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La ceramica si fa scultura e pittura
Sotto le mani la materia palpita, le mani scivolano leggermente, al suo contatto si fanno tutt’uno con essa, l’artista ne sente la musica interiore, quasi la parola e si lascia andare, le trasfonde le sue profonde vibrazioni interiori,imprimendole quelle pressioni che trasformano le sensazioni in immagini, in strutture costruite e in metafore del pensiero. Si adatta al suo ritmo trascinante l’artista manipolando le forme, plasmandole ora secondo ciò che esse stesse vogliono ora secondo la propria volontà ed idea in una tensione continua e reciproca per giungere all’opera.
Quest’osmosi tra intelletto e fantasia, mano e materia è tanto più simpatetica quanto più il codice è docile e morbido, come può essere l’argilla, capace di far tutt’uno con chi la gestisce. Altre volte il rapporto è conflittuale, perché, come scriveva secoli fa il poeta, “a risponder la materia è sorda” e quasi mai ubbidisce all’idea generatrice. Questa conflittualità si avverte tutta nel percorso creativo di Mario Lo Coco, -ceramista artigiano scultore pittore-, nel senso che nelle sue opere emerge sempre sia l’abilità artigianale che gli fa –o meglio gli faceva- produrre manufatti utili alla vita quotidiana (piatti, vasi), anche a scopi commerciali, seppur sempre particolari, sia lo sforzo di di elaborazione che arriva al prodotto artistico tout court, voluto a puri fini estetici e che fuori esce dai confini classici della fittilità, inventando il mezzo, per farsi altro, forma scultoria in cui il non finito grida l’intera lotta della creazione o espressione pittorica in cui si scarica un bisogno naturale, impellente dell’artista stesso.
Perché il processo formativo di Lo Coco passa attraverso questa graduale, se pur rapida evoluzione, fino all’espansione immaginativa,alla liberazione di ogni riferimento alle suggestioni della sintassi figurativa, alle forme tradizionali, per un’adesione più intima ad un linguaggio innovativo,talvolta astratto, fatto di pure forme in un work in progress alimentato dall’intrinseca, incessante insoddisfazione tesa al raggiungimento del prodotto perfetto.
Una fase interessante di questo processo, che dal ’96 circa dura fino ad oggi, è quella della presenza di una scrittura plastica, nei suoi tanti libri dai fogli d’argilla sempre più sottili e aperti,dagli angoli piegati come da un vento che leggermente li dinamizza e li mette in relazione attiva con lo spazio abolendo qualsiasi idea di staticità suggerita dall’oggetto-libro, pagine con abrasioni e graffiti o con interventi di elementi Raku o ancora con spacchi nella materia primordiale, che gridano il bisogno della comunicazione.
Il compianto Luciano Caruso, poco prima di lasciarci, scriveva, a proposito del libro-oggetto o libro- opera: “Attraverso la lacerazione del senso, interviene come sostanza della sua scrittura l’immensità del rimosso e del profondo, in una parola dell’oltre, ed emerge in primo piano l’organizzazione del ritmo che questa pratica trasversale e spostata aspira a fisicizzare, visualizzando insieme il caos e la confusione del vissuto con l’ordine dell’oggetto.” E si chiedeva se, quando la scrittura si cala nella materia,è essa stessa a farsi materia o è questa a farsi segno grafico, rispondendosi con la necessità di una sintesi, che diventi “traccia assoluta” da opporre, oggi in particolare, alla pericolosità di una scrittura automatica virtuale continuamente autoproducentesi.
E questo progetto di equilibro armonico di Lo Coco sembrano perseguire fino in fondo.
Mentre infatti l’artista imprime dinamismo alla scrittura allusiva, con questo procedimento per accumuli e per sottrazioni, con l’inserimento di pseudo-lettere ascrivibili all’alfabeto cuneiforme, al pre-greco o pre-aramaico, ai geroglifici (chissà), Lo Coco perviene alla fine al segno astratto, al puro simbolismo ideologico, acquistato al senso percettivo,senza alcun ordine precostituito, fissato in sequenze rigorosamente lineari, offrendoci la testimonianza sia la forza perdurante dell’antico,che sembra trascendere il tempo, sia dell’indissolubile legame tra opera e l’artista, tra passato e presente,tra storia ed effimero. La materia si lascia graffiare, attraversare da crepe improvvise che squarciano le superfici,quasi a voler eruttare l’energia oscura del mondo in un bisogno di chiarezza e immediatezza comunicativa in movimento,in cui fessure,spaccature, emersioni,deviazioni diventano simbolo di un’effervescenza che vuole evitare l’immobilizzazione del finito, per creare varchi, passaggi al pensiero e alla fluidità della vita. La materia si accende e si frantuma nella difficoltà dello sforzo e i suoi supporti di argilla chiara, graffiata e leggera, si adagiano le forme colorate e spezzate, in cerca di un’ impossibile ricomposizione dal caos: l’armonia del mondo è infranta, come il cordone ombelicale tra l’uomo e natura, una natura tormentata che vuole ancora imporre la sua energia oscura..Più complesse le strutture totemiche slanciate verso l’alto, attraversate forse dal ricordo di Basquiat, e comunque forme spesso presenti in altri artisti isolani contemporanei (Balistreri,Sucato), tesi alla rappresentazione della primordialità ed essenzialità della forma. Qui incavi grottali, spezzoni di parole, sottili lamine che, segandole, fuoriescono dall’argilla, colori, sembrano ferite dolorose e gridano il bisogno di permanenza vitale, di eternità.
