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Fermo e Lucia
Tomo 3
CAPITOLO 6
Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due difetti:
d'esser troppo corto, e d'esser troppo lungo; di passare troppo tardamente, e
d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione primaria di questi
inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per sè è una gran
bella cosa: ed è proprio un peccato che nissuno finora abbia saputo dire
precisamente che cosa egli sia.
In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi a dir vero,
gl'inconvenienti erano di quelli che col durare si fanno più gravi. I fornaj
avevano protestato fin da principio, che se la legge non veniva tolta, essi
avrebbero gettata la pala nel forno, e abbandonate le botteghe; e non lo avevano
ancor fatto, perché sono di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo
all'estremo, e perché speravano di dì in dì che Antonio Ferrer gran cancelliere
sarebbe restato capace, o qualche altro in vece sua. Alla fine, i Decurioni (un
magistrato municipale) vedendo che la minaccia de' fornaj sarebbe divenuta un
fatto, scrissero al governatore ragguagliandolo dello stato delle cose, e
chiedendogli un provvedimento. Probabilmente il Signor Gonzalo Fernandez di
Cordova avrà avuto molto a cuore di trovare un mezzo per nutrire stabilmente
molti uomini; ma in quel momento impedito egli e assorto in una faccenda più
urgente, quella di farne ammazzare molti altri, non potè occuparsi della prima,
e ne diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del presidente del
Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario, e di due
questori. Si riunirono essi tosto, o come si diceva allora spagnolescamente, si
giuntarono: e dopo mille riverenze, preamboli, sospiri, proposizioni in aria,
reticenze, tergiversazioni, spinti sempre tutti verso un punto solo da una
necessità sentita da tutti, conscj che tiravano un gran dado, ma convinti che
altro non si poteva fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane,
riavvicinandolo alla proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono
nello stato d'animo d'un minatore che avesse dato fuoco ad una mina non caricata
da lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo né quando né quale egli
sarebbe.
Questa volta i fornaj respirarono, ma il popolo imbestialì: s'era già avvezzo a
quel vantaggio che aveva apportato l'editto del gran cancelliere; e cominciava
già a trovare che il vantaggio era troppo scarso, che la giustizia non era
intera; e aspettava ad ogni nuova deliberazione che il prezzo sarebbe ancora
diminuito. Il sentimento di furore che produsse l'aumento, fu universale: questo
sentimento veniva espresso da migliaia d'uomini con lo stesso impeto, con la
stessa intensità, con le stesse parole. La sera del giorno che precesse a questo
in cui Fermo arrivò in Milano, le vie, le piazze erano sparse di crocchj, nei
quali conoscenti, e ignoti parlavano altamente d'un fatto comune nel quale
avevano dolori e idee comuni. Migliaja d'uomini si coricarono quella sera dopo
d'aver dette ed udite molte volte le stesse frasi, e si svegliarono il mattino
vegnente con una persuasione piena e fervida che si faceva loro un torto
tirannico, con un impulso indeterminato ma potente a far qualche cosa, e con la
confidenza che fra tanti unanimi la cosa da farsi si sarebbe determinata.
Fra queste migliaja vi aveva alcuni i quali meno irritati, pensarono con gioja
che in quel giorno l'acqua sarebbe stata torbida, e si sarebbe potuto pescare, e
fecero proponimento di non lasciarla posare fin che non fosse fatta la pesca.
I crocchj precedettero l'aurora: fanciulli, donne, uomini, vecchj, operaj,
mendichi, si ragunavano a caso, e cominciavano o proseguivano naturalmente lo
stesso discorso: qui erano voci confuse di molti parlanti, là uno predicava, e
gli altri applaudivano: da per tutto racconti diversi ma egualmente violenti
delle cabale e delle iniquità che avevano macchinato il nuovo editto: da per
tutto lo stesso linguaggio di lamenti, d'imprecazioni, di minacce; e da per
tutto per ultima conseguenza una parola la più moderata nel suono, ma la più
forte, quella che esprimeva la cosa, e la faceva: così non può andare. Non
mancava più che una occasione, un avvenimento, un movimento qualunque per
ridurre a fatti quelle parole; e l'occasione non si fece aspettar molto.
