotti ricorsero alle spade. Nello stesso tempo, come era stato
ordinato, tutti i cavalieri dal lato sinistro di Pompeo si lanciarono
all'assalto e si riversò tutta la moltitudine degli arcieri. La nostra
cavalleria non sopportò il loro assalto, ma, respinta dalle sue posizioni,
indietreggiò un poco e i cavalieri di Pompeo cominciarono, perciò, a
incalzare con più accanimento, a disporsi a squadroni e ad aggirare dal
lato scoperto il nostro schieramento. Quando Cesare si accorse di ciò,
diede il segnale di combattimento alla quarta fila che aveva formata con
sei coorti. Quelle coorti si lanciarono con prontezza e, in schieramento
di assalto, con tanta irruenza assalirono i cavalieri di Pompeo che
nessuno di loro resistette e tutti, fatto "dietro front", non solo si
allontanarono dalla posizione, ma subito fuggirono, dirigendosi verso i
monti più alti. Respinti questi, tutti gli arcieri e i frombolieri,
abbandonati senza protezione e senza armi, vennero uccisi. Col medesimo
impeto le coorti aggirarono il lato sinistro, mentre i Pompeiani ancora
combattevano e resistevano nel loro schieramento iniziale, e li
attaccarono alle spalle.
94
Nel medesimo tempo Cesare ordinò di avanzare alla terza fila che fino a
quel momento era rimasta in riposo e ferma nella sua posizione. E così
ricevendo i soldati sfiniti il cambio di forze fresche e riposate, mentre
gli altri assalivano alle spalle, i Pompeiani non furono in grado di
reggere e si diedero tutti alla fuga. Cesare invero non si era ingannato
nel pensare che il principio della vittoria dipendeva da quelle coorti che
erano state dislocate nella quarta fila contro la cavalleria, come egli
stesso aveva affermato nell'esortare i soldati. Da queste coorti infatti
dapprima fu sbaragliata la cavalleria, dalle medesime furono annientati
arcieri e frombolieri, dalle medesime fu circondata la schiera pompeiana
dal lato sinistro e fu provocato l'inizio della fuga nemica. Ma Pompeo,
quando vide la propria cavalleria respinta e si accorse che era in preda
al terrore quella parte dell'esercito su cui sopra tutto confidava, e, non
avendo inoltre fiducia negli altri, si allontanò dal campo di battaglia e
subito si diresse a cavallo nell'accampamento e a quei centurioni che
aveva posto di guardia presso la porta pretoria disse a voce alta perché i
soldati lo udissero: "Proteggete l'accampamento e difendetelo con zelo, se
le cose dovessero volgere al peggio. Io faccio il giro delle altre porte
per rassicurare i presidi dell'accampamento". Dopo avere detto queste
parole, se ne andò nella tenda pretoria, persa la fiducia nell'esito
finale, ma tuttavia aspettando gli eventi.
95
Cesare, respinti dentro il vallo i Pompeiani in fuga, stimando non
opportuno lasciare tregua ad essi in preda al terrore, esortò i soldati a
sfruttare il favore della Fortuna, assalendo l'accampamento. Ed essi,
sebbene affaticati dal grande caldo (infatti la battaglia si era protratta
fino a mezzogiorno), tuttavia disposti a ogni fatica obbedirono al
comando. L'accampamento era difeso con zelo dalle coorti che qui erano
state lasciate di presidio, ma molto più strenuamente dai Traci e dalle
truppe ausiliarie barbare. Infatti i soldati che, provenienti dalla
battaglia, qui si erano rifugiati, atterriti e sfiniti dalla stanchezza,
per lo più senza armi e insegne militari, pensavano più a riprendere la
fuga che a difendere il campo. E anche quelli che si erano fermati dentro
il vallo non furono in grado di sostenere troppo a lungo la fitta pioggia
di dardi, ma prostrati dalle ferite abbandonarono la posizione e tutti
subito, con a capo centurioni e tribuni militari, si rifugiarono sulle
vette dei monti vicini all'accampamento.
