Scienza
Mutazione adattativa
Il Darwinismo e l’umanesimo individualista
Darwin sostiene che le mutazioni genetiche che portano da una specie all’altra avvengono casualmente. Quando l’ambiente cambia, l’ambiente stesso causa uno stress su una specie per via delle caratteristiche che quella specie ha e che non sono consone ai cambiamenti ambientali avvenuti. Questi stress si traducono in stimoli al cambiamento genetico e, quindi, alla evoluzione della specie. Tuttavia Darwin sostiene che non esiste alcuna interazione intelligente tra gli stimoli dell’ambiente e le mutazioni genetiche. In altre parole non c’è alcuna intelligenza nel processo evolutivo. Secondo Darwin le mutazioni avvengono per caso e, solo per caso, un bel giorno, nascerà quella mutazione che meglio si adatta alla nuova situazione ambientale.
Questa visione Darwiniana si basa sulla idea (che viene affermata, ma mai dimostrata da Darwin e che, tuttavia, è entrata nel pensiero comune di tutti noi) che nella natura non c’è una “intelligenza” che muove i fili; secondo i darwiniani tutto avviene per caso in un Universo che va alla deriva in un modo del tutto casuale. Riconoscere che nella natura c’è una “intelligenza” che opera significherebbe riconoscere anche che nell’universo esiste ed opera una “presenza intelligente”. Cosa che i darwiniani vedono come il fumo negli occhi.
Nella visione del mondo dei darwiniani l’uomo deriva unicamente da un processo evolutivo del tutto casuale e non contiene nessuna scintilla divina; ciò significa che l’uomo è un “animale” come gli altri e che l’uomo è solo. In questo modo si pongono le basi per la diffusione dell’umanesimo individualista: i più forti vanno avanti gli altri possono tranquillamente essere sacrificati.
Ma non è così. Ed è la stessa scienza che lo sta scoprendo.
La mutazione adattativa (o adattiva)
(Stupefacente!!! Dalla supremazia del DNA alla supremazia dell’Ambiente e, quindi, della Specie. Un nuovo Futuro.)
Tutti i nostri geni derivano dal DNA parentale, pertanto si potrebbe sostenere che le nostre caratteristiche (fisiologia, salute, comportamento) siano “predeterminate” dalla nostra eredità genetica. Si potrebbe sostenere, cioè, che esiste una supremazia del DNA ereditato che arriva a determinare ogni cosa, senza che noi esseri umani (come individui e come specie) possiamo in nessun modo interferire col nostro destino individuale e di specie.
Questa visione deriva direttamente dalla impostazione Darwiniana, in base alla quale le mutazioni genetiche sono del tutto casuali, prive di ogni logica quindi del tutto ineluttabili e imprevedibili. Non c’è modo di interagire con esse, quindi dobbiamo solo rassegnarci a subirle. Nella visione dei darwiniani l’idea della supremazia del DNA condanna ciascuno di noi e tutta la nostra specie ad avere il DNA che ha senza poter fare nulla. Sta alla competizione tra individui e alla migliore capacità di adattamento individuale definire quale sarà il futuro individuale e della specie.
Ma questa asserzione, ormai, è superata.
Nel 1988, il genetista John Cairns ha pubblicato quello che, da allora, è divenuto un articolo rivoluzionario: “The Origin Of Mutants” (Nature 335:142, 1988). Cairns ha riconosciuto che le mutazioni genetiche non erano unicamente il risultato di eventi chimici casuali come oggi perlopiù si pensa.
Egli ha posto dei batteri con un’anomalia del gene relativo all’assimilazione del latte in colture che contenevano solo lattosio come fonte di sostentamento. I batteri non erano, quindi, in grado di nutrirsi. La logica Darwiniana avrebbe condannato a morte tutti i batteri.
Invece, dopo un breve periodo, i batteri hanno cominciato a crescere e a proliferare. All’esame, si è scoperto che avevano mutato specificamente il gene che non rispondeva alla lattasi e riparato la sua funzione. La ricerca di Cairns ha rivelato che, in risposta a stress ambientali, gli organismi possono attivamente indurre mutazioni genetiche di geni selezionati nel tentativo di sopravvivere.
Queste mutazioni rappresenterebbero “adattamenti” meccanici indotti dalla risposta dell’organismo all’esperienza. Cairns coniò quindi il termine di “mutazione orientata”.
Anche se i risultati di Cairns sono stati veementemente contestati dai tradizionalisti, Harris et al. hanno presentato un meccanismo molecolare che rende ragione delle sue osservazioni in un articolo intitolato “Recombination in Adaptive Mutation” (Science 264:258, 1994). Quest’ultima pubblicazione ha rivelato che organismi primitivi come i batteri contengono “geni per l’ingegneria genetica”.
A questa classe di geni di recente individuazione l’organismo può accedere attivamente allo scopo di mutare selettivamente i geni esistenti. Attraverso efficaci mutazioni “adattive” di geni selezionati, gli organismi sono in grado di creare nuove proteine, la cui struttura o funzione alterata può consentire una migliore opportunità di sopravvivenza rispetto agli stress ambientali. Nasce così il termine “mutazione adattativa o adattiva”.
Sulla base di questa nuova prospettiva, David Thaler ha pubblicato un importante articolo revisionista dal titolo “The Evolution of Genetic Intelligence” (Science 264:224, 1994). Secondo la sua visione innovativa, Thaler riconosce che l’espressione biologica è attivamente definita dalla percezione che l’individuo ha della propria esperienza di vita. Egli sottolinea l’importanza della percezione, non solo per la sua capacità di regolare l’espressione dell’organismo commutando dinamicamente i programmi genetici, ma anche per la sua capacità di indurre la “riscrittura” di programmi genetici esistenti in vista di un migliore adattamento agli stress ambientali.
