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Fermo e Lucia
Tomo 3
CAPITOLO 8
A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di Giustizia.
Entrò, salì, fu introdotto e fece ad un ufiziale, la sua relazione, come era
capitato all'osteria uno che non aveva voluto dare il suo nome, e come egli oste
dopo d'averlo ammonito di obbedire alle gride, dovette tacere per non far
nascere uno scandalo.
«Lo sapevamo», rispose l'ufiziale, con aria di importanza e di mistero: «ma voi
avete ben fatto di compiere il vostro dovere. Ora badate a non lasciarlo partire
costui».
«Col dovuto rispetto a Vossignoria», rispose l'oste, il quale con tutta la sua
prudenza, non aveva potuto a meno di non prendere un po' di quegli spiriti
arditi di che era piena l'aria in quel giorno, «col dovuto rispetto, io faccio
l'oste e non il birro: ho fatto il mio dovere: a lor signori tocca ora».
«Va bene, va bene», rispose l'ufiziale, il quale con tutta la sua arroganza non
aveva potuto a meno di non tremare un po' in tutta quella giornata, e non sapeva
ancora bene a che punto le cose si fossero. L'oste ne andò pei fatti suoi.
La prima informazione, come il lettore se n'è addato certamente, era venuta da
quella falsa guida, la quale, per darne piena contezza, non era niente meno che
un bargello travestito, in traccia d'uno che gli desse una occasione di farsi
onore e merito, eseguendo gli ordini assai difficili che gli erano imposti: e
quest'uno fu il nostro povero Fermo.
Nel momento in cui la sommossa era al maggior grado di fermento e l'assedio
posto alla Casa del Vicario, molti magistrati, scapolando furtivamente per
vicoli, e per vie deserte s'erano riuniti nelle sale del consiglio segreto, e
quivi avevano consultato non senza tremore sulla urgenza del caso. I pareri
erano varj, proposti con esitanza, e abbandonati facilmente, e non si
conchiudeva, ma quando sul declinar del giorno venne la relazione, che il
Vicario era in salvo, che la folla cominciava a dissiparsi, un vecchio
machiavellista del consiglio segreto: «ah!» disse, «signori miei: ora il partito
è chiaro: centomila pani, e quattro capestri». Tutto quello che fu detto da poi
non fu che un commento a queste parole, e deliberazione sul modo di condurle ad
effetto. Si ordinò che fossero mandate guardie ai forni rimasti intatti fin
allora, per assicurarli, e per obbligare i fornaj a far pane in abbondanza per
l'indomani. Furono destinate persone autorevoli, e accette al popolo, le quali
di buon mattino assistessero ai forni in uno colle guardie, e aggiungendo la
persuasione alla forza, cercassero di regolare la distribuzione del pane, e
mantenessero la tranquillità: il prezzo del pane fu riabbassato a quella prima
tassa immaginata dal Ferrer. Si mandarono soldati a sgombrare la via dov'era la
casa del Vicario, dai pochi che v'erano rimasti: e la via fu quindi sbarrata, e
i soldati vi si posero a stazione, per togliere alla sedizione il campo dov'ella
aveva già ottenuta una vittoria, e dove probabilmente ella si sarebbe presentata
di nuovo per ricominciare la battaglia. Finalmente furono spediti attorno tutti
i membri di quella che il popolo chiamava onorata famiglia con l'ordine di
metter le mani su qualcheduno dei capi, o dei più turbolenti, ma però in modo
che il colpo fosse sicuro, e non potesse dare occasione ad un nuovo
ribollimento.
L'ordine era più facile da darsi che da eseguirsi: e per non parlare che di ciò
che si lega alla nostra storia, quel falso Ambrogio aveva girato lungo tempo qua
e là, su e giù, sempre in mezzo alle occasioni, senza poterne cogliere una,
vedendo i rei a centinaja, senza poterne fare un prigione, e si rodeva come un
cacciatore che viaggiando vegga levarsi a destra e a sinistra, dalle macchie,
tordi, starne, e pernici, e non abbia lo schioppo con sè; quando gli capitò
nelle ugne il povero Fermo, e vi rimase, come abbiamo veduto. Il bargello
malandrino andò tosto a riferire, come aveva colto in flagranti uno che
predicava, come l'aveva condotto all'osteria, come quegli aveva negato
obbedienza alla grida, ricusando di dare il nome, come poi egli uomo benemerito
glielo aveva cavato di bocca, e come finalmente la bestia era nel covo, e non si
trattava che di andarla a prendere. Il Capitano di giustizia, avrebbe voluto che
fosse presa subito subito senza tardare: - ma -, pensava egli, mettendo di
tratto in tratto la mano sulla sua bernoccola: - bisogna prima assicurarsi che
tutte le cose sieno quiete. - All'aurora tutto era disposto in modo che non si
credeva più che la forza potesse trovare ostacoli, e allora fu spedito il
bargello con un notajo e due birri all'osteria della luna piena. Saliti alla
stanza di Fermo, che dormiva, il bargello lo riconobbe, disse al notajo: «è
l'uomo», e partì. Fermo russava già da sette ore, e non avrebbe finito così
presto, se una mano che gli scoteva la spalla, e una voce che gridava: «Fermo
Spolino», non lo avesse fatto risentire.
Aperse gli occhj a stento, e guatò: era giorno fatto e la luce che entrava per
le impannate fece vedere a Fermo un uomo ravvolto in una cappa nera stargli al
capezzale da un lato, e due in farsetto armati, l'uno dall'altro lato del
capezzale, e l'altro a piedi del letto. Mentre Fermo andava raccapezzando le sue
idee, e cercando di ricordarsi delle circostanze che gli pareva di dover sapere,
per potere comprendere quelle che gli erano affatto nuove e strane, s'udì dire
dall'uomo della cappa nera: «alto, su, Fermo Spolino, alzatevi e venite con
noi».