Uscivano secondo il solito dalle botteghe dei fornaj quei fattorini che con una
gerla carica di pane andavano a portarne la quantità convenuta, ai monasteri,
alle case dei ricchi, insomma (per dirla con un termine milanese, che la lingua
toscana dovrebbe ricevere poiché non è altro che una applicazione speciale e
analoga d'un vocabolo toscano) alle poste loro. Uno di questi passava per quel
crocicchio che si chiamava il Leone di Porta Orientale, dove era adunato molto
di quel popolo. Al primo vedere quel fattorino e quella gerla: «ecco», gridarono
cento voci: «ecco se c'è il pane». «Sì, sì, pei tiranni che non vogliono darne
alla povera gente», grida uno della folla. Un altro s'avanza, s'appressa al
fattorino, alza la mano all'orlo della gerla, la fa abbassare con una strappata,
e con l'altra mano toglie un pane e dice: «siamo cristiani anche noi; abbiamo da
mangiare». «Anche noi»; rispondono cento voci, molti s'avventano al fattorino, e
gridano: «giù quella gerla». Il garzoncello arrossisce, impallidisce, trema,
vorrebbe dire: - lasciatemi stare -; ma non ha tempo, sviluppa le braccia in
fretta dalle ritorte che servono di manichi alla gerla, la lascia nelle mani di
quelli che l'avevano presa; e a gambe. Il pane fu diviso in fretta, ma senza
tumulto e senza risse fra coloro che erano più vicini alla presa. Ma quelli a
cui non era toccato nulla, irritati e aizzati dalla vista del guadagno altrui, e
animati dalla facilità, e dalla impunità della impresa, si mossero a troppe alla
busca di altre gerle vaganti: tutte quelle che si abbatterono in questi
cercatori, furono ritenute e svaligiate come la prima. Ma questa poca preda non
bastava alla voglia di tutti, né il fatto fin allora a coloro che avevano fatto
conto su un garbuglio più grande. S'intese una voce che diceva: «andiamo ai
forni».
«Ai forni! ai forni! sono il buco dei ladri, la fucina della carestia». «Ai
forni! ai forni!» rispose il coro.
In quella via torta, angusta, e frequentata che va dal Leone di Porta orientale
al duomo, v'era già a quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo stesso
nome, che in toscano viene a dire: forno delle grucce, e nel suo originale
milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico che
l'alfabeto comune della lingua italiana non ha il segno per indicarlo.
Quivi si addrizzò la folla.
I fornaj che avevano veduto tornare il fattorino svaligiato e rabbaruffato, e
intesa la sua relazione, stavano già in sospetto, e pensavano a guardarsi.
All'avviso della visita che si avvicinava, mandarono in folla ad avvertire il
Capitano di giustizia, e a chiedergli ajuto. Questi che stava all'erta
aspettandosi che la sua presenza sarebbe domandata in qualche luogo, accorse
tosto, e con alcuni alabardieri arrivò che la moltitudine cominciava a spessarsi
dinanzi alla bottega. «Largo, largo», gridava il capitano, gridavano gli
alabardieri, e si appostarono sulla porta. La folla si condensava vie più, quei
di dietro spingendo i primi. «Figliuoli, a casa... che cosa è questa?...
animo... via gente dabbene, buoni figliuoli... ahi canaglia!» Una pietra
lanciata dalla retroguardia degli assalitori colpì la cucuzza del Capitano
all'ultima sillaba di figliuoli.
«Ahi! ah! canaglia. Quel temerario... Alabardieri, disperdete questi birboni».
«Indietro, indietro», gridavano gli alabardieri, sospingendo i primi, ma invano.
«Animo! animo!» gridava il capitano, «rispingeteli almeno tanto che chiudiamo le
porte; da bravi! Indietro! indietro!» Gli alabardieri, uniti, fecero impeto
tanto che i fornaj potessero afferrare le imposte e farle girare sui cardini, a
misura che queste si racchiudevano gli alabardieri si ritiravano insieme, e gli
uni e gli altri si chiusero al di dentro.
«Apri! apri!» urlava la folla al di fuori, percotendo le porte. «Via! via!» si
rispondeva da quei di dentro che si tenevano calcati alle imposte per fermarle
contra gli urti. Il Capitano di giustizia intanto fattosi visitare ad un
alabardiere e toccato egli con la mano il luogo della percossa, fu certo che non
era altro che una bernoccola, onde rincorato salì le scale, e si fece ad una
finestra, dove presa una imposta di dentro, come scudo e cacciando fuori da
quella il capo, e la mano per ottener silenzio: gridava a quanto fiato aveva in
corpo: «Che timor di Dio è questo?»
