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Federico García LorcaLA VITA
Federico García Lorca (Fuente Vaqueros, 5 giugno 1898 – Víznar, 18 agosto 1936) è stato un poeta e drammaturgo spagnolo appartenente alla cosiddetta generazione del '27, un gruppo di scrittori che affrontò le Avanguardie europee con risultati eccellenti, tanto che la prima metà del Novecento viene definita la Edad de Plata della letteratura spagnola. Apertamente a favore delle forze repubblicane, scoppiata la Guerra civile spagnola viene per questo ucciso dai falangisti seguaci di Francisco Franco. L'infanzia García Lorca, il cui nome completo è in realtà Federico del Sagrado Corazón de Jesús García Lorca, nasce il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, un paesino della vega granadina. È figlio di un ricco possidente, Federico García Rodríguez, che aveva sposato in seconde nozze una giovane e sensibile maestra, Vicenta Lorca Romero, donna di salute fragile - al punto che ad allattare Lorca non sarà lei stessa, ma una balia, moglie del capataz del padre - e che tuttavia incide profondamente nella formazione artistica del figlio: lascia infatti presto l'insegnamento per dedicarsi all'educazione del piccolo Federico, al quale trasmette la sua passione per il pianoforte e la musica: "Canticchiava le canzoni popolari ancor prima di saper parlare e si entusiasmava sentendo suonare una chitarra" La madre gli trasmetterà altresì quella coscienza profonda della realtà degli indigenti e quel rispetto per il loro dolore che Lorca riverserà all'interno della propria opera letteraria. Federico trascorre un'infanzia felice nell'ambiente sereno e agreste della casa patriarcale di Fuente Vaqueros fino al 1909, quando la famiglia, che nel frattempo si era accresciuta di altri tre figli - Francisco, Conchita e Isabel, mentre un quarto, Luis, si era purtroppo spento all'età di soli due anni per polmonite - si trasferisce a Granada. Gli studi e le conoscenze a Granada [modifica] Conosce i quartieri gitani della città, che entreranno a far parte della sua poesia, come dimostra il suo Romancero del 1928. Incontra per la prima volta in questo periodo il letterato Melchor Fernández Almagro e il giurista Fernando de los Ríos, futuro Ministro de Instrucción Pública durante il periodo denominato Seconda Repubblica Spagnola: entrambi aiuteranno in modo concreto la carriera del giovane Federico. Inizia nel frattempo lo studio del pianoforte sotto la guida del maestro Antonio Segura e diventa un abile esecutore del repertorio classico e di quello del folclore andaluso. Con il musicista granadino Manuel de Falla, con cui stringe un'intensa amicizia, collabora all'organizzazione della prima Fiesta del Cante jondo (13 - 14 giugno 1922). Il periodo formativo spirituale Gli interessi che segnano il periodo formativo spirituale del poeta sono la letteratura, la musica e l'arte che apprende dal professor Martín Domínguez Berrueta che sarà suo compagno nel viaggio di studio in Castiglia, dal quale nascerà la raccolta in prosa Impresíones y paisajes (Impressioni e paesaggi). L'ingresso alla Residencia de Estudiantes Nel 1919 il poeta, grazie all'interessamento di Fernando de los Ríos, ottiene l'ingresso nella prestigiosa Residencia de Estudiantes di Madrid, confidenzialmente chiamata dai suoi ospiti "la resi", che era considerata il luogo della nuova cultura e delle giovani promesse del '27. Nella Residencia Lorca rimane nove anni, tranne i soggiorni estivi alla Huerta de San Vicente, la casa di campagna, e alcuni viaggi a Barcellona e a Cadaqués ospite del pittore Salvador Dalí, a cui lo lega un rapporto di stima e amicizia che coinvolgerà presto anche la sfera sentimentale. Le prime pubblicazioni È di questo periodo la pubblicazione del Libro de poemas, la preparazione delle raccolte Canciones e Poema del Cante jondo (Poema del Canto profondo), al quale fa seguito il dramma teatrale El maleficio de la maríposa (Il maleficio della farfalla) nel 1920 e nel 1927 il dramma storico Mariana Pineda per il quale Salvator Dalí disegna la scenografia. Seguiranno le prose d'impronta surrealista Santa Lucía y san Lázaro, Nadadora sumeringa (La nuotatrice sommersa) e Suicidio en Alejandría, gli atti teatrali El paseo de Buster Keaton (La passeggiata di Buster Keaton) e La doncella, el marinero y el estudiante (La ragazza, il marinaio e lo studente), oltre le raccolte poetiche Primer romancero gitano, Oda a Salvator Dalí e un numero straordinario di articoli, composizioni, pubblicazioni varie, senza contare le letture in casa di amici, le conferenze e la preparazione della rivista granadina "Gallo" e la mostra di disegni a Barcellona. Il conflitto interiore Le lettere inviate in questo periodo da Federico agli amici più intimi, confermano che l'attività febbrile improntata ai contatti e alle relazioni sociali che il poeta in quel momento vive nasconde in realtà una intima sofferenza e ricorrenti pensieri di morte, malessere su cui molto incide il non poter vivere serenamente la propria omosessualità. Al critico catalano Sebastián Gasch, in una lettera datata 1927, confessa la sua dolorosa condizione interiore: "Sto attraversando una grave crisi sentimentale (è così) dalla quale spero di uscire curato". La depressione Il conflitto con la cerchia intima di parenti e amici raggiunge il suo climax allorquando i due surrealisti Dalí e Buñuel collaborano alla realizzazione del film Un chien andalou, che García Lorca legge, probabilmente erroneamente, come un attacco nei suoi confronti. Allo stesso tempo, la sua passione, acuta ma sfortunatamente non ricambiata per lo scultore Emilio Aladrén, giunge a una svolta di grande dolore per Lorca nel momento in cui Aladrén inizia la propria relazione con la donna che ne diverrà moglie. La borsa di studio e il soggiorno a New York Fernando de los Ríos, il suo amico protettore, venuto a conoscenza dello stato conflittuale del giovane García gli concede una borsa di studio e nella primavera del 1929 il poeta lascia la Spagna e si reca negli Stati Uniti. L'esperienza statunitense, che dura fino alla primavera del 1930, sarà fondamentale per il poeta, e darà come risultato una delle produzioni lorchiane più riuscite, Poeta en Nueva York, incentrata su quanto Lorca osserva con il suo sguardo partecipe e attento: una società di troppo accesi contrasti tra poveri e ricchi, emarginati e classi dominanti, connotata da razzismo. Si rafforza in Lorca il convincimento della necessità di un Mondo nettamente più equo, non discriminante. A New York, il poeta frequenta i corsi alla Columbia University, trascorre le vacanze estive, invitato dall'amico Philip Cummings, sulle rive del lago Edem Mills e, poi, presso la casa del critico letterario Angel del Rio e alla fattoria del poeta Federico de Onís nel Newburg. Al rientro nella metropoli alla fine dell'estate rivede alcuni amici spagnoli tra i quali León Felipe, Andrés Segovia, Dámaso Alonso e il torero Ignacio Sánchez Mejías, che si trovava a New York con la famosa cantante la Argentinita, ma il 5 marzo del 1930, dietro invito della Institucíon hispanocubana de Cultura, Lorca parte per Cuba. L'esperienza a Cuba Il periodo trascorso a Cuba è un periodo