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Fermo e Lucia
Tomo 4
CAPITOLO 7
Così disposto, volse indietro, ma senza però ristarsi ancora dal correre, il
volto più torvo e più cagnesco che avesse ancor fatto in vita sua per guatare
quali, quanti, a che distanza fossero quei suoi persecutori; ma con maraviglia,
e con un sentimento confuso di gioja gli vide tutto ad un tratto restar sui due
piedi, in grande esitazione e su quelle figuracce alle brutte contrazioni del
furore succedere le brutte contrazioni della paura. E tosto più presente a se
stesso, scerse dinanzi a sè e non lontano, un apparitore, e dietro lui un carro
coperto di cadaveri, intese i campanelli, lo scalpito, le ruote, le canzonacce
dei monatti, tutto quello strepito che un momento prima percoteva le sue
orecchie senza saputa della mente. Il terrore degli inseguenti per quella
comparsa, fece tosto pensare a Fermo che per lui ella era salute: sentì egli che
non era momento da far lo schifo: affrettò la corsa verso il carro, tolse la
mira ad un picciolo spazio sgombro che vide in quello; spiccò un salto; ed
eccovelo ritto, piantato sul destro piede, col sinistro in aria, e con le
braccia alzate tuttavia dal lancio di tutta la persona.
«Bravo! bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, altri che seguivano il
convoglio a piedi, altri, seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa
come ella era, seduti sui cadaveri trincando d'un gran fiascone che andava in
giro. «Bravo! bel colpo!»
Gl'insecutori all'avanzare del carro avevano per la più parte volte le spalle, e
fuggivano, gridando pure «dalli! all'untore!» se mai qualcheduno più coraggioso
di essi, volesse venire a compiere la buona opera; e a quei gridi rispondevano
dalle finestre uomini e donne accorse al romore: «dalli! all'untore!» Alcuni
però dei primi tentennavano, quasi non potessero rassegnarsi a vedere la fiera
uscir salva dalla loro caccia, e digrignavano i denti, facevan gesti di minaccia
a Fermo che gli guardava immobile dal carro.
«Lascia fare a me» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un
laido cencio, lo rannodò in fretta, e presolo per un dei capi lo alzò verso quei
feroci, come una fionda, fece atto di gittarlo, gridando: «aspetta canaglia». A
quell'atto tutti dieder di volta inorriditi, e Fermo non vide più che schiene di
nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria. Fra i monatti si sollevò
un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come
per accompagnare quella fuga.
«Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini», disse a Fermo quel
monatto: «val più uno di noi che cento di quei poltroni».
«Certo io vi debbo la vita», disse Fermo: «e vi ringrazio di tutto cuore».
«Niente, niente», disse un altro di quei demonii: «te lo meriti, si vede che sei
un bravo giovane. Fai bene d'ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro
che non son buoni a qualche cosa che morti, o birboni; che hanno bisogno di noi,
e ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moria, ci vogliono fare impiccar
tutti. Hanno a finire prima essi che la moria; e rimarremo noi soli a gavazzare
in Milano».
«Viva la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel
brindisi, si pose il fiasco a bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi
del carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse il fiasco a Fermo, dicendogli:
«bevi alla nostra salute».
«Ve l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in
questo momento».
«Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera
d'un pover'uomo; altri visi voglion essere a far l'untore».
«Ognuno s'ingegna come può» disse un altro.
«Dammi quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato
nella cantina di quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il fiasco dalle
mani di quell'altro; e prima di bere, si volse a Fermo, gli affissò gli occhi in
faccia con un'aria di pietà sprezzante, e gli disse: «Convien credere che il
diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia ben giovane, ben dappoco, poiché se
non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'ajuto». E ridendo del suo bel
tratto, levò il fiasco, e se lo appiccò alle labbra. Lo vuotò, e poscia
tenendolo con la destra pel collo, lo mosse rapidamente in giro al di sopra del
capo, quindi lo gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento,
gridando: «viva la moria». Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di
Fermo aveva interrotta; e tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre
di quel turpe coro. La musica infernale mista al tintinnio dei campanelli, e
allo strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso delle vie, e
stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali
il carro trascorreva.