Una vociferazione, immane, confusa, nella quale non si distinguevano altre
parole che, «pane! pane! apri! apri!» copriva la voce del Capitano.
«Che dirà il re nostro signore?» gridava egli.
«Pane! pane! apri! apri!»
«Indulgenza plenaria, perdono a chi torna a casa», gridò egli di nuovo,
sporgendo il capo con precauzione: ma viste più mani nella folla che si movevano
a lanciargli un secondo biscottino, si ritirò. Alcuni garzoni del forno,
s'avvisarono di rompere il selciato d'un cortiletto; e tolte molte pietre,
salirono con quelle al piano superiore, e fattisi alle finestre, minacciarono di
gettarle sugli assalitori se non si ritiravano.
«Ah cani! vi faremo in pezzi»; urlava il popolo, e non si ritirava: le pietre
cominciarono a scendere; molti ne furono malconci, e due ragazzi ne rimasero
morti. Il furore crebbe la forza della moltitudine: le porte furono spezzate, le
ferriate delle finestre del pian terreno scassinate e divelte, e la bottega
aperta agli assalitori. I fornaj, gli alabardieri, il Capitano si rifuggirono in
fretta sul solajo, dove s'appostarono alle uscite che davano sui tetti, per
farsela da quella parte, alla meglio, se il pericolo si fosse avvicinato anche a
quel rifugio.
Per buona loro ventura, i vincitori si curavano per allora più di preda che di
carnificina. I primi entrati si gettarono sui cassoni del pane, e li posero a
sacco: la folla si sparse dalla bottega nei magazzini ov'erano le farine: quelli
che afferrarono i sacchi, gli sciolsero e perché non avrebbero potuto caricarli
e portarseli via con tutto quel peso, gittavano una parte della farina, e
portavano il resto: altri raccoglievano come potevano quella farina, riponendola
negli abiti loro, nei cenci che trovavano. Alcuni i quali erano venuti con più
profonda intenzione, andarono al banco, lo spezzarono, tolsero le ciotole dei
danari, gli intascarono a manate, e sdrucciolando tra la folla andarono a casa a
vuotarle, per tornare a nuove faccende.
Frattanto lo stesso assalto si dava ad altri forni: in alcuni i padroni
resistevano e si chiudevano a difesa, in altri, distribuendo tutto il pane a
quegli che si facevano innanzi stornavano il saccheggio finito, e la
distruzione.
Le cose erano a questo punto quando Fermo si avanzava sulla via appunto di quel
forno dove aveva cominciato ed era maggiore il tumulto. Andava egli ora spedito,
or ritardato tra una folla di gente che procedeva verso il campo di battaglia, e
di gente che tornava carica: guatava andando, e origliava per conoscere un po'
più chiaramente lo stato delle cose. V'era un ronzio confuso di clamori e di
discorsi: noi riferiremo quei pochi che Fermo potè intendere a misura che mutava
di vicini, procedendo tra la calca, e sostando di tratto in tratto per una
qualche fermata improvvisa della moltitudine.
«Ecco scoperta l'impostura infame di quei birboni che dicevano, che non c'era
pane, né farina, né frumento. Adesso si vede la cosa sincera, e non ce la
potranno più dare ad intendere. Viva l'abbondanza!»
«Vi dico io, che tutto è niente, è un buco nell'acqua, se non si fa una buona
giustizia di quei birboni. Metteranno il pane a buon mercato, ma hanno proposto
di attossicarlo per ammazzare la povera gente. Hanno posto il partito nella
giunta, e io lo so di certo, l'ho inteso con questi orecchi da una mia comare
che è amica della lavandaja d'uno di quei signori».
«Largo, largo, signori, dieno il passo ad un povero padre di famiglia che porta
da mangiare a cinque figliuoli che muojono di fame». Così diceva uno che
barcollava sotto un gran sacco di farina; e i vicini si stringevano per dargli
il passo.