«Che vuol dir questo?» disse Fermo quando potè aver la favella, e nello stesso
tempo dubitando che fosse un sogno, scuoteva la testa e dimenava tutte le membra
per destarsi affatto.
«Ah! avete inteso una volta, Fermo Spolino?», disse l'uomo dalla cappa nera,
«alzatevi, e venite con noi, che non abbiam tempo da perdere».
«Fermo Spolino!» disse Fermo Spolino. «Chi v'ha detto il mio nome?» - Che sia
uno stregone costui vestito di nero? - mormorò tra sè; «Ehi! l'oste, l'oste!»
gridò quindi a quanto fiato aveva in corpo.
«Meno ciarle, e su!» disse uno di quei birri.
«Che prepotenza è questa?» disse Fermo, «ah! adesso mi ricordo... badate bene a
quello che fate: non è più come una volta...»
«Badate voi, a far presto», disse il notajo, «se non volete esser portato via in
camicia».
«E perché mò?» disse Fermo.
«Il perché lo direte al Signor Capitano di giustizia».
«Io sono un buon figliuolo, non ho fatto niente...»
«Tanto meglio per voi; così dopo due parole vi lasceranno andare pei fatti
vostri».
«Mi lascino andare adesso, subito», disse Fermo, «io non ho nulla che fare con
la giustizia».
«Lo portiamo via?» disse uno di quei birri al notajo.
«Fermo Spolino!...» disse il notajo con aria di consiglio minaccioso.
«Come sa Lei il mio nome?» disse Fermo.
«Se non fate presto...»
«Voglio sapere perché vengono a fare questa sorpresa a un galantuomo. Che cosa
ho fatto? parlino: io son uomo che intende la ragione, e darò conto di tutto».
Ma i birri fattisi bruscamente vicini a Fermo stavano per porgli le mani
addosso, quando egli gridò: «non toccate la carne d'un galantuomo, che...»
«Dunque alzatevi subito», disse il notajo.
«Ebbene mi alzerò», disse Fermo; «ma io non voglio andare dal Capitano di
giustizia. Io non ho che fare con lui. Voglio esser condotto da Ferrer; quello
lo conosco, e saprò fare intendere le mie ragioni».
«Presto, vestitevi, venite con noi, e direte tutta la vostra ragione a vostro
bell'agio».
Fermo, vedendo che la resistenza era inutile, tolse sul letto i suoi panni, e
cominciò a vestirsi, cercando intanto di scoprire la cagione di un avvenimento
così nojoso e così inaspettato: ma la sua mente ravvolgendosi per cercarla fra
le memorie della sera antecedente, si confondeva, come un padre che s'aggiri in
una folta mascherata, per riconoscere un suo ragazzaccio. Poco a poco però
cominciò egli a ricordarsi della grida, del nome, e del negozio, delle istanze
dell'oste, e dei suoi rifiuti; ma come diavolo, l'uomo nero sapeva egli
appuntino quel nome e cognome che Fermo non aveva mai voluto pronunziare? E poi,
come erano cangiate le cose a segno, che colui il quale doveva in quella
giornata fare il legislatore, la cominciasse coi birri al fianco per andare in
prigione? - Qualche mistero ci dev'essere, - disse Fermo tra sè: - e intanto se
potessi con un po' di buona grazia uscire dalle mani di costoro, sarebbe meglio.
- Con questa intenzione volgendosi al notajo con un volto tra il gioviale e il
furbo, gli disse:
«Se non si trattasse che di dire il mio nome... jeri sera, veramente io era un
po' brillo, e abbiamo parlato per metà, il vino, ed io.. ma ora non ci avrei
difficoltà; ed ella dovrebbe esser contenta, così rimarremmo in libertà tutti e
due».
«Bravo, bravo figliuolo», disse il notajo, «voi pensate con giudizio: se farete
le cose con garbo ne uscirete presto e bene; ma lo direte a chi ha l'autorità di
farvi rilasciar subito: è una formalità da nulla; ma io non posso far niente».
«Ham!» disse, o piuttosto fece Fermo scotendo la testa, e ricominciò a pensare -
Diamine! Che cosa fanno tutti quei buoni fratelli di jeri? mi lasciano in ballo
a questo modo! - Fra questi pensieri stava egli di tempo in tempo con le mani
alzate tra un bottone e l'altro, interrompendo l'azione del vestirsi. Ma il
notajo s'era tirato verso la finestra, e aprendo le impannate (ché i vetri in
quel tempo erano riserbati soltanto alle case signorili, anzi alla parte più
signorile di esse) guardò nella via non senza inquietudine, e vide che le cose
non erano già più come le aveva trovate nel venire: i popolani sbucavano come
vespe dalle case, e si riunivano a sciami: il ronzio sordo cresceva, e, quello
che al notajo parve un segno mortale, le ronde che giravano per impedire
l'attruppamento, cominciavano a procedere con molta buona creanza.
Chiuse l'impannata in furia, lanciò dal suo cuore, poiché ne aveva uno
anch'egli, una imprecazione contra il Capitano di giustizia che lo aveva messo
in quell'intrigo, un'altra contra Fermo che in un momento così urgente per lui
notajo, pareva che volesse perdere il tempo a bella posta, indi fece un cenno ai
birri, che sbrigassero la faccenda. I birri rinnovarono più forti le minacce a
Fermo, questi, accortosi della inquietudine dei nemici, concepì buona speranza,
conchiuse che, se l'interesse di quelli era che si facesse presto, il suo doveva
essere di tirare in lungo, e procurò di perder tempo, senza dare a coloro un
pretesto di venire all'estremo. Ma finalmente si trovò vestito: e allora ponendo
le mani nelle tasche del suo farsetto: «oh!» disse, «io aveva una lettera: voi
me l'avete rubata».