Fermo vi stava ritto tuttavia ansante per la corsa, e per la tema avuta, agitato
di dentro in una successione fluttuante di passioni e di pensieri. Da prima
provò un vivo ristoro del vedersi in salvo, quindi dabbene come egli era,
ringraziò Dio che lo avesse scampato da un tanto pericolo; ma non lasciò per
questo di sentire un gran rancore per quei bestiali suoi persecutori; qualche
momento dopo cominciò a parergli ben fastidiosa la compagnia di quei morti da
cui era circondato, e di quei vivi pei quali sentiva ad un punto riconoscenza, e
orrore.
Pensò da poi che, se ben salvo, era pure ancor bene impacciato, pensò al modo di
uscire dal fastidio senza incappare di nuovo nel pericolo e di trovare il
lazzeretto, dal quale egli era lontano forse chi sa quanto; e forse se ne andava
sempre più allontanando. Domandarne a quei suoi ricettatori, il cuore non glielo
diceva; sarebbe stato un esporsi a mille inchieste, attirarsi Dio sa quali
parole, impegnarsi in un colloquio né aggradevole, né troppo sano. Fermo era già
anche troppo imbarazzato in quella poca conversazione, che aveva dovuto fare con
essi; vedeva che quegli che lo avevano salvato erano sul conto suo nello stesso
inganno di quelli che lo volevano morto; non si curava di sgannare coloro, e
nello stesso tempo sentiva troppa ripugnanza a dir cosa che gli confermasse nel
loro errore. Cercava quindi di lasciar cadere i discorsi, senza però mostrare né
ripugnanza, né sospetto, né fare atto che gli alienasse l'animo di quegli che
alla fine erano i suoi protettori in quel momento. Chi poteva sapere a che filo
tenesse quel loro favore e la loro condiscendenza; forse alla sola idea che
Fermo fosse un propagatore della peste; il favore degli uomini benevoli è
talvolta così fragile, così permaloso, la buona gente si stanca talvolta per sì
poca cosa di proteggere un disgraziato; pensate poi una feccia di ribaldi come
quelli. Per tutte queste ragioni Fermo fu molto contento quando vide che essi
non lo stimavano degno della loro attenzione; e fu grato alle sue orecchie (che
cosa non può divenir grata in questo mondo!) quel canto, che lo toglieva
dall'intrigo di quella conversazione. Intanto il carro s'era già allontanato
abbastanza, perché Fermo non temesse più di esser raggiunto dai suoi nemici; i
quali del resto s'eran dispersi; non restava che il pericolo di abbattersi in
uno di quelli che lo riconoscesse, e gli aizzasse di nuovo la gente addosso;
pericolo lontano, ma che poteva crescere in proporzione della strada che Fermo
avrebbe ancora a percorrere. In questa tempesta di pensieri egli girava attorno
uno sguardo sospettoso e irresoluto, quando gli parve di riconoscere il luogo
per dove passava, richiamò le sue memorie, guardò più fisamente... - questa via
non mi è nuova, di qua son passato certamente -. Fermo non s'ingannava: il carro
diretto alla gran fossa scavata dietro il lazzeretto e denominata il Foppone di
san Gregorio, scorreva nella via chiamata allora il borgo ed ora il corso di
porta orientale, per cui Fermo era entrato con molta maraviglia, ed uscito con
molta paura un anno e mezzo prima. Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta
veduti, rendevano più vivo e più chiaro il riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe
la perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento dei capuccini.
Allora riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era
il lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce fosse
l'affare che lo strascinava in quel luogo, pure il povero giovane si sentì tutto
rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio, sicuramente, in carrozza,
quale ella si fosse; questo gli parve un buon principio, e un buon augurio.
Oltrepassato il convento, Fermo pensò che sarebbe meglio spacciarsi da quella
compagnia e uscir dalla porta a piede. Vide che i monatti invasati nel loro
canto non badavano a lui, fece un cenno di saluto e di ringraziamento ad uno che
gli era più vicino, e balzò dal carro in sul pavimento. Quel monatto lo
accompagnò con un saluto schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va,
va, povero untorello: tu non sarai quello che spianti Milano». Per buona sorte
non v'era anima vivente nella via che potesse udire quelle parole. Fermo
s'indugiò, tirando presso al muro, tanto che il carro si allontanasse; e a passo
lento giunse presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove
erano addensati più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli
aveva percorsa: passò il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena esteriore
del lazzeretto; il principio appena, e come la mostra dei guai, e già una vasta,
diversa, inenarrabile scena.