felice. Il poeta stringe nuove amicizie tra gli scrittori locali, tiene conferenze, recita poesie, partecipa a feste e collabora alle riviste letterarie dell'isola, "Musicalia" e "Revista de Avance", sulla quale pubblica la prosa surrealistica Degollacíon del Bautista (Decapitazione del Battista). Sempre a Cuba inizia a scrivere i drammi teatrali El público e Así que pasen cinco años (Finché trascorreranno cinque anni) e l'interesse maturato per i motivi e i ritmi afrocubani lo aiuteranno a comporre la famosa lirica Son de negros en Cuba che risulta essere un canto d'amore per l'anima negra d'America. Il rientro in Spagna Nel luglio del 1930 il poeta rientra in Spagna che, dopo la caduta della dittatura di Primo de Rivera, sta vivendo una fase di intensa vita democratica e culturale. La realizzazione del teatro ambulante [modifica] Con l'aiuto di Fernando de los Ríos, che nel frattempo è diventato Ministro della Pubblica istruzione, Lorca, con attori e interpreti selezionati dall'Istituto Escuela di Madrid con il suo progetto di Museo Pedagocico, realizza il progetto di un teatro popolare ambulante, chiamato La Barraca che, girando per i villaggi, rappresenta il repertorio classico spagnolo. Conosce in questi anni Rafael Rodríguez Rapún, segretario de La Barraca e studente d'ingegneria a Madrid, che sarà l'amore profondo dei suoi drammi e delle sue poesie e al quale dedicherà i Sonetti dell'amor oscuro, pubblicati postumi. Lorca, che è l'ideatore, il regista, l'animatore entusiasta della piccola troupe teatrale, vestito con una semplice tuta azzurra a significare ogni rifiuto di divismo, porta in giro negli ambienti rurali e universitari il suo teatro che riscuote grande successo e che svolge senza interruzione la sua attività fino all'aprile del 1936, a pochi mesi dallo scoppia della guerra civile. Le ultime opere letterarie L'attività teatrale non impedisce a Lorca di continuare a scrivere e compiere diversi viaggi con gli amici madrileni, nella vecchia Castiglia, nei Paesi Baschi e in Galizia. Alla morte dell'amico banderillero e torero Ignacio Sánchez Mejías avvenuta l'11 agosto del 1934, il poeta dedica il famoso Llanto (Compianto) e negli anni successivi pubblica Seis poemas galegos (Sei poesie galiziane), progetta la raccolta poetica del Diván del Tamarit e porta a conclusione le opere teatrali Doña Rosita la soltera o El lenguaje de las flores (Donna Rosita nubile o Il linguaggio dei fiori). Lo scoppio della guerra civile Stanno intanto precipitando gli eventi politici. Tuttavia, García Lorca rifiuta la possibilità di asilo offertagli da Colombia e Messico, i cui ambasciatori prevedono il rischio che il poeta possa esser vittima di un attentato a causa del suo ruolo di funzionario della Repubblica; respinge le offerte, ed il 13 luglio decide di tornare a Granada, nella casa della Huerta de San Vicente, per trascorrervi l’estate. Rilascia un’ultima intervista, al “Sol” di Madrid, in cui c’è una eco delle motivazioni che l’avevano spinto a rifiutare quelle offerte di vita fuori dalla Spagna appena menzionate, ed in cui tuttavia Lorca chiarisce e ribadisce la propria avversione verso le posizioni di estremismo nazionalistico, tipiche di quella destra che prenderà da lì a poco il potere, instaurando la dittatura: "Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient’altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrando l’uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Il Cinese buono lo sento più prossimo dello spagnolo malvagio. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica." Pochi giorni dopo, esplode in Marocco la ribellione franchista che in breve tempo colpisce la città andalusa e instaura un clima di feroce repressione. L'arresto Il 16 agosto, il sindaco socialista di Granada (cognato del poeta) viene fucilato. Federico, che si era rifugiato in casa dell'amico poeta falangista Louis Rosales, viene arrestato lo stesso giorno dall'ex rappresentante della CEDA, Ramón Ruiz Alonso. La fucilazione Numerosi si levano gli interventi a favore del poeta, soprattutto da parte dei fratelli Rosales e dal maestro de Falla; ma nonostante la promessa fatta allo stesso Luis Rosales che Lorca sarebbe stato rimesso in libertà "se non ci sono denunce contro di lui", il governatore José Valdés Guzmán, con l'appoggio del generale Queipo de Llano, dà ordine, segretamente, di procedere all'esecuzione: a notte fonda, Federico è condotto a Víznar, presso Granada e - è incerto se all'alba del 18 o 19 agosto - viene fucilato sulla strada vicino alla Fuente grande, lungo il cammino che va da Víznar a Alfacar. La sua uccisione provoca riprovazione mondiale: molti intellettuali esprimeranno parole di sdegno, tra le quali spiccano quelle dell'amico Pablo Neruda. Lorca sotto la dittatura franchista La dittatura di Franco, instauratasi, impone il bando sulle sue opere, bando in parte rotto nel 1953, quando un Obras completas - si badi bene, pesantemente censurata - viene fatto pubblicare. Quell'edizione tra l'altro non include il suo ultimo Sonetos del amor oscuro, scritto nel Novembre del 1935 e recitato unicamente per gli amici intimi. Quei sonetti, di tema omosessuale, saranno addirittura pubblicati solo a partire dall'anno 1983. Lorca oggi Con la morte di Franco nel 1975, García Lorca ha potuto finalmente e giustamente tornare ad essere quell'esponente importantissimo della vita culturale e politica del proprio Paese. Nel 1986, la traduzione in lingua inglese fatta dal cantante e autore Leonard Cohen della poesia di Lorca "Pequeño vals vienés", e musicata dallo stesso Cohen, raggiunge il primo posto all'interno della classifica dei dischi più venduti in Spagna. Oggi, la memoria di García Lorca viene solennemente onorata da una statua in Plaza de Santa Ana, a Madrid. L'opera poetica Pur esistendo importanti edizioni dell'opera completa di García Lorca non si ha ancora un testo definitivo che metta fine ai dubbi e agli interrogativi nati intorno ai libri annunciati e mai pubblicati e non si è ancora risolta la questione della genesi di alcune raccolte importanti. In un primo tempo Lorca manifesta il suo talento come espressione orale seguendo lo stile della tradizione giullaresca. Il poeta infatti recita, legge, interpreta i suoi versi e le sue pièce teatrali davanti agli amici e agli studenti dell'università prima ancora che siano raccolte e stampate. Ma Lorca, pur essendo un artista geniale ed esuberante, mantiene verso la sua attività creativa un atteggiamento severo chiedendo ad essa due condizioni essenziali: amor y disciplina. Il periodo andaluso Impresiones y paisajes Nella raccolta di prose Impresiones y paisajes che esce nel 1918 dopo il viaggio in Castiglia e Andalusia, Lorca afferma le sue grandi doti d'intuizione e di fantasia. La raccolta è densa di impressioni liriche, di note musicali, annotazioni critiche e realistiche intorno alla vita, la religione, l'arte e la poesia. Libro de poemas Nel Libro de poemas, composto dal 1918 al 1920 Lorca documenta il suo grande amore per il canto e la vita. Dialoga con il paesaggio e con gli animali con il tono modernista di un Rubén Darío o un Juan Ramón Jiménez facendo affiorare le sue inquietudini sotto forma di nostalgia, di abbandoni, di angosce e di protesta ponendosi domande di natura esistenziale: "Che cosa racchiudo in me/ in questi momenti di tristezza?