«La lettera è qui», disse il notajo traendola di seno in fretta, e senza pensare
in quel momento a ribattere l'irriverenza del rimprovero: «è ella questa?»
soggiunse mostrandola.
«Questa appunto», rispose Fermo, stendendo la mano per prenderla.
«Piano, piano», disse il notajo; «ho piacere che l'abbiate riconosciuta, ma non
ve la posso dare: vi sarà restituita a momenti da chi si deve, purché abbiate
giudizio: andiamo, andiamo».
«Voglio la mia lettera», disse Fermo: «che bricconeria è questa? a forza di
trattare coi ladri, avete imparato il mestiere».
I birri volevano gettarsi addosso a Fermo; ma il notajo, sporgendo in fuori il
mento e la mandibola inferiore, allargando le narici, sbarrando gli occhi, e
scotendo il capo in fretta, fece loro intendere di non muoversi. L'uomo era in
angoscia: pensava che non v'era da perder tempo, che il pericolo cresceva, che
il tragitto sarebbe stato rischioso, e che il miglior modo di farlo sicuramente
era di condurre Fermo con la persuasione. Gli diede quindi la lettera, dicendo:
«ecco ch'io mi fido di voi; ma abbiate giudizio, venite con buona maniera che
sarà meglio per voi; quando sarete riconosciuto per un galantuomo, sarete messo
tosto in libertà: è un affare di mezz'ora. Andiamo, da bravo». Così detto aprì
la porta, e precedette il corteggio. Fermo non avendo più nessun pretesto
d'indugio, gli tenne dietro, e i birri fecero la retroguardia. Scesa la
scaletta, il notajo fece un cenno ai birri, e disse a Fermo: «abbiate pazienza,
fanno il loro dovere»; e mentre gli proferiva questa bella parola, i birri
afferrarono, l'uno la destra l'altro la sinistra di Fermo, e le allacciarono con
certi strumenti, che (per quell'uso comune d'ingentilire le cose col nome) si
chiamavano manichini, ed erano congegnati in modo che colui che gli aveva
intorno ai polsi era fortemente tenuto senza che apparisse alcun segno di
violenza; e il tenuto e il tenente potevano parere due amici che passeggiassero
stretti per la mano.
«Che tradimento è questo?» sclamò Fermo, «a un galantuomo par mio!...» Ma i due
amici stringendo i manichini gli fecero sentire che con essi si poteva non solo
tenere un rassegnato, ma ancora martoriare un ricalcitrante; e nello stesso
tempo il notajo, raccomandando ai birri di non far male a quel povero giovane,
cercava di persuaderlo con buone parole. Fermo vide che fin tanto che egli si
trovava solo con quei tre, era follia il competere, fece la gatta morta, e
disse: «andiamo».
- Andiamo - soggiunse fra sè, - e vedremo se quei fratelli di jeri son tutti
morti.
«Andiamo», disse il notajo, con un volto tutto grazioso: «fidatevi di me che vi
voglio bene; e voi», continuò rivolto ai birri, «non lo stringete, è un buon
figliuolo e mi preme; andiamo quietamente», disse ancora a Fermo, «non fate
vista di nulla, non guardate né a destra né a sinistra, e nessuno s' accorgerà
di quello che è, e voi conserverete il vostro onore, nessuno potrà rinfacciarvi
che siete stato nelle mani della giustizia; e a momenti sarete in libertà».
Il fine di quella ammonizione era di persuader Fermo a lasciarsi condurre
tranquillamente, ma l'effetto ch'ella produsse invece fu di far sentire sempre
più a Fermo, che si temeva di lui, e delle circostanze, e di determinarlo ad
approfittarne. Non si vuol dire per questo che Fermo fosse più accorto del
notajo: ohibò: ma è destino di quelli che vanno al disotto, ed hanno paura, che
tutte le parole ch'essi dicono per ajutarsi, dieno lume ed animo all'avversario.
Usciti nella via, Fermo tra i due birri, e il notajo dietro, Fermo cominciò
tosto a gettare la testa a destra e a sinistra, guardando con ansia se v'era da
sperare ajuto. «Giudizio, giudizio», diceva il notajo, a bassa voce,
accostandosi a Fermo: «non vi fate scorgere, l'onore, figliuolo, l'onore». I
birri intanto affrettavano il passo tirando Fermo e ripetendo, «andiamo,
andiamo». La via formicolava di gente, e Fermo cercava di rallentare il passo
per osservare quelli che andavano, e venivano, e per udire se non si parlava più
nulla delle cose del giorno antecedente, per accertarsi se la disposizione degli
animi era affatto mutata. Quando intese «forni, pane, Ferrer, giustizia,
abbondanza», e vide una brigata di otto o dieci che gli veniva incontro, e che i
birri volevano schifare, portandosi nel mezzo della strada, alzò la voce e
scotendo le braccia e il capo gridò: «Ohe! fratelli! mi menano su; e non ho
fatto niente: solo perché jeri ho gridato: pane e abbondanza: non mi
abbandonate, fratelli: patisco per la patria: son legato; ad uno per volta vi
faranno la stessa festa: fratelli, date uno scappellotto a costoro che mi
stringono le mani: ahi! ahi! sono un galantuomo, non ho fatto niente di male».
La brigata si fermò sulla via, ma i birri stringendo pur Fermo, lo strascinavano
nel mezzo, e affrettavano il passo: la brigata allora si volse, e si divise,
altri a fianco, altri dietro guardando pure e ascoltando: quegli che erano
sparsi nella via accorrevano, e si faceva folla. Il notajo tutto tremante,
cercava di rimandare quegli che gli si avvicinavano, dicendo: «è un malandrino,
un ladro colto sul mestiere, che svaligiava la casa d'un pover uomo». Ma intanto
tutti quelli che venivano dalla parte ove il corteggio doveva passare,
accorrevano, e si fermavano, di modo che la via si trovò sbarrata. Fermo
predicava tuttavia, domandando misericordia: i birri sul principio comandarono,
poi chiesero, poi pregarono i sopravvegnenti che dessero il passo: ma i più
lontani cominciarono a mormorare, quindi a fremere, quindi ad urlare: i più
vicini, parte per buona volontà, parte spinti, urtavano i birri, i quali dopo
aver fatto indarno ogni sforzo per tenersi insieme, e per non lasciare la preda,
furono separati dalla folla, dovettero abbandonare i manichini, e non cercarono
più che a perdersi nella moltitudine per uscirne salvi.