96
Nell'accampamento di Pompeo si poterono vedere pergolati di frasche, una
grande quantità di argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba
fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni altri coperte di edera e
inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia
nella vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che
cercavano piaceri non necessari, non avevano avuto alcun timore per
l'esito di quella giornata. Eppure costoro criticavano il lusso
dell'esercito di Cesare, quanto mai povero e paziente, cui erano sempre
mancate tutte le cose di prima necessità. Pompeo, quando ormai i nostri
erano all'interno del vallo, trovato un cavallo, gettate le insegne di
comandante, se ne andò rapidamente dal campo per la porta decumana e si
diresse subito a spron battuto verso Larissa. Né qui si fermò, ma,
imbattutosi in alcuni dei suoi in fuga, con la medesima velocità, senza
fermarsi neppure di notte, accompagnato da trenta cavalieri giunse al mare
e si imbarcò su una nave frumentaria, spesso lamentandosi, come si diceva,
di essersi tanto ingannato sì da sembrare quasi tradito, poiché a iniziare
la fuga erano stati proprio quegli uomini dai quali aveva sperato la
vittoria.
97
Cesare, impadronitosi del campo, chiese insistentemente ai soldati,
occupati a fare bottino, di non sprecare l'occasione per condurre a
termine il resto dell'impresa. Ottenuto ciò, cominciò a fare lavori di
fortificazione intorno al monte. I Pompeiani, poiché il monte era senza
acqua, non si fidarono a rimanere in quella posizione e, lasciato il
monte, tutti insieme cominciarono a dirigersi attraverso le giogaie verso
Larissa. Accortosi di ciò, Cesare divise le sue truppe e ordinò a una
parte delle legioni di rimanere nel campo di Pompeo, ne rimandò una parte
nel proprio accampamento, condusse quattro legioni con sé e per una strada
più comoda iniziò a marciare per sbarrare la strada ai Pompeiani. Avanzato
seimila passi, schierò le truppe a battaglia. Visto ciò, i Pompeiani si
fermarono su un monte, ai piedi del quale scorreva un fiume. Cesare
rivolse parole di incoraggiamento ai soldati e, sebbene fossero sfiniti
dalla fatica continua di tutta la giornata e ormai si avvicinasse la
notte, tuttavia fece isolare con una fortificazione il fiume dal monte
perché di notte i Pompeiani non potessero rifornirsi di acqua. Compiuta
questa operazione, i Pompeiani cominciarono a trattare la resa mandando
ambasciatori. Alcuni esponenti dell'ordine senatorio, che si erano uniti
ai Pompeiani, di notte cercarono salvezza nella fuga.
98
Cesare all'alba ordinò a tutti coloro che si erano fermati sul monte di
scendere in pianura dalle alture e consegnare le armi. Eseguirono l'ordine
senza fare opposizione e gettatisi a terra con le mani tese, in lacrime,
chiesero a Cesare salva la vita. Cesare, dopo averli consolati, ordinò
loro di alzarsi e rivolte loro poche parole in merito alla sua clemenza,
perché avessero meno timore, fece a tutti grazia della vita e diede ordine
ai suoi soldati di non fare violenza a nessuno di essi e di non portare
via nulla di loro appartenenza. Date scrupolosamente queste disposizioni,
ordinò alle altre legioni di raggiungerlo dall'accampamento e a quelle che
aveva condotto con sé di fare ritorno nel campo per riposarsi a loro
volta; il medesimo giorno giunse a Larissa.
99
In quella battaglia Cesare non lamentò la perdita di più di duecento
soldati, ma perse circa trenta centurioni, uomini valorosi. Mentre
combatteva valorosamente fu ucciso anche Crastino, che sopra abbiamo
ricordato, colpito in pieno viso da un colpo di spada. E non aveva detto
il falso andando in battaglia. Cesare infatti pensava che in quella
battaglia il valore di Crastino fosse stato straordinario e riteneva di
dovergli, per i suoi meriti, una grandissima riconoscenza. Sembrava che
l'esercito pompeiano avesse contato circa quindicimila caduti, ma si
arresero in più di ventiquattromila (infatti anche le coorti che erano di
guardia nei fortilizi si consegnarono a Silla), inoltre molti trovarono
rifugio nelle città vicine; dalla battaglia furono portate a Cesare
centottanta insegne militari e nove aquile. L. Domizio fu ucciso dai
cavalieri mentre fuggiva dall'accampamento verso il monte, quando ormai le
forze gli erano venute meno per la stanchezza.