/ Ahi, chi taglia i miei boschi/ dorati e fioriti!/ Che cosa leggo nello specchio/ d'argento commosso/ che l'aurora mi offre/ sull'acqua del fiume?". Il periodo che va dal 1921 al 1924 rappresenta un momento molto creativo e di grande entusiasmo anche se molte delle opere prodotte vedranno la luce solo anni dopo. Poema del Cante jondo Il Poema del Cante jondo, scritto tra il 1921 e il 1922 uscirà solamente dieci anni dopo. In esso vi sono tutti i motivi del mondo andaluso ritmati sulle modalità musicali del cante jondo a cui il poeta aveva lavorato con il maestro de Falla in occasione della celebrazione della prima Fiesta del Cante jondo al quale Lorca aveva dedicato, nel 1922, la conferenza Importancia histórica y artística del primitivo canto andaluz llamado "cante jondo". Il libro vuole essere un'interpretazione poetica dei significati legati a questo canto primitivo che esplode nella ripetizione ossessiva di suoni e di ritmi popolari, come nelle canzoni della siguiriya, la soleá, la petenera, la tonáa, la liviana, accompagnate dal suono della chitarra: "Comincia il pianto/ della chitarra./ Si spezzano le coppe/ dell'alba./ Comincia il pianto/ della chitarra./ È inutile/ tacerla./ È impossibile/ tacerla./ Piange monotona/ come piange l'acqua./ Come piange il vento/ sulla montagna". Premieras Canciones, Suites - Canciones In Premiera Canciones ma soprattutto in Canciones, il poeta, su variazioni di tipo musicale espresse con un linguaggio cifrato, dimostra tutta la sua abilità nel cogliere il mondo della tenerezza infantile. "Albero albero/ secco e verde.// La ragazza dal bel volto/ sta raccogliendo olive./ Il vento, corteggiatore di torri,/ la prende per la cintura". In questi versi i colori, i suoni del mondo gitano vengono rappresentati attraverso una luce particolare che anima gli oggetti. Così nella breve poesia Caracola (Conchiglia) in cui il poeta, attraverso gli echi e i ritmi interiori, rivive il tempo lieto della fantasia e dell'infanzia: " Mi hanno portato una conchiglia.// Dentro canta/ un mare di carta./ Il mio cuore/ si riempie d'acqua/ con pesciolini/ d'ombra e d'argento.// Mi hanno portato una conchiglia". Romancero gitano Il successo popolare di García Lorca avviene nel 1928 con Romancero gitano che descrive il sentimento di fatalità, di mistero e di dolore del mondo andaluso. L'opera è composta da diciotto liriche e comprende quattro nuclei tematici: quello del mondo umano nel quale i gitani lottano contro la Guardia Civil; quello del mondo celeste rappresentato dai romances di iconografia religiosa; quello delle forze oscure e per ultimo quello della realtà di matrice storico-letteraria. Ad accomunare questi quattro mondi vi è la figura dei gitani con il loro carattere fiero e il loro primitivismo pagano verso i quali Lorca sente di possedere una componente comune che lo rende partecipe della loro sofferenza e della loro ribellione. Il Romancero si distingue per la ripetizione del verso spagnolo tradizionale (l'estribillo popular) e per le audaci metafore. "Verde ti voglio proprio verde./ Verde vento. Verdi rami./ La barca sul mare/ e il cavallo sulla montagna". In Romancero, attraverso il vento, i colori, i riferimenti simbolici, è presente tutto l'universo emotivo del giovane Lorca che, con una poesia diretta, fa vibrare la terra d'Andalusia. La "nueva manera espiritualista" In seguito al Romancero gitano, accolto con tanto favore popolare ma disapprovato da Salvador Dalí e da Luis Buñuel per l'eccessivo lirismo tradizionalista, vi è un breve periodo nel quale va situata l'esperienza delle prose poetiche di carattere surrealista, tra le quali Oda a Salvador Dalí, insieme ad alcune bozze teatrali nelle quali il poeta cerca di superare l'elemento biografico senza però mai aderire completamente al movimento surrealista. Oda a Salvador Dalí Nell'ode all'amico Salvador Dalí, Lorca oppone all'estetica del "fiore asettico della radice quadrata" l'immagine della rosa quotidiana come suo ideale di bellezza e di vita: "Ma anche la rosa del giardino dove vivi./ Sempre la rosa, sempre, nord e sud di noi stessi!" e lo invita a non scordare l'importanza del sentimento d'amore e la sua verità umana: "Non è l'Arte la luce che ci acceca gli occhi./ Prima è l'amore, l'amicizia o la scherma" Da Poeta en Nueva York ai Sonetos del amor oscuro Poeta en Nueva York Il libro Poeta en Nueva York, composto tra il 1929 e il 1930 ma pubblicato postumo nel 1940, e che alcuni identificano come la sua opera più compiuta, comprende dieci gruppi di liriche, tra cui l'Oda a Walt Whitman e le composizioni nate nel periodo cubano, e costituisce un superamento della poetica precedente, arricchita di ardite immagini surrealiste. Nell'opera si possono individuare due differenti situazioni psicologiche. "Io credo che il fatto di essere di Granada mi spinga all'umana comprensione dei perseguitati, del gitano, del negro, dell'ebreo... del moro, che noi tutti ci portiamo dentro!" e un secondo momento improntato a un sentimento di nostalgia del ricordo passato e della felicità perduta: "Era la mia voce antica/ ignara dei densi succhi amari./ La sento lambire i miei piedi/ sotto le fragili felci bagnate./ Ahi, voce antica del mio amore, /ahi, voce della mia verità,/ ahi, voce del mio aperto costato,/ quando tutte le rose nascevano dalla mia lingua/ e il prato non conosceva l'impassibile dentatura del cavallo!". A parte i Seis poemas galegos, gli ultimi libri di poesia ripropongono i motivi dell'ultimo itinerario creativo del poeta: la denuncia dell'ingiustizia, il dolore, l'amore impossibile, l'amicizia. Seis poemas galegos Seis poemas galegos è un'opera doppiamente unica nel panorama lorchiano: è in galiziano, lingua differente da quella del poeta, e non vi sono altri esempi in tal senso all'interno della sua produzione letteraria. È per questo particolarmente interessante conoscere come è nata. García Lorca visita per la prima volta la Galizia nel 1916, in occasione di un viaggio di studi organizzato da uno dei suoi professori: visita Santiago de Compostela, A Coruña, Lugo, Betanzos e Ferrol. Nella Residencia de Estudantes di Madrid conosce il musicologo galiziano Jesús Bal y Gay, con l'aiuto del quale si avvicina al folclore musicale di quella terra, in un periodo turante il quale Lorca sta anche leggendo con grande passione i "cancioneiros galego-portugueses" ed autori galiziani come Rosalía de Castro, Curros Enríquez, Eduardo Pondal, Amado Carballo e Manuel Antonio. Nel 1931 conosce Ernesto Guerra da Cal, nazionalista galiziano che fin dall'infanzia risiede a Madrid, e che lo introduce all'interno dell'entourage galiziano della capitale spagnola. Nel maggio del 1932 Lorca realizza il suo secondo viaggio in Galizia, per dare una serie di conferenze. A Santiago de Compostela fa amicizia con Carlos Martínez-Barbeito. Nell'agosto del 1932, effettua un terzo viaggio in Galizia, viaggio legato al giro di spettacoli che la sua compagnia teatrale, "La Barraca", sta effettuando in varie città e villaggi della regione, e in novembre tiene una serie di