«No, no, no», diceva sommessamente, e con aria misteriosa all'orecchio d'un suo
compagno, un altro. «Io son uomo di mondo, so come vanno queste cose, e me la
batto. Questi baggiani che fanno ora tanto schiamazzo, domani staranno tutti
cheti a casa loro, ognuno dirà, io non c'era, oppure: è stato il tale che mi ha
strascinato: no no: largo da questi garbugli. Ho già vedute certe facce, di
uomini che fanno l'indiano e notano tutti, e domani poi:... si cavano le liste,
e chi è sotto è sotto».
Queste parole diedero un momento da pensare a Fermo, ma il vortice lo
trasportava; e un discorso ch'egli intese subito dopo, rinnovando e riscaldando
l'indegnazione ch'egli sentiva con tutti gli altri soffocò le considerazioni di
prudenza che gli consigliavano di tornare indietro.
«Si sa tutto», diceva una voce più sonora dell'altra: «è scoperta la gran cabala
orrenda. È il vicario di provvisione che ha mandato un gran cavaliere travestito
da merciajo a parlare col re di Francia: e si sono intesi: il re ha fatto
promettere al vicario uno scudo d'oro per ciascun milanese che sarebbe morto di
fame; e così, quando il paese sarebbe stato vuoto, il re veniva innanzi per
diventar padrone egli».
«Era ordita la trama di farci morir tutti: tanto è vero che mettevano attorno
che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per togliergli il credito, e
comandare essi soli».
«Finora va bene, ma se avremo giudizio, bisognerà far prima la festa a tutti i
forni, e poi andare dai mercanti di vino: sono tutti birboni d'un pelo,
d'accordo coi fornaj per far morire la povera gente di fame e di sete».
«Ah tiranni! cani! scellerati! metterli in una stia a vivere di veccia e di
loglio, come volevano trattar noi».
In mezzo a questi discorsi giunse Fermo, a forza d'urti dati e ricevuti, dinanzi
a quel forno. Lo spettacolo era lurido e spaventoso. Le mura intaccate da sassi
e da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta, quella casa pareva un
gran teschio disotterrato; alle finestre, alla porta si vedeva gente
affaccendata a compire l'opera della distruzione, a strappare il resto delle
imposte: al di dentro erano altri che con asce spezzavano le gramole, i buratti,
i cassoni, le panche, le madie, altri che prendevano a fasci i rottami, le
corbe, le pale, i registri delle partite, i mobili, e portavano tutto al di
fuori. I guastatori si avviarono con questo peso alla vicina piazza del duomo, e
quivi accatastate tutte quelle materie v'appiccarono il fuoco, ponendosi intorno
a godere quel falò, acclamando con bestemmie, con canti di trionfo, con promessa
di ricominciare ben tosto altrove.
Fermo seguì la processione, e si fermò dinanzi al rogo in mezzo a quella folla
ondeggiante a vedere e ad udire. Alcuni allargando intorno a sè un po' di spazio
con le gomita, facevano quel che potevano per danzare; altri sopraggiungevano
con nuove spoglie da ardersi, e fattisi far largo a forza di urti e di urli, le
gettavano sul mucchio ardente: si alzavano nuove fiamme, tizzoni accesi
saltavano qua e là, e più forti ululati sorgevano in mezzo al rombazzo confuso e
continuo. Fermo non credeva, né era possibile di credere, tutto quello ch'egli
aveva inteso dire in quel giorno; ma tutti quei discorsi, le sue idee
antecedenti, la persuasione universale gli davano l'intima persuasione che un
gran disegno di affamare il popolo fosse stato ordito e scoperto. Partecipava
egli dunque dell'ebrezza comune, gridava a quando a quando con gli altri, e se
non attizzava la fiamma, stava pure a contemplarla con diletto, mangiando
intanto un altro di quei pani che aveva raccolti e posti in tasca al primo
entrare in città.
«Muoja la carestia!» si urlava da ogni parte; «muojano gli affamatori! viva
l'abbondanza! viva il pane! viva! viva!» A dir vero la distruzione dei buratti,
delle madie, il disfacimento dei forni, e lo scompiglio dei fornai non pare che
fossero i mezzi più spediti per far vivere il pane: ma questa è una sottigliezza
metafisica che non poteva venire in mente ad una moltitudine.