100
Nel medesimo tempo D. Lelio giunse con la flotta a Brindisi e nel medesimo
modo in cui, come prima dicemmo, operò Libone, occupò l'isola che
fronteggia il porto di Brindisi. Similmente Vatinio, che era al comando di
Brindisi, con imbarcazioni coperte e fornite di opportuno equipaggiamento
attirò le navi di Lelio e catturò, all'imboccatura del porto, una
quinquereme che si era spinta troppo lontano e due navi minori, e
parimenti, con reparti di cavalleria opportunamente disposti, cominciò a
impedire ai marinai l'approvvigionamento d'acqua. Ma Lelio, approfittando
della stagione abbastanza favorevole alla navigazione, con navi da carico
portava ai suoi acqua da Corcira e da Durazzo e non veniva distolto dal
suo progetto e, prima di avere avuto notizia della battaglia combattuta in
Tessaglia, né l'ignominiosa perdita delle navi, né la mancanza di ogni
cosa necessaria poterono cacciarlo dal porto e dall'isola.
101
Quasi nel medesimo tempo Cassio con una flotta di navi siriache, fenicie e
cilicie venne in Sicilia e, dal momento che la flotta di Cesare era divisa
in due parti, una sotto il comando del pretore P. Sulpicio presso Vibona,
l'altra sotto il comando di M. Pomponio presso Messina, egli si diresse
con le sue navi a volo su Messina prima che Pomponio avesse sentore del
suo arrivo. Trovatolo in preda a confusione, senza alcuna sorveglianza e
con le navi non schierate, approfittando di un vento forte e favorevole,
scagliò sulla flotta di Pomponio navi onerarie riempite di fiaccole, pece,
stoppa e altro materiale incendiario e bruciò tutte le navi, in tutto
trentacinque, di cui venti coperte. Da tale avvenimento derivò un timore
tanto grande che, sebbene vi fosse a Messina una legione di presidio, a
stento la città fu difesa e, se nel medesimo tempo non fossero giunte,
tramite cavalieri che facevano regolare servizio di informazione, notizie
della vittoria di Cesare, i più ritenevano che la città sarebbe stata
perduta. Ma la città poté essere difesa grazie all'opportuno arrivo delle
notizie e quindi Cassio puntò sulla flotta di Sulpicio a Vibona. Poiché i
nostri avevano messo in secco circa quaranta navi per il medesimo timore,
i Pompeiani ricorsero alla tattica di prima. Cassio, approfittando del
vento favorevole spinse navi da carico allestite per provocare un
incendio; e il fuoco appiccato da un'estremità e dall'altra fece
incendiare cinque navi. E poiché il fuoco per la violenza del vento si
estendeva su di un fronte troppo vasto, i soldati delle vecchie legioni
che, essendo malati, erano stati lasciati di presidio alle navi, non
sopportarono la vergogna; spontaneamente si imbarcarono, salparono,
assalirono la flotta di Cassio e catturarono due quinqueremi su una delle
quali era Cassio. Ma Cassio fuggì raccolto da una imbarcazione. Furono
inoltre prese due triremi. Non molto tempo dopo si venne a sapere della
battaglia avvenuta in Tessaglia così che la cosa risultò certa agli stessi
Pompeiani; infatti prima di allora si pensava che fossero tutte invenzioni
di ambasciatori e di amici di Cesare. Venuto a conoscenza del fatto,
Cassio si allontanò con la flotta da quei luoghi.