«Bravi fratelli», gridava Fermo: «saldi, ancora un momento, ahi! strappateli,
fate che mi lascino, siamo fratelli».
Il notajo veduta la mala parata, si fermò, e poi si volse indietro, per uscire
da quella parte dove il concorso era ancor rado, cercando intanto di far
l'indiano, e componendo il volto ad una certa curiosità, e maraviglia sciocca,
come s'egli giungesse ivi a caso, e non c'entrasse per nulla. Ma l'abito lo
tradiva, e smentiva il volto; per meglio nascondersi si volse egli ad uno dei
molti che lo guardavano fiso, e disse: «che cosa è questa faccenda?»
«Uh! corbaccio!» rispose invece dell'interrogato, uno che era più lontano. «Corbaccio!
uh corbaccio!» fu ripetuto intorno. Il notajo impallidì: allora alle grida si
aggiunsero gli urti di quelli che gli stavano a fianco: tanto che il pover'uomo
ottenne in breve quello che invero desiderava ardentemente: d'esser fuori di
quella calca, ma più colle gomita del prossimo che con le sue gambe.
Quando Fermo si vide tolto alle ugne dei suoi guardiani, e confuso nella folla
dei suoi liberatori, si scosse i manichini dai polsi, e il primo suo pensiero fu
di approfittare di quella confusione, per fuggire in luogo di salvamento. Si
ricordò tosto che il suo nome era scritto sui libracci del Capitano di
giustizia, e fece ragione ch'egli non sarebbe sicuro né in Milano né a Monza né
a casa sua, né in alcuna parte dello Stato. - Se mi pigliano la seconda volta, -
diss'egli fra sè - sto fresco, e lo merito... Ma dove andare? - domandò a se
stesso. - A Bergamo - si rispose. - E la strada? Domanderò a qualcheduno di
questi galantuomini: chi m'ha ajutato non mi vorrà tradire. - Mentre egli
pensava, da molte parti gli veniva gridato: «presto presto, a gambe, amico».
Egli seguì il consiglio alla prima: entrò per una via sconosciuta, e si diede a
correre, senza saper dove; ma quando si trovò fuori della folla, allentò il
passo, e cominciò ad affisare i volti di quelli che incontrava, per trovarne uno
che gli garbasse, e gli desse fiducia a fare la sua inchiesta. Ma la scelta andò
in lungo, e Fermo ebbe a fare rapidamente forse venti giudizj fisionomici prima
di fissarsi ad uno che fosse l'uomo per lui. Quel grassotto che stava ritto su
la porta della sua bottega, con le gambe aperte, con le braccia dietro la
schiena, e le mani l'una nell'altra su le reni, col ventre in fuori, il mento
levato, e la giogaja pendente, sollevando alternativamente su la punta dei piedi
la sua massa tremolante, e lasciandola cadere su le calcagna, aveva una cera di
cicalone curioso, che invece di risposta avrebbe dato interrogazioni: quegli che
girava posatamente, adocchiando e origliando pareva uomo da ripiombare un povero
figliuolo nella fossa dei lioni e non d'aiutarlo ad uscirne del tutto: quell'altro,
che s'avanzava col labbro spenzolato, e con gli occhi immobili, non che segnare
spicciamente, e precisamente la via altrui, appena pareva conoscer la sua: e
quel ragazzotto che a dir vero mostrava una intelligenza superiore all'età,
mostrava però ancor più malizia che intelligenza, e si sarebbe potuto
scommettere che nella domanda che gli fosse fatta egli non avrebbe veduto altro
che l'occasione di burlare e di confondere un povero forese. Tanto è vero che
all'uomo già impacciato ogni cosa è nuovo impaccio; e che ogni movimento, che si
dà ad una matassa scompigliata per ravviarne il bandolo, può far nascere nuovi
nodi. Ciò che rendeva più critica la situazione di Fermo, era l'essere egli
affatto nuovo della città, dimodoché non sapeva nemmeno per qual porta si
uscisse per pigliare la via sulla quale egli voleva porsi, e gli conveniva
chiedere a dirittura la via di Bergamo; inchiesta sospetta, che poteva attirare
gli sguardi sopra di lui, e rimetterlo in guaj. Giacché la sedizione che era
stata la salute di Fermo, cominciava appena a rialzare il capo, in qualche
angolo della città; e in tutto il rimanente la forza era tuttavia nelle mani
avvezze ad usarla: e per comprimere appunto la sedizione nel suo ricominciare, e
per disperderla, giravano ronde di soldati, e sbucavano da ogni parte i colleghi
di coloro che i liberatori di Fermo avevan posti in fuga: e se per disgrazia
quegli stessi si fossero di nuovo abbattuti in Fermo, e lo avessero afferrato,
e' poteva scuotere, e guaire, qui non v'era da sperare soccorso.
Finalmente, come la necessità aguzza l'ingegno, Fermo, adocchiato uno che veniva
in gran fretta, si risolvette di voltarsi a lui, stimando giudiziosamente che
l'uomo premuroso d'andare ad una sua faccenda, risponde tosto e direttamente a
chi lo interroga, perché quello è il modo più spiccio per isbrigarsene.
Fattosegli dunque a canto gli disse: «in grazia, signore: quale è la strada che
conduce a Bergamo?»