conferenze con Xosé Filgueira Valverde, e pubblica nella rivista Yunque di Lugo il primo dei suoi "poemas galegos": Madrigal â cibdá de Santiago, scritto con l'aiuto di Francisco Lamas e Luís Manteiga. Nel 1933, Lorca incontra Eduardo Blanco Amor, all'epoca corrispondente del quotidiano argentino La Nación; il giornalista si dà da fare affinché Lorca venga conosciuto in Argentina, tanto che, quando Lorca percorre il Paese sudamericano, riceve una calorosa accoglienza da parte della popolazione, soprattutto quella di origine galiziana. Come ringraziamento, Lorca scrive Cántiga do neno da tenda, e una volta tornato in Spagna manterrà con Blanco Amor una intensa relazione di amicizia, il quale trascorrerà varie volte il proprio tempo nella casa di Lorca a Fuente Vaqueros. È sempre grazie all'aiuto di Blanco Amor che Federico García Lorca giunge a pubblicare le sue composizioni in galiziano con il libro Seis poemas galegos del 1935, per i tipi dell'editorial Nós: le poesie sono composizioni che da un lato posseggono le stesse caratteristiche di spontaneità di quelle contenute in Canciones, il libro di Lorca del (1927), ma che allo stesso tempo, hanno ritmi propri della tradizione letteraria della Galizia. Quanto alla difficoltà di Lorca di scrivere in una lingua differente dalla propria, due sono le versioni succedutesi nel corso degli anni: quella di Ernesto Guerra da Cal, che nell'ultimo periodo della propria vita sostenne di essere l'autore della trasposizione in galiziano, affermazione che trovò appoggio da parte di Xosé Luís Franco Grande, e quella, contrapposta, di Eduardo Blanco Amor, secondo la quale le poesie erano sotto tutti i punti di vista da attribuirsi a Lorca. È quest'ultima tesi quella che ha trovato riscontro nelle indagini successive condotte da vari studiosi. Llanto por Ignacio Sánchez In seguito alla morte dell'amico torero caduto nell'arena, Lorca scrive il bellissimo Llanto por Ignacio Sánchez, in quattro parti. Il componimento, dopo l'irrompente inizio della prima parte ("La cogida y la muerte" - Il cozzo e la morte -, introdotta e scandita dalle famose "cinco de la tarde" che suonano in tutti gli orologi del mondo), prende via via un tono più pacato (nella seconda parte, "La sangre derramada" - Il sangue versato - e nella terza parte "Cuerpo presente" - Corpo presente) -, e cede alla fine all'elegia e al rimpianto per l'amico morto levandosi a ricordarne la grandezza al di là della morte (nella quarta e ultima parte "Alma ausente" -Anima assente -, che così termina): "Io canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia./ La nobile maturità della tua conoscenza./ Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca./ La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.// Passerà molto tempo prima che nasca, se nasce,/ un andaluso così illustre, così ricco d'avventura./ Io canto la sua eleganza con parole che gemono/ e ricordo una brezza triste fra gli olivi". Diván del Tamarit Il Diván del Tamarit, scritto nel 1936 e pubblicato postumo nel 1940, rappresenta la fine del lungo monologo interiore per chiudersi nel silenzio del dramma personale con versi ormai privi di ogni scuola o maniera nei quali il poeta cerca la sua verità interiore. Sonetos del amor oscuro Il 17 marzo 1984 verranno pubblicati gli undici Sonetos del amor oscuro sul giornale "ABC" che costituiscono il documento della passione privata omosessuale espressi attraverso la forma classica del sonetto. I sonetti verranno commentati dal poeta Vicente Aleixandre, che nel 1937 ne aveva ascoltato le prime composizioni, come "prodigio di passione, di entusiasmo, di felicità, di tormento, puro e ardente monumento all'amore...". " Notte alta noi due con luna piena./ Io ruppi in pianto mentre tu ridevi./ Il tuo scherno era un dio,/ le mie lagnanze momenti e poi colombe senza fine.// Notte bassa noi due. Specchio di pena,/ piangevi tu in remote lontananze./ Il mio dolore era un groppo d’agonie/ sopra il tuo cuore fragile d’arena.// L’aurora ci congiunse sopra il letto,/ le bocche contro il gelido fluire/ di uno sbocco di sangue senza fine.// E il sole entrò filtrando dal balcone,/ e aprì il corallo i rami della vita/ sopra il mio cuore avvolto nel sudario". L'Opera teatrale Francisco Umbral nel suo saggio Lorca, poeta maldito pubblicato nel 1978 scrive: "... tutta la drammaturgia di Lorca altro non è che la rappresentazione della sua radicale e personale tragicità interiore". L'opera teatrale di Lorca è infatti la drammatica rappresentazione del conflitto ontologico personale dell'autore vissuta attraverso personaggi che denunciano le sue stesse inquietudini e tentano di ribellarsi agli stessi pregiudizi. Le prime commedie Il tema del sogno e dell'evasione che assumerà un ruolo fondamentale nella successiva drammaturgia lorchiana, è affrontato nell'ingenuo dramma giovanile El maleficio de la mariposa un dramma in versi sull'impossibile amore tra uno scarafaggio e una farfalla, che non è però accolto affatto bene dal pubblico e che spiegherebbe il perché Lorca abbia poi sempre dichiarato che è Mariana Pineda, del 1927, il suo primo copione per il teatro. Le commedie da farsa La zapatera prodigiosa (La calzolaia meravigliosa) e El amor de don Perlimplín con Belisa en su jardín sono due deliziose commedie ritagliate dal teatro di burattini che Lorca amava in modo particolare, e che, insieme a Los títeres de cachiporra (I burattini di legno) e Retablillo de don Cristóbal (Teatrino di don Cristóbal), portano avanti il dialogo intimo del poeta tra lirismo e dramma. Queste commedie da farsa, come annunciano i sottotitoli, si muovono al ritmo dei ballet con infinita grazia e rappresentano, con il tema predominante dell'evasione dal grigiore della realtà quotidiana, una variante letteraria che si risolve in felice tragicommedia. Le opere più mature Bodas de sangre, Yerma, La casa de Bernarda Alba sono opere che rivelano un Lorca maturo e maggiormente attento ai problemi sociali. Nella prima tragedia, Bodas de sangre, la promessa sposa fugge il giorno delle nozze con l'amante Leonardo; in Yerma, la protagonista da cui l'opera prende il nome rifiuta il suo stato di sterilità e uccide il marito, simbolo dell'egoismo maschile; nella terza Adela, la figlia minore di Bernarda Alba, preferisce il suicidio alla rinuncia all'amore e intorno a lei si crea il silenzio, quello stesso silenzio che pesa sul personaggio femminile di Doña Rosita la soltera o El lenguaje de las flores, il dramma che venne rappresentato nel 1935. La pièce surrealista Así que pasen cinco años (1930-1931), come dice il sottotitolo "Leyenda del tiempo", è un'allegoria del tempo dove risalta il contrasto tra l'ansia di amare e la mancata realizzazione del sentimento. Le ultime opere El público, composto nel 1930 e il frammento Comedia sin título (Commedia senza titolo) del 1936 rimasero inedite fino agli anni Ottanta e affrontano, l'una, il tema dell'omosessualità, l'altra, della funzione dell'arte e della rivoluzione sociale. Lorca si apre ad un teatro simbolico e surreale che viene definito "impossibile" e "irrapresentabile" per il suo tempo e la morale corrente, e nel quale anticipa, con coraggio, problematiche di grande attualità.
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Notte dell'amore insonne Notte alta, noi due e la luna piena;
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Oh voce occulta dell'amore oscuro Oh voce occulta dell'amore oscuro! |
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Sonetto del dolce lamento Temo di perdere la meraviglia |
Alberi Alberi, Le vostre musiche vengono dall'anima degli uccelli,
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Bordone Ti vedrò? A me importa Hai sempre il riso di allora
Sera Sera piovosa in grigio stanco. |
Lo specchio addormentato
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BALLATA DELLA LUNA, LUNA A Conchita García Lorca Giunse la luna alla fucina |
Potessero le mie mani sfogliare
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Desiderio Solo il tuo cuore appassionato |
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dal Libro de poemas
Come son pesanti i giorni, * * * Giaccio da solo nella casa silenziosa, * * * Il mio cuscino mi guarda di notte |
Verlaine
La canzone, Allora io sognai, Canzone piena di labbra Canzone piena di ore Canzone di viva stella |
L'ombra dell'anima mia L'ombra dell'anima mia Sono giunto alla linea dove cessa |
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Piaghe d'amore La luce, questo fuoco che divora. * * * Ci sono anime che hanno |
Alba Il mio cuore oppresso Perchè per sempre ti ho perduta |
Il cozzo e la morte Alle cinque della sera. Il vento portò via i cotoni Una bara con ruote è il letto |
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Amore disperato La notte non vuole venire Ma io andrò Ma tu verrai Il giorno non vuole venire Ma io andrò Ma tu verrai Né la notte né il giorno non vogliono venire |
Corpo presente La pietra è una fronte dove i sogni gemono Ho visto piogge grigie correre verso le onde Perché la pietra coglie semenze e nuvole, Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato. Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca. Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa. Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice! Voglio veder qui gli uomini di voce dura. Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra. Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume Si perda nell’arena rotonda della luna Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti |
Il sangue versato Non voglio vederlo! Di’ alla luna che venga, Non voglio vederlo! La luna spalancata. Non voglio vederlo! Non voglio vederlo! La vacca del vecchio mondo No. Sui gradini salì Ignazio Non si chiusero i suoi occhi Ma ormai dorme senza fine. Oh, bianco muro di Spagna! No. |
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Anima assente Non ti conosce il toro né il fico, Non ti conosce il dorso della pietra, Verrà l’autunno con conchiglie, Perché sei morto per sempre, Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto. Tarderà molto a nascere, se nasce, |
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Dall’anno 1918, in cui entrai nella Residencia de Estudiantes di Madrid, al 1928, quando la lasciai, terminati gli studi di filosofia e lettere, ho ascoltato in quel raffinato salone, dove accorreva per correggere la propria frivolezza da spiaggia francese la vecchia aristocrazia spagnola, circa un migliaio di conferenze. Con voglia di aria e di sole, mi sono tanto annoiato che, all’andar via, mi sono sentito coperto da una lieve cenere quasi sul punto di trasformarsi in pepe d’irritazione. No. Non vorrei che entrasse nella sala quel terribile moscone della noia che infilza tutte le teste con un tenue filo di sonno e mette negli occhi degli ascoltatori minuscoli gruppi di punte di spillo. In parole povere, con il registro che nella mia voce poetica non ha bagliori di zoccoli, né svolte di cicuta, né pecore che d’un tratto sono coltelli di ironie, cercherò di darvi una semplice lezione sullo spirito occulto della dolorante Spagna. Chi si trova nella pelle di toro che si estende tra il Júcar, il Guadalete, il Sil o il Pisuerga (non voglio citare le onde di criniera di leone che agita il Plata), sente dire con una certa frequenza: «Questo ha molto duende». Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva a uno che cantava: «Hai voce, conosci gli stili, ma non ce la farai mai, perché non hai duende». In tutta l’Andalusia, roccia di Jaén e conchiglia di Cadice, la gente parla costantemente del duende e lo scopre appena compare con istinto efficace. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della debla, diceva: «I giorni che canto con duende non conosco rivali»; un giorno La Malena, la vecchia ballerina gitana, sentendo suonare da Brailowsky un frammento di Bach esclamò: «Olé! Questo sì che ha duende!» e si annoiò con Gluck, con Brahms e con Darius Milhaud. E Manuel Torres, l’uomo di maggior cultura nel sangue che io abbia conosciuto, ascoltando dallo stesso Falla il suo Notturno del Generalife, pronunciò questa splendida frase: «Tutto ciò che ha suoni neri ha duende». Non c’è verità più grande. Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti noi conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove proviene ciò che è sostanziale nell’arte. Suoni neri, disse il popolano spagnolo, e in ciò concordò con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende: «Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega». Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: «Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi». Vale a dire, non è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto. Questo «potere misterioso che tutti sentono e nesun filosofo spiega» è, insomma, lo spirito della terra, lo stesso duende che abbracciò il cuore di Nietzsche, il quale lo cercava nelle sue forme esteriori sul ponte di Rialto o nella musica di Bizet, senza trovarlo e senza sapere che il duende da lui inseguito era saltato dai misteriosi greci alle ballerine di Cadice o al dionisiaco grido strozzato della seguiriya di Silverio. Così, dunque, non voglio che si confonda il duende col demonio teologico del dubbio contro il quale Lutero, a Norimberga, scagliò con sentimento bacchico una bottiglietta d’inchiostro, né col diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che l’astuto turcimanno di Cervantes porta con sé nella commedia della gelosia e delle selve di Andalusia. No. Il duende di cui parlo - misterioso e trasalito - discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi. Ogni uomo, ogni artista, rievocherà Nietzsche; ogni scala che sale nella torre della propria perfezione è il prezzo della lotta che sostiene con un duende, non con un angelo, come si è detto, né con la sua musa. È necessario operare tale fondamentale distinzione per la radice dell’opera. L’angelo guida e regala come san Raffaele, difende ed evita come san Michele e previene come san Gabriele. L’angelo abbaglia, ma vola oltre la testa dell’uomo, è al di sopra, dirama la sua grazia e l’uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza. L’angelo della via di Damasco, quello che entrò per le fessure di un balconcino di Assisi, o quello che segue i passi di Enrico Susson, ordina e non v’è modo di opporsi alla sua luce, perché agita le ali d’acciaio nell’ambiente del predestinato. La musa detta e, in talune occasioni, soffia. Può abbastanza poco, perché è già lontana e così stanca (io l’ho vista due volte) che dovetti metterle mezzo cuore di marmo. I poeti di musa odono voci e non sanno dove, ma sono della musa che li nutre e, talvolta, se li beve. Come per Apollinaire, gran poeta distrutto dall’orribile musa con cui lo dipinse il divino angelico Rousseau. La musa sveglia l’intelligenza, reca paesaggio di colonne e falso sapore di lauro, e spesso l’intelligenza è nemica della poesia, poiché imita troppo, poiché eleva il poeta su un trono di spighe acute e gli fa dimenticare che all’improvviso se lo possono mangiare le formiche o gli può cadere sul capo una grossa aragosta di arsenico, contro la quale nulla possono le muse che stanno nei monocoli o nel rosa di tiepida lacca del salotto. Angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane d’oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue. E respingere l’angelo e tirare un calcio alla musa, e perdere la paura della fragranza di violette che esala la poesia del Settecento e del gran telescopio nei cui cristalli s’addormenta la musa malata di limiti. La vera lotta è quella con il duende. Si conoscono le vie per cercare Dio, dal rude modo dell’eremita a quello sottile del mistico. Con una torre come santa Teresa, o con tre vie come san Giovanni della Croce. E anche se dovessimo esclamare cn la voce di Isaia: «In verità, tu sei il Dio ascondito!», alla fine Dio invia a chi lo cerca le sue prime spine di fuoco. Per cercare il duende non v’è mappa né esercizio. Si sa soltanto che brucia il sangue come un topico di vetri, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che fa sì che Goya, maestro nei grigi, negli argenti e nei rosa della migliore pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni in orribili neri di bitume; o che spoglia Don Cinto Verdaguer con il freddo dei Pirenei, o porta Jorge Manrique ad attendere la morte nella landa di Ocaña, o copre con un vestito verde da saltimbanco il delicato corpo di Rimbaud, o mette gli occhi da pesce morto al conte di Lautréamont nell’alba del boulevard. I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l’arrivo del duende. Essi ingannano la