102
Cesare, abbandonate tutte le altre cose, giudicò di dovere inseguire
Pompeo in qualunque posto si rifugiasse fuggendo, in modo che non potesse
radunare di nuovo altre truppe e riaprire le ostilità. E ogni giorno
avanzava di tanto quanto era possibile con la cavalleria e aveva dato
ordine a una legione di tenere dietro a tappe più brevi. Ad Anfipoli era
stato emanato un editto in nome di Pompeo secondo cui tutti i giovani di
quella provincia, Greci e cittadini romani, dovevano riunirsi per prestare
giuramento militare. Ma non si poteva capire se Pompeo avesse emanato
quell'editto per allontanare i sospetti in modo da nascondere il più a
lungo possibile il proposito di fuga in zone più lontane o per tentare,
con nuove leve, di conservare la Macedonia, se nessuno lo avesse
attaccato. Egli stesso rimase all'ancora una sola notte e, chiamati presso
di sé gli ospiti di Anfipoli e richiesto del denaro per le spese
necessarie, venuto a conoscenza dell'arrivo di Cesare, si allontanò da
quel luogo e in pochi giorni giunse a Mitilene. Fu trattenuto per due
giorni dal maltempo e, aggiunte alle sue altre navi leggere, si recò in
Cilicia e da qui a Cipro. Qui venne a sapere che, col consenso di tutti
gli abitanti di Antiochia e dei cittadini romani che lì facevano
commercio, erano state prese le armi per impedirgli l'accesso alla città e
che erano stati inviati ambasciatori a coloro che si diceva si fossero
rifugiati nelle regioni vicine perché non venissero ad Antiochia; se lo
avessero fatto, avrebbero corso grande pericolo di vita. Questa medesima
cosa era accaduta a Rodi a L. Lentulo, che l'anno precedente era stato
console, all'ex console P. Lentulo e ad alcuni altri. Essi, avendo seguito
nella fuga Pompeo ed essendo giunti sull'isola, non erano stati accolti né
nella città né nel porto e, quando fu loro notificato da legati l'ordine
di allontanarsi da quei luoghi, pur contro la loro volontà presero il
largo. E ormai la notizia dell'arrivo di Cesare era arrivata fino a quelle
città.
103
Pompeo, venuto a conoscenza di questi fatti, abbandonato il piano di
raggiungere la Siria, preso del denaro dagli appaltatori e chiestone altro
a prestito ad alcuni privati, caricata sulle navi una grande quantità di
bronzo per uso militare, armati duemila uomini, in parte scelti fra i
servi degli appaltatori, in parte raccolti dai mercanti, quelli che
ciascun mercante riteneva idonei a questo scopo, giunse a Pelusio. Qui vi
era per caso il re Tolomeo, appena fanciullo, che con truppe imponenti
stava combattendo contro la sorella Cleopatra, che pochi mesi prima aveva
scacciata dal regno su istigazione di amici e parenti. L'accampamento di
Cleopatra non distava molto dal suo. Pompeo mandò legati a Tolomeo per
chiedergli, in nome dell'ospitalità e dell'amicizia del padre, di
accoglierlo in Alessandria e proteggerlo nella disgrazia con le sue forze.
Ma gli ambasciatori che erano stati mandati da Pompeo, portato a termine
l'incarico, cominciarono a parlare alquanto liberamente con i soldati del
re e a esortarli a prestare il loro aiuto a Pompeo e a non abbandonarlo
nella sua sorte. Fra quelli vi erano parecchi ex soldati di Pompeo, dal
cui esercito Gabinio li aveva accolti in Siria e poi condotti in
Alessandria e, terminata la guerra, lasciati presso Tolomeo, padre del
fanciullo.
104
Allora, venuti a conoscenza di queste cose, gli amici del re che per la
giovane età del fanciullo avevano la reggenza del regno, sia perché spinti
dal timore, come poi andavano dicendo, che Pompeo, sobillato l'esercito
regio, occupasse Alessandria e l'Egitto, sia per disprezzo della sorte di
Pompeo, infatti in genere nella disgrazia gli amici diventano nemici,
risposero ai messi inviati da Pompeo con apparente cortesia, invitandolo a
venire dal re. Ma, tenuto un consiglio segreto, inviarono Achilla,
prefetto regio, uomo di singolare audacia, e L. Settimio, tribuno
militare, a ucciderlo. Pompeo, avvicinato in modo cortese da costoro e
incoraggiato da un certo rapporto di confidenza con Settimio, poiché
durante la guerra piratica costui aveva guidato un reparto del suo
esercito, salì con pochi dei suoi su una piccola nave; qui viene ucciso da
Achilla e da Settimio. Parimenti L. Lentulo viene fatto catturare dal re e
ucciso in carcere.