«Eh! amico», rispose frettolosamente l'altro: «vi conviene uscire dalla porta
orientale...»
«Bene, e per andare alla porta orientale?»
«Entrate per questa via a mancina; e sboccherete alla piazza del duomo...»
«Basta, signore: il resto lo so: Dio gliene rimeriti».
«Niente, niente», disse il cortese preoccupato, e continuò la sua via.
Fermo con un passo più sicuro, e più spedito entrò per quella che gli era stata
segnata, giunse alla piazza del duomo, l'attraversò, diede passando una occhiata
al mucchio di cenere, e di carboni spenti, fredde reliquie della baldoria del
giorno antecedente, poscia raffrontando i luoghi con le memorie di jeri,
riconobbe la via per la quale era venuto insieme con la folla trionfante, e si
pose in quella nell'attitudine d'un generale che ripassa sconfitto e fuggitivo
pel campo dove aveva vinto poco innanzi. Rivide il forno delle grucce
smantellato, e guardato da soldati, e passò innanzi senza badare ai crocchj che
cominciavano di nuovo a formarsi, né alle grida che già si facevano intendere.
Via, via; giunse dinanzi al convento dei cappuccini, guardò sospirando la porta
della chiesa, e disse fra sè: - quel frate m'aveva però dato un buon parere,
senza saperlo, quando mi disse ch'io aspettassi in Chiesa; ma! non ho avuto
giudizio -. Quando fu presso alla porta rallentò il passo perché la celerità non
lo chiarisse un fuggitivo, e preso il contegno placido d'uomo che vada pei suoi
negozj, non senza battito al cuore, passò la porta. Uscito al largo, respirò, ma
pure andava guardandosi indietro ad ogni tratto per vedere se non era inseguito:
la strada maestra non gli andava a genio: e al primo viottolo che scorse vi
s'internò, volendo piuttosto allungare e raddoppiare il cammino che farlo sempre
in sospetto.
Quetata un poco la paura, sorsero nel suo cuore mille pensieri di rimprovero,
mille di sollecitudine per l'avvenire, e quindi mille proponimenti che il
lettore s'immaginerà facilmente. Con questa trista compagnia passando di
viottolo in viottolo, di casolare in casolare, chiedendo la strada di tempo in
tempo, e cercando di stare più vicino che poteva alla maestra, senza toccarla
mai, dopo aver fatte forse quindici miglia, senza essersi allontanato più
distante dalla città da cinque o sei, cominciò a sentire fortemente gli stimoli
della fame: e avendo veduto nella botteguccia d'un villaggio alcuni pani, ben
diversi da quei bianchissimi che il giorno antecedente aveva trovati sulle sue
orme, ne comperò con uno di quei pochi quattrinelli che gli rimanevano, e
proseguì il suo cammino. Finalmente, dopo averne fatto altrettanto, e non
rimanendo più che due ore di giorno, egli sentì di nuovo la fame, e per giunta
la stanchezza: e la sollecitudine di porsi in salvo diede luogo al desiderio di
cibo e di riposo. Vedeva Fermo da qualche tempo attraverso i campi e le piante
un campanile, e presolo per meta si avviò direttamente verso quello. Giunto al
paese, (Fermo non ne sapeva il nome, ma era veramente Gorgonzola) vide che era
posto su la strada maestra, stette in forse un momento di tornarne fuori; ma
alla fine il bisogno vinse. - Non saranno venuti a cercarmi fin qui: - diss'egli
fra sè: - e qui nessuno mi conosce.
Col conforto di questa riflessione, entrò in una osteria per ristorarsi con
qualche cibo, e per riposarsi, seduto però, e fin che durava il giorno; perché
ai letti ed alle notti dell'osteria aveva preso orrore, e all'ultimo si sarebbe
piuttosto accontentato di dormire al sereno, sotto un noce, in un campo.
Sedette, e chiese qualche cosa da mangiare, e un mezzo boccale di vino calcando
la voce sulla parola mezzo, come per far sentire alla gola che quello era la
misura prescritta irrevocabilmente, e per farle ricordare gli spropositi del
giorno passato.
V'erano in quella stanza alcuni oziosi, i quali venivano ivi per abitudine, e
allora s'erano ragunati anche per la speranza che arrivasse qualcheduno da
Milano, il quale portasse le nuove più recenti. Si sapeva in cento maniere
secondo l'uso antico ed universale, il guazzabuglio del giorno antecedente, e
s'era pur bucinato che il mattino la pentola aveva cominciato a ribollire;
sicché la curiosità era infiammata. Gli occhi furono tosto addosso a Fermo, ma
visto ch'egli era un forese, nessuno pensò a lui, per sua buona ventura; perché
chi gli avesse chiesto: «a caso, verreste voi forse da Milano?» nella
disposizione d'animo in cui era Fermo, possiamo ingannarci, ma egli diceva
certamente la bugia. In vece, senza essere importunato di richieste, potè egli
mentre mangiava saporitamente, sentire i discorsi che si facevano, e rimettersi
un po' al corrente delle cose del mondo, dopo una lunga giornata di ritiratezza.
«Eh! eh!» diceva uno, «i milanesi non son mica uomini di stoppa: e non la
finiranno prima che sia loro fatta ragione davvero».
«Pure», disse un altro, «il vicario se lo sono lasciato levare dalle mani».
«Sì», ripigliò un altro; «ma gli sarà fatto il processo».
«Stiamo un po' a vedere», saltò in campo un quarto, «se questi cittadini superbi
non penseranno che ai loro interessi, o se vorranno una legge nuova anche per la
povera gente di fuora, che per diana ha pure il ventre anch'ella, e lavora più
di loro per far crescere il pane».
«Basta», riprese il primo: «si potrà vedere: mi pento di non essere andato a
Milano, questa mattina».
«Se vai domani, vengo anch'io», disse un altro, poi un altro, poi un altro.
A questo punto della conversazione si sentì il passo d'un cavallo; e i nostri
interlocutori indovinarono facilmente chi poteva portare, e ne furono molto
lieti pensando che saprebbero le notizie vere di Milano. Era infatti quegli che
eglino avevano preveduto, un mercante che andando più volte l'anno a Bergamo pei
suoi traffichi era uso fermarsi a passar quivi la notte, e come trovava
nell'osteria quei soliti frequentatori del paese, era divenuto conoscente quasi
di tutti.
Accorsero nella strada, si affollarono a gara attorno all'arrivato, uno prese le
briglie, l'altro la staffa: «Buon giorno», «buona sera», «avete fatto buon
viaggio: che c'è di nuovo a Milano?»
«Eh! eh! ecco quelli dalle notizie», disse il mercante, «quelli che le vanno
fiutando, come i bracchi le pernici. E poi, e poi, le saprete voi a quest'ora,
forse più di me». Così dicendo scese da cavallo, lo diede e lo raccomandò ad un
garzoncello, ed entrò nella cucina, circondato dai curiosi.
«Davvero che non sappiamo niente», disse il più antico di quei conoscenti.
«Possibile?» rispose il mercante: «bene, dunque sentirete. Ehi oste, il mio
letto solito è in libertà? Bene: dunque non sapete che jeri è stata una giornata
brusca in Milano? ma brusca vi dico!...»
«Questo lo sappiamo».
«Vedete dunque», continuò il mercante, «che le sapete le notizie. Voleva ben dir
io che stando qui sempre ad agguatare quegli che passano, e a frugarli come se
foste gabellieri, qualche cosa vi potesse scappare».
«Ma oggi, che cosa è accaduto?»
«Ah oggi», disse il mercante, sedendo. «D'oggi non sapete niente?»
«Niente».
«Niente davvero? dunque vi racconterò io. Oste, il mio boccone solito, e presto,
perché voglio coricarmi subito, e domattina pormi in viaggio per tempo. Oggi,
poco mancò che la giornata non fosse brusca, come quella di jeri. Ma, un po'
colle buone, un po' colle cattive... m'intendete eh? olio ed aceto; e si fa
l'insalata».
«In fine che cosa è accaduto?» domandarono in una volta due o tre di quegli
ansiosi.
«Abbiate pazienza», disse il mercante, «che se l'oste mi darà di che ammollare
le labbra, vi conterò tutto».
«Oh bravo!»
L'oste portò la refezione: il mercante si versò un bicchier di vino, si
accarezzò la barba e lo tracannò: e trinciando la vivanda che gli era stata
imbandita, cominciò la sua narrazione e la continuò mangiando; mentre i suoi
conoscenti stavano intorno alla tavola con le bocche aperte; e Fermo in
disparte, senza far vista di dar molta attenzione, ascoltava però con più ansia
e sospensione degli altri.
«Dovete dunque sapere», cominciò il mercante, «che questa mattina per tempo
cominciarono a congregarsi molti furfanti, gente senza casa né tetto, di quelli
che jeri avevan fatto tutto il chiasso; e si misero a girare in troppa per la
città, per far numero, e tornar da capo. Da principio fecero bravate e insolenze
dove capitavano, far le corna alle spalle ai soldati, fare i visacci ai
galantuomini, rompere il muso ai birri: in un luogo strapparono dalle mani dei
birri uno che era menato su: un capo popolo che aveva predicato jeri che si
avessero a scannare tutti i signori, e tutti i bottegaj: pezzo di briccone! ma
se v'incappa, gli medicheranno il pomo d'Adamo con un sovatto. Quando parve a
costoro d'aver fatto popolo a bastanza, andarono alla casa del vicario, dove
jeri avevano fatte tutte quelle belle prodezze, ma» (e qui a guisa d'interjezione
fece con la lingua quel suono con cui i cocchieri usano di dare ai cavalli il
segnale della partenza).
«Ma?» dissero gli ascoltatori.
«Ma», continuò il mercante, «trovarono la via sbarrata, e dietro le sbarre una
buona confraternita di micheletti cogli archibugi spianati, e i calci appoggiati
ai mustacchi: e... che cosa avreste fatto voi altri?»
«Tornare indietro».
«Benone: così fecero anch'essi; ma quando furono al Cordusio, dinanzi a quel
forno che jeri avevano cominciato a saccheggiare; dite mò, se non sono birbi: si
distribuiva il pane pulitamente; v'erano dei buoni cavalieri che invigilavano
perché tutto andasse in ordine: e costoro: «dalli dalli, saccheggio,
saccheggio»: in un momento, cavalieri, fornaj, avventori, tutti sossopra, chi
qua, chi là; e cominciò il saccheggio che durò poco, perché poco v'era da
rubare. Quando non rimasero più che le panche e gli utensili; «fuoco, fuoco», si
cominciò a gridare; tavole, madie, imposte, tutto il legname si pigliava a
furore per portarlo in mezzo al Cordusio e dargli il fuoco. Ma un dannato peggio
di tutti gli altri, dite un po' che proposta diabolica mise in campo?»
«Che?...»
«Che? di abbruciar tutto nella casa, e la casa insieme. Ma un galantuomo ebbe
una ispirazione del cielo: entrò nella casa, salì le scale, e trovato per buona
sorte un gran crocifisso, lo appese fuori d'una finestra, e v'accese intorno due
candele, che aveva tolte da capo del letto del fornajo. A quello spettacolo:
tutti rimasero in silenzio: v'era bene pochi diavoli in carne, che per fare
chiasso e baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando videro che
tutti gli altri non erano ebrei com'essi; dovettero tacere. Intanto venne tutto
il capitolo del duomo in processione, a croce alzata, e vestiti pontificalmente,
che era un gran bel vedere; e cominciarono a predicare: «figliuoli dabbene, che
cosa fate? è una vergogna, dove è il timor di Dio? questo è l'esempio che date
ai vostri figliuoli? siamo in Milano, o in terra di Turchi? Via, tornate a casa,
da bravi, che quel che è stato è stato. Avrete abbondanza: il pane di otto once
ad un soldo: la grida è stampata».
«Era vero poi?» domandò uno degli ascoltanti.
«Vero come il Vangelo. Volete voi che i canonici venissero in paramenti a dir
bugie? Allora, la gente cominciò a sfilare, e i soldati, con buona maniera, gli
andarono sparpagliando di più e fecero spazzare la piazza del Cordusio.
Ebbene... pareva che non fossero contenti: andavano girandolando per le vie,
come se aspettassero l'occasione di porsi insieme di nuovo. Ma ecco che venne
l'ultima medicina, che fece l'effetto».
«E fu?...»
«E fu, unguento di canape: bastò nominarlo, per far guarire tanti matti. Si fece
pubblicare, ed è vera anche questa, che quattro capi erano stati presi jer sera,
e saranno impiccati. Ah! ah! vi dico io che ognuno studiava la via più corta per
andarsene a casa, per non diventare il numero cinque. Quando io sono uscito da
Milano, pareva un monastero».
«Dunque gli impiccheranno?» domandò un altro uditore.
«Senza fallo, e presto», rispose il mercante.
«E la gente che cosa farà?» domandò ancora quegli.
«Anderà a vedere», rispose ancora il mercante. «Avevano tanta smania di veder
morire qualcheduno all'aria aperta, che volevano far la festa al Signor Vicario
di Provvisione. Puh! che spettacolo un cavaliere ammazzato di mala grazia!
Invece avranno quattro birbanti serviti con tutte le formalità. Quattro! quattro
finora, ma chi sa?... Vi so dire che tutti quelli che jeri e questa mattina
hanno mangiato pane fresco in Milano, se ne stanno coll'olio santo in saccoccia.
Per me, ho testimonj che tutta la giornata di jeri, e tutta la mattina d'oggi me
ne sono stato chiuso in casa: e poi, si sa che noi altri mercanti siamo nemici
dei torbidi...»
«Anch'io non mi son mosso di qui», disse un ascoltante.
«Non siamo qui tutti?» disse un altro: «la cosa parla da sè».
«Ohe, come andrà per Bartolommeo che è andato a Milano appunto jer l'altro?»
disse un secondo.
«Se avrà avuto giudizio», rispose il mercante, «ne sarà stato fuori, e non gli
accadrà nulla».
«Il guaio è», disse quegli, «che sta male a giudizio».
«Allora non so che dire»; rispose il mercante, in aria di chi si rassegna alle
sciagure degli altri.
«Se io mi fossi anche trovato in Milano, per caso, per caso», disse un terzo,
«me la sarei battuta subito a casa».
«Infatti», ripigliò il primo, «in quei garbugli v'è sempre pericolo, e poi, via
bisogna dire il vero, sono cose che non istanno bene. Confesso la verità che i
baccani non mi sono mai piaciuti».
«È stata una provvidenza vedete», disse il mercante «che l'abbiamo fatta finir
presto: altrimenti, arte per arte, saccheggiavano tutte le botteghe di Milano
coloro».
«Ma per noi foresi non si farà niente?» domandò un altro: «i milanesi a buon
conto hanno il pane a buon mercato: e noi, povera gente?»
«Sarà quel che Dio vorrà», disse il mercante, vuotando l'ultimo bicchiere, ed
asciugandosi la barba col mantile. «Non sapete che jeri hanno guastata, e
gittata tanta farina quanta basterebbe a dar da mangiare per due mesi a tutto il
ducato?»
«Dunque», disse quegli, «ha da patire il buono pel cattivo?»
«Ma non avete inteso che gl'impiccheranno?» rispose il mercante.
«L'ho sempre detto io», disse un altro «che a muover garbugli si fa peggio. Se i
milanesi avessero avuto un po' di giudizio, dovevano porre le mani addosso a
quegli che cominciarono a parlare di far chiasso, e legarli come salsicce, e
condurli alla giustizia».
La conversazione continuava, ma Fermo ne aveva udito a bastanza: egli se ne era
stato cheto cheto, con l'animo d'un autore che trovandosi sconosciuto presso tre
o quattro uomini di buon gusto, sente fare il processo all'ultima sua opera:
quel poco boccone tanto desiderato gli era tornato in veleno: però dal veleno
pensò a cavare il rimedio d'un buon consiglio; si alzò, con aria indifferente,
pagò il suo scotto, e uscì dall'osteria, risoluto di non fermarsi fin che non
fosse giunto sotto le ali del leone serenissimo di San Marco. Si avviò su la
strada maestra, premuroso di giunger presto, confidando nelle tenebre che
cominciavano a stendersi su la terra; ma appena dati alcuni passi, pensò che il
passaggio al confine sarebbe stato pericoloso più di notte che di giorno, e si
sovvenne che vi doveva esser l'Adda da passare. Sconfortato uscì della via,
entrò nei campi, e andando al lume della luna, procurò di dirigere il suo
cammino verso quella parte dove gli pareva che l'Adda dovesse passare.