L’argilla si è fatta scultura assumendo quasi la pregnanza e la durezza del marmo: da quelle totemiche a blocchi strutturali in sé autonomi, le forme si diversificano assumendo monumentalità e cadenza più complessa, drammatica, espressionista, cui la manipolazione delle mani imprime ondulazioni plastiche dissonanti, aspre. Se lo slancio verticale dei totem, la loro tensione di sconfinamento verso l’alto, verso il metafisico coniuga ancestrali bisogni dell’uomo arcaico della preistoria con quelli identici del moderno, anche le forme allusive delle belle sfere bomba esorcizzano con l’eleganza delle ondulazioni e i riverberi cromatici la sofferenza latente e di sempre che la forma suggerisce. In alcune recentissime opere la condanna dell’imbarbarimento dell’uomo ciecamente intento alla distruzione di quel grandissimo patrimonio di civiltà che era racchiuso nel Museo di Bagdad si nasconde in tagli frammenti, ricuciture della lastra pittorica: ma tutte queste opere rivelano la forza e l’attualità dei messaggi che Lo Coco affida alle sue ceramiche.
Le sculture informali, che tal volta richiamano il Picasso ceramista o le strutture dell’isolano Consagra, si radicano alla terra, impongono la loro forza prepotente, un lungo ambiguo linguaggio, in cui i concetti si addensano nel bisogno di una comunicazione più complessa, nella consapevolezza di una permanente inadeguatezza dell’espressione. In queste strutture d’argilla, incavi e ondulazioni plastiche, filamenti e macchie cromatiche creano un’atmosfera figurativa, in cui ormai è l’immagine a preponderare e a rivelare lentamente la costante volontà di approccio a tutte le arti, tra le quali ora si proietta insistente l’ombra della pittura.
Prima a farsi quadri erano stati tanti elementi fittili(rettangolari, a serpentina,di argilla chiara,rossa, tunisina, raku)incollati ai pannelli, incisi sottilmente e spennellati di inserti vitrei e metallici, frantumi e impasti di materiali vari raccattati e ricontestualizzati, fusi a mille e più gradi, separati l’uno dall’altro e ricomposti su pannelli verso una conquista di unità, di ordinato assembramento, uno accanto all’altro, come accumulazione di memoria, come chiari significati di linguaggio emozionale sedimentato, poi corpi mutanti, attraversati da energia vitale, dalla luce del colore,snodo verso un’affermazione più autentica ed espansa dell’elemento pittorico, che è la meta attuale in cui Lo Coco vuole approdare: ma il suo Raku non è già elemento pittorico?
Vari tutti i suoi tentativi personali, privati, di pittura tout court, che solo negli ultimi esiti della sua ricerca hanno trovato un loro spazio autentico nella sua materia preferita, negli smalti colorati, facendo della ceramica supporti –quasi tela o tavola- per i suoi cimenti pittorici: non più pittura nella tridimensionalità, ma su una sola superficie. Oggi sia con una mistione di pittura e manipolazione plastica, densa di volume, sia nel quadro di ceramica, attraversato da linee dinamiche e da filamenti cromatici, onde di mare cangiante, sia con i soli interventi cromatici sui supporti fittili, quasi reinventando il mezzo espressivo, Lo Coco è giunto al dipinto, ad un modo nuovo, tutto personale di fare pittura e di fare ceramica, che certamente intrica e affascina e che lo rivela al culmine di una tensione sperimentale, che si è fatta matura, ma che è ancora carica di presagi di importanti soluzioni future.
Anna Maria Ruta
….All’insegna del colore….
Il colore esplode nell’opera di Mario Lo Coco ed è proprio lungo il versante della esplicazione cromatica che si scopre la vera fessura della sua natura pittorica legata al rapporto suggestione-realtà, più coerentemente però verso una urgenza maturata d’immagini emotive determinati attraverso macchie azzurre, accenti rossi che spiccano ogni qualvolta l’atmosfera sembra incantata, come quei verdi e gialli soffici e trasparenti, che lasciano immaginare un fluttuare di fronte al di là dei vetri, ci riportano ad una realtà nota dalla quale era stato operato un distacco fantastico.
Le sue opere danno il senso di silenzio, seppure assolutamente leggibili, ciò è il risultato della sua attitudine specifica che gli consente di esprimersi in questa accattivante maniera.
Vorrei aggiungere che Lo Coco sembra svincolato nel suo linguaggio da qualsiasi remora per la sua pennellata rapida e libero da presupposti teorizzanti come da ogni mimetismo sordo alla luce dello spirito. Un uomo che si sente libero nel fare e che delle forme abbia esclusivamente una traccia naturale. C’è tuttavia una vita trascinanti nei suoi quadri, quadri d’immagini, che nascono da un approfondimento di una ricerca cromatica che è il filo conduttore del suo procedere. La sua mano appare fluida ma nello stesso tempo forte e abile per quella partecipazione intensa che si coglie in ogni trasparenza, in ogni particolare cromatico fissato sulla tela.
Dunque è una dublura la sua ,che vive soprattutto dalle scelte dei colori amabilmente schiaffati sulla tela, si esalta e costantemente si rinnova.
Certamente in un’epoca come quella a attuale, caratterizzata da sconvolgimenti anche culturali e artistici, Mario Lo Coco cerca, certamente di resistere alla seduzione della facilità per continuare nella fedele ricerca di un mondo di immagini che hanno la forza di resistere al tempo e dove è presente il concetto intenso della vita vestito di colore.
“…Nelle sue opere è proprio il colore luminoso della terra…”
Aria - Acqua - Terra – Fuoco
Appartiene ormai alla mia casa una piccola ceramica di Mario Lo Coco.