gente e possono dare sensazioni di duende senza averlo, come vi ingannano tutti i giorni autori o pittori o stilisti letterari privi di duende; basta, però, prestare un minimo di attenzione, e non lasciarsi guidare dall’indifferenza, per scoprire la trappola e metterli in fuga col loro rozzo artificio. Una volta, la cantaora andalusa Pastora Pavón, «La bambina dei pettini», cupo genio ispanico, pari in capacità fantastica a Goya o a Rafael il Gallo, cantava in una taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella camomilla o la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori restavano zitti. Era presente Ignacio Espeleta, bello come una testuggine romana, cui una volta domandarono: «Come mai non lavori?»; ed egli, con un sorriso degno di Argantonio, rispose: «Come posso lavorare se sono di Cadice?». Era presente Eloisa, la calda aristocratica, meretrice di Siviglia, discendente diretta di Soledad Vargas, che nel Trenta non volle sposare un Rothschild perché non le era eguale per sangue. Erano presenti i Floridas, che tutti credono macellai ma che, in realtà, sono sacerdoti millenari che continuano a sacrificare tori a Gerione; e, in un angolo, l’imponente allevatore di bestiame don Pablo Murube con l’aria di una maschera cretese. Pastora Pavón finì di cantare nel silenzio. Solo, e con sarcasmo, un uomo piccolino, di quegli ometti ballerini che escono all’improvviso dalle bottigliette di acquavite, disse con voce grave: «Viva Parigi!», come a dire: «Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. È altro ciò che ci interessa». Allora La bambina dei pettini si alzò come una folle, gobba come una prefica medievale, trangugiò d’un sol sorso un gran bicchiere d’acquavite come fuoco, e si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a uccidere l’intera impalcatura della canzone per cedere il posto a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti quasi al medesimo ritmo dei negri antillani del rito ammassati dinnanzi all’immagine di santa Barbara. La bambina dei pettini dovette squarciarsi la voce, perché sapeva che gli ascoltatori erano dei raffinati che non chiedevano forme, bensì midollo di forme, musica pura dal corpo leggero per potersi mantenere in aria. Dovette privarsi di facoltà e di sicurezze; ossia, allontanare la sua musa e rimanere indifesa, affinché il suo duende venisse e si degnasse di lottare a viva forza. E come cantò! La sua voce non giocava più, era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità, e si apriva come una mano di dieci dita sui piedi inchiodati, ma pieni di tempesta, di un Cristo di Juan de Juni. Il sopraggiungere del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa appena creata, di miracolo, che produce un entusiasmo quasi religioso. In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, il sopraggiungere del duende viene salutato con energici «Allah! Allah!», «Dio! Dio!», tanto vicini all’«Olé!» della corrida che chissà che non siano la stessa cosa; e in tutti i canti della Spagna meridionale l’apparizione del duende è seguita da sincere grida di «Viva Dios!», profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con Dio per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce e il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo, pura come quella raggiunta dallo stranissimo poeta del secolo XVII Pedro Soto de Rojas attraverso sette giardini, o quella di Juan Clímaco per una tremolante scala di pianto. Naturalmente, quando si raggiunge tale evasione ciascuno ne avverte gli effetti: l’iniziato, vedendo come lo stile vince una materia povera, e l’ignorante, in quel ‘non so che’ di un’emozione autentica. Anni fa, in un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, una vecchia di ottant’anni in gara con donne splendide e ragazze con un vitino di vespa, si portò via il premio per il semplice fatto di aver sollevato le braccia, eretto il capo e dato un colpo con il piede sul tabladillo; ma a quella riunione di muse e di angeli che stava avendo luogo, bellezze di forma e bellezze di sorriso, non poteva che vincere, e vinse, quel duende moribondo che trascinava per terra le sue ali di coltelli ossidati. Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente. Spesso il duende di un musicista passa al duende dell’interprete e, altre volte, quando il musicista o il poeta non sono tali, il duende dell’interprete, e ciò è interessante, crea una nuova meraviglia che, all’apparenza, altro non è se non la forma primitiva. È il caso della induendata Eleonora Duse, la quale cercava opere fallite per portarle al successo grazie alla sua capacità inventiva, o il caso di Paganini, riferito da Goethe, che sapeva trarre melodie profonde da autentiche volgarità, o il caso di una deliziosa ragazza di Puerto de Santa María, che io vidi cantare e ballare l’orribile canzonetta italiana Ohi Marí!, con dei ritmi e dei silenzi e un’intenzione che trasformavano la paccottiglia italiana in un duro, eretto serpente d’oro. Ciò che in realtà avveniva in quei casi era un qualcosa di nuovo che nulla aveva a vedere con quanto esisteva prima; veniva immesso sangue vivo e scienza in corpi vuoti d’ogni espressione. Tutte le arti, come pure i paesi, sono capaci di duende, di angelo e di musa; e se la Germania, salvo eccezioni, ha musa e l’Italia un angelo permanente, la Spagna è in tutti i tempi mossa dal duende, come paese di musica e danze millenarie, dove il duende spreme limoni all’alba, e come paese di morte, come paese aperto alla morte. In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio. Gli scherzi sulla morte e la sua contemplazione silenziosa sono familiari agli spagnoli. Da El sueño de las calaveras di Quevedo al Obispo podrido di Valdés Leal, e dalla Marbella del secolo XVII, morta di parto in mezzo alla strada, che dice: Il sangue delle mie viscere al recente ragazzo di Salamanca, ucciso dal toro, che invoca: Amici, ecco che muoio, v’è una balaustra di fiori di salnitro, dove si affaccia un popolo di contemplatori della morte, con versetti di Geremia dal lato più aspro, o con cipresso fragrante da quello più lirico, ma un paese dove la cosa più importante di tutte ha un ultimo valore metallico di morte. La coltella e la ruota del carro, e il rasoio e le barbe spinose dei pastori, e la luna pelata, e la mosca, e le dispense umide, e le macerie, e i santi coperti di pizzo, e la calce, e la linea tagliente di gronde e terrazze hanno in Spagna piccole erbe di morte, allusioni e voci percettibili per uno spirito desto, che la memoria ci richiama con l’aria irrigidita del nostro proprio trapasso. Non è frutto del caso tutta l’arte spagnola legata con la nostra terra di cardi e pietre di confine, non è un esempio isolato il lamento di Pleberio o le danze del maestro Josef María de Valdivielso, non è un caso che tra tutte le ballate europee spicchi questa amata spagnola: Se tu sei la mia bella amica, Né è strano che agli albori della nostra lirica suoni questa canzone: Dentro il verziere Le teste gelate dalla luna che dipinse Zurbarán, il giallo burro con il giallo fulmine del Greco, il racconto di padre Sigüenza, tutte le opere di Goya, l’abside della chiesa di El Escorial, tutta la scultura policroma, la cripta della casa ducale di Osuna, la morte con la chitarra della cappella dei Benaventes a Medina de Rioseco, equivalgono, sul piano cólto, alle sagre di San Andrés de Teixido, dove i morti hanno un posto nella processione, ai canti funebri intonati dalle donne delle Asturie con lanterne piene di fiamme nella notte di novembre, al canto e danza della sibilla nelle cattedrali di Maiorca e Toledo, all’oscuro In recort tortosino e agli innumerevoli riti del venerdì santo che, con la coltissima festa della corrida, formano il trionfo popolare della morte spagnola. Nel mondo, solamente il Messico può andare a braccetto con il mio Paese. Quando la musa vede giungere la morte chiude la porta o innalza un plinto o si porta in giro un’urna e scrive un epitaffio con mano di cera, ma subito torna a stracciare il suo lauro con un silenzio che vacilla tra due brezze. Sotto l’arco troncato dell’ode ella unisce con senso funebre i medesimi fiori che dipinsero gli italiani del Quattrocento e chiama l’impavido gallo di Lucrezio affinché spaventi ombre impreviste. Quando vede giungere la morte, l’angelo vola in cerchi lenti e tesse con lacrime di ghiaccio e narciso l’elegia che abbiamo visto tremare nelle mani di Keats, e in quelle di Villasandino, e in quelle di Herrera, e in quelle di Béquer e in quelle di Juan Ramón Jiménez. Ma che terrore prende l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato! Il duende, invece, non giunge se non coglie possibilità di morte, se non sa che deve far la ronda alla sua casa, se non è sicuro di dover cullare quei rami che tutti portiamo e che non hanno, che non avranno consolazione. Con un’idea, con un suono o con un gesto, il duende si compiace dei bordi del pozzo in aperta lotta con il creatore. Angelo e musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’opera umana. La virtù magica del componimento poetico consiste nell’essere sempre induendato per battezzare con acqua oscura tutti coloro che lo guardano, poiché con duende è più facile amare, comprendere, ed è una certezza l’essere amati, l’essere compresi, e questa lotta per l’espressione e per la comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri mortali. Ricordate il caso della flamenchissima e induendata santa Teresa, flamenca non per aver legato un toro furioso e averlo passato con tre figure [da torero, ndt] magnifiche, cosa che fece; non per essersi pavoneggiata davanti a fra Juan de la Miseria, né per aver mollato un ceffone al nunzio di Sua Santità, bensì per essere una delle poche creature il cui duende (non il cui angelo, poiché l’angelo non attacca mai) la trapassa con un dardo, volendo ucciderla perché gli ha carpito il suo ultimo segreto, il ponte sottile che unisce i cinque sensi a quel centro di carne viva, di nube viva, di mare vivo, che è l’Amore liberato dal Tempo. Coraggiosissima vincitrice del duende, a differenza di Filippo d’Austria che, bramando di trovare musa e angelo nella teologia, si ritrovò prigioniero del duende dagli ardori freddi in quell’opera di El Escorial, dove la geometria confina con il sogno e dove il duende si maschera da musa a eterno castigo del gran re. Abbiamo detto che il duende ama il bordo, la ferita, e si avvicina ai luoghi dove le forme si fondono in un anelito superiore alle loro espressioni visibili. In Spagna (come nei popoli orientali, per i quali la danza è espressione religiosa) il duende ha un potere illimitato sui corpi delle ballerine di Cadice, elogiate da Marziale, sui petti di coloro che cantano, elogiati da Giovenale, e in tutta la liturgia della corrida, autentico dramma religioso in cui, al pari della messa, si adora, e ci si sacrifica, a un Dio. Sembra come se l’intero duende del mondo classico si radunasse in questa festa perfetta, esponente della cultura e della grande sensibilità di un popolo che scopre nell’uomo le sue migliori ire, le sue migliori bili, il suo miglior pianto. Né nel ballo spagnolo né nella corrida si diverte alcuno; il duende s’incarica di far soffrire per mezzo del dramma, su forme vive, e prepara le scale per un’evasione dalla realtà che ci circonda. Il duende opera sul corpo della ballerina come il vento sulla sabbia. Trasforma con magico potere una ragazza in paralitica della luna, o riempie di rossori verginali un vecchio straccione che chiede l’elemosina per le osterie, dà con una chioma odore di porto notturno, e in ogni momento opera sulle braccia con espressioni che sono madri della danza di tutti i tempi. Ma mai è possibile ripetersi, ed è molto interessante sottolinearlo. Il duende non si ripete, come non si ripetono le forme del mare in burrasca. Nella corrida assume gli accenti più impressionanti, perché da un lato deve lottare con la morte che può distruggerlo, dall’altro con la geometria, con la misura, fondamento della fiesta. Il toro ha la propria orbita, il torero la sua, e fra orbita e orbita un punto di pericolo: il vertice del terribile giuoco. Si può avere musa con le muletas e angelo con le banderillas e passare per buon torero, ma nei passagi di capa, con il toro ancora privo di ferite, e poi nel momento di uccidere, occorre l’aiuto del duende per colpire nel segno della verità artistica. Il torero che spaventa il pubblico nell’arena con la sua temerarietà non torea, bensì assume quell’atteggiamento ridicolo, alla portata di qualsiasi uomo, di giocarsi la vita: il torero morso dal duende, invece, impartisce una lezione di musica pitagorica e fa dimenticare che scaglia costantemente il cuore sopra le corna. Lagartijo col suo duende romano, Joselito col suo duende ebraico, Belmonte col suo duende barocco e Cagancho col suo duende gitano, mostrano, dal crepuscolo dell’arena, a poeti, pittori e musicisti, quattro grandi strade della tradizione spagnola. La Spagna è l’unico paese dove la morte è lo spettacolo nazionale, dove la morte suona lunghi clarini al sopraggiungere della primavera, e la sua arte è sempre retta da un duende acuto che le ha conferito differenza e qualità d’invenzione. Il duende che riempie di sangue, per la prima volta nella scultura, le gote dei santi del maestro Matteo di Compostela, è lo stesso che fa gemere san Giovanni della Croce, e che brucia ninfe nude nei sonetti religiosi di Lope. Il duende che innalza la torre di Sahagún o lavora caldi mattoni a Calatayud e Teruel è il medesimo che squarcia le nubi del Greco e allontana a pedate le guardie di Quevedo e le chimere di Goya. Quando piove tira fuori Velazquez induendato in segreto dietro i suoi grigi monarchici; quando nevica fa uscire Herrera nudo per dimostrare che il freddo non uccide; quando arde mette nelle proprie fiamme Berruguete e gli fa inventare un nuovo spazio per la scultura. La musa di Góngora e l’angelo di Garcilaso devono cedere la ghirlanda di lauro quando passa il duende di san Giovanni della Croce, quando Il cervo vulnerato La musa di Gonzalo de Berceo e l’angelo dell’arciprete di Hita devono cedere il passo a Jorge Manrique quando, ferito a morte, giunge alle porte del castello di Belmonte. La musa di Gregorio Hernández e l’angelo di José de Mora devono allontanarsi per lasciar attraversare il duende che piange lacrime di sangue di Mena e il duende con testa di toro assiro di Martínez Montañés, come la malinconica musa della Catalogna e l’angelo bagnato della Galizia devono guardare, con amoroso stupore, il duende della Castiglia, tanto lontani dal pane caldo e dalla dolcissima vacca che si pasce di scampoli di cielo spazzato e terra secca. Duende di Quevedo e duende di Cervantes, con verdi anemoni di fosforo l’uno, e fior di gesso di Ruidera l’altro, coronano il quadro del duende di Spagna. Ogni arte ha, com’è naturale, un duende di forma e modo diversi, ma tutti affondano le radici in un punto da cui sgorgano i suoni neri di Manuel Torres, materia ultima e fondo comune scosso da brivido incontrollabile di legno, suono, tela e vocabolo. Suoni neri dietro i quali stanno da tempo in tenera intimità i vulcani, le formiche, gli zefiri e la grande notte che si cinge la vita con la via lattea. Signore e signori, ho innalzato tre archi e con mano incerta ho messo in essi la musa, l’angelo e il duende. La musa rimane tranquilla; può avere la tunica a piccole pieghe o gli occhi di vacca che guardano, di Pompei, oppure il nasone a quattro facce con cui l’ha dipinta il suo grande amico Picasso. L’angelo può agitare capelli di Antonello da Messina, tunica di Lippi e violino di Masolino e di Rousseau. Il duende… Ma dov’è il duende? Dall’arco vuoto entra un’aria mentale che soffia con insistenza sulle teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti ignorati; un’aria con odor di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create. |
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OPERE DI GARCIA LORCA Poesia Libro de poemas, Maroto, Madrid, 1921. Prosa Impresiones y paisajes, Traveset, Granada, 1918. A queste opere, integrate spesso da quanto si è venuto stampando separatamente, come è il caso di «Crucifixión» («Planas de Poesía» IX, Las Palmas, 1950) e «Pequeño poema infinito» (Cobalto, Barcelona, 1950) facenti parte di Poeta en Nueva York, vanno aggiunti poemas sueltos, disegni, musiche di canzoni, conferenze, interviste a giornali, lettere, cioè tutti quegli scritti o pubblicati dal poeta stesso su riviste o rimasti inediti tra le cartas di amici che via via vedono la luce in diverse pubblicazioni tra le quali vanno segnalate: Teatro El paseo de Buster Keaton; La doncella, el marinero y el estudiante, in «Gallo», Granada, 9 marzo 1928. TORNA ALL'INIZIO
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L'ombra dell'anima mia L'ombra dell'anima mia Sono giunto alla linea dove cessa |
Desiderio Solo il tuo cuore appassionato |
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Casida della donna coricata Vederti nuda è ricordare la terra. Vederti nuda è comprendere l'ansia Il sangue risuonerà nelle alcove Il tuo ventre è una lotta di radici, |
Il poeta chiede al suo amore di scrivergli Amor delle mie viscere, viva morte, Il vento è immortale. La pietra inerte Ma ti ho sopportato. Tagliai le mie vene, Calma, dunque, con parole la mia follia |
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Sera Sera piovosa in grigio stanco. |
Potessero le mie mani sfogliare Pronunzio il tuo nome |
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La chitarra Incomincia il pianto |
SERENATA (Omaggio a Lope de Vega)
Lungo le rive del fiume Muoiono d'amore i rami. La notte nuda Muoiono d'amore i rami. Luccica in alto sui tetti Muoiono d'amore i rami. |
GAELA III - DELL'AMORE DISPERATO
La notte non vuole arrivare Ma io andrò, Ma tu verrai Il giorno non vuole arrivare Ma io andrò Ma tu verrai Né la notte né il giorno vogliono arrivare |
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CASIDA IV - DELLA DONNA DISTESA Vederti nuda rievoca la Terra, Vederti nuda è capire l'ansia Il sangue, risuonando nelle alcove, Il tuo ventre una lotta di radici, |
SONETTO Lungo spettro d'argento impietosito, Piaga d'amore, mi darà la vita Ah, che dolce brusio nella mia testa! E gialla diverrà l'acqua raminga, |
SONETTO DEL DOLCE LAMENTO Ho paura di perdere il prodigio Ho dolore a vedermi in questa sponda Se tu sei il mio nascosto tesoro, non mi togliere ciò che ho conquistato |
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L'AMORE DORME SUL PETTO DEL POETA Tu mai potrai capire quanto ti amo Norma che scuote insieme carne e stella Gruppo di gente salta nei giardini Ma continua a dormire, vita mia, |
All'orecchio di una ragazzaNon volli. Di brezza, di riso e d'oro. |
Canzoncina del primo desiderio
Nella mattina verde, E nella sera matura (Cuore, diventa color arancio. Nella mattina viva, E nella sera tramontata Cuore, diventa color d'arancio!
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Canzone castanaMi perderei Mi perderei Nel tuo abbraccio perpetuo Mi perderei Mi perderei
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Casida della donna distesaVederti nuda è rievocare la terra. Vederti nuda è comprendere l'ansia Il sangue risuonerà nelle alcove Il tuo ventre è uno scontro di radici,
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Cuore nuovoIl mio cuore come una serpe I pensieri annidati Povero involucro che opprimevi Vedo in te embrioni di scienze, Ti appenderò ai muri O ti metterò sopra i pini |
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DesiderioSolo il tuo cuore ardente Senza lo sprone del vento Un riposo chiaro
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E dopoI labirinti (Rimane solo Il cuore, (Rimane solo L'illusione dell'aurora Rimane solo
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È veroAhi, che fatica mi costa Chi mi compra |
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Gazzella dell'amore disperatoLa notte non vuole venire Ma io andrò Ma io andrò Né la notte né il giorno non vogliono venire |
Il mareIl mare Ma nella tua amarezza Sopporta la tua sofferenza, Venere è il profondo
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Il canto del miele Il miele è la parola di Cristo, L'alveare è una stella pura, Il miele è l'epopea dell'amore, (Così il miele dell'uomo è la poesia Il miele è la bucolica lontana Il miele è come il sole del mattino, Oh divino liquore dell'umiltà, In te dorme la malinconia, Dolce come il ventre di una donna. O come un giglio. Oh liquore divino della speranza, È la superiore anima dei fiori. |
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Gazzella dell'amore meravigliosoCon tutto il gesso Cieli e campi
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Gazzella del ricordo d'amoreNon portar via il tuo ricordo. Mi separa dai morti Tutta la notte nell'orto A volte il vento Un muro di brutti sogni |
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IncontroNé tu né io Segui quella stradina. Non guardare mai indietro. |
MariaMaria, A che ora?
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Nacchera
Nacchera Nel ragno Nacchera |
Piaghe d'amore
La luce, questo fuoco che divora. Questo pianto di sangue che decora Ghirlanda d'amore, letto di ferito e se ricerco una vetta di prudenza |
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Lucìa MartìnezLucìa Martìnez. Recondite ambre nere e a trascinarti per i capelli
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Notte dell'amore insonneNotte alta, noi due e la luna piena; Notte bassa, noi due. Cristallo e pena, L'alba ci ricongiunse sopra il letto, Penetrò il sole la veranda chiusa
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Oh voce occulta dell'amore oscuroOh voce occulta dell'amore oscuro! Oh notte immensa di linea sicura, Voce ardente di gelo, via da me! Libera il duro avorio della testa, |
SerenataSulla riva del fiume Nuda, la notte canta La notte d'anice e d'argento |
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Sonetto della ghirlanda di roseQuella ghirlanda! Presto, che muoio! Tra l'amor tuo per me ed il mio per te, Godi il fresco paesaggio della mia ferita, Ma fa' presto, perché uniti, avvinti, |
Venere
La giovane morta Indugiava il mondo La giovane morta |
VariazioneLo stagno dell'aria
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Pugnale
Il pugnale No. Il pugnale, No.
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MadrigaleIl mio bacio era una melagrana, Le mie mani erano ferri Nello sforacchiato Si riempirono di muffa Adesso ammaestro grave Ninnananna.
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Madrigale d'estate Unisci la rossa tua bocca alla mia, Fra i verdi ulivi della collina Mi offri nel tuo corpo ardente Come ti donasti a me, luce bruna? Fu per la mia tristezza? Perché non hai preferito ai miei lamenti Danaide del piacere sei con me. Oscurami la vista col tuo canto. Dipingi con la bocca insanguinata Prigioniero è il mio cavallo Andaluso Se tu non m'amassi t'amerei Unisci la rossa tua bocca alla mia, |
Meditazione sotto la pioggia La pioggia ha baciato il giardino provinciale Si lacerano nubi grigie nel muto orizzonte. La pena della sera raggela la mia pena. Tutta l'eco di stelle che c'è nella mia anima O com'è tranquillo il giardino sotto la pioggia! Nasce il sole. Il giardino sanguina giallo. Capuccetto rosso andava per il sentiero... Dovrò perdere tutte le mie sofferenze, mio Dio, |
Piccolo valzer vienneseA Vienna ci sono dieci ragazze, Prendi questo valzer con la bocca chiusa. Prendi questo valzer dalla spezzata cintura. Prendi questo valzer che spira fra le mie braccia. Prendi questo valzer del "Ti amo per sempre".
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OPERE DI GARCIA LORCA Poesia Libro de poemas, Maroto, Madrid, 1921. Prosa Impresiones y paisajes, Traveset, Granada, 1918. A queste opere, integrate spesso da quanto si è venuto stampando separatamente, come è il caso di «Crucifixión» («Planas de Poesía» IX, Las Palmas, 1950) e «Pequeño poema infinito» (Cobalto, Barcelona, 1950) facenti parte di Poeta en Nueva York, vanno aggiunti poemas sueltos, disegni, musiche di canzoni, conferenze, interviste a giornali, lettere, cioè tutti quegli scritti o pubblicati dal poeta stesso su riviste o rimasti inediti tra le cartas di amici che via via vedono la luce in diverse pubblicazioni tra le quali vanno segnalate: Teatro El paseo de Buster Keaton; La doncella, el marinero y el estudiante, in «Gallo», Granada, 9 marzo 1928. TORNA ALL'INIZIO
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PENSIERI E FRASI DI Federico García Lorca Il mio sguardo si stupisce, si inchina, il mio cuore chiude tutti i suoi cancelli, per meditare di nascosto sul miracolo. Sei tanto bella. Ah che fatica mi costa, amarti come ti amo! Il mio sguardo si stupisce, si inchina, il mio cuore chiude tutti i suoi cancelli, per meditare di nascosto sul miracolo - sei tanto bella! Vederti nuda è come ricordare la Terra. La poesia non cerca seguaci, cerca amanti. Oltre all'arte dei neri, c'è solo l'automazione e la meccanizzazione. Il denaro abbellisce.
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