In prospettiva, la visione emergente della biomedicina convenzionale rivela un profondo cambiamento nei principi fondamentali. La Supremazia del DNA va cedendo il posto alla Supremazia dell’Ambiente (e quindi della interazione con esso).
Essenzialmente, la scienza convenzionale ha spostato la fonte del
controllo intelligente dai geni interni ai “segnali” ambientali sia
interni che esterni.
Inoltre, è stato dimostrato che, in risposta all’esperienza,
l’organismo può attivamente alterare i programmi genetici “innati”
quale mezzo di adattamento meccanico a condizioni ambientali
percepite.
Non più, quindi, Supremazia del DNA ma, bensì, Supremazia dell’Ambiente: l’essere umano non risponde più soltanto al patrimonio genetico ereditato dai propri genitori ma anche, e soprattutto, agli stimoli dell’ambiente in cui vive, con la capacità di modificare il suddetto patrimonio genetico al fine di adattarsi al meglio a quegli stimoli e quindi all’ambiente.
Ciò significa, quindi, supremazia della specie nella definizione
del proprio destino. Supremazia della specie nell’indirizzare il
destino degli individui e della stessa specie nella sua globalità.
La percezione dell’ambiente in cui viviamo, l’esperienza che noi
facciamo dell’ambiente e le modifiche che noi facciamo all’ambiente,
possono innescare meccanismi di mutazione genetica per meglio
addattarsi all’ambiente stesso.
In questo tipo di processo il nostro corpo svolge un ruolo
importante. Ma è anche, e soprattutto, la mente a svolgere il ruolo
fondamentale.
Il modo di vedere il mondo, l’esperienza che facciamo del mondo
attraverso la nostra mente, può innescare fenomeni di “mutazione
adattiva”.
Infatti noi siamo una specie che può subire “stress ambientali” sia di tipo fisico che di tipo mentale. E negli stress di tipo mentale è la nostra mente, quindi il nostro modo di vedere il mondo, che può innescare fenomeni di “mutazione adattiva”.
Il lavoro di Cairns ci introduce alla realtà che l’evoluzione non è solo un caso fortunato ma una danza tra un organismo e il suo ambiente, un processo dinamico “intelligente” attraverso il quale una specie può adattarsi continuamente agli ambienti nuovi e debilitanti. E quindi indirizzare la propria evoluzione.
La condivisione dell’informazione genetica tra specie diverse
Scienziati che studiano il genoma hanno scoperto di recente un meccanismo supplementare di adattamento evolutivo che rivela una sorprendente collaborazione tra le specie: organismi viventi di specie diverse che condividono i loro geni.
Si riteneva che i geni si trasmettessero solo alla progenie di un organismo individuale attraverso la riproduzione. Ora gli scienziati ritengono che i geni si condividono non solo tra membri individuali all’interno di una specie, ma anche tra membri di specie diverse. La condivisione dell’informazione genetica attraverso il trasferimento genetico accelera l’evoluzione poiché gli organismi possono acquisire, sottoforma di geni, esperienze “apprese” da altri organismi.
Stabilita questa condivisione di geni, gli organismi non si possono più considerare entità sconnesse; non ci sono muri tra le specie. La condivisione dell’informazione genetica non è accidentale; è il metodo della Natura per aumentare la sopravvivenza collettiva della biosfera.
Lo scambio di geni tra individui, recentemente riconosciuto, diffonde l’informazione che influenza la sopravvivenza di tutti gli organismi facenti parte della comunità vivente. La consapevolezza di questo trasferimento genetico inter e intraspecie mette in evidenza i pericoli dell’ingegneria genetica, poiché i geni umani alterati possono distribuirsi in tutta la biosfera, alterando gli organismi in modo imprevedibile.
Gli evoluzionisti genetici avvertono che se falliamo nell’applicare la lezione del nostro destino genetico condiviso, il quale dovrebbe insegnarci l’importanza della collaborazione tra tutte le specie, mettiamo sotto seria minaccia la vita umana. Dobbiamo prendere le distanze dalla teoria Darwiniana che sottolinea l’importanza degli individui, verso una teoria che sottolinei l’importanza della comunità. A questo scopo, lo scienziato britannico Timpthy Lenton ha fornito la dimostrazione che le interazioni collettive tra specie sono più importanti per l’evoluzione, dei contributi individuali di una sola specie.
L’evoluzione seleziona la sopravvivenza dei gruppi più idonei e non quella degli individui più idonei. Lenton propone: «Dobbiamo considerare la totalità degli organismi e il loro ambiente materiale per comprendere pienamente quali caratteristiche riescono a perdurare e dominare». La consapevolezza che gli organismi si siano evoluti contemporaneamente e continuino a coesistere in una rete intrecciata (entangled quantistico) di vita richiede una comprensione della vita basata sull’olismo, e non sugli individui.
Nel porre l’attenzione sulla rete della vita, la nuova biologia sostiene pienamente l’ipotesi di James Lovelock (La rivolta di Gaia, Rizzoli 2006), che la Terra fisica e tutti gli esseri viventi costituiscano un organismo collettivo. Interferire con l’equilibrio del superorganismo di Gaia, distruggendo la foresta pluviale e impoverendo lo strato di ozono o alterando la specie con l’ingegneria genetica, minaccia la sua sopravvivenza e di conseguenza la nostra.
Quando qesta nuova consapevolezza scientifica farà il suo ingresso nella corrente principale di pensiero, ci libererà dai vincoli della vecchia storia del Materialismo Scientifico basata sulla mancanza di uno scopo, sulla lotta e sulla competizione. Il nuovo paradigma emergente rivela che non siamo qui per caso, ma con uno scopo e un progetto intenzionale della Natura.