E’ un accento d’argilla messo sulla parola amicizia che ha suggellato il ricordo di un incontro a Monreale, luogo splendente e crudele per chi viene da lontano.
La ceramica di cui parlo è un oggetto plasmato velocemente, velocemente decorato con un blu marino come il mare di Sicilia, e di rosso vivo mordente come il fuoco dell’Etna.
Aria, Acqua, Terra, Fuoco, elementi indissolubili della bellezza del nostro pianeta,sono gli elementi nobili, duttili, rischiosi di cui Mario si è appropriato per creare al contrario di Vulcano le armi del godimento e gli scudi della bellezza.
Piatti, fusi, giganteschi stalagmiti forano l’aria e raggiungono il cielo…..Sono ammaliata dalla mano e dalla mente dell’artista che genera forme fantastiche capaci di colpire l’immaginazione con la forza di segreti che si rivelano solo parzialmente….C’è nell’opera appassionata di Lo Coco il rigore di ricercatore, l’ansia dell’appartenenza ad un mondo che ferisce l’anima ma diventa forma chimica nelle finestre tormentate dal colore, nei vetri macchiati, nelle colature dei piatti, nei segni e nelle impronte di raffinati colori che sembrano in movimento.
L’immaginazione, dall’inevitabile violenza del quotidiano, non cede alla sofferenza ma crea ogni volta nelle ceramiche un linguaggio nuovo.
Le forme vibranti di vitalità primordiale, violentemente nate da una prassi creativa che si placatolo davanti all’opera finita, sono come le onde del mare che nel ritrarsi lasciano sulla spiaggia preziose luminescenze e tesori del tempo.
Preziosi luminescenze, quindi, nelle creazioni di Mario Lo Coco, infrante dal nostro tempo catturate e rivelate da un artista vero, che ha il segreto della bellezza e il dono della semplicità. La piccola ceramica di Mario Lo Coco è qui davanti a me, sembra la bocca di un vulcano in cui la colatura lavica del colore mi ricorda una terra e un artista.
Ceramiche con antiche scritture
Di Aldo Gerbino
La vivacità espressiva delle sculture totemiche, dei pannelli, delle ceramiche raku di Mario Lo Coco, s’irradia grazie ad una particolare visibilità espressa con intelligenza da questo manipolatore d’argilla e di terre. La tattilità, la necessità di inserire segni, cifre alfabetiche,segnali di arcaiche scritture, depone il lavoro di Lo Coco in uno scenario che, partito dalla fabrilità, quanto palpabile, poetica.
Ed oggi con questo drappello di opere disposte presso L’”ex polveriera” ( Sala delle Capriate), accolta sotto le pendici di Monte pellegrino, l’autore monrealese impone e accresce il suo spessore creativo nella dimensione d’una visione plastica e arcaica,che richiama civiltà dell’oriente e del mediterraneo.
Inoltre rivolge una vigile attenzione (raccogliendo segnali della memoria collettiva)a morfologie proprie della biologia e della geologia. Il processo di “semantizzazione”, così come annovera in catalogo Piero Longo, “che egli attua attraverso questa sua particolare ricerca che sperimenta òe più diverse reazioni chimiche della creta e degli smalti, apre perciò nuove possibilità espressive alle forme dell’immaginario. Conduce, per magia, all’inconfondibile impronta del tempo che, come nei fossili, assomma i millenni in un segno o in una sfumatura di colore dove – si dice- l’universo sembra miniaturizzarsi senza perdere nessuna delle sue affascinanti trasformazioni bloccate dal capriccio della natura.
Forme cristallizzate di assoluta simbolicità e ambiguità. “Ed è proprio in questa comflagazione tra simbolo e ambiguità creativa, che il lavoro più recente di Mario Lo Coco sembra riversarsi sui sistemi di ampio interesse connotativi, do anche l’iconologia scientifica sembra esercitare sull’artista un non vago interesse.
Comune di Caltagirone Musei Civici e Pinacoteca “Luigi Sturzo”
Silenzioso ma coerente è il percorso che da anni Mario Lo Coco persegue nella sua personale e interessante ricerca del segno. A partire dalle maioliche, in cui esso già superava i limiti pur raffinati e suggestivi della decorazione, aspirando ad una più incisiva e compiuta comunicazione.
Un segno che certo non nega la grande qualità plastica delle sue opere, il più delle volte affidata alla morbida argilla che avvolte si espande, a volte si fessura e si squarcia, ma che il suo gesto decisivo sempre marca, enfatizza, con la indelebile firma che vi imprime.
Sembra che dalle tavole/libro che guerre e catastrofi naturali non hanno potuto completamente distruggere o cancellare, nella martoriata culla della nostra civiltà,tra i due fiumi Mario Lo Coco tragga arcaici e singolarissimi alfabeti, in un esausto tentativo di preservazione e di comunicazione.
Quasi a cercare e creare un esile ponte tra un passato in cui la scrittura era densa di un’infinita capacità di senso, e un oggi dove si manifesta, in tutta la sua disperata forza devastante, il naufragio di ogni senso. Verso e contro di esso, la icastica evocazione dell’artista, assume coraggiosamente il valore di affermazione di civiltà e, insieme, di enigmatica affermazione di mistero.
Da molti anni ormai Mario Lo Coco
opera nell’ambito della ceramica d’arte e produce manufatti non
seriali nel quale e facile rintracciare un duplice aspetto: la pratica del
fare che riporta alla tecnica del mestiere antico,ancora
legata a sistemi primordiali nella semplicità della manipolazione
E l’invenzione sempre nuova che trova il suo spazio nell’elemento
decorativo e nel linguaggio delle ornamentazioni.
Un incontro di materia di memoria
che insieme si espandono e si intrecciano.
E nella dualità di
oggetto-soggetto che essi sottendono si definiscono reciprocamente
nell’immagine di un organismo estetico vivente capace di restituire
l’idea creativa originata dalla concretezza di una sorta di oggetto
segnato da quell’immediatezza che non appartiene certo ad altre
tipologie della produzione artistica;di ieri e di oggi.
Le terre cotte di Mario Lo Coco
pur conservando l’impronta del primo plasticare appaiono cariche di
energia e si abbandonano talvolta alla tensione della materia: come nei
vasi che Lo Coco fa crescere mediante l’antica tecnica a lucignolo in
forme irregolari ed inconsuete. Morbidamente e senza asperità.
Altre volte soprattutto nella
decorazione dei piatti, l’artista interviene con più determinata
presenza ed opera palesi trasgressioni sull’usuale ricorrente: colori
nelle possibili gradualità e densità, mescolanze di toni e di materia
esitano in superfici che prendono una vita propria. Si incontrano negli
smalti intrusioni materiche diverse: sabbie e terre colorate, ma anche
cucchiai, fili elettrici, molle, specchi piombati che nel processo di
fusione ad elevate temperature subiscono imprevedibili trasformazioni. E
rendono soluzioni sempre nuove che fanno di ogni piatto un pezzo unico.
Antiche e nuove simbologie,
scherzi d’artista e divagazioni improbabili si spandono liberamente sui
fondi circoscritti dalle sagome ovali o poligonali di quei piatti
pre-costituiti nella loro qualità di oggetti d’uso veri e propri. In
questa fase essi subiscono un processo di decodificazione semantica per
divenire materia pretestuale lo spazio di proiezione di un momento
creativo dove si liberano energie e pulsioni inesaurite.
Riverberi e guizzi di una
condizione forse inconscia e a lungo latente che ora finalmente ha osato
attraversare il campo della coscienza e porsi, solida e concreta, nella
sua duplice essenza: di unità oggettuale ed estetica.
A.
Greco Titone DiBianca
Forma e organicità delle ceramiche di Lo Coco
Se è
vero che lo spettacolo delle opere di Mario Lo Coco provocano uno
sbalordimento, è pur vero che il fascino e l’attrazione che esso
esercita, sollecita lo spettatore a riflettere.
Quello
spettacolo cristallizza in me delle intuizioni legate all’evoluzione
dell’arte e mi obbliga al confronto con altre espressioni artistiche.
La
creatività di questo artista Monrealese, poi, è relativamente poco
conosciuta dal pucccbblico perché essa è rara.
Difficile
nel suo primo approccio, limitata la quantità delle opere, largamente
apprezzata da critici ed amatori, la produzione di Lo Coco rappresenta il
valore artistico più certo d’oggi ed è anche un raro esempio della
sperimentazione messa in campo per ricercare,pur nelle evoluzioni
artistiche, l”organicità della forma”.
Mario
Lo Coco ha cognizione del passato, dominio dei materiali e freschezza
d’ispirazione, che sono i requisiti necessari per procedere in questa
sua impegnata tecnica, e spazia in una dimensione atemporale, dove antico
e moderno si ricongiungono e sono compresenti.
Infatti
qualche elemento di lessico viene impiegato in strutture, come quelle
esposte (dallo scudo ovale al piccolo obelisco triangolare – possiamo
chiamarlo così?),che conservano assonanze al monumento etrusco; come il
grande pannello “cinese”, così denominato sia per i segni, quasi
degli ideogrammi, che per la specifica trama cromatica.
L’opera
di questo Artista, per sua stessa concezione, sfugge alle abituali
definizioni; essa è più una “presenza” che una cosa definita.
La
continua ricerca e sperimentazione, la conoscenza progressiva della
modalità di scambio e d’armonizzazione, sono la realtà tangibile della
sua “forma realizzata” al di là delle apparenze formali che hanno
troppo spesso isolato ed opposto le diverse componenti di un tutto
indissociabili.
Sicuramente
l’incertezza prevade l’animo dell’artista, ma questo si tramuta in
tensione tutta proiettata verso una creatività dove nulla viene limitato
o determinato a priori.
Ora, se
una “forma”dipinta presenta delle analogie con una forma organica,
possiamo dire che essa tende all’”organicità”?
Mi è
capitato di sostenere che l’ “organicità”, in biologia è un
“contenuto” costantemente evolutivo in cui il
“contenente” non è che l’apparenza mutevole ed
incessantemente rinnovata.
L’esistenza,
allora, è scambio, funzione, complementarietà, animati da una dinamica
di un divenire che trascende l’attuale ed il momentaneo in cui la forma
non è che uno stato d’essere.
Non si
può avere, pertanto, in ciò che vive, immobilità se non attraverso
l’artificio della stabilità, della fissità che è conseguenza della
distruzione della vita.
Alcune “forme” certamente possono fissarsi, analizzarsi, ma non
potrebbero mai pretendere di esprimere la perpetua evoluzione e le
permanenti sintesi di ciò che nasce, vive, si sviluppa e si rinnova
integrandosi nell’ambiente per reciproco adattamento.
L’arte
di Mario Lo Coco si sviluppa attraverso una serie di elementi che sono le
tracce dei suoi strumenti sull’argilla, tracce legate ai diversi
materiali usati, agli smalti, al gesto stesso.
Questi
elementi, così integrati ed amalgamati,
costituiscono essi stessi la “forma”, ma la loro qualità formale è
meno importante delle tensioni che si stabiliscono tra loro, degli scambi
e dei rapporti che costituiscono le opere stesse.
La
forma, allora, si colloca ai livelli diversi di quelli abituali, in quanto
ciò che conta e primeggia è l’organizzazione.
La
“vita organica” dell’opera d’arte appartiene allo spettatore che
la fa vivere secondo le proprie esperienze culturali e propri modi
d’esistere.
L’
“organicità”, così, dipende dal singolo individuo e l’opera
d’arte si rinnova nelle infinite volte e possibilità volute dagli
spettatori, non è più una “cosa” inerte
Adriano
Peritore
Giornata sulla legalità
La
conoscenza personale di Mario Lo Coco e della sua evoluzione artistica, mi
permette di affermare che nelle opere il riferimento più diretto è il
“segno” dell’informale, che arricchisce con la varietà della
policromia dei materiali diversi che tratta, e il riferimento ad un
totemismo archeologico.
Coadiuvato
mirabilmente da Salvo Arena, in questa sua ultima fatica (portale in
ceramica, testimonianza simbolica del passaggio
o dell’attraversare il futuro del cittadino alunno accompagnato per
mano dalla scuola) possiamo riscontrare una serialità di segni incisivi,
allusivi di una scrittura arcaica( la cuneiforme), evocanti mondi sepolti
e favolosi.
Anche
sulla copertina in terracotta del libro sulla mafia, prodotto dagli alunni
del II ciclo, L’artista vi ha inciso dei segni che hanno esplicito
collegamento con la scrittura interna, ma non sono la traduzione fedele
del parlato; essi si collocano in una dimensione tutta propria,dove gli
assetti semiotici della scrittura stessa riflettono le reali connotazioni
dell’universo segnino più che quello prevalente della parola.
Le
insegnanti che hanno intrapreso il discorso didattico hanno reso fattibile
la tradizione culturale dell’amanuense e della conservazione del libro
attraverso la scrittura manuale, il recupero dei segni ornamentali, della
qualità della carta e della rilegatura del libro.
Va
merito agli alunni di aver trattato un argomento molto duro rendendo il
contenuto leggibile attraverso segni-parole e segni-immagini che risultano
gradevoli ed indelebili.
Un territorio reale e immaginario
Il linguaggio artistico ha una tale varietà di espressioni da riaffermare, qualora ce ne fosse
bisogno,l’ampiezza e la libertà come suoi precipui connotati distintivi.
Si tratta oggi di una sorta di dialettica dalle infinite coloriture, sintatticamente in bilico tra figurazione ed astrazione, quasi a rintracciare modulazioni espressive che si raccordino ad esigenze variamente atteggiate ed enucleate.
Mario Lo Coco ,opera nel settore della ceramica con una pronunciata esplorazione innovatrice, tesa alla conquista di una cadenza e di una cifra stilisticamente bilanciata tra l’esibizione di una struttura a flussi emotivi, regolati in ogni caso da una mano sensibile e saggiamente esperta.
La tecnica adottata consente di raggiungere effetti estraneanti per cui sulla superficie della ceramica vengono a crescere modulazioni e segmentazioni cromatiche, affidate ad una esplicita, costante sperimentazione, i cui esiti visivi sono rivolti verso una progettualità
avvenristica. Perciò il suo moto esplorativo mentre da un lato sembra annunciare riflessi luminosi, finisce con l’assorbire il cangiante delle apparenze, favorendo imprevedibili distanze di tipo riflessivo, capaci in ogni caso di fondare spazialità nuove.
Siamo di fronte ad una pagina inedita di astrazione cromatica che da sensazioni diverse, pencolanti tra forma e colore,tra segni e cifre di un universo tutto da scoprire, in un flusso ininterrotto di momenti e di percezioni singolari .
Lo Coco fa quindi della sua arte uno strumento di fascino sensoriale dei materiali cromatici utilizzati –i più strani ed inusuali – lungo l’arco di un’operazione spesso per nulla prevedibile, anzi piuttosto aperta all’avventura formale del colore.
E il colore porta quasi il segno e il senso di una sorta di angoscia magica, addirittura inafferrabile affidata al fluido divenire della superficie, virtuale protesa cercare configurazioni morfologiche nuove, per cui pigmenti, tracce e gocciature di colorasi vengono a collocare, situare, crescere disporre in una spazialità pittorica sempre aperta ed imprevedibili chiavi di lettura.
La superficie della ceramica è come sopraffatta dalla informalità del colore in una varietà di effetti.
Allora i gorghi colore-materia, i suoi estraneamenti addensamente o le leggere schiume, le sue sfumature di indaco, di rosa o di inchiostro, le sue screziature brune o impure suggeriscono apparizioni indecifrabili, involontarie, che sembrano destinati ai respiri più brevi. Ma è un territorionel contempo reale ed immaginario, reale nella dimensione materia del suo supporto tecnico,cioè la ceramica immaginario nella sua valenza espressiva,nella tensione del flusso che la suggerisce con una struttura portante ed intensa che è tale per cui la coniugazione del modulo cromatico avviene sempre dentro un codice genetico di ampia rifrazione.
Adriano Peritore
Monreale
12 Giugno 2003
La “pittura ceramica” di Lo Coco
Tra decorazione e rappresentazione
Le metamorfosi dell’esistenza
di Dino Ales
La produzione artistica di Mario Lo Coco bene si innesta in una storia della ceramiche, come sappiamo, accompagna la storia stessa dell’uomo,fin dal suo primo apparire.
Le origini palermitane, monrealesi, anzi, dell’artista non possono non ricordarci che proprio questo nostro territorio vanta, per la ceramica,una tradizione interrotta di quattro millenni: soprattutto i rossi ,richiamano alla mente la produzione monocroma rossa della Conca d’Oro, un segnale che ci perviene dalla preistoria –intorno al Mille –in concomitanza della grande trasmigrazione dei popoli sicani dai territori d’Oriente nelle zone nord-occidentali della Sicilia.
Il colore, appunto: ha una grande importanza ed è l’elemento più degno di attenzione nelle creazioni di Lo Coco; come accade in natura, nella quale è importante per il suo stesso equilibrio ed è quasi sempre un segno ,un messaggio, il testimone di una situazione particolare. Il rosso che nella tradizione popolare- lo abbiamo , fin dalla preistoria- è associato al sentimento di amore, alla pulsione sessuale, è un segnale di vita,di energia, di fuoco. Un rosso che, tra le sue varie intensità,ne assume talvolta qualcuna che sa di macabro, quasi riferimento ad una attualità violenta, angosciante.
E poi il verde, chiaro intenso, cupo o trasparente, il verde della foresta protettiva. Rossi e verdi, opposti e complementari, a rappresentare l’antica situazione di attacco e di difesa, il desiderio di competitività e di possesso contro la perseveranza dell’operare e la serenità.
Sono i colori più frequenti in questa produzione,insieme all’azzurro:colori che richiamano, nella tradizione siciliana, la ceramica del XVIII secolo, mentre, per gli smalti il giallo-ocra, il verde-rame, il manganese si rifanno alla decorazione araba.
Si vuol dire che la “pittura ceramica”si qualifica, nell’ambito delle espressioni artistiche, come un fatto “speciale”, se non proprio “minore”.
Infatti l’intento ornamentale è, in linea di principio, totalmente distinto dall’intento rappresentativo
o narrativo dell’arte propriamente figurale.
Tuttavia esistono profondi legami fra decorazione e rappresentazione: e il passaggio tra dall’una sfera all’altra attiene agli atteggiamenti spirituali e culturali che caratterizzano non soltanto gli singoli artisti, ma anche le diverse epoche e civiltà.
Riferendoci alla produzione di Lo COco possiamo senza alcun dubbio affermare che l’intento decorativo, che tenderebbe riduttivamente alla qualificazione estetica di strumenti e utensili, quali le terraglie, necessarie alla vita dell’uomo, limitandosi a sottolinearne le forme essenziali con motivi figurali dagli effetti di gradevolezza visiva, assurge, per le intrinseche valenze rappresentative, narrative o simboliche,a dignità di arte pittorica, figurativa in senso più lato.
Una affermazione, per altro, che trova conforto se quelle stesse valenze andiamo a confrontare, sul filo di una storia dell’arte moderna e contemporanea, con l’esperienza dell’espressionismo astratto americano e, più particolarmente, con il suo andare, come tutta l’esperienza informale, lungo le varie fasi della dialettica tra l’infinito e il non-finito.
Notiamo nella figuralità di Lo Coco quella stessa ambiguità che è presente in Pollock, ad esempio, il cui intrigo informale potrebbe leggersi in chiave naturalistica:come siepe, giungla, foresta, appunto. O come falò improvvisi, o foreste in fiamme, o crepitanti giochi pirotecnici. O quell’altra ambiguità (e non per nulla siamo in Sicilia!) tra pulsioni di vita e di morte; esplosioni di istanze vitali, ma anche logoramento, consunzione. Esplosioni nucleari, come sembrano qua e la apparire,tra le porosità e le tensioni delle terrecotte ,tra le bolle , i crateri, le screziature, gli sgocciolanti, il dripping,appunto, dei pigmenti, degli smalti:esplosioni di energie positive, ma anche di distruzione.
Scompare, su quelle superfici, la figurazione;il gesto e il ritmo grafico,violento e vitale, definiscono il “dipinto” in un ricco arabesco di filigrane intrecciate. E, insieme all’atto del “dipingere” come esperienza vitale, appare un tipo di composizione in cui non esiste un centro, una gerarchia delle forme, ma che scorre, invece, si dirama,si scompone in rivoli, si espande quasi a voler travalicare i limiti del supporto. In questo contesto, tra lacerazioni e ferite della materia, solcature, interruzioni, interferenze plastico-visive,l’inserimento di corpi estranei, metallici, agisce provocando un vero e proprio evento,quasi a dare un nuovo slancio, nuove motivazioni al creptio delle deflagrazioni che compongono il continuum delle varie composizioni.
Sono innesti fatti con un mestiere apparentemente rozzo, in realtà molto scaltro. Il richiamo a Burri è d’obbligo; se non altro per la lezione scanzione razionale dello spazio del grande maestro umbro, che con le lacerazioni e le ferite della materia ci ha dato una iconografia della sofferenza e, al di là di essa, un principio formale e di struttura che l’offesa,lo strazio della materia,come della carne che essa simboleggia,non riesce a cancellare,per la presenza di una coscienza sempre vigile.
È questo un modo per trasformare il colore e le composizioni figurali in una metafora di valori esistenziali e, in ultima analisi, della natura tragica della condizione umana.
Questo accade perché in quelle esperienze informali la materia è posta come irrimediabilmente estranea alla vita naturale e contraria alla storia: con la sua inerte, immutabile realtà fisica blocca l’immaginazione, la riduce a segno e la stessa materia è segno di una assenza di vita, di distinzione,di fine della rappresentazione, di ammissione esplicita di morte dell’arte.
In Lo Coco, invece, l’arte trova ogni più completa e rinnovata motivazione al suo sopravvivere, al suo continuare: intanto in questo suo potenziale creativo, a lungo latente nell’inconscio ed ora esplodente in superficie, a livello di coscienza e di comunicazione.
E poi in questo suo tentativo, finora ben riuscito, di condurre con la produzione ceramica una intelligente e fantasiosa ricerca oltre i tradizionali confini, attraverso trasgressioni coraggiose,con una scaltra intuizione dei supporti,la cui funzione e del tutto sfumata,prevaricata posta in sottordine.
Sopravvivono invece, le forme come memoria: memorie di epoche, tempi,culture, fabbrilità, civiltà, storie di uomini. Strumenti,in fondo,ancora, ma non nel senso della utensileria; semmai occasione per praticare un varco attraverso il quale dispiegare un percorso creativo che conduce l’artista,e noi insieme a lui, verso una astrazione figurale ricca di contenuti emotivi, in definitiva verso il raggiungimento di una sintesi spirituale.
Qualcuno ha affermato che la produzione di questo ceramista,di buona scuola, comunque, non è un’arte “colta”, bensì spontanea e che solo “a posteri”può essere inquadrata, indipendentemente dalla volontà dell’autore, in uno schema pittorico o,meglio, vogliamo precisare noi, in una esperienza figurativa.
Ebbene, siamo d’accordo: la stessa cosa accadeva nell’espressionismo astratto americano e in Pollock in particolare, la cui peculiarità era proprio quella di riversare su un unico nastro modelli europei di arte “colta” e nobile, assieme a modelli autoctoni. Ma questo non impediva a quella esperienza di assurgere a momento nodale, importante della storia dell’arte.
Vi sarebbe ancora da approfondire il discorso della tecnica, sul metodo di questo artigiano - poiché tale è ancora, insieme all’essere ad ogni titolo artista- dalla fabbrilità sagace e raffinata, dalle trovate fantasiose e schioppettanti come la figuralità della sua ceramica.
Di questi suoi impasti particolarmente studiati ed inventati, dei colori e degli smalti nei quali la presenza del borotalco sprigiona, durante la fusione, l’ossigeno che provoca bolle ed escrescenze che danno ai “pezzi”prodotti porosità, rilievi, luci e trasparenze particolari. Della calce frammista al gesso che produce negli smalti spacchi e screpolature che movimentano avventurosamente le superfici.
Molto è frutto del caso: ma non v’è dubbio che la fantasia creativa dell’artista riesce ad utilizzare una grande conoscenza della materia, del mestiere, insomma, che riduce di molto la casualità, riuscendo così a governare i procedimenti ed a prevedere sempre più gli esiti.
Gli ultimi interventi su vecchi infissi di legno o su strisce e doghe di antiche botti o tegole o specchi o quant’altro egli riesce diligentemente a raccogliere, ed a far rivivere anche, sul piano della memoria e del segno di una storia più o meno recente che è parte di noi,hanno un fascino particolare, una malia che riesce a trasportare lo spettatore, anche quello meno adulto alle riflessioni “colte”, in un mondo che è, della storia, ma anche del sogno e della poesia
Palermo, aprile 1995
La forma e l’organicità
(1)
Se è vero che lo spettacolo delle opere di Mario Lo Coco provoca uno choc,e pur vero che il fascino e l’attrazione che esso esercita, sollecita lo spettatore a fare delle riflessioni.
Quello spettacolo cristallizza in me delle intuizioni legate all’evoluzione dell’arte e mi obbliga al confronto con altre espressioni artistiche.
La creatività di questo artista di Monreale,poi, è relativamente poco conosciuta perché essa è rara.
Difficile nel suo primo approccio, limitata la quantità delle opere, largamente apprezzata da critici ed amatori, la produzione di Lo Coco rappresenta il valore artistico più certo d’oggi ed è anche un raro esempio di sperimentazione messa in campo per ricercare, pur nelle sue evoluzioni artistiche, l’organicità della forma.
(2)
Se una “forma” dipinta presenta delle analogie con una forma organica, possiamo dire che essa tende all’”organicità”?
Mi è capitato di sostenere in altre sedi che l’”organicità”, in biologia è un “contenuto” costante evolutivo in cui il “contenente” non è che l’apparenza mutevole ed incessantemente rinnovata.
L’esistenza, allora è scambio, funzione, complementarietà, animati dalla dinamica di un divenire che trascende l’attuale ed il momento in cui la forma non è che uno stato d’essere.
Non si può avere, pertanto, in ciò che vive, immobilità se non attraverso l’artificio della stabilità, della fissità che è conseguenza della distruzione della vita.
Tra le piante vive e quelle di una erborista, tra una funzione fisiologica e una sezione di una forma organica, vi è tutta la differenza che separa il vivo dall’inerte.
(3)
Alcune “forme”certamente possono fissarsi, analizzarsi, ma non potrebbero mai pretendere di esprimere la perpetua evoluzione e le permanenti sintesi di ciò che nasce, vive si sviluppa e si rinnova integrandosi nell’ambiente per reciproco adattamento.
L’arte di Mario Lo Coco si sviluppa attraverso una serie di elementi che sono le tracce dei suoi strumenti sull’argilla, tracce legati ai diversi materiali usati, agli smalti al gesso stesso.
Questi elementi , così integrati ed amalgamati,costituiscono essi stessi la “forma”, ma la loro qualità formale è molto meno importante delle tensioni che si stabiliscono tra loro, degli scambi e dei rapporti che costituiscono le opere stesse.
La forma, allora, si colloca ai livelli diversivi diversi di quelli abituali, in quanto ciò che primeggia è l’organizzazione.
(4)
La “vita organica” dell’opera d’arte appartiene allo spettatore che la fa vivere secondo le proprie esperienze culturali e propri modi di d’esistere.
L’”organicità”, così, dipende dal singolo individuo e l’opera d’arte si rinnova nelle infinite volte e possibilità volute dagli spettatori, non è più una “cosa” inerte.
(5)
L’opera di Mario Lo Coco , per la sua stessa concezione, sfugge alle abituali definizioni, essa è più una “presenza” che una cosa definita.
La continua ricerca e sperimentazione, la conoscenza progressiva della modalità di scambio e d’armonizzazione, sono realtà tangibile che eleva la sua “forma realizzata” al di là delle apparenze formali che hanno troppo spesso isolato ed opposto le diverse componenti di un tutto indissociabile.
Sicuramente l’incertezza pervade l’animo dell’artista, ma questa si tramuta in tensione tutta proiettata verso una creatività dove nulla viene limitato o determinato a priori.
(6)
I supporti ,le tegole, le finestre, i modellati le composizioni, i “pezzi” d’arte (e in qualunque altro modo vogliamo definire le opere di M. Lo Coco ), possiamo ancora chiamarle “ceramiche”, nel significato tradizionale della parola?
Sicuramente si, in ragione dell’utilizzo tradizionale dell’argilla, degli smalti ed anche per i processi di cottura.
Forse no, in ragione dell’utilizzo di materiali non abituali, delle tecniche di preparazione, degli strumenti e per il risultato finale della fusione.
Probabilmente noi assistiamo alla nascita di una “nuova ceramica” in cui il lavoro della mano cerca nuovi rapporti con i materiali per tradurre insieme natura e movimento e produrre nuova arte.
la Parola, la luce del raggio
La corpuscolare densità della luce colpisce la materia. Vi dilava sopra nell’intenso mescolamento della ceramica appena raccolta nei segni lievi della parola; essi incidono il corpo aperto della terra, il gheriglio del fuoco che la plasma. Su di essa agisce il suono fragile della silice, il peso dell’argilla porosa e turgida d’acqua. Assume, infine, oltre le pieghe di una forma fluens, il simulacro e l’anima; il grido improvviso dello shock termico e il suo strazio.
E? il raggio che corre sulla conchiglia verdastra della “Conca d’Oro”a raggiungere e colpire il golfo tirrenico di Palermo, le rocce e i pianori disposti sotto quell’orletto montuoso di Giacalone tanto caro a quell’irrascibile poeta monrealese Antonello Veneziano, per disperdersi sulle tessere aure del Pantocratore.
Ed è sempre lo stesso raggio, nascosto tra ori e terre, tra versi e grida popolane, tra violenza e canti d’amore, tra salmodianti processioni e corde dell’impiccaggione, ad essere catturato dalle maglie vitree della percezione. Ma su tutto domina il libro,i segni, i solchi posti sulle zolle plasmate dal fuoco, ridotte a livelli arcani e simbolici.
Le superficie di Mario Lo Coco si offrono, così, nella loro scarna e lacerata materialità, attraversate dall’impasto assunto (e risolto) da quei maestri giapponesi (cerimonieri del tè sin dal XVI secolo) intrisi di filosofia Zen, e che trascinano la loro liturgia percorsa dal suono profondo del loro spirito.
Le pellicole celesti di Kyoto vi affiorano nella loro impavida levità, quali suggestioni orientali simili ai versi “ri-creati” nei Castelli di Giado, da quel singolare e originalissimo poeta dandy che fu Antonio Bruno. Se l’accostamento della forma concava, cara a Michael Chipperfield, o ai segmenti prossimi ai frammenti di epigrafe nel 1979 di Denis Parks, possono darci indicazioni sul progetto culturale di Mario Lo Coco ritornano su di esso le suggestioni già evocate da Francesco Carbone degli antepagmenta etruschi in rilievo o delle affascinanti pinakes di Locri mostrate con efficacia nel museo archeologico di Reggio Calabria. La ceramica raku, per come ci informa l’esauriente testo del ceramista Nino Caruso, incarna nell’etimologia quel “gioire il giorno” è cioè un vivere armonico) capace di restituire il valore simbiotico stabilitosi tra le cose del mondo e le cose degli uomini. Su questo sostrato Mario Lo Coco disegna la sua poetica. Essa va vista come un elegante raccordo pronto a riportarci nel sogno acronico dei frammenti in rilievo di Cnosso, cifre di quella civiltà minoica, sulla quale il cuore dell’Egeo riflette, in sempre più vasti raggi, la nostra stessa dimensione espressiva.
Mario Lo Coco sembra vivere ed agire nella fisicità del suo impulso vitale, similmente a ciò che permette nei suoi luoghi linguistici (1989) Vincenzo accade, in particolare per tutte quelle scelte in cui si scopre come la realtà appartenga ineluttabilmente “all’ Ordine fisico delle cose”. L’espressione, votata a tutto ciò che appartiene alla scrittura, sottolinea come l’esigenza di realizzarla stia, appunto “nella fisicità che governa il gesto di scrivere”. Di questa corporeità della scrittura si caricano i reperti fittili di Lo Coco disposti in una sorta di metalinguaggio, dove forma e colore, parole e suono, vortice terreno-cromatico, sostanza e aura impalpabile del sogno si flettono insieme per corrisponderci la loro urgenza d’un esistere come oggetti integrati con il pensiero.
Dall’ordine geometrico, come da quello informale, dalle suggestioni del ready-made alla calda metafora dell’astrazione, il gioco della parola si distribuisce in forma distratta sugli oggetti, sulle mani, sulle incantevoli e assopite pupille.
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