Il fuoco non era per anco estinto, quando corse all'improvviso una voce per la
folla, che al Cordusio (così è chiamato un crocicchio poco distante dalla piazza
dove si faceva la baldoria) s'era scoperto da un fornajo un altro grande ammasso
di pane e di farina. La folla si diresse in tumulto verso quella parte: si gettò
nella via corta ed angusta di Pescheria Vecchia, si condensò sotto l'arco che la
termina, si diffuse nella piazza dei mercanti. Quivi mentre si passava accanto
alla loggia che tiene il lungo della piazza, una mano si alzò sopra le teste
della turba e si rivolse verso una statua colossale che occupava una nicchia or
vuota nella parte più apparente della loggia, e una voce gridò nello stesso
tempo: «quello era un re! un re che rendeva giustizia pronta, e faceva impiccare
i tiranni e i cabaloni». «Viva! viva!» rispose uno stormo di voci. Non è però da
credere che tutti quei gridatori sapessero bene a chi, e perché applaudivano;
l'unica idea distinta che ne avevano era di un re morto.
Il pezzo di marmo che ricevette quell'applauso era niente meno che una statua di
Don Filippo II, la quale durò in quella nicchia, ancora centosettant'anni circa,
dipoi fu trasformata alla meglio in un Marco Bruto, e finalmente smozzicata e
ridotta ad un torso informe che fu strascinato e gittato non so dove: e avrebbe
pur meritato d'esser conservato pel suo destino singolare d'aver rappresentato
due personaggi, il nome dei quali fa nascere tosto idee disparatissime, e che
pure ebbero più punti di rassomiglianza che non appaja a prima vista. Tutti e
due gravi e rigidi sermonatori l'uno di filosofia, l'altro di religione, tutti e
due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni che la morale
comune, e il senso universale della umanità abbomina; tutti e due credettero che
nel loro caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò
che è comunemente delitto. Tutti e due con una opposizione ardente e attiva,
hanno promosse, rafforzate, estese le cose che volevano impedire ed estinguere
nei loro cominciamenti; e tutti e due hanno avuti in vita e dopo morte fautori
che hanno approvata la loro condotta, gli hanno lodati d'aver fatti mali
infiniti per ottenere il contrario dei loro fini. Tutti e due si sono immaginati
che la maggiorità dei loro contemporanei avrebbe secondate con gran favore le
loro intenzioni, e tutti e due si maravigliarono con indignazione di trovare
avversione, resistenza da tutte le parti. Tutti e due sono stati in diverse
epoche tenuti in gran venerazione, e in quelle epoche non era un viver lieto.
Preghiamo il cielo, che quando hanno da nascere uomini di quel carattere, si
trovino collocati in una condizione dove abbiano da faticare assiduamente per
vivere, che al più possano dissertare in un picciolo crocchio, e che non
giungano mai a far cose per cui debbano avere statue dopo la morte.
Il corteo clamoroso dovette condensarsi e insaccarsi onde passare come per una
trafila nella via angusta dei Fustagnaj, e quindi sboccare al Cordusio. Quivi
era già ammassata un'altra folla, e il saccheggio d'un forno era avviato: i
sopravvegnenti incalzavano quelli che erano già signori del campo, e si
trasfondevano in essi, come potevano.
Tutto ad un tratto una voce orrenda uscì dalla folla: «andiamo dal Vicario di
Provvisione, a fare una giustizia». Quella voce fu come una scintilla caduta nel
mezzo d'una polveriera. «Dal Vicario di Provvisione» gridarono tutti: e parve un
rammentarsi d'un accordo già fatto, più che una risoluzione di quel momento. La
casa del Vicario era sventuratamente vicinissima a quel luogo: in un punto la
via fu piena, e la casa cinta d'ogni parte.
Il Vicario di Provvisione stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato
d'un pranzo mangiato di mala voglia con un po' di pane raffermo rimasto del
giorno antecedente, e fra pensieri tristi, di stupore, di inquietudine, di
incertezza.
Uno o due benevoli, (perché nei garbugli sempre vi trascorre qualche onesto che
cerca poi di impedire un po' di male) precorsero lo stormo, ed entrati nella
casa, avvertirono del pericolo. I servi, alle porte, alle finestre: non si
vedeva altro che un nuovolo di gente che appressava, che era lì: in fretta in
fretta, si avvisa il padrone, mentre questi delibera di fuggire, come fuggire,
gli è detto che non è più a tempo: appena i servi possono chiudere e sbarrare la
porta al momento che i primi della vanguardia stavano per porre piede sulla
soglia: si chiudono tutte le imposte delle finestre, come quando il tempo
imperversa, e comincia a cader la gragnuola; e intanto si sente l'ululato
orribile della moltitudine, che vuole entrare, e i colpi che già si danno alla
porta. «Il Vicario! il tiranno! lo vogliamo, vivo o morto!»