Finalmente sentì il romore del fiume, e camminando sempre verso quello, giunse
presso alla sponda. Ma quivi non v'era modo di transitare, onde il povero Fermo
dopo aver guardato intorno se mai per caso qualche battello si trovasse su la
riva, e non ne vedendo, tornò tristamente indietro, ed entrato in un bosco che
costeggiava il fiume, s'arrampicò sur un albero, e vi si appiattò, aspettando
con ansietà l'apparire del giorno. Ma la notte era appena incominciata, e il
povero Fermo, ebbe molte ore da meditare in quella sua incomoda stazione. Don
Rodrigo, Don Abbondio, il Vicario, Ferrer, la guida, l'oste di Milano, il notajo,
i birri, il mercante, i curiosi, passavano a vicenda nella sua fantasia; ma
nessuno di costoro conduceva seco una memoria che non fosse di rancore o di
sconforto. Solo due immagini avevano un aspetto consolatore, e spargevano un po'
di luce tranquilla su quel quadro confuso. Se noi inventassimo ora una storia a
bel diletto, ricordevoli dell'acuto e profondo precetto del Venosino, ci
guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate come quelle che si
associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una storia veridica; e le
cose reali non sono ordinate con quella scelta, né temperate con quella armonia
che sono proprie del buongusto; la natura, e la bella natura, sono due cose
diverse. Diciamo dunque con la franchezza d'uno storico, che mentre quasi tutti
i personaggi, coi quali Fermo era stato in relazione, si schieravano e si
affollavano nella sua immaginazione con un aspetto più o meno odioso, o
tristamente misterioso, di modo che, dopo averli contemplati qualche tempo come
forzatamente, essa gli rispingeva, e cercava di farli sparire, v'era però due
immagini nelle quali essa riposava, con una specie di refrigerio: due volti i
quali ricordavano ed esprimevano candore, benevolenza, affetto, innocenza, pace:
quei sentimenti chiari e soavi nei quali tanto si gode la fantasia degli
infelici: e queste due immagini erano una treccia nera, e una barba bianca,
Lucia e il Padre Cristoforo.
Ma i pensieri che questi volti stessi facevano nascere, eran tutt'altro che di
una gioja pura: alla immagine del buon frate, Fermo sentiva vivamente la
vergogna della cervellinaggine che aveva spiegata nel giorno passato, e della
turpe sua intemperanza: e contemplando Lucia, oltre la stessa vergogna, egli
sentiva nel fondo dell'animo l'assenza, l'incertezza del rivedere, il terrore
della dimenticanza. Meno potente, meno scolpita, ma pure mista anch'essa di
compiacenza e di dolore, gli appariva pure l'immagine di quella povera Agnese,
che lo aveva voluto per figlio, e che a cagione di questo buon pensiero si
trovava ora fuor di casa, e assediata da quelle sollecitudini che non hanno
alcun compenso di consolazione.
Con questa lanterna magica dinanzi alla mente vegliò Fermo tutta quella notte:
quand'anche i pensieri non gli avessero tolto il sonno, il disagio e il pericolo
della postura, e il freddo, che cominciava a frizzare lo avrebbero tenuto
lontano. Finalmente, quando la luce cominciò a dar forma e colore alle cose,
Fermo guardando attentamente al fiume, vide un pescatore che costeggiava la
sponda, e che slegava un battello; scese dall'albero, e si avviò a quella parte,
e vi giunse prima che il pescatore salpasse.
«Amico, volete voi farmi il piacere di traghettarmi all'altra riva?» disse Fermo
al pescatore che guardava non senza sospetto lo sconosciuto che a quell'ora gli
si accostava.
«Volentieri», rispose il pescatore, dopo aver guardato diligentemente intorno se
non v'era alcun testimonio, e lo accolse nella barca, lo condusse all'altra
riva, senza fargli altro motto. Fermo prima di scendere a riva, cavò una mezza
lira, e la diede al pescatore che, dopo aver fatta qualche cerimonia, la prese,
e condusse la sua barca al largo.
Perché nessuno si faccia maraviglia della pronta e discreta cortesia del
pescatore, dobbiamo avvertire che quest'uomo era avvezzo ad essere richiesto
sovente dello stesso servizio da contrabbandieri, e da fuorusciti; e la massima
forse la più importante della sua politica di pescatore era di non farsi nemico
nessuno di costoro, perché la sua barca e la sua vita era quasi sempre in loro
balìa. Prestava egli adunque ad essi quel servizio tutte le volte che potesse
farlo senza correre rischio dalla parte di gabellieri, di soldati, o di
esploratori, altre classi ch'egli doveva rispettare per un altro punto della sua
politica. Pigliò dunque Fermo per uomo d'una delle due prime condizioni, senza
darsi briga di appurare quale, e lo servì.
Fermo, posto piede sulla terra di San Marco, respirò davvero; e, alla prima
insegna che vide, entrò a ristorarsi col cuore più largo. Sentì quivi pure
relazioni e ragionamenti su gli avvenimenti di Milano: a dir vero egli avrebbe
potuto rettificare in molte parti i fatti e le riflessioni; ma da quei fatti
egli aveva appunto imparato a tacere. Continuò la sua strada, giunse a Bergamo,
fece inchiesta di quel suo cugino, e gli si presentò.
Era questi lavoratore di seta, come Fermo, e uno di quei tanti che vedendo
mancarsi il lavoro a cagione delle discipline assurde che a quei tempi erano
prescritte nel milanese, e dei pesi insopportabili d'ogni genere, avevano
portata la loro industria in un altro stato, dov'erano bene accolti e protetti.
Massajo, e diligente in sei anni da che si trovava a Bergamo, aveva egli fatta
una provvigione che gli era di grande soccorso in quell'anno malvagio. Rivide
egli con piacere Fermo che aveva instradato nei lavori della seta, e a cui aveva
fatto da padre, e lo accolse lietamente, prese parte alle sue traversie, e gli
promise intanto di procacciargli lavoro. «Se non ne troveremo», soggiunse,
«starai con me, mangeremo insieme un po' di pane; e quando torneranno gli anni
grassi, mi pagherai di tutto, e farai un buon marsupio anche per te». Se quel
brav'uomo avesse letto Virgilio non avrebbe mancato di dire in questa occasione:
Non ignara mali miseris succurrere disco: perché in fatti questo era il suo
sentimento.
Lasceremo per ora Fermo, giacché si trova in una situazione tollerabile, e
torneremo alla sua e nostra Lucia.