105
Cesare, giunto in Asia, scopriva che Tito Ampio aveva tentato di portare
via il tesoro dal tempio di Diana a Efeso e che per questo motivo aveva
chiamato tutti i senatori dalla provincia per averli a testimoni sulla
somma di denaro, ma che era fuggito perché disturbato dall'arrivo di
Cesare. E così in due momenti diversi Cesare venne in soccorso del tesoro
di Efeso ... Parimenti, calcolando i giorni a ritroso, si era notato che
nel giorno in cui Cesare aveva vinto, nel tempio di Minerva a Elide, una
statua della Vittoria, posta proprio davanti a quella di Minerva e rivolta
fino a quel momento verso di essa, si era girata verso le porte e la
soglia del tempio. Nel medesimo giorno ad Antiochia, in Siria, due volte
si udì il clamore dell'esercito e un suono di trombe tanto forte da fare
accorrere da ogni parte i cittadini armati sulle mura. La stessa cosa
avvenne a Tolemaide. A Pergamo, nei recessi e nelle zone segrete del
tempio, dove non è lecito l'accesso tranne che ai sacerdoti, e che i Greci
chiamano adyta, risuonarono i timpani. Similmente a Tralli, nel tempio
della Vittoria, dove avevano consacrato una statua di Cesare, veniva
mostrata una palma spuntata in quei giorni dal pavimento fra le giunture
delle pietre.
106
Cesare, trattenutosi pochi giorni in Asia, avendo udito che Pompeo era
stato visto a Cipro, congetturando che si dirigesse in Egitto, date le sue
relazioni con questo regno e per le comodità che esso offriva, con una
legione alla quale aveva dato ordine di seguirlo dalla Tessaglia, e con
un'altra che aveva fatto condurre dall'Acaia dal luogotenente Q. Fufio,
con ottocento cavalieri e con dieci navi da guerra di Rodi e poche altre
dell'Asia, giunse ad Alessandria. Queste legioni erano formate da
tremiladuecento soldati; gli altri, fiaccati dalle ferite sofferte nelle
battaglie e dalla fatica e dalla lunghezza del viaggio, non poterono
seguirlo. Ma Cesare, confidando nella fama delle imprese compiute, non
aveva esitato a partire sia pure con poche forze, giudicando che ogni
luogo sarebbe risultato ugualmente sicuro. Ad Alessandria venne a sapere
della morte di Pompeo e qui, appena sceso dalla nave, udì le grida dei
soldati che il re aveva lasciato di presidio nella città, e vide che una
moltitudine di gente gli veniva incontro ostilmente, poiché i fasci lo
precedevano. Tutta la gente andava dicendo che la regia maestà veniva lesa
da tale fatto. Sedato questo tumulto, nei giorni seguenti vi furono
numerose sedizioni originate da assembramenti di persone e parecchi
soldati furono uccisi per le strade, in ogni parte della città.
107
In considerazione di questi fatti, Cesare diede ordine che venissero
trasferite dall'Asia altre legioni, che egli aveva formato con soldati
pompeiani. Egli stesso infatti era trattenuto forzatamente dai venti
etesii, che soffiano contrari per chi salpa da Alessandria. Frattanto,
giudicando che era di pertinenza del popolo romano e sua, in quanto
console, dirimere le controversie fra Tolomeo e sua sorella e che tanto
più la cosa lo riguardava poiché nel precedente consolato aveva fatto, per
legge e per decreto del senato, un'alleanza con Tolomeo padre, fece sapere
che era di suo gradimento che il re Tolomeo e sua sorella Cleopatra
sciogliessero gli eserciti che avevano e ponessero fine alle dispute
davanti a lui, secondo le vie legali, piuttosto che tra loro con le armi.
108
A causa della giovane età del fanciullo un eunuco di nome Potino, suo
pedagogo, era reggente del regno. Egli, in un primo momento, cominciò a
lamentarsi fra i suoi e a provare indignazione che un re fosse chiamato a
difendersi; successivamente, trovati fra gli amici del re alcuni pronti ad
aiutarlo nei suoi piani, fece venire di nascosto da Pelusio ad Alessandria
l'esercito e mise a capo di tutte le milizie lo stesso Achilla di cui
abbiamo fatto cenno. Lo istigò e inorgoglì con promesse sue e del re e gli
fece sapere il suo piano per mezzo di lettere e ambasciatori. Nel
testamento di Tolomeo padre erano stati indicati come eredi il maggiore
dei due figli e la più anziana delle due figlie. Nel medesimo testamento,
in nome degli dei e dei patti stipulati con Roma, Tolomeo chiamava a
testimone il popolo romano perché venissero rispettate queste
disposizioni. Una copia del testamento era stata portata a Roma per mezzo
di suoi ambasciatori perché venisse depositata nell'erario (questa copia
non poté essere depositata nell'erario a causa dei rivolgimenti politici e
rimase presso Pompeo), una seconda copia uguale era stata lasciata ad
Alessandria e, siglata col sigillo, era stata pubblicata.
109
Mentre davanti a Cesare vengono trattate tali questioni, poiché egli vuole
sopra tutto, in qualità di arbitro e amico comune, dirimere le
controversie dei sovrani, all'improvviso giunge la notizia che l'esercito
regio e tutta la cavalleria si dirigono su Alessandria. Le milizie di
Cesare non erano affatto tali per numero che si potesse contare su di esse
nel caso si fosse dovuto combattere fuori della città. Non gli rimaneva
che restare sulle sue posizioni nella città e tentare di conoscere il
piano di Achilla. Tuttavia diede ordine ai soldati di stare in armi ed
esortò il re a inviare ad Achilla ambasciatori scelti fra le persone più
autorevoli tra i suoi familiari e a manifestargli il proprio volere. Dal
re furono inviati Dioscoride e Serapione, che erano stati entrambi
ambasciatori a Roma e avevano avuto grande autorità presso Tolomeo padre.
Giunsero presso Achilla ed egli, quando arrivarono al suo cospetto, prima
di ascoltarli e di conoscere per quale motivo fossero stati inviati,
ordinò di catturarli e ucciderli. Uno di essi fu ferito e, preso dai suoi,
fu portato via come se fosse morto, l'altro fu ucciso. Dopo questi fatti,
Cesare fece in modo di avere in suo potere il re, ritenendo che il nome
del re avesse grande autorità presso i sudditi, perché sembrasse che la
guerra era stata intrapresa non per iniziativa del re, ma per decisione di
pochi cittadini privati, per giunta avventurieri.
110
Le truppe che erano con Achilla erano tali da non apparire disprezzabili
né per numero né per qualità né per esperienza militare. Aveva infatti in
armi ventimila uomini. Queste truppe erano formate con soldati di Gabinio,
ormai avvezzi alla vita licenziosa di Alessandria e dimentichi del nome e
della disciplina del popolo romano, che colà avevano preso moglie e la
maggior parte dei quali aveva avuto figli. A questi si aggiungevano
ladroni e assassini raccolti in Siria, nella provincia della Cilicia e
nelle regioni vicine. Si erano inoltre radunati e arruolati molti
condannati a morte ed esuli. Per tutti i nostri schiavi fuggitivi
Alessandria rappresentava un sicuro rifugio e una sicura condizione di
vita purché si arruolassero nell'esercito. Se qualcuno di essi veniva
ripreso dal suo padrone, i soldati, per accordo unanime, glielo portavano
via, poiché essi stessi, dal momento che erano nella stessa situazione di
colpa, difendevano i loro compagni dalla violenza come se fosse un
pericolo loro. Costoro, secondo una vecchia consuetudine dell'esercito
alessandrino, erano soliti chiedere la morte degli amici del re,
saccheggiare i beni dei ricchi, assediare la casa del re per avere un
aumento di stipendio, scacciare alcuni dal regno, chiamarvi altri. Vi
erano inoltre duemila cavalieri. Tutti costoro erano diventati veterani
attraverso le numerose guerre di Alessandria, avevano rimesso sul trono
Tolomeo padre, avevano ucciso i due figli di Bibulo, avevano condotto
guerre contro gli Egiziani. Da ciò derivava la loro esperienza militare.
