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Fermo e Lucia
Tomo 4
CAPITOLO 9
Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la
barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di
avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca
semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali
si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un
misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e
di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe
saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello sfiguramento Lucia aveva
tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due. Quell'infelice
da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era
rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti,
Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa
aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore, e il desiderio della
vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo
ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle
immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di
passioni, o piuttosto in un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile
strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due. Ma quando essi uscendo
dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa
ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano
entrati in quel labirinto. Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante,
non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia,
era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in
cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi
ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo
castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con
rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione
che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia. Quella voce lo
teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero
all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento
di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre
Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione.
Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere
di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si
mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la
chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo
seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un
cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra
rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del
cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia
con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di
tutta carriera. Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»;
altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal
demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e
scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla
capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice».
Dopo un momento di silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare
insieme quello che era da farsi: e i concerti furon questi: che Fermo partirebbe
tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe un ricovero
per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo
paese, porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a
disporre la casa dove intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e
tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo paese, dove dovevano celebrarsi le
nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da sperarsi che invece
di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte
altra volta. Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni cosa che non si
staccherebbe dalla sua buona compagna, finché questa non fosse affatto guarita,
e ristabilita nella sua casa. Il Padre la lodò, Fermo non v'ebbe nulla a ridire,
e la vedova tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa Lucia a casa, e la
consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto
cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa
più nero, e la notte si avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto
lo staccarsi da Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder
presto, quanto dal Padre Cristoforo, che restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una commozione
che andava crescendo. «Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli
strinse la mano: disse addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: - a
rivederci presto -, che gli veniva su le labbra; poi spiccatosi in fretta,
partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto
pure di andarsene: ma nel dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide
nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande inquetudine; s'avvisò tosto
di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non lo
vedrete più, siatene certa. Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento,
«per ogni altro evento, sarà meglio ch'io vi raccomandi a qualcheduno dei
nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e condottolo
alla capanna, gli mostrò le due donne, e gli disse: «sono due derelitte; vi
prego di averne una cura particolare. Vi lascio con Dio», disse poi alle donne,
e uscì dalla capanna. Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le imponeva che
tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove videro una
folla di monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad
altri monatti che guidavano un carro verso la porta. Il carro si fermò quasi
davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero tosto ansanti; e due
che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo
bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e giù
finch'ebbe fiato: se durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato
egli, e allora per amore o per forza ha dovuto scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare
per questa povera anima voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far
pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede. Tornate alla vostra compagna.
Iddio sia sempre con voi». Dette queste parole, prese in fretta il viale, per
andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita
dallo spettacolo, tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e Don
Rodrigo su la cima d'un tristo mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva
dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la
notte come potè, il giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si
rimise in cammino, e si condusse fin presso al suo paese, dove giunse il terzo
dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse stato da un
gran pezzo. Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che
gli eran date, sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel
supposto ragionevole, che il lettore se le può immaginare. Con Don Abbondio le
cose non furono così chiare. Prima di tutto egli si fece pregare alquanto prima
di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di
questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia.
Apertogli, lo accolse con quella cera che un uomo imbrattato di debiti mostra ad
un creditore che vorrebbe sapere mille miglia lontano, ma che pure non vorrebbe
irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà
qui anche Lucia Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un anno e
dieci mesi, e con la quale ora ella mi sposerà. Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi
poveretti ed anche a lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro
mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso,
acconciato pel dì delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste. Siam guariti anche noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
- Se fosse la vacca d'un pover'uomo, - disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo
ascoltatore; «basta, quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si doveva
fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio,
«non ha da potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star
qui: maritatevi altrove; e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo,
e so anch'io che impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa
sua: qui abbiamo le nostre case, qui si può concluder tutto in un momento, senza
impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri
che il lettore conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a disporre
le sue faccende, e la casa per la sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il
quale di giorno in giorno si andava spopolando. Perché come abbiamo accennato,
dopo quella dirotta, il contagio mollò, come suol dirsi, repentinamente; e così
venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al lazzeretto; quei
che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono. La vedova trovò la sua casa
intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme a fare un po' di quarantena;
deposero ed arsero i panni della malattia; il fondaco somministrò la materia dei
nuovi vestimenti: e la vedova attenendo quello che aveva promesso al padre
Cristoforo volle ad ogni costo provvedere Lucia d'un bel fornimento d'abiti, con
tutto il lusso contadinesco; e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che
stettero rinchiuse. Il giorno stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire
alle giuste premure della sua ospite mandò ai capuccini a chieder conto del
Padre Cristoforo. Come il lettore l'avrà indovinato, il nostro buono e caro
amico, era morto al lazzeretto. Lasceremo pure che il lettore s'immagini il
dolore di Lucia; e senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno
ella giunse alla sua casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle
carrozze che usassero i mercanti d'allora. In quel frattempo, il contagio era
cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse. Agnese non
istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le
gettò le braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova. Fermo
che era tornato e che stava quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in
casa d'Agnese in quel momento. Le accoglienze, il tripudio di tutti non è da
dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore
in parte sa, in parte può immaginarsi. Il giorno seguente, andarono tutti e
quattro da Don Abbondio, il quale al tocco della porta accorse alla finestra, e
veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a
vedere quella faccia svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e d'una
stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti allegri. Ma Fermo che conosceva il
male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con queste parole: «Quel
signore è poi morto davvero». Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da
spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale...
notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al
ricordarsene. Don Abbondio volle sentire il racconto, si fece ripetere molte
circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo era veramente passato
all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i
lineamenti del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di
primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva
certa gente. È morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche per un
gran benefizio della provvidenza; perché se colui avesse lasciato gente della
sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere: peccato! un degno
gentiluomo. Così, si può finalmente dire il suo cuore. Ah! Non c'è più quel
burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio. Questa pestilenza è stata un
flagello, figliuoli, un flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via
certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: birboni, freschi,
verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una
prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger
loro la cassa stava ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti:
requiescant. Ah!... Ma, che facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi,
«qui in piedi, in questo andito? venite figliuoli, venite nella mia saletta;
venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e a discorrere
tranquillamente dei fatti nostri. Perché», continuò egli camminando, «quello che
s'ha da fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto. Non mi piace,
vedete, far penare la gente. E principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran
giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che proseguì: «principalmente
voi, ai quali ho sempre voluto bene. Ma che volete? Alle volte bisogna far bella
cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a
quelli che si amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma,
santo cielo! bisogna vestirsi dei panni d'un povero galantuomo. Basta; è finita;
veniamo a noi. Figliuoli, non bisogna perder tempo; oggi, che giorno è?...
Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già fatte,
dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione
di maritarvi; e subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete
che il nostro santo padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di
Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho
inteso che tutti gli dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli:
Eminenza, sotto pena di passare per malcreata, o per ignorante. Così ha voluto
il papa: è ben vero che alcuni principi sono in collera, e non vorrebbero questa
novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo non ho di
questi affanni. Torniamo al fatto nostro. Voglio che stiamo allegri: abbiamo
avuto tanto tempo di malinconia. Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono
amico; che vi voglio bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche
travaglio: non parlo di te che sei un malandrinaccio», disse rivolto a Fermo,
sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui rivolto a Lucia, e
alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva
verso di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche
voi mi avete voluto fare un tiro: quella sera: quella sorpresa: quel
clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato: non è colpa
vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio:
tutto è finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don
Abbondio, e provargli che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e
rispose egli in vece con un complimento al curato; e con qualche altro
complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai
preparativi pel traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico
avere, e Agnese, la quale come il lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler
dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna, viveva per gli altri, e faceva
a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa comune:
la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima
giunta, che non vegga colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato,
domanderà per qual motivo quella famiglia volesse abbandonare il luogo natale,
la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo colui che
gl'impediva di posarvisi tranquillamente. Per tre ragioni principalmente. La
prima: quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua
impresa di Milano, e la cattura fosse un titolo inoperoso; pure un sospetto, una
reminiscenza, un mal uficio, poteva far risorgere l'antica querela, e rimetterlo
in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano
quasi per nulla, ma che nel caso concreto sono più potenti a determinare che
molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto, e temuto nel suo paese, gliel'aveva
reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un soverchiatore, i
pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a
morte. Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamino,
e se quei luoghi sono la patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perché gli
guardava prima con fiducia, e con affezione. Anche il bambolo riposa volentieri
sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca con avidità
la poppa che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la
nutrice, per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con
dolore e con pianto il labbro da quella nuova amaritudine, e desidera un cibo
diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze
gli avevano costretti a dismettere per molto tempo la loro professione; ma né
l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro disegno era di ripigliare tosto
il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed allevare i
figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno. Ora l'industria della seta,
come tutte le altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima di
quelle recenti sciagure; e queste le avevan poi dato l'ultimo crollo. Non è
questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di toccarne le cagioni.
Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità appajono anche troppo in
questa lunga storia: chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha
lette, le belle memorie storiche del conte P. Verri sulla economia pubblica
dello Stato di Milano; e se vuol conoscere più a fondo, frughi nei documenti
originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue memorie. Basti a noi il dire
che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel Milanese, e
che nel Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni,
privilegii, ed altri incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi.
Questa differenza fece uscire una folla di operaj, e rivivere in quegli stati
molte manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito. Differente per
conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che
fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi
segni, e i tristi effetti di quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire
cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del vagabondare: ma in quella
petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla abbondanza,
almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia
di far bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta. Ma nel
Milanese una cagione viva e incessante di miseria sopravviveva alle miserie
della peste; un sistema che onorava l'orgoglio ozioso, che favoriva la
soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle
ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di
rapine e di ostacoli, impediva l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come
convertire in danaro i pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano
nati: ma la fortuna - non osiamo dire la provvidenza - la fortuna che voleva
favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar lietamente una storia
inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di Don Rodrigo erano
passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben
diverso conio; un galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima di andare a
prender possesso di quella eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò.
«Avrete forse una occasione di far del bene e di riparare il male che ha fatto
Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la persecuzione
fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne
avevan patito. «Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del
bene, che con voi non fa bisogno; ma di darmi notizia di loro, e di dire a
quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi raccomando alle sue
orazioni». Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il
villaggio degli sposi, e si presentò al curato. Don Abbondio al vedere il nuovo
padrone di quella altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile,
rispettoso verso i preti, voglioso di far del bene, non si può dire quanto ne
fosse edificato. E quando quel signore lo richiese di Fermo e di Lucia, e gli
manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò
volentieri, a secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese;
e il miglior servizio ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi
che tengono qui. A lei potrà convenire di aggiungerli ai suoi possessi; e quella
gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non
sarebbe dispiaciuto di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere
quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in
trionfo alla casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu
molto gradita. Il prezzo fu rimesso a Don Abbondio, a cui il signore disse
all'orecchio, che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così fece; ma il
signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei
venditori, gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle
nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e
moglie; il banchetto fu molto lieto. Il giorno seguente ognuno può immaginarsi
quali fossero i sentimenti degli sposi e quelli di Don Abbondio, entrando non
solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed onorevole nel castello, che
era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre
Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il
padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al
suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non
aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe
recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia. Tanto
anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere
una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro
non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di
rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire,
si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che
tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un
addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e s'avviarono a
Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al
Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta
nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la
buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a
cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per poter
dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella
giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre:
«d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a
non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra». Lucia però non si trovava
appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse.
A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella
disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata
a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire»,
aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di
volerti bene e di promettermi a te». Fermo quella volta rimase impacciato, e
Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì
ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non
assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la
fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa
conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che
abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti
che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
17 settembre 1823