A noi, come certamente al lettore, incresce ormai un così lungo avvolgerci tra
tanto dolore, e tanto fastidio: quindi ci guarderemo dal tentare anche di
descrivere a parte a parte quella scena: bastino alcuni tratti generali a dare
un'idea comunque dello spettacolo che s'offerse agli sguardi di Fermo. Fin dove
il suo occhio poteva giungere nello spazio che circonda al di fuori il lato
meridionale e l'orientale del lazzeretto, quello spazio era sparso di languenti,
a cui non erano bastate le forze per giungere fino al lazzeretto, di morti che
ivi giacevano, era percorso da gente che entrava, da infermi che ne uscivano, e
che erravano sbandati, la più parte fuori di sè, quale imperversato, quale
istupidito. Altri pareva tutto infervorato a raccontare le sue sciaurate
fantasie al tapino che giaceva oppresso dal male, o ad un altro infelice,
preoccupato da altre fantasie; un altro si mostrava assorto e tranquillo in un
immaginato contento; e quella apparenza di gioja e di serenità in mezzo a tanta
miseria, pure ne accresceva l'orrore; tanto è terribile all'uomo il vedere in
altri oscurato quel lume divino che lo fa esser uomo. Altri per un trasporto che
fu notato in altre pestilenze, vogliosi d'immergersi nell'acque, si gettavano
nel fossato che gira attorno al lazzeretto; e vi morivano affogati, o vi
rimanevano disensati; taluno canticchiando, le ore, i giorni interi. Tra quella
confusione giravano monatti a prendere i morti, a contenere, a rispingere, a
guidare nel lazzeretto i miseri così vivi, giravano commissarj, delegati, a dare
ordini, a dirigere come si poteva i monatti. E Fermo scorrendo tra quella folla
per avviarsi alla porta di quel lato che tira lungo la strada maestra, Fermo
doveva pure per quanto intollerabili gli fossero quegli oggetti, fissare sovr'essi
lo sguardo perché fra essi, uno di essi, poteva essere quello di ch'egli andava
in traccia. Giunto su quella porta, ristette sopraffatto dal nuovo spettacolo
che gli si parava dinanzi e dattorno. Dinanzi, il vasto campo interno del
lazzeretto, ingombro qua e là di trabacche, di capanne, coperto e animato da un
popolo, del quale il veduto al di fuori non era che un saggio; e a destra e a
sinistra le due interminate fughe di porticato spesse pure, e gremite, e
brulicanti a quel modo: uno sciame, un trambusto, un rimescolamento da far
vertigine, da offendere con subita fatica lo sguardo, quando fosse pure stata
una festa. Il cuore di Fermo fu soverchiato a quella vista; ed egli stette un
momento in fra due se dovesse tornarsene, e abbandonare una ricerca che superava
le sue forze. Ma l'affetto dal quale egli era stato tratto su quel limitare,
aveva pigliato ancor più forza dalla incertezza, e l'immagine di Lucia, forse
inferma quivi, abbandonata, era divenuta più forte e più pietosa nell'animo di
lui. Pensò che se egli si ritraeva allora da quel luogo, vi sarebbe stato ben
tosto sospinto di nuovo da tutti i suoi pensieri: partirsi senza aver nulla
saputo di Lucia, aspettarne le novelle, fin quando, da chi? partir dal luogo
dove soltanto si poteva sperare di trovarla: fuggire da dove ella era forse a
pochi passi di distanza... Fermo si mosse, rivolse una viva preghiera al Signore
e si gittò in mezzo a quella confusione, abbandonandosi alla scorta di Lui. Non
aveva alcun filo per dirigersi, né una ragione per cominciare la sua ricerca più
tosto a destra che a sinistra, nel campo che sotto il portico; ma il campo gli
era in faccia, e s'ingolfò in quello alla ventura.
Nei principii della pestilenza il lazzeretto era stato scompartito in quartieri
pei ministri e per quelli che entravano ad esser curati: le femmine separate dai
maschj, e ogni sesso suddiviso in sospetti, in infetti, in quarantenanti. E già
fin d'allora quell'ordine, come abbiam detto non s'era potuto interamente
serbare; ma nel bollore della peste, e nel crescere della moltitudine, tutto
s'era rimescolato, come una botte fecciosa nella furia del temporale. Oltre di
che quello scompartimento non era stato fatto che nel fabbricato, in tempo che
nessuno prevedeva che questo non sarebbe bastato, che l'immenso circuito interno
sarebbe divenuto spesso, traboccante, insufficiente anch'esso, e quando questo
cominciò a popolarsi, (e cominciò con una folla) non fu possibile applicare ad
esso le divisioni già stabilite. Pure le sollecitudini dei sopraintendenti e
principalmente del Padre Felice, per mantenere quel primo ordine, nel
fabbricato, ne facevano se non altro rimanere qualche traccia; la massa
principale e il fondo per così dire degli abitatori di ciascun quartiere era del
sesso e della condizione a cui quello era stato destinato. Se Fermo fosse stato
informato di ciò, si sarebbe diretto a destra, al lato settentrionale che guarda
al cimitero di san Gregorio; il qual lato era assegnato alle donne. Ma Fermo,
come abbiam detto, era nuovo affatto di quella bolgia, e non aveva una guida;
quindi procedeva a caso, mettendo il piede dove scorgeva un passaggio, dove il
passaggio era meno intricato d'inciampi compassionevoli o ributtanti. Andava
d'una capanna nell'altra, s'appressava ad ogni giaciglio, dove vedesse una
donna; guatava, e seguiva la sua strada. Da per tutto lo stesso spettacolo così
terribilmente variato, e così terribilmente conforme: corpi immobili nella
morte, o dibattuti nelle angosce mortali; miseri che brancolavano a stento, o
balzavano di luogo in luogo infuriati. I soli che si vedessero camminar ritti, e
con un passo regolare erano monatti, e religiosi, varii di vesti e di età: gli
uni e gli altri intrepidi, occupati delle loro faccende, come se fossero
faccende ordinarie, con una fortezza che certo era cresciuta negli uni e negli
altri da una circostanza comune, la consuetudine ormai antica di quegli orrori;
ma era nata da principii, quanto lontani! negli uni una selvaggia ed empia
durezza, negli altri una carità più forte della commozione. La più parte di essi
s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo un volonteroso e
pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma per un impulso
spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al lazzeretto; avevan
reputato guadagno la perdita della vita, e questo guadagno era già toccato ad un
buon numero di essi: taluno perfino, passando dal disprezzo della morte al
desiderio, e dal desiderio alla ricerca, trascurò le cautele che pure erano
compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio. Il che si
chiamerebbe volentieri un bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione
proscrive tutti gli eccessi; perché il saggio, il temperato, il ragionevole
ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di qualunque esaltazione
fantastica.
Nel suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità offriva uno
spettacolo singolare. Vide nel campo un picciol parco, una steccaja, come per
tenervi ragunato un gregge. Si avvicinò; v'era in fatti un gregge di capre; e il
vecchio pastore, con una lunga barba bianchissima, succinto e affaccendato, era
un capuccino. Le capre davano la poppa; ma quali erano i piccioli lattanti!
bambinelli che raccolti in quel recinto presso la madre spirata, o staccati dal
petto inanimato eran quivi portati a vivere. Quel nuovo pastore sprimacciava un
letticciuolo di paglia ad un bambino, ne accostava un altro alle mamme; i belati
rispondevano ai vagiti; e alcune di quelle nuove nutrici già avvezze a tali
allievi si avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune
perfino distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo
grido, e si ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle
loro poppe.
Fermo ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a
riposarvi gli occhi affaticati d'orrore. Ma movendosi di quivi vi si trovò
ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione, dalla fatica e dal
digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per riprendere se non altro nuove
forze col riposo, per andare in traccia di cibo. Quando vide lontano per mezzo a
quella varietà di cose e di movimenti un altro capuccino che presso ad una gran
pentola andava riempiendo scodelle, e le portava nelle capanne, o le distribuiva
presso di sè nel campo aperto.
Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di
quel nutrimento, persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque
sano. Camminando sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perché
il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli
oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una
capannuccia, e recarsi in mano una scodella, e mangiare. Era il frate rivolto
con la faccia verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente
credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perché non era
tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto. In quel baleno
sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che
Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella
speranza come una illusione. E pure ad ogni passo la somiglianza diveniva più
forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo.
Era proprio il Padre Cristoforo. Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo
della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di
tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del
tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di
finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella occasione
e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati. Fu
esaudito: il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del resto in quella
confusione, e in quel bisogno di soccorsi, anche un puntiglio avrebbe potuto
essere posposto, o dimenticato.
Fra Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si presentò
al convento, fu mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese. Aveva quivi una
sua capannuccia, e s'era fatto all'intorno come un picciolo distretto, pel quale
girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco, agli appestati che si
succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse veduta rinnovarsi otto
o dieci volte la popolazione di quel suo distretto.
«Padre Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata, a
quaranta passi di distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo che
egli avrebbe tanto desiderato, se non avesse creduto cosa impossibile che un tal
desiderio potesse essere soddisfatto.
«Vengo», rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad
ogni istante, per qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la
scodella, levò la testa, per vedere se qualche altro segno gl'indicasse il canto
donde era venuta la chiamata. Ma vide invece un giovane sano e diritto che
s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la
consolazione e la maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!»
«Tu qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la
morte?»
Mentre il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva
amareggiarsi la consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel
ritrovamento. Il volto del frate era mutato, ben più, e bene in altro modo che
non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla sua vecchiezza,
né le fatiche. Gli occhi già così vivaci erano spenti, le guance scarne,
sparute, tinte d'un pallore cadaverico, la voce aveva un non so che di
crocchiante; e in tutto si vedeva una natura sopraccaricata, e quasi esausta,
sostenuta e alimentata da una costanza interiore. Fermo con la trista pratica
che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon protettore era
colpito dalla peste, sicché invece di rispondere lo richiese ansiosamente: «Ma
ella, padre, come sta ella?»
«Come Dio vuole», rispose il vecchio, «non parliamo di questo. Ma tu, dimmi,
come, perché sei tu in questo luogo? Perché vieni così ad affrontare la peste?»
«L'ho avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio. Vengo a cercare... Lucia».
«Lucia!» sclamò il Padre: «Lucia è qui?»
«È qui», rispose Fermo, «se pure... v'è ancora».
«È ella tua moglie?» domandò il Padre.
«Ah no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive... lo sarà, spero;... ne
son certo... perché no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!»
«Padre Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava quivi
poco distante; e che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la carità di
attendere a questi miei poveretti mentre io me ne sto ritirato un quarto d'ora;
se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi». Il Padre Vittore accettò
l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a Fermo: «Vien qua dentro con me: sii
breve: le faccende son molte, come tu vedi, e il tempo è scarso, misurato... Ma
che? tu sei ben rifinito: hai tu bisogno di cibo?»...
«A dire il vero...», rispose Fermo.
«Piglia di quello che dà il convento», disse il frate con una frase usuale
capuccinesca. E tolta una scodella, la riempì della minestra del pentolone, e la
porse a Fermo: soggiungendo: «Quando la provvigione è finita, Iddio ne manda:
più volte quando ci siam trovati lì lì per rimanere in secco, ci son venute le
carra di roba, senza che sapessimo da chi mandate; né ancora lo sappiamo. Entra,
e mangia questa carità; e avrai anche uova e pane, e un bicchiere di vino: tu ne
hai bisogno, a quel che veggio». Così dicendo raccolse anch'egli la scodella che
conteneva il resto del suo pranzo, ed entrò con Fermo nella capannuccia, e
sedette con lui sul saccone che gli serviva di letto.
Fermo, tra un cucchiajo e l'altro raccontò succintamente la storia di Lucia, o
la parte che gli era nota; come il frate di Monza l'aveva posta in guardia della
Signora, come ella era stata rapita... «Gran Dio!» sclamò a quel punto il padre
Cristoforo: «ed io... io l'ho indirizzata in quel paese! Ma voi sapete ch'io la
toglieva da un pericolo evidente, e credeva di porla a salvamento. Parla», seguì
poi con voce animata, «finisci questa storia dolorosa».
Fermo, in poco più parole che noi non ve ne impieghiamo, proseguì a narrare come
Lucia fu condotta al castello del Conte del Sagrato, come mirabilmente da questo
renduta alla madre, come collocata poi in casa di Don Ferrante. E qui il frate
respirò più liberamente. Fermo narrò pure le sue imprese, non senza vergogna; la
sua fuga, e la sua dimora in Bergamo, la sua risoluzione di venire a sapere che
accadesse di Lucia, il suo viaggio a Lecco, le sue ricerche di quella mattina, e
la notizia ch'egli aveva ricevuta da quella signora alla finestra, che Lucia era
al lazzeretto. «Onde», conchiuse, «vengo a cercarla qui; vengo a vedere s'ella è
viva, se si ricorda di me, se mi vuole ancora...»
«O giovane!» disse il Padre Cristoforo, «e in questi tempi, fra questi oggetti,
tu hai potuto, tu puoi ancora occuparti di tali pensieri?»
«Ma, caro padre mio...» cominciò per rispondere il giovane; e non seppe dir più:
perché sentiva egli bene una grande importanza in quei suoi pensieri; erano per
lui un affare molto serio; ma era impacciato a trovar le parole convenienti per
esprimere una tale idea ad un vecchio capuccino, che era venuto quivi a vivere,
a morire, nel ribrezzo, e nelle fatiche per servire a sconosciuti. Parlar
d'amore, accennarlo pure con circollocuzioni, addurre l'amore come un motivo
importante, come una faccenda, in quel luogo, ad un tal uomo, pareva a Fermo una
vergogna: e in fatti però non avrebbe potuto parlar d'altro, perché l'amore era
il motivo che l'aveva condotto lì. Ma il buon frate lo cavò tosto d'impaccio,
rispondendo per lui. L'interrogazione mista quasi di rimprovero che gli era
uscita, non veniva dal fondo della sua mente: erano di quelle parole volgari,
che precedono la riflessione, e delle quali anche gli uomini avvezzi a
riflettere contraggono l'uso dalla conversazione comune.
«Tu hai ragione», diss'egli a Fermo che esitava: «tu hai ben fatto. Quei che
stanno per morire, debbono pensare alla morte, non altro; ma l'uomo che è nel
vigore della salute e dell'età, l'uomo che può vivere ancora, deve, pensando
alla morte, provvedere alla vita; non per cercare in essa un contento che non
v'è, ma per condurla, secondo l'ordine di Dio, fino alla morte. Tu seguivi
quest'ordine quando cercasti una compagna della vita, una compagna d'affetto, di
occupazioni, di travagli, di consolazioni e di preghiere. Iddio permise che il
mondo vi separasse. Fu ella una prova? o era volere di Dio che voi vi
santificaste divisi, che dopo esservi avviati insieme, giungeste a Lui per
diverse strade? Egli lo sa. Tu intanto ben fai di stare in quel proposito
ragionevole da cui la sola violenza ti aveva allontanato: ben fai di andare in
cerca di quella creatura alla quale tu hai promesso d'essere un compagno e un
appoggio. Ma come sei tu indirizzato a trovar qui Lucia? hai qualche indizio
della parte dov'ella fu riposta, del quando venne?»
«Nulla, caro padre, nulla, se non che ella è stata condotta al lazzeretto».
«Oh poveretto!» disse il padre Cristoforo: «egli è come se ti fosse stato detto
che un anello è caduto nel lago, e tu vi ti attuffassi a caso per ripigliarlo».
«Girerò, cercherò, guarderò», disse Fermo.
«Ascolta», disse il frate; «gli appestati che son guariti in questo luogo (ahi
che picciola parte di quelli che vi sono entrati!) quegli fra loro che ponno
reggersi e camminare, debbono oggi esser condotti al Gentilino, al di là della
città, fuori di porta Ticinese, a fare la quarantena: v'era ben destinata qui
una parte del fabbricato a tale uso; ma il fabbricato e il recinto non bastano
come vedi agli infermi. Questi che debbon partire si vanno ora ragunando intorno
alla Chiesa che è nel mezzo, per moversi di là tutti insieme: jeri sono stati
avvertiti e... sta: odi tu una squilla tra questo doloroso mormorio? è il terzo
tocco della campanella che li chiama. Va dunque colà; osserva tra quella
brigata, se tu vedi colei che tu cerchi; se ella è fra le spighe rimaste in
piedi dopo la messe. Se non ve la scorgi; fa cuore tuttavia, e cammina innanzi
verso questa banda (e accennò a mano manca). Quella banda del fabbricato», seguì
poi, «è stata da principio destinata alle donne. Ora, a dir vero, tutto è
confuso; pure quella poveretta certamente, sarà rimasta al luogo dove l'avranno
collocata; e se v'è ancora speranza di trovarla, è da quella parte. Cercala ivi;
Dio ti conduca: e che che avvenga delle tue ricerche, prima d'uscire da questo
recinto, vieni ancor qui a darmene conto: anch'io vorrei saper s'ella vive!»
Il padre Cristoforo proferì queste parole con una commozione compressa, e presa
la mano di Fermo, che aveva finito di ristorarsi, e s'alzava, lo condusse su la
porta della capanna, e gli segnò più distintamente il lato dove doveva fare le
sue ricerche.
«Vado», disse Fermo; «lo scorrerò tutto, guarderò di stanza in stanza, di
capanna in capanna; se non è quivi, girerò tutto il lazzeretto, e se non la
trovo...»
E a questa sospensione tutto ad un tratto s'oscurò in volto, stravolse gli
sguardi, e mandò un soffio di furore dalle labbra tremanti.
«Se non la trovi?» disse il padre in contegno di gravità, e di aspettazione,
tenendolo forte per mano.
«Se non la trovo, farò di trovare qualche altro. O in Milano, o nel suo
scellerato palazzo, o in capo del mondo o a casa del diavolo, lo troverò quel
furfante, che ci ha separati: quel birbone, che se non fosse stato egli, Lucia
sarebbe mia da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti
insieme, almeno avremmo potuto soccorrerci; essa non sarebbe qui abbandonata, io
non sarei qui mezzo disperato. Lo troverò colui, e se la peste non ha fatto già
una giustizia...»
«E se lo trovi?» disse il padre, con una gravità fatta più severa e quasi
sdegnosa.
«Non è più il tempo», continuò Fermo, sempre più cieco di collera, «non è più il
tempo che un poltrone coi suoi bravi, coi suoi giudici, coi suoi amici
prepotenti faccia tremare: è venuto il tempo che gli uomini s'incontrino da solo
a solo...»
«Sciaurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta
l'antica pienezza e sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul petto s'era
sollevato, le guance si coloravano dell'antica vita e gli occhi mandavano le
antiche faville. «Guarda, sciaurato!» e così dicendo, mentre con una mano
stringeva e scoteva forte la mano di Fermo, girava l'altra distesa in cerchio
dinanzi a sè, verso la scena dolorosa che li circondava. «Guarda chi è Colui che
castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che percote e che perdona!
Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai, tu, quale sia la
giustizia? Va, sciaurato, vattene! Io sperava... sì, ho sperato che, prima di
morire, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera
Lucia fosse viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe
una preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va; tu m'hai tolta la mia
speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo non hai l'ardimento
di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei; poiché ella
era di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va; non ho tempo
di più darti retta».
E, così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso una capanna
d'infermi.
«Ah padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo
modo?»
«Come!» riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di
pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli
loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi disegni di
vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto, chiedevi
consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la carità; ma ora tu hai
la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene; ho veduti morire qui degli
offesi che perdonavano; degli offensori, che avrebber voluto potersi umiliare
dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che posso
fare?... se tu non gli perdoni da vero, e...»