111
Confidando su tali milizie e disprezzando l'esiguo numero dei soldati di
Cesare, Achilla occupava Alessandria, tranne quella parte della città che
era in mano a Cesare a ai suoi soldati. Con un primo assalto tentò di fare
irruzione nella casa di Cesare, ma questi sostenne il suo attacco grazie a
delle coorti disposte lungo le vie. E nel medesimo tempo si combatté
presso il porto e questo fu il combattimento di gran lunga più pesante.
Contemporaneamente, divisesi le forze in drappelli, si combatteva anche in
parecchie vie e i nemici con un gran numero di soldati tentavano di
impadronirsi delle navi da guerra. Fra queste ve ne erano cinquanta
mandate in aiuto a Pompeo, che, terminata la guerra in Tessaglia, erano
tornate a casa, tutte quadriremi e quinqueremi allestite e completamente
equipaggiate per la navigazione; oltre a queste ve ne erano ventidue,
tutte coperte, che erano solite stare di presidio ad Alessandria. Se i
nemici se ne fossero impadroniti, una volta sottratta a Cesare la flotta,
sarebbero stati padroni del porto e di tutto il mare e avrebbero impedito
a Cesare i vettovagliamenti e l'arrivo di aiuti. E così si combatté con
tanto accanimento quanto era dovuto, vedendo nella lotta gli uni una
veloce vittoria, gli altri la chiave della loro salvezza. Ma Cesare ebbe
la meglio e incendiò tutte quelle navi e le rimanenti che erano nei
bacini, poiché con poche truppe non era possibile la difesa di uno spazio
così ampio, e subito sbarcò i soldati presso Faro.
112
Il Faro è sull'isola una torre di grande altezza, di mirabile costruzione;
essa trae il proprio nome dall'isola. Quest'isola, posta di fronte ad
Alessandria, ne crea il porto; ma i primi re gettarono in mare un molo
lungo novecento passi che, con un angusto passaggio, la unisce quasi come
un ponte, alla città. In quest'isola vi sono abitazioni di Egiziani e un
quartiere grande come una città; e qualunque nave, ovunque, per
inesperienza o per burrasca si allontana un poco dalla rotta, viene di
solito depredata piratescamente. Inoltre nessuna nave può entrare in
porto, a causa della stretta imboccatura, contro la volontà degli
occupanti di Faro. E Cesare, temendo ciò, mentre i nemici erano impegnati
nella battaglia, fatti sbarcare i soldati, si impossessò di Faro e vi pose
un presidio. E per conseguenza di ciò si garantì in sicurezza l'afflusso
per mare di frumento e rinforzi. Mandò infatti richieste di aiuto attorno,
per tutte le province vicine. Nelle altre parti della città si combatté in
modo che ci si ritirò alla pari e nessuno dei due contendenti fu
ricacciato (causa di ciò fu l'angustia del luogo); pochi uomini furono
uccisi da entrambe le parti; Cesare si impadronì dei punti strategici e di
notte li fortificò. In quella zona della città vi era una piccola parte
della reggia, che egli aveva subito occupato per abitarvi, e il teatro,
collegato alla reggia, che fungeva da rocca e aveva un accesso al porto e
ai cantieri navali del re. Nei giorni successivi potenziò queste
fortificazioni, perché, avendole di fronte, gli servissero da mura e non
fosse costretto a combattere contro la sua volontà. Frattanto la figlia
minore del re Tolomeo, nella speranza del possesso del regno vacante,
lasciò la reggia rifugiandosi da Achilla e incominciò a dirigere la guerra
insieme a lui. Ma in breve tempo sorse tra loro una contesa sul potere
supremo e ciò fece sì che le elargizioni ai soldati fossero aumentate;
ciascuno cercava infatti di conquistarsi il loro favore con grandi
profusioni di denaro. Mentre presso i nemici accadeva ciò, Potino [tutore
del fanciullo e reggente del regno, che si trovava nel quartiere occupato
da Cesare] mandava ambasciatori ad Achilla esortandolo a non desistere
dall'impresa e a non perdersi d'animo; i suoi messaggeri furono denunziati
e catturati ed egli fu ucciso. [Questi furono gli inizi della guerra
alessandrina].
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