Il Vicario errava di stanza in istanza, raccomandandosi a Dio e ai suoi
servitori che tenessero fermo, che trovassero modo di farlo scappare: ma la casa
era cinta da tutte le parti. Il poveruomo salì sul solaio e da un bugigatto del
muro tra la soffitta e il tetto guatò ansiosamente nella via, e la vide stivata,
fitta di nemici, udì le grida e le minacce, e si ritirò tremante e quasi fuor di
sè nell'angolo il più riposto, che potè rinvenire. Ivi rannicchiato e tremante,
porgeva l'orecchio, e quando poi udiva i colpi violenti nella porta, lo turava
spaventato, poi come fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando tutta la
faccia tendeva con impeto le braccia e i pugni come se volesse tener ferma la
porta contra gli urti, poi si dava per disperato ed aspettava la morte. Gli
passavano per la mente gl'impegni che aveva fatti per giungere a quell'uficio,
la consolazione che aveva provata nel giungervi, e malediceva di cuore tutti
quei pensieri antichi. Finalmente stette tranquillo e come istupidito.
Intanto al di fuori altri percoteva le imposte della porta, con travi: altri era
andato in cerca di scarpelli e di martelli, e dava colpi in regola nel muro, per
aprirvi una breccia; altri lanciava sassi alle finestre, altri con le pale
conquistate ai forni ne stuzzicava le imposte per aprirle, grida orrende
accompagnavano tutte queste operazioni. Quegli stessi però che con le grida, le
incoraggiavano e le applaudivano, in fatto vi ponevano ritardo con la pressa
delle persone non lasciando agio al giuoco delle leve e degli arieti: per buona
sorte accadeva questa volta nel male, ciò che è troppo frequente nel bene: che i
fautori i più ardenti divengano un impedimento.
Nel mezzo della turba un vecchio malvissuto mostrava un martello, dei chiodi, e
una fune, dicendo che voleva egli configgere alle imposte della porta il Vicario
quando fosse stato acchiappato ed ucciso.
«Ecco, ecco quello che farà la cosa spiccia; largo, largo»: era una lunga scala
che altri portavano per appoggiarla al muro, e salire alle finestre, dove
l'entrata sarebbe stata più facile. Per buona sorte quel mezzo che avrebbe
facilitata l'impresa non era facile a porsi in opera: i portatori spinti alcuni
di qua alcuni di là e divisi da una calca brulicante e irrequieta erano
costretti or l'uno or l'altro di abbandonare il peso, il quale cadeva sulle
spalle, sulle teste dei più vicini, che lo rispingevano, grida, percosse, urli
da tutte le parti. Ma intanto la porta era quasi sconfitta dai gangheri, e i
fori nel muro andavano allargandosi e sprofondendosi, già poco mancava a vedersi
l'interno della casa.
Fermo si trovava in mezzo alla calca, ma questa volta strascinato e assorbito
dal vortice piuttosto che venuto di sua voglia; le grida che chiedevano il
sangue, i volti che ne mostravano la abbominevole sete, lo avevano riempiuto di
turbamento e di orrore; egli detestava in quel momento quella che gli era paruta
giustizia del popolo, la trovava più atroce della fame.
«Andiamo andiamo», diceva egli ai suoi vicini; «è una vergogna! vogliamo noi
fare il boja? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia il pane a
buon mercato se commettiamo di queste iniquità?».
«Ah! traditore della patria!» disse uno che era vicino a Fermo rivolgendosi a
lui con un viso d'indemoniato: «aspetta, aspetta, tu sei un amico del Vicario, e
dei tiranni...»
Per buona sorte in quel momento, alcuni che portavano una scala fecero impeto
tra Fermo e il suo nemico, e gli disgiunsero. Fermo approfittando di quella
confusione nata nella confusione si allontanò, cercando di uscire dalla folla, e
di andarsene. Quegli che gli aveva fatto quel complimento non si curò di
rintracciarlo, né lo avrebbe potuto. Ma un altro che si trovava accanto a lui, e
che lo aveva seguito, gli disse all'orecchio: «buon giovane, state zitto, se non
volete farvi ammazzare; ma aspettate quietamente, che forse potrete far del
bene». Fermo gli rispose affettuosamente coll'espressione del volto, e rimase in
mezzo alla calca.
Ma quegli stessi benevoli che erano venuti ad annunziare il pericolo, non
avevano posto tempo in mezzo, ed erano tosto volati al castello per avvertire di
ciò che accadeva, e domandare soccorso. Fu tosto spiccata una troppa di soldati,
che accorse al luogo del tumulto.
Ma giunta che fu, non seppe che farsi. Le parti estreme dell'attruppamento, alle
quali sole i soldati potevano accostarsi, erano una ciurma disarmata, e oziosa,
mista di uomini di donne e di fanciulli: parevano piuttosto spettatori che
altro: all'ordine di dissiparsi non rispondevano che con un cupo e profondo
mormorio. Far fuoco sopra quella gente, parve a quelli che comandavano il
drappello, che sarebbe stata cosa crudele, e piena di pericolo assai più grave
di quello che si voleva far cessare: attraversare la prima calca, e giungere in
ordine, e uniti al centro del tumulto, dove la rivolta era operosa; non era cosa
possibile, il solo tentare di procedere avrebbe sparpagliati i soldati tra la
moltitudine, e postili così separati a discrezione di quella, irritata. I
soldati stettero dunque oziosi; quelli che erano più presso gli guardavano senza
timore, gli beffavano, le grida continuavano, e gli smuratori proseguivano la
loro impresa romorosa, senza darsi pensiero della truppa.
L'impresa sarebbe stata pur troppo condotta al termine, e già lo toccava, se
dalla parte opposta non fosse giunto un più efficace soccorso. «Una carrozza!
uh! uh! chi è questo tiranno che ardisce venire ad insultare la povera gente?
dalli! dalli! sassate, sassate!» «Zitti! zitti! è Ferrer! non vedete la livrea?
è un galantuomo! amico della povera gente: eccolo! eccolo! ecco mette la testa
allo sportello! è egli. Viva Ferrer! Viva Ferrer!» La carrozza s'era fermata in
capo della calca, a canto ai soldati; e nella carrozza v'era di fatti quell'Antonio
Ferrer gran cancelliere, che era stato una delle principali cagioni di tutto
quel guasto, ma che almeno veniva per porvi qualche rimedio e si valeva della
popolarità che gli avevano acquistata i suoi spropositi per minorarne i tristi
effetti. Sia benedetto Antonio Ferrer! degli spropositi molta gente ne fa, ma
non sono molti coloro che adoperino il vantaggio che possono averne cavato, a
fare un po' di bene o ad impedire un po' di male. Antonio Ferrer metteva fuori
dello sportello una faccia tutta umile, tutta benigna, tutta amorosa, una faccia
che egli aveva creduto di tenere in serbo pel momento in cui si sarebbe trovato
al cospetto di Don Filippo Quarto: ma fu obbligato a spenderla in questa
occasione impreveduta. Cercava egli di parlare, ma i picchj, gli scalpiti, gli
urli, i viva stessi che si facevano a lui soffocavano la sua voce. Andava egli
dunque ajutandosi col gesto, ora avvicinando la punta delle mani alla bocca, e
tenendole poi supine, per render grazie alla benevolenza pubblica, ora
rivolgendole e abbassandole lentamente per richiedere (ma con un garbo
ineffabile) un po' di silenzio e di tranquillità; ora allargandole dinanzi a sè,
per domandare se fosse possibile un po' di passaggio, accennando nello stesso
tempo col volto ch'egli veniva per far cosa grata a quelli a cui domandava il
passaggio.
«Viva Ferrer! l'amico della povera gente! non abbia paura, ella è un galantuomo!
Vogliamo pane!»
«Sì, figliuoli, pane, pane! abbondanza!» rispondeva Ferrer, ponendo la destra
sul cuore per dare la forza del giuramento alle sue parole.
«Che cosa ha detto?» domandavano quelli che non erano vicini abbastanza per
intendere il suono delle parole.
«Ha detto pane! abbondanza!» rispondevano quelli che avevano inteso; e queste
parole girarono in un momento fino all'altra estremità della calca.
«Ciarle! ciarle!» gridavