|
|||
Home | Galleria Manzoni | ||
Romanzo | |||
Immagini per Capitolo | |||
Manzoni il ruolo dell'eroe | Manzoni la donna e l'amore | Manzoni la poetica |
Fermo e Lucia
Tomo 3
CAPITOLO 9
Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia.
Don Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia illustre che pur
troppo terminava in lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre
statura, e tendeva un pochetto al pingue, portava un cappello ornato di molte
ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano penzoloni e d'altre
non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due folti
sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per
sè, e che si enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano mandando
un soffio prolungato, come se avesse da raffreddare una minestra: sotto la
faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di merletti finissimi di Fiandra
lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di... sfilacciata qua e
là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico di argento mirabilmente
cesellato, e col fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due manichini della
stessa materia, e nello stesso stato della gorgiera uscivano dalle maniche
strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava talvolta, nell'una
delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell'anello passava anche una gran
parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo; e in quegli intervalli, Don
Valeriano gestiva alquanto meno del solito.
Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del suo
carattere e delle sue circostanze. Don Valeriano portato al fasto e alla
trascuraggine era anche ricco e povero. Già da molto tempo aveva egli divorato a
furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di negligenza e d'imperizia il suo
patrimonio libero; e sarebbe egli rimasto povero del tutto e per sempre, se un
suo sapiente antenato non avesse anticipatamente provveduto a quel caso,
istituendo un pingue fedecommesso. Don Valeriano quindi, benché nell'animo non
fosse molto dissimile dal selvaggio di Montesquieu, non poteva, com'egli,
abbatter l'albero per coglierne il frutto: e non poteva far altro che lanciar
pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato. Viveva di prestiti: e per
trovarne doveva ricorrere ai più spietati usuraj; e subire le più rigide leggi
che essi sapessero inventare, e per supplire alla legge comune che non dava loro
alcun mezzo di ricuperare il prestato, e per pagarsi del rischio. E siccome
nelle idee di Don Valeriano le pompe e il fasto tenevano il primo luogo, così
alle pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano le sue mani;
e il necessario pativa.
In mezzo a queste cure incessanti Don Valeriano non aveva lasciato di coltivare
il suo ingegno, e senza essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno
degli uomini colti del suo tempo. Possedeva una libreria di varie materie, la
quale per poco non aggiungeva ai cento volumi; e aveva impiegato su quelli
abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle scienze più
importanti e più in voga: teneva i principj, e quindi non era mai impacciato
nelle applicazioni. L'astrologia era uno di quei rami dell'umano sapere, nei
quali Don Valeriano era versato.
Sapeva non solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze
che hanno in ciascuna i diversi pianeti: ma conosceva anche in parte la storia
della scienza, la quale è parte della scienza stessa: ne conosceva i
cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e ci doveva nascere:
giacché essendo il cielo un gran libro, e il cielo dell'Assiria molto sereno, è
naturale che ivi si cominci a leggere, dove i libri sono più chiari e
intelligibili; sapeva a memoria un buon numero delle più stupende e clamorose
predizioni che si sono avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli argomenti
principali che servivano a difendere la scienza contra i dubbj e le obiezioni
dei cervelli balzani degli uomini superficiali e presuntuosi che ne parlavano
con poco rispetto; perché anche a quel tempo v'era degli uomini così fatti.
Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre, acquistata non già con
la rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell'ingegno, e per conoscere
le arti così dannose dei maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte
della guerra che tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del
genere umano. Il suo maestro e il suo autore era quel gran Martino del Rio il
quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la materia a fondo, aveva
sciolti tutti i dubbj, e stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero
la norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio
che con le sue dotte fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e
che ha saputo col vigore dei suoi ragionamenti dominare tanto sulla opinione
publica, che il metter dubbio su la esistenza delle streghe era diventato un
indizio di stregheria. A un bisogno Don Valeriano sapeva parlare ordinatamente e
anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del
maleficio sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i segreti dei
congressi delle streghe, come se vi avesse assistito. Aveva più che una tintura
della storia in grande, per aver letta più d'una volta quella eccellente storia
universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente quella del tempo dei
paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia. Per la politica positiva
aveva egli principalmente rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva
assai bene la politica di Spagna, di Francia, dell'Impero, dei Veneziani e di
tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una occhiatina anche nel
Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato per gran tempo il
Segretario Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo posto nel concetto
di Don Valeriano e cedere il primo a quel gran Valeriano Castiglione che in
quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera dello Statista Regnante
dove tutti gli arcani i più profondi, e i più reconditi precetti della ragione
di stato sono trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna confessare che
il nostro Don Valeriano prevenne il giudizio del mondo sul merito del
Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo onorò delle sue lodi, Luigi XIII per
consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia per esservi
Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli affidò lo stesso ufizio, il Card.
Borghese e Pietro Toledo vicerè di Napoli, lo pregarono, invano però, di
scrivere storie, e fu finalmente proclamato il primo Scrittore dei suoi tempi.
Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non
teneva nella sua biblioteca, né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché
come abbiam detto Don Valeriano non era un professore, ma un uomo colto
semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le più degne di
osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e
delle sirene, e dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave
nell'alto, che l'unica fenice rinasce dalle sue ceneri, che la salamandra è
incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio lentamente indurato.
Ma la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era la
scienza cavalleresca, e bisognava sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni,
di paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea, l'Albergato, il Muzio, la
Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e quello
della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i Discorsi
cavallereschi di Francesco Birago erano forse i libri più logori della sua
biblioteca. Anzi Don Valeriano affermava, o faceva intendere spesso che quel
grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più rematici; e
parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione che meritavano, e che
per verità ottenevano da tutti, Don Valeriano aggiungeva misteriosamente:
«Basta: ho messo anch'io un zampino in quei libri».
Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don Ferrante, che
non ne restasse qualche parte anche alle lettere amene: e senza contare il
Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini colti di quel tempo, egli aveva
pressoché tutto a memoria, non gli erano ignoti né il Marino, né il Ciampoli, né
il Cesarini, né il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio particolare di
quel libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale,
diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino alla protesta sulle parole Fato, Sorte,
Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto. Aveva poi un
tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso grand'uomo; e
su quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per
qualche negozio, o per isciogliere qualche ingegnoso quesito che gli veniva
proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante erano ricercate con qualche
avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei concetti e
delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la
questione, e di guardare le cose; stavano però male di grammatica e di
ortografia. Vi sarebbero molte altre cose da dire, chi volesse compire il
ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità, ce ne passeremo,
tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia. Veniamo dunque
alla sua signora Consorte. Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era
molto al di sotto di suo marito. Il suo ingegno a dir vero non era niente
straordinario, ed essa non si era mai data una gran briga di coltivarlo, almeno
sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così Donna
Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si dovrebbe fare
cogli amici.
Ne aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in esse
interamente, e non le avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche
avuto, com'era giusto, una gran voglia di farle predominare in casa; e pare che
il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire a maraviglia a
questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo. La più parte delle
idee in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione senza danari: ora Don
Ferrante poco o nulla curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto
sempre presso di sè il ministero delle finanze; e a dir vero gli affari ne erano
tanto complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe potuto intendervi
qualche cosa.
Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo
spirare d'ogni termine dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte
minacce di svergognare il marito in faccia ai parenti, veniva essa a capo di
riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta l'eloquenza,
tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare
un danajo dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero,
erano impegnate a pagar debiti urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio
fastoso di Don Ferrante. Non rimaneva dunque a Donna Prassede altro dominio che
su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le persone addette
specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava fare;
poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non portasse
una spesa, o che non fossero in opposizione alle abitudini e alle volontà
risolute di Don Ferrante. La sua gran voglia di comandare, ristretta in questo
picciol campo vi si esercitava con una energia singolare. Donna Prassede
profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che
dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe lasciato deviar
nessuno d'un punto dalla via retta. Perché, a dire il vero, questa smania di
dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata; era puro desiderio del
bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo discerneva istantaneamente in
qualunque alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse affacciata
da esaminare: e quando una volta aveva veduto e detto che quello era il bene,
non era possibile ch'ella cangiasse di parere; e per farlo riuscire predicava ed
operava fintanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa fosse divenuta
impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare per convincere tutti che
avrebbe dovuto riuscire.
Sotto due padroni così diversi di inclinazioni e di occupazioni, la famiglia era
come divisa in due classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva nella
famiglia stessa un capo; le due persone cioè che erano più innanzi nella
confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero il maggiordomo di casa, e il
favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto e composto, dotto a
tutto fare e a tutto soffrire, abile a trattare gli affari, e a parlarne senza
mai proferire le parole che potevano far sentire gl'impicci, o offendere la
dignità del padrone, sapeva suggerir a proposito un invito da fare onore alla
casa, trovare un cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una rata di
pagamento stava per entrare nella cassa di Don Ferrante, e sapeva trovare un
prestatore ogni volta che la cassa era asciutta.
L'antesignano dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede era
nominata molto variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla padrona
era chiamata Ghita, dalle donne inferiori a lei, e dai paggi di Donna Prassede
Signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante quando parlavano fra di loro
non era mai menzionata altrimenti che la Signora Chitarra. Pretendevano costoro
che il suo collo lungo, la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la
vita serrata dal busto, e le anche allargate la facessero somigliare alla forma
di quello strumento: e che la sua voce acuta, scordata, e saltellante imitasse
appunto il suono, che esso dà quando è strimpellato da una mano inesperta.
Esercitava essa sotto gli ordini immediati della padrona la più severa vigilanza
sulle persone che dipendevano da questa, ed era ministra di tutto il bene
ch'ella poteva fare in casa e fuori. Ma quanto alla gente di Don Ferrante, essa
non poteva fare altro che notare tutte le azioni disordinate che essi
commettevano, disapprovare con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e
riferire poi il tutto alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che
gemere con lei. Prospero com'è naturale era l'oggetto principale di avversione
per Donna Prassede, ma inviolabile com'egli era, se ne burlava in cuore; non
lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi della
padrona, che rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla Signora Chitarra.
Benché questi due capi col loro predominio fossero passabilmente incomodi ognuno
alla parte della famiglia che dirigeva, pure l'una parte e l'altra aveva sposate
le passioni e le animosità del suo capo; l'una faceva crocchio a mormorare
dell'altra; quando si trovavano in presenza, si scambiavano visacci, e talvolta
parolacce, cercavano scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a
vicenda nella esecuzione degli ordini ricevuti. Don Ferrante però aveva appena
qualche sentore di questa guerra sorda, perché egli non osservava molto, e
Prospero non si curava di parlargli di malinconie e le querele della moglie, le
attribuiva Don Ferrante ad inquietudine di carattere, a giuoco di fantasia, come
le domande di quattrini.
Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede, la quale
certamente non intendeva di lasciare questa autorità in ozio. Si proponeva ella
a dir vero di farsi ben servire da Lucia nella parte che le aveva assegnata; ma
oltre questo fine, che era semplicemente di giustizia, Donna Prassede ne aveva
un altro di carità disinteressata a suo modo, che le stava a cuore ancor più del
primo, ed era di far del bene a Lucia, o di Lucia, la quale le pareva averne
gran bisogno. Perché tutto ciò che Donna Prassede nella sua villeggiatura aveva
udito, per la voce pubblica, della innocenza di quella giovane, le affermazioni
magnifiche ed energiche di Agnese quando era venuta a proporle la figlia, il
volto, il contegno modesto, la condotta stessa così irreprensibile di Lucia non
bastavano a produrre un pieno convincimento nella mente di Donna Prassede; e non
poteva essa persuadersi che una giovane contadina avesse levato tanto romore di
sè, fosse passata per tanti accidenti, senza averne cercato nessuno, senza
essersi gittata un po' all'acqua, come si dice, senza essere almeno una testa
leggiera.
Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far del bene bisogna
pensar male: la sua voglia di dominare, di operare su gli altri, che anche ai
suoi occhi proprj prendeva la maschera di carità disinteressata, era come il
ciarlatano, che non dice mai a chi viene a consultarlo: «voi state bene»; perché
allora a che servirebbe l'orvietano? Oltracciò, l'aver ricoverata, sottratta al
pericolo d'una infame persecuzione una povera giovane era un'opera certamente
non senza gloria; però in questo Donna Prassede non era più che uno stromento
quasi passivo, e la parte che le era toccata non domandava altro che un po' di
buona volontà, senza efficacia di azione, e senza esercizio di senno, era più un
assenso che una impresa. Ma dopo aver ricoverata la povera giovane, emendare
anche il suo cervello un po' balzano, rimetterla sulla buona strada, questo
sarebbe stato non solo compire, ma rassettare l'opera del Cardinale Federigo; il
quale era a dir vero un degno prelato, un uomo del Signore, dotto anche sui
libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di persone, non ne
aveva molto: questa insomma sarebbe stata gloria; e perché Donna Prassede
potesse ottenerla, era necessario che Lucia avesse il cervello un po' balzano, e
avesse fatto almeno qualche passo su una cattiva strada. Per averne qualche
prova positiva, Donna Prassede richiese qua e là informazioni intorno a quel
Fermo a cui Lucia era stata promessa, e sulle avventure, sulla fuga del quale
Donna Prassede aveva intese in villa voci confuse, discordi, ma tutte poco
buone. Le informazioni furono quali dovevano essere: che quel giovane era un
facinoroso, venuto a Milano per metterlo sossopra, per fare il capopopolo,
ch'era stato nelle mani dei birri, a un pelo dalla forca; e se ora respirava
tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere alla
giustizia, e alla celerità delle sue gambe. Questa notizia confermò il giudizio
di Donna Prassede, e le diede materia per le sue operazioni. Dimmi con chi
tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti i proverbj, non solo è
infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere infallibile l'applicazione che ne
fa chi lo cita. Lucia aveva dunque infallibilmente, non già tutti i vizj, che
sarebbe stato dir troppo, ma una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il
giudizio di Donna Prassede. E il bene da farsi era non solo d'impedire che Lucia
ricadesse mai nelle mani di Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma
corrispondenza; bisognava andare alla radice, al più difficile, guarire Lucia,
farle far giudizio, togliere da quel cervellino l'attacco per colui; attacco che
a dir vero era il solo vizio essenziale di Lucia. Questa allora sarebbe divenuta
al tutto una buona creatura; e chi avrebbe avuto tutto il merito dell'impresa?
Donna Prassede.
La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza esteriore
sopra Lucia era particolarmente affidata alle cure di Ghita. Doveva essa tenerle
sempre gli occhi addosso, accompagnarla alla Chiesa, spiare s'ella parlava a
qualcheduno, se qualcheduno le faceva un cenno, osservare attentamente che
qualche messo nascosto non le si accostasse. Compresa e piena dell'uficio che le
era imposto, Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati, e sospettosi;
e siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi, così la
guardiana si trovava spesso nel caso di fare il viso dell'arme ai guardatori, o
almeno di far loro intendere ch'ella vegliava, e che la loro mina era sventata:
e quando s'avvedeva che la sua aria di sospetto e di minaccia femminile, invece
di stornare i tentativi, avrebbe provocata l'insolenza, pericolo comunissimo a
quei tempi, allora accelerava il passo, e lo faceva accelerare a Lucia. In
Chiesa poi, se uno di quegli che si trovavano sui banchi vicini aveva guardato
attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita, continuando a mormorare le sue
orazioni, non pensava più che a guardare il suo deposito. Aveva inoltre
l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere scoperta, nelle tasche di
Lucia, per vedere se mai ella ricevesse qualche lettera. Questa precauzione
avrebbe potuto sembrare inutile, giacché, (e qui dobbiamo apertamente confessare
una cosa che finora si è appena indicata e lasciata indovinare) la nostra eroina
non sapeva leggere: ma Ghita pensava che le precauzioni non sono mai troppe.
Quello poi che in questo procedere vi poteva essere d'indelicato, non riteneva
Ghita per nulla; essa non vi sospettava nemmeno nulla di simile; non conosceva
né la parola né l'idea; anzi la parola in questo senso non esiste neppure ai
nostri giorni nella lingua pura, e noi adoperandola sappiamo d'essere incorsi in
un brutto neologismo. Finalmente, doveva Ghita cercare di scovare nei discorsi
di Lucia se mai ella avesse qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita,
farla ciarlare artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a
Ghita qualche sospetto.
Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di operazioni, tutto
questo lavorare sott'acqua non dava quasi nessun incomodo a Lucia; o per dir
meglio ella non se ne avvedeva; e benché non potesse a meno di non sentire
qualche cosa di minuto e di pettegolo nella sollecitudine continua di Ghita,
pure lo attribuiva alla indole di lei, e non mai a un disegno profondo, e
comandato. I pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo
principale della sua vita, la portavano alla ritiratezza, ad astenersi da ogni
comunicazione; e quindi ella non era avvertita dolorosamente di ciò che altri
facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva naturalmente. In altri
tempi quella situazione così nuova, così opposta alle sue abitudini, così
lontana dalle sue affezioni, le sarebbe stata penosissima, ma la facilità
ch'ella vi trovava di ottenere quel suo scopo faceva ch'ella vi stesse con
rassegnazione, e quasi vi riposasse se non con piacere, almeno col desiderio di
farsela piacere. E il suo scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato:
scordarsi di Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee
nella casa dove era stata allogata, di ristringerle alle sue occupazioni, si
metteva con grande intensione a tutte le cose che le erano comandate, si
rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri che occupassero
tutta la sua giornata, che non le dessero agio di correre con la mente a
desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi nelle memorie d'un passato irreparabile.
Le memorie tornavano però sovente a tormentarla; l'immagine della madre era,
sempre la prima a presentarsi; e mentre Lucia si fermava a contemplarla con
sicurezza, con una mesta affezione, l'immagine di Fermo che le stava dietro
nascosta, si mostrava. Lucia voleva rispingerla tosto; ma l'immagine che non
voleva andarsene aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso, per obbligare
Lucia a trattenerla almeno un momento: le ricordava in aria trista e non senza
rimprovero i pericoli che Fermo aveva corsi, e quelli che forse gli soprastavano
ancora, le rimostrava che quando anche un nuovo dovere può far rinunziare ad un
affetto, già così lecito, già così caro, non deve, non vuol però togliere la
pietà, la sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia combatteva, rivolgeva la
mente ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte la
richiamavano. I luoghi, le persone: Don Abbondio avrebbe dovuto pronunziare
quelle parole, per cui ella sarebbe stata di Fermo: i consigli, le cure, del
Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per Fermo: fino il monastero di
Monza, fino il Castello del Conte, fino il cardinale Federigo, tutto si legava a
Fermo, e molte volte Lucia ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si
era immaginata di raccontar tutto a Fermo. Con tutto ciò, ella combatteva, e la
guerra sarebbe stata, se non sempre vinta, pure meno aspra e meno dolorosa;
Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo almeno andargli sempre da presso,
se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna Prassede.
La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva trovato mezzo
migliore che di parlargliene spesso. La faceva chiamare a sè, e seduta sur una
gran seggiola con le mani posate e distese sui bracciuoli di qua e di là dei
quali pendevano le maniche della zimarra di dammasco rabescato a fiori, che era
stato l'abito di moda nei bei giorni di Donna Prassede, nel tempo in cui v'era
buona fede e semplicità, in cui tutti, fino i giovani, erano savj ed onesti, col
volto imprigionato tra un cappuccio di taffetà nero che copriva la fronte, e una
enorme lattuga che girava intorno alla gola e sul mento, Donna Prassede
ricominciava la sua predica per provare a Lucia ch'ella non doveva più pensare a
colui. La povera Lucia protestava da principio con voce angosciosa, e timida,
ch'ella non pensava a nessuno. Donna Prassede non voleva mai stare a questa
ragione, e ne aveva molte da opporre: «So come vanno le cose», diceva ella,
«conosco il mondo: so come son fatte le giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il
più accetto. Fate che per qualche accidente non possano sposare un galantuomo,
un uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo: non se lo
possono cavar dal cuore. Eh figlia mia, non basta dire: - non penso a nessuno -:
vogliono esser fatti, fatti e non parole». Così seguendo una sua idea, che è
anche quella di molti altri, che per far passare in una testa ripugnante i
proprj sentimenti, bisogna esprimerli con molta efficacia, adoperare i termini i
più forti ed anche esagerati, Donna Prassede non risparmiava i titoli al povero
assente, lo nominava come un oggetto d'orrore, di schifo, faceva sentire che
sarebbe stata cosa inconcepibile, mostruosa, che alcuno potesse avere
interessamento, e peggio inclinazione per colui.
Così ella otteneva appunto l'intento opposto a quello ch'ella si proponeva.
Lucia cercava di dimenticar Fermo; ma quando una parola sgraziata, e nemica
glielo voleva a forza rimettere nella mente in un aspetto odioso e spregevole,
allora tutte le antiche memorie si risvegliavano ed accorrevano per rispingere
una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era stata avvezza
a compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo era proferito faceva
ricordare a Lucia la condotta, il contegno, il buon nome di Fermo, tutte le
ragioni per cui ella lo aveva stimato; l'odio faceva risorgere più risoluto
l'interesse; l'idea confusa dei pericoli ch'egli aveva corsi, anche dei falli
ch'egli poteva aver forse commessi, pericoli e falli che Donna Prassede
rinfacciava a Lucia con eguale amarezza come un egual motivo di avversione,
suscitavano più viva e più profonda la pietà, e da tutti questi sentimenti
rinasceva quell'amore, che Lucia si studiava tanto di estinguere. L'amore,
acconsentito o combattuto, che sia, dà a tutti i discorsi una forza e un vigore
suo proprio. Lucia diventava coraggiosa, e giustificava Fermo: e Donna Prassede
approfittava di quelle parole come d'una confessione per provare a Lucia che non
era vero ch'ella non pensasse più a lui. E con questa prova in mano lavorava
sempre più animosamente sull'animo di Lucia, facendole vedere chi era colui
ch'ella ardiva pure di difendere. E che doveva ringraziare il cielo che la cosa
fosse finita a quel modo, altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù.
Buon per lui che le gambe lo avevano servito bene, altrimenti, avrebbe fatto una
bella figura, avrebbe tenuta compagnia a quei quattro altri galantuomini...
Quando la grossolana signora toccava tasti d'un suono così orribile, la povera
Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra il grembiale,
portarlo al volto per nasconderlo, e per ricevere le lagrime che le sgorgavano
dirottamente.
Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare vendetta di
qualche affronto crudele, l'aspetto del dolore che producevano le sue parole
gliele avrebbe forse fatte morire in bocca o cangiare in parole più dolci; ma
Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava smuovere: a quel modo
che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme d'un
nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte le amare
parole ch'ella credeva necessarie pel bene di lei, Donna Prassede, che non era
trista in fondo, la rimandava con qualche parola di conforto e di lode, e
rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il cuore di quella
giovane. Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un magnano. La povera
Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però caldamente che queste prove
d'interessamento le fossero risparmiate.
Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra Lucia, che
sarebbe stato il compimento dell'opera. Silietta si compiaceva molto nella
compagnia di quella giovane che era la sola in casa che le desse retta, e la
lasciasse parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto un gran
benefizio a Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la
vocazione di andar conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca.
Quivi Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di
Donna Prassede sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia sarebbe
divenuta un monumento parlante della sapiente benevolenza della sua padrona. Non
ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con quell'arte sopraffina che
possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere spontaneamente nel cuore
di Lucia questo desiderio.
A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più chiare; e
Lucia, cominciava a comprenderle, ma però senza che le cominciasse la voglia di
acconsentirvi. V'era nulladimeno per essa un gran vantaggio, che Donna Prassede
cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel primo, più doloroso argomento,
tanto più doloroso, perché Lucia non aveva con chi esilararsi della tristezza
angosciosa che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a
casa sua, dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di Donna
Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime,
coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di rivederla, ma andar fino
a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di
comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria
errante; e Agnese si rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai
nostri giorni farebbe una madre della condizione di Agnese, che avesse una
figlia collocata in Inghilterra.
La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con
Fermo. Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure,
sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo.
Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico, faceva
scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non conoscevano
l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare le lettere, e
incaricava pure altri della risposta. Chi ha avuto occasione di veder mai
carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui che fa
scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte
frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento,
parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta,
se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le
sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva
afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due
filosofi trascendentali. Il peggio è quando la situazione della quale si vuol
render conto è complicata, e i disegni e le proposte che si voglion fare, sono
contingenti e condizionate. Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di
stabilirsi a Bergamo, di viver quivi della sua professione, e di farsi con
quella anche un po' di scorta, di preparare un buon letto a Lucia, e che allora
essa venisse a Bergamo con la madre ed ivi si concludessero le nozze. Ma i tempi
non erano propizii: l'amore, che dipinge le cose facili, bastava bensì a
persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma
non poteva nascondergli che per allora era ineseguibile.
Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio di
speranze fondate anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e di no
nel presente. Agnese ricevette la lettera dopo il ritorno da Monza, intese e
fece rispondere come potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito, che la voce ne
giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione. Pure
ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se Lucia fosse rimasta nel
suo paese, Fermo certamente non si sarebbe tenuto dall'andarvi: di nascosto, di
notte, travestito, per balze, per greppi, come che fosse, vi sarebbe andato. Ma
egli seppe anche che Lucia era partita per Milano; e in tale circostanza non
solo il pericolo diventava per Fermo incomparabilmente maggiore, ma il tentativo
incomparabilmente più difficile, e l'evento quasi disperato. Dovette egli dunque
contentarsi di chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona donna trovò il mezzo di
fargli avere per mezzo d'un mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati
a lui, ed una lettera, nella quale v'era l'intenzione di metterlo al fatto di
tutto l'accaduto. Ma questa lettera non isgombrò le inquietudini, e le ansietà
di Fermo; anzi i cento scudi le accrebbero: - giacché -, pensava egli, - ora che
Lucia per una ventura inaspettata possiede tanto che basta perché noi possiamo
viver qui marito e moglie, perché non viene ella, e mi manda invece questi
denari, come un dono, come una elemosina, come... (e qui Fermo si sentiva
scoppiare)... come un congedo? Voglio io denari da lei? E se ella non è mia,
pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? - Per quanto Agnese avesse
cercato di fargli scriver chiaro che Lucia dallo spavento in poi si trovava
quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla vista di quei denari, e dati a quel
modo, era assalito da mille dubbi torbidi e strani. Le lettere che egli faceva
scrivere a Lucia, cadevano tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non
le consegnava a cui erano indiritte, ma pel meglio, le leggeva, e si regolava su
le notizie che ne ricavava. Fermo sempre più inquieto chiedeva ad Agnese la
spiegazione di quei dubbii e del silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese avesse
saputo scrivere non avrebbe potuto soddisfare il poveretto, perché la cagione
del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva bene il contegno di Lucia
con Fermo. La spiegazione di tutto era nel voto fatto da Lucia, e che essa non
aveva confidato né meno alla madre. La corrispondenza andava sempre più
imbrogliandosi fin che essa fu interrotta dagli avvenimenti che racconteremo nel
volume seguente.