Il suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel
proferirle, pure in mezzo alla severità annunziava una tenerezza pronta a
scoppiare.
«Ah gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così possa io
tornar qui a dirle che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella
capannuccia, e lo fece seder come prima presso di sè. Fermo stava tutto intento
e commosso.
«Sai tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo so», rispose Fermo.
«Tu sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì, ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci», interruppe il frate. «Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione,
io non l'avrei trovata in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso,
e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto dolore, e mi sono accusato: e ho
pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse in questa vita,
che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di quella d'un
uomo; che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere esaudito. Non
creder tu ora dunque di poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in
tempo a perdonare: non ispender vane parole; ascolta piuttosto le mie; v'è
dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa. Sai tu
perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo. Sì, figliuolo,
ciò ch'io chiamava il mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa, come
avrei dovuto amar Dio. E quando la vita d'un uomo... gran Dio! la vita d'uno
fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio onore, io gliel'ho
sagrificata. M'hai tu inteso!»
Fermo tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì». In fatti egli intendeva
qualche cosa di molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni cosa, e non
ammazzare. Ma l'intento di quel discorso non passava nel suo intelletto: l'uomo
che esprime le idee che sono state per lui soggetto d'una lunga e ripetuta
meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente più colta che non fosse il
nostro giovane montanaro.
Il padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo è
ragionevole e buono; la mia era passione non solo d'uomo furioso, ma di ragazzo
stolido; perché che voleva io? che voleva io ad ogni costo? camminar rasente il
muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo savio a
desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina come un
premio ai buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse. Ma il tuo affetto
diventa ingiusto, diventa stolido com'era il mio, se tu non lo sottometti al
volere di Colui che solo può renderlo santo. E un tale amore, bada bene alle mie
parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a seconda, quando tu ottenessi
ciò che più desideri, un tale amore tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti
tornerebbe in amaro: come; io non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in
giù. Or pensa che bel conforto avresti di questo amore, se, perduto ciò che te
lo fa parer tanto dolce, non te ne rimanesse che un odio, nessuna speranza che
d'una vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un
pensiero. Ma il pentirsi del fatto... ah! è ben amaro! E il non pentirsi è
orrendo, orrendo più che non si possa comprendere in questa vita. Fermo! giuri
tu il perdono?»
«Ah! lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A chi giuri tu di perdonare?»
«A quell'uomo...»
«A chi?»
«Sì, padre, a Don Rodrigo».
«Sì, Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione
ad una creatura redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul
libro della vita: perché Dio perdona; guai a te, se non fosse!» Dette queste
parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo tuttavia la mano di Fermo,
poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse dal fondo un pezzo di pane
arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e disse:
«Vedi tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di
quello sventurato... l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono.
Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue mani! Prendi», - e porse il pane a
Fermo - «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia memoria. E
se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale pare che Egli
ti avesse chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi figli, conta
loro la mia trista storia, di' loro che preghino pel povero capuccino, che morì
pentito. Saranno provocati, saranno offesi; di' loro che perdonino sempre,
sempre, tutto, tutto. Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni che noi
veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno peggiori: i figli dei
provocatori, dei superbi, dei violenti, lo saranno più dei padri loro. Gran Dio!
questo flagello non corregge il mondo: è una grandine che percuote una vigna già
maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son più tristi, più
agresti, più guasti di prima. Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove l'uomo non
dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol dire, padre, ch'io la troverò?» richiese Fermo ansiosamente, come se
parlasse ad uomo che ne potesse saper più di lui.
«Cercala con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con
rassegnazione. Iddio può fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso. Ti ha
promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu perdoni a chi t'ha offeso, ti ha
promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu osservi la
sua legge. Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni
a darmene contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla
faccia elevata in atto di preghiera e di benedizione. Poi staccandosi, disse;
«Intanto io pregherò per voi; assistendo a questi vostri fratelli, io pregherò
per voi». Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento con le mani compresse
al volto piangendo, e pregando; s'alzò, guardò intorno, uscì dalla capanna, e si
diresse alla Chiesa, come gli aveva indicato il capuccino. Egli era scomparso, e
andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza.