recensioni mario lo coco - ceramica raku


. La ricerca inesauribile di Mario Lo Coco
di
Franca Alaimo



Un fertile e oscillamento tra gli opposti caratterizza il teatro immaginativo dell’artista Lo Coco, esprimendo una meravigliata consapevolezza della diversità delle cose esistenti e insieme la tensione alla ricomposizione dell’unità archetipo.
Così, scorre con gli occhi le forme create dalla sua inesauribile creatività, che si esprime con eguale intensità e curiosità nella manipolazione di materiali diversi, come la terra cotta, il vetro, il legno, la carta, le tessere musive (spesso anche ibridandoli) significa seguire il proteiforme manifestarsi dell’essere, dal suo polo maschile a quello femminile, nell’alternarsi di forme ora acuminate e galliche, ora tondeggianti e morbide; e tenere conto del continuo dialogare fra le istanze della ragione, in cerca della limpida ed esatta geometria di superfici quadrate, triangolari, circolari, e le esigenze dell’irrazionalità che quelle superfici piega ad un’accensione visiva, accentuata dalla forza dei colori.
Significa, anche percorrere la storia dell’espressività umana, trovando nei vasi di ceramica, nei disegni, nelle incisioni, nella elaborazione pittorica di elementi per assunto estranei a tale tecnica 
( quali fili di rame, di cotone) la storia dell’arte universale, dalla preistoria al ‘900, fino alla più prossima contemporaneità; non è raro, infatti, per chi guarda le “creature”di Mario Lo Coco, ravvisare stilemi figurativi e coloristici di Klee, Kandinskij, Mirò o le soluzioni scultorie di Pomodoro, nonché le provocazioni dell’ultima generazione di artisti europei ed americani, non senza , però, dimenticare la vocazione di Lo Coco alla contemplazione degli elementi naturali e della luce piena e satura dei paesaggi mediterranei; e la spontanea inclinazione ad un processo continuo di simbolizzazione esercitata dalla sua mente quanto mai duttile e ricettiva. 
Mi pare rientri in questa chiave simbolica di lettura anche lo spazio che egli riserva alla scrittura, della quale gli sta a cuore, più che il significato, il corpo visibile del significante usato quale elemento decorativo; in questo modo si giustifica l’introduzione nei suoi segni di alfabeti antichi, da quelli cuneiformi della civiltà mesopotamica alle sinuose onde visive della scrittura araba e alla essenziale raffinatezza di quella indiana, tutte riprodotte, e perfino personalmente elaborate, quasi sempre senza nessuna attenzione per il senso veicolato. LA loro presenza, insinuandosi tra le traiettorie delle linee tracciate e la poeticità della poesia dei colori, tende all’annullamento dei confini tra l’atto dello scrivere, del disegnare e del colorare, proponendo una simultaneità ricompositiva dei segni costituenti la faccia del reale. E se le parole vengono salvate con il loro significato, Lo Coco pretende che esse si adattino all’esplosione immaginativa e che, lasciando il loro usuale allineamento, seguano il profilo delle figure disegnate, siano essi alberi, uccelli, acque.
L’acqua, uno degli elementi più ricorrenti nelle varie opere di Lo Coco, è chiamata ad esprimere le sue molte significanze: mare primordiale della vita, scivola sulle superfici rotonde dei vasi,colora i fogli dei suoi libri, si fa flusso di ceramica ondeggiante, si insinua con la sua forza purificatrice tra i simboli più aguzzi del dolore; forse è anche sogno di infinito spazio-temporale. 
Non c’è materiale che non interessi l’artista:negli ultimi suoi libri, realizzati con la straordinaria carta che esce dai laboratori di Franco Conti a Santa Maria della stella (CT), le pagine che rame, tessere musive, frammenti di ceramica colorata, tenere e quasi fiabesche pennellate di colore si alternano, si mescolano, si abbracciano, si contrappongono, dialogano; e le soluzioni sono sempre diverse, a conferma della mutevolezza del fare ed, insieme, della sua unità ricompositiva. Alle pagine che s’ornano e si appesantiscono di vari materiali sono contrapposte quelle lasciate al loro corposo candore, e quest’ultime o rimangono silenziose e nude, oppure sono incise, utilizzando la tecnica della pressione, di rilievi, che sul corpo spesso della carta tracciano onde e rigonfiamenti che si fanno essi stessi segni.
Se si ha la fortuna di entrare nel laboratorio di Mario Lo Coco e di abbracciare con lo sguardo anni di lavoro e di ricerca, si coglie immediatamente la scena viva e palpitante del suo fare e si è invitati ad aderirvi con la totalità dei sensi, riscoprendo, magari, la gioia del “ludere” con la vita.

L’informalità obbiettiva dell’arte di Mario Lo Coco

La produzione di Mario Lo Coco poggia sulla ceramica infornata e sul vetro soffiato e pavimenti in cotto. La prima propone il tradizionale “piatto” da appendere o da usare come utensile elitario della tavola imbandita. Le due funzioni sono strettamente connesse, così come l’artigiano Lo Coco lo è all’artista. Egli usa materiali comuni che eleva a livello di struttura d’arte; valga per tutte la bottiglia di coca cola, il cucchiaio e la forchetta inseriti in un supporto costituito da una terra cotta: che può essere lucida o opaca. L’impostazione dl “piatto” di Lo Coco a volte è tradizionale, tondo o ellissoide, con il disegno proposto situato all’interno; a volte esso è “fuori di chiave” con una striscia di colore più marcato e di forma surrealistegiante che taglia uno spicchio dell’utensile ceramica, se questo è tondo, che si affianca all’asse maggiore ovvero ne taglia entrambi gli assi , se è ellittico. A volte, come nel caso del piatto ottagonale, il disegno dal centro di esso, sbava verso uno o due lati. Altre volte ancora sono due macchie di colore più marcato che delimitano che delimitano altrettanti spicchi di un piatto dalla concavità appena pronunciata. Una linea sinuosa congiunge i due punti opposti, della circonferenza, mentre una macchia del tutto informe dilaga ai lati di essa. Un cucchiaio realistico giace su di una forma che accenna una triangolarità surreale. Una esplosione di colori che si sovrastano invade tutto l’ottagono entro il quale e inserito un tondo parzialmente spezzato che non si sottrae all’espandersi della macchia che lo stringe in una mossa metafisica.
È stato in causa, nella decorazione ceramica di Lo Coco, qualche grande nome, come quello di Oppenheim,bizzarro artista degli anni trenta, e insieme quello di Duchamp.
Può darsi che sia così, anzi è così. Ma l’ispirazione dell’artista nasce dal profondo dell’inconscio. L’arte di Lo Coco , infatti, non è un’arte colta, bensì spontanea. Solo a posteriori essa può essere inquadrata in uno schema pittorico. Indipendentemente dalla stessa volontà dell’autore.
Accanto alla ceramica cotta Lo Coco si cimenta nelle tarsie del vetro, che sistema su supporti ricavati da vecchie finestre del secolo scorso adattate a cornici.
In questo campo la fantasia obbiettiva- causata dai “capricci” del forno, che producono “rotture” originalissime nella materia i tali da avanzare proposte informali o dimensioni surreali che solo il caso, l’incidente di percorso nella preparazione della creta o nella cottura più o meno alta, ovvero la bolla d’aria imprevedibile svisa il progetto dell’artista, e le fa assumere toni e ritmi impensabili ma nello stesso tempo lo rende originalmente creatore.

Lo Coco della ceramica sperimentale


Sotto il nome di ceramica si può comprendere una quantità di oggetti diversi, tutti accomunati dal fatto di essere fittili, ossia di argilla impastata cotta al forno: tegole, elementi decorativi di edifici (acrotèri, antefisse, lastre di rivestimento come quelle dipinte dagli Assiro-Babbilonesi o gli antepagmenta etruschi in rilievo), quadri pure in rilievo, votivi (come le pinakes di Locri) o semplicemente ornamentali.
Ma per ceramica nel senso stretto si intende l’arte della fabbricazione e della decorazione dei vasi fittili. Il nome è connesso infatti con quello del Ceramico, quartiere nella parte Nord dell’antica Atene, e sembra vada riferito alla radice del verbo: mescolare.
In epoca moderna e contemporanea, la ceramica è entrata nell’interesse creativo di molti artisti (pittori, scultori); il successo di Picasso, per esempio, in quest’arte è dovuto al fatto di poter gareggiare con gli antichi decoratori per l’abbondanza e la ricchezza inventiva, per la spontaneità delle immagini, per l’intensità del tratto e l’ardita facilità del tocco. Picasso si rifà direttamente alla ceramica della civiltà primitiva non alla ceramica pittorica del Rinascimento.
L’artigianato produce oggetti di ceramica per vari usi pratici spesso raffinati ma non con intendimenti artistici: vasi, piatti, boccali e così via. 
Dall’artigianato proviene, appunto Mario Lo Coco, ma con una sensibilità particolare nei confronti di questa materia e con una tendenza crescente a superare le prestazioni utilitarie della stessa materia, per fare della ceramica, rispetto all’uso corrente, un’occasione di stravolgimento, di insinuazione e di contaminazione provocatoria, ma efficientemente creativa, della sua nuova produzione. 
Lasciando a modello, il piatto,per esempio, la sua forma originaria, l’artista lo ha sottratto alla sua destinazione pratica, alla sua funzionalità d’obbligo, inserendo, nell’amalgama della materia, corpi estranei,fusioni a rilievo di elementi vetrosi, di metalli, di solcature di interruzioni, di zone di interferenza plastico-visiva, in modo che il piatto non rimanesse più piatto entro cui proporre appetitosi cibi,ma divenisse espressione stupefacente di un’intenzione e di un linguaggio artistico certamente unico nel suo genere. Le suggestive dosature cromatiche, la brillantezza dei toni e dei timbri pigmentali, la coralità degli accostamenti compositivi,conferivano alla memoria formale, uno storno fattuale e ideativi felicemente immesso nella sfera estetica. Al piatto così concepito, sono seguite istallazioni spaziali e scultoree, proprie delle più attuali ricerche operative.
Questi percorsi attenti e graduali che hanno consentito a Lo Coco di penetrare a fondo le disponibilità creative della ceramica, ha consentito al medesimo di sottrarre la materia alla sua plasticità volumetrica, per renderla unidimensionale, esprimendola sulla superficie levigata del vetro o della tavola. Occorre precisare, però, che non vi è, in questa nuova ricerca di Lo Coco , l’intenzione di limitare la pittura, poiché i requisiti fondati della ceramica, la sua malleabilità cromatica e materia, la sua percezione visiva rimangono immutati, acquistando nel contempo una maggiore valenza decorativa capaci di soluzioni congeniali estranei alla pittura in senso lato. Intanto, non come pura memoria delle sue originarie prerogative plastiche (il vaso o il piatto, per esempio), ma anche a dimostrazione della sua malleabilità formale, delle sue disponibilità febbrili, Lo Coco ha predisposto un’interessante istallazione a più elementi in cui domina un cono eretto sulla superficie di un grande specchio e avvolto per la metà della sua altezza da un filo spinato. Simbolo della crudeltà delle guerre.
Lo stesso cono accoglie, in parte, suggestive stratificazioni di ceramica variamente colorata è in parte offerto nella nudità striata dell’argilla, proiettandosi, lateralmente, in altri due specchi, mentre un altro specchio lo rifletteva dall’alto, favorendo, con quello collocato alla base e con gli altri specchi ai suoi lati, una riproduzione dell’opera senza soluzione di continuità. Metafora di una espressione dell’arte che non ha limiti di ubicazione, ma capacità speculari e di espansioni in tutte le direzioni, soprattutto negli spazzi dell’urbanistica, come superamento della staticità dei monumenti e delle sculture tradizionali.
Così, Lo Coco inoltra la sua ricerca negli ambiti non comuni della ceramica artistica, utilizzandola, per esempio, con stupefacenti esiti creativi, nella realizzazione di aperture, di originali finestre che si discostano dalle vetrate dipinte, per proporsi come elementi o mezzi a se stanti di mediazione tra il dentro e fuori, trasmettendo negli interni singolari trasparenze luminosi,generate anche, da vivide sagomature cromatiche, da impronte e spessori di colore che solo la matericità amalgamate della ceramica sa rendere. La finestra si apre e appare l’esterno, ma anche quando è chiusa, essa preannuncia il fuori attraverso aperture praticate nel contesto della superficie. Di particolare interesse ideativi si rivelano al riguardo, le finestre composte in trittico.
Il percorso continua estendendosi alle tavole appoggiate alla parete, alla ceramica racchiusa entro la curvatura di due doghe, o geometricamente composta sulla superficie di altri supporti.
Mario Lo Coco dimostra in definitiva in questo suo attuale ciclo produttivo, come la ceramica possa uscire dai rituali confini, per essere libero e più fantasioso esito di una persistente e intelligente ricerca. 

Luce e pagine d’argilla

La dimensione arcaica della fabrilità coinvolge lo spirito solare di Mario Lo Coco.
Perché una continua ricerca, una evocazione materia,sembra soffermarsi sulle pagine di ceramica di Mario, sulle steli e vaghi oggetti biologici,sui pennelli dai molteplici segni e ricami, intarsi, rabeschi litici, sulle visitazioni “Raku”, su tracciati e cifre che dalla materia sostengono la sua personale visibilità delle cose e degli uomini con esse conviventi condividendone lo stesso impasto.
Così alla tattilità, alla permeabilità delle argille, alle cromie intese e quiete dei cotti,all’uso del fuoco e della vestigia della terra, il percorso di Mario Lo Coco si fa sempre più intenso,articolato, esigente di nuove espressioni, attento alle varie proiezioni, più coinvolgente nella sua ansia di rappresentarsi.
E a questa necessità, sempre più nutrita dal cuore e dalla percezione, l’itinerario oggi si sposta, ma forse sarebbe più equo dire ,s’arricchisce, dell’uso dell’olio sulla tela, e su questa non può certo mancare il materiale terroso,la tessera musiva che di Monreale, città dell’arte,del mito e della sacralità (dove Lo Coco vive ed opera),si fa icastica espressione, traccia inderogabile e arcana, memoria di una cultura.
All’olio che correda pannelli in tecnica mista, le ceramiche foliacee intrise a pieno del loro racconto librario,quasi una sorta di elegia nel tempo in cui sembra che il libro/oggetto, il suo culto, possano essere erosi dall’invadenza telematica,viene demandato il compito spirituale di Lo Coco, in una sorta di ingresso pigmentario di stampo informale, in accesa visibilità, dove spazi e territori dell’intimo percettivo confluiscono e si differenziano.
Alla negligenza della grammatica pittorica, si contrappone il vortice della passionalità visiva, il desiderio di raccontare le sue terre in modo “altro”, di assaporare così,nelle infinite pregnanze degli astratti orizzonti,una sensazione, un bagliore, il tocco tiepido della luce.
Palermo, agosto 2000
L’universo fittile e astrale di Mario Lo Coco
Di Piero Longo


Evocata dai lucidi smalti, la luce si raggruma osi rifrange entro le geometrie di un caos fittile che l’artista ha scelto come supporto per dare vita al suo universo alchemico. L’argilla di Montelupo conserva la sua naturale porosità e anzi, proprio per questa sua peculiarità, può sostenere il vortice di crepe, bolle e crateri che la corrodo,senza cedere o spaccarsi quando lo choc termico, provocato dal repertino passaggio dal fuoco all’acqua, la costringe a nuovi equilibri per offrirsi all’ariache ne suggella la nuova scabrosità. Ibrido, come nella natura dei mutanti,il suo nuovo stato suppone il superamento della incompatibilità dei gas prodotti dalla creta e dallo smalto agli alti gradi della fornace e conserva la doppia natura dei suoi elementi parlando una nuova lingua cromatica nella quale sembrano unificarsi tecniche e moduli espressivi di mondi lontani.
Cultura Raku e tradizione figula occidentale si fanno così parola di quella lingua perduta che, tra oriente e occidente, l’homo faber ha sempre affidato ai quattro elementi della natura per materializzare l’ineffabile voce interiore che lo spinge a foggiare nuove forme e tentare di scoprire i segreti che, in quei quattro segreti sacrali degli antichi, contengono l’universo.Imitando la creatività della natura l’artefice figulaio che è in Mario Lo Coco, sa bene però che non si tratta di elementi semplici e primordiali, poiché al di là di questi quattro preponderanti modalità dell’apparire, esiste una infinità varietà di elementi e di congiunzioni attraverso i quali la materia sa trasformarsi e sublimarsi secondo leggi che la scienza e l’arte parallelamente ma incontrandosi sempre nella stessa meraviglia che nasce di fronte al mistero dell’essere cosmico sfuggente ad ogni codificazione di chi lo voglia imprigionare nella trama limitata della coscienza o dell’intuizione.
Il lavoro dell’artista non è quello di determinare i codici decodificare quelli già noti,ma, al contrario, quello di fare integrare codici diversi nella conflagrazione conoscitiva di un universo possibile che apra all’armonia gli orizzonti ignoti della trasformazione. 
È per questo motivo, profondamente razionale ed istintivo, che egli sperimenta e ricerca sempre nuovi strumenti che possano aprire nuovi varchi all’archimia della forma. Nel caso di Mario Lo Coco, essa si manifesta, infatti, in una complessità semantica che, nella sua iconicità, sa farsi segno e significato, tecnica e poesia della in finitezza che connota la materia e il suo divenire nella staticità dell’oggetto creato. L’esperienza dell’antico vasaio e la fantasia operativa di un artista del nostro tempo trovano nella sua mano lo strumento capace di trasformare l’argilla degli usi quotidiani in materia “altra” che aggiunge nuove possibilità all’arte antichissima di modellare la creta.
A proposito della costruzione eidetica e spaziale della scrittura poetica, di cui parla j. M. Lotman, e che si fa, appunto, segno e significato nel contesto creativo, allo stesso modo, la poesia che questi oggetti ceramici istaurano con lo spazio, pone un rapporto “altro” con la materia e l’idea che la in-forma poiché, metafora della trasformazione, le sue opere costruiscono una fitta trama di relazioni che mutano l’oggetto e la sua materia in una icastica forma che esprime la tensione concettuale e l’astrazione speculativa ed estetica della contemporaneità. Infatti, senza tradire concretezza costruttiva del manufatto, la sua astrazione assume ogni volta quella particolare inflessione segnica che si fa immagine e presenza reale dettata da una logica e da una emotività misurate dalla curiosità e dall’ istinto che esprimono, appunto, di un mondo che dispera della stessa armonia che va cercando. Nei dischi e nei totem, nei pannelli scritturali, dove lo spazio converge o si dilata, trascende o s’incurva a spirale, ovvero implode nei grumi cromatici che miracolosamente maculano il bianco o il rosso dell’argilla, il linguaggio, che è la causa dell’uomo, sa articolare pensieri inesprimibili che si materializzano come segni e colori dove coabitano le pulsioni della mano e delle stecche del figulaio primitivo, come nei vasi delle antiche culture preistoriche, ma anche le inquietanti apparizioni di una civiltà futura nella quale l’artifex, l’uomo consapevole della complessità del mondo, sa esprimere ancora il suo disagio mentre si meraviglia della vita e della sua libertà. Queste recenti opere, soprattutto l’idea della “donna fontana” o della “cintura di venere”, al di là dello stesso antropomorfismo cui alludono, oppure la grande “rosa del deserto”, che impone la sua vaga sfericità nella leggerezza ottenuta dal sapiente uso della tecnica del lucignolo, trasgrediscono infatti la stessa lingua e i segni modificati della culturali appartenenza diventano “altro”rispetto al Raku e alla ceramica della tradizione di cui si conservano talvolta e non forse per caso, quella figuralità geometrica che ricorda le decorazioni delle terrecotte prodotte nell’area palermitana in epoca neolitica e conservate nelle sale Bovio Marconi del Museo Archeologico di Palermo.
Il processo di semantizzazione che egli attua attraverso questa sua particolare ricerca che sperimenta le più diverse reazioni chimiche della creta e degli smalti, apre perciò nuovi possibilità espressive alle forme dell’immaginario. Conduce, per magia, all’inconfondibile impronta del tempo che, come nei fossili, assomma i millenni in un segno o in una sfumatura del colore dove l’universo sembra miniaturizzarsi senza perdere nessuna delle sue affascinanti trasformazioni bloccate dal capriccio della natura. Forme cristallizzate di assoluta simbolicità e ambiguità. La stessa che in questi oggetti estetici l’artista ci propone con la semplicità e la consapevolezza di un artigiano che non ha dimenticato il suo mestiere e ne utilizza i segreti e la tecnica, per un’alchimia nuova che parli la lingua dimenticata, esprime quell’armonia che dall’universo fittile sa condurre a quello astrale della libertà e della gioia. 

 

Mert Oppenheim,in uso dei suoi ready made del 1936, rivestiva un cucchiaio e una tazza da brododi morbida pelliccia. Era, apparentemente, una provocazione minore rispetto alla “Fontana”che tanto scandalo aveva suscitato,ma in realtà una simile operazione era molto più sottilmente scardinante perché metteva in atto una sconvolgente nella banale vita quotidiana di ognuno. Una funzione, quella della tazza, così nettamente riconoscibile nella semplicità delle sue forme che si colmava di ambiguità attraverso il programmato disorientamento. Il disorientamento che coglie lo spettatore, al cospetto di un siffatto oggetto, non riguarda solo la percezione visiva, ma coinvolge anche la “figurabilità”dell’esperienza tattile e gustativa:la capacità di contenere, caratteristiche della tazza, diviene risibile e anche l’idea di portare alla bocca un simile cucchiaio provoca sconcerto.
Le regole della percezione sono sconvolte ad un grado anche superiore rispetto alle prospettive impossibili di Escher, perché riguardano la sfera simbolica, segnica e funzionale dell’oggetto d’uso. Ma la funzione ed il segno non vengono negati bensì resi impossibili,sino ad una risemantizzazione del simbolo che assume il gusto di una risata sardonica,tipica dell’arte Dada.
Pur rimanendo nella forma la memoria della funzione,anche nei piatti di Mario Lo Coco c’è la rinuncia della “funzionalità”; le sue ceramiche appartengono infatti al campo della pura espressione artistica. Ma ,al contrario degli artisti DaDa, tale rinuncia non è frutto di una frattura tra percezione ed esperienza, bensì nasce da un percorso che trae origini dalla pratica del fare:quella dell’artigiano. Nella tradizione di ogni luogo, il ceramista è l’ultimo epigone di una teoria lunga quanto la storia dell’uomo: l’ artigiano, riferendosi nettamente vernacolare, si limita a riprodurre la regola classicista e a cimentarsi in una variazione manierista. Lo Coco inizia la sua esperienza artigianale inserendosi in questo solco: realizza terrecotte che anno la forma della quotidianità, ceramiche destinate ad accompagnare la vita di tutti i giorni, oggetti quasi inosservati perché profondamente interiorizzati. Un vaso per i fiori sulla tavola; dei piatti per ingentilire il convivio di un giorno di festa; delle tazze e una teiera con gli smalti caldi della nostra tradizione. Presenze discrete ed utili che l’artigiano produce con alacre costanza. Ma lentamente, giorno dopo giorno,mentre il fuoco cuoce sempre uguale la creta, mentre gli smalti al calore diventano brillanti, qualcosa cambia. Forse quella che a noi appare come sapiente manualità artigianale, per l’artigiano diventa, nei ripetersi dei gesti, il salmodiare di una litania:nei polpastrelli che sempre uguali affondano nella creta,nel calore, che sempre uguale brucia il viso quando si apre il forno, vi è il senso dello sgranarsi del dosario, una litania manuale che possiede la virtuosa vibrazione dell’Om.
E cosi come la meditazione del Saniasi apre le frontiere del sapere trascendentale, la “meditazione manuale” dell’artigiano porta all’espressione di nuove necessità. L’ artigiano si chiede: cosa resterà di me in questi spazzi concavi, in questi sacelli uterini, in questi cerchi celesti, in questi punti estesi?Posso espandere lo spazio concavo di questi crateri sino a contenere il futuro dell’esistenza quotidiana? Quali scorie il pèuro fuoco che rende sonora la creta può ammettere se non quelle dell’anima? È per questo bisogno di espressione che l’artigiano Mario Lo Coco si trasforma in artista; un artista che usa la propria esperienza manuale per provarsi in nuove metamorfosi in cui l’elemento creativo alchemico è ancora il fuoco. I cerchi, gli ovali, i poligoni con le superfici affondate, oltre alle cristalline e agli smalti, adesso accolgono bottiglie, fili metallici, sabbie e polveri, scorie della vita quotidiana, memorie della funzione della ricerca di un iperrealismo foggiato nella fucina di Vulcano. Le superfici assumono luminosità febbricitanti: il turchese violento lacera il latte freddo di luna; chiodi ruggine e piombo; bianchi e gialli organici. Ma poi le trasparenze fredde e siderali vengono ad un tratto interrotte:spaventevoli eretti lacerano il tessuto di un rosa carnale; spiagge di sassi erosi in cui smarrirsi alla ricerca di brandelli d’anima; e poi rossi violenti indicano itinerari dolorosi.
Immagini, quelle di Lo Coco, scaturite dalla pratica del fare a cui programmaticamente rinunciò Duchamp; immagini che risalgono ad una qualità pittorica ottenute con tecniche non pittoriche. Nelle ceramiche di Lo Coco l’ornamentazione, in origine subordinata alla funzione, diventa rappresentazione;non si smarrisce però la memoria della funzione che anzi diventa strumento necessario per dispiegare le matrici del percorso creativo. La valenza segnica così non subisce cesure, così come il valore simbolico che si accende di toni intimisti e personali. Eppure Duchamp, con il suo approccio eminentemente intellettuale al processo creativo cosìlontano dalla pratica artigianale, può condividere qualcosa con l’artista-artigiano Lo Coco: il gusto della metamorfosi è fondante in entrambi, dall’uno vissuto come elaborazione concettuale dell’Opus alchemico; dall’altro vissuto empiricamente come pratica manuale. 

Oltre la ceramica “Raku”
Di Tanya Guzzardella


Quando la ceramica era oggetto di artigianato locale, oggi quasi irripetibili, che raggiungevano però, talvolta, effetti di notevole prestigio.
A differenza,oggi, assistiamo, per lo più, ad una consueta lavorazione che ricorre spesso a metodo come lo stampaggio, la spianatura in lastre, il colaggio e la foggiatura al tornio,che, tuttavia, non hanno fatto dimenticare ad alcuni appassionati, taluni processi e tecniche rudimentali utili alla realizzazione di prodotti ceramici. Passione che ha coinvolto e fatto emergere l’artista Mario Lo Coco a tal punto da approdare all’esperienza della ceramica orientale “Raku”. Giunto da Monreale, Mario Lo Coco,artista eclettico e raffinato, ha esposto le sue opere presso il Centro Studi di Creatività “le nuvole”, a Sciacca e proprio li ha riscosso consensi e apprezzamenti tali da richiamare l’attenzione , oltre che di appassionati d’arte, anche di specialisti del settore.
A raccontare l’intenso vissuto interiore e la continua ricerca dell’artista, le sue sapienti e raffinate parole e decine di opere realizzate secondo le più rare tecniche: grandi piatti sui quali è possibile identificare cristalli di varia grandezza, forma e natura cementati l’uno a l’altro, così da costituire una varia e continua colorazione dell’oggetto stesso; una considerevole serie di libri costituiti da sottili e numerosi fogli di ceramica smaltata e non; un pregevole gruppo di tele corredate oltre dalla pittura ad olio, da sabbia, tessere di mosaico etc. e infine alcuni preziosi oggetti e pannelli realizzati in ceramica “Raku”.
Un itinerario variegato e impegnativo, quello che ci propone l’artista Mario Lo Coco, nel quale è possibile decifrare un singolare desiderio di innovazione e una peculiare fusione delle attività di mosaicista, vetraio e ceramista, che lo stesso artista ha praticato nel passato e che adesso, così fusi tra loro, sono riuscite a dare un esito talmente originale da richiamare l’attenzione di esperti e collezionisti.
Le creazioni di Mario Lo Coco si offrono così, nella loro differente composizione e materialità a rappresentare ed assemblare i più svariati elementi fisici e spirituali, come a tentare di stabilire una salda armonia tra le cose del mondo e gli uomini che in esso vivono.
Il settore che, indubbiamente, coinvolge con una massiccia dose curiosità è quella dedicata alla ceramica “Raku”, nel quale risulta evidente l’eccessiva bravura dell’artista nel determinare una corretta e attenta sequenza di reazioni e trasformazioni, dell’argilla, durante la cottura che risulta necessaria per determinare la struttura del prodotto da realizzare e le sue caratteristiche definitive. Arabeschi, scritture orientali e colori sfumatamene metallizzati sono alcuni dei risultati ottenuti, oltre che sicuramente dall’impasto utilizzato, dalla conoscenza di tutte quelle variabili che possono influenzare la cinetica di reazione e trasformazione.
Il nome “Raku” (felicità)fu inventato, nel XVI secolo, da una lunga dinastia di maestri ceramisti famosi, in Giappone, nell’esecuzione di vasellame per la cerimonia del tè e Mario Lo Coco è, oggi, uno dei pochissimi ceramisti italiani ad usare questa tecnica con successo.
Un successo che esprime pienamente l’evoluzione interiore dell’artista, volto, ormai, per mezzo delle forme più pure e dei colori più impercettibili, ad un mondo più sereno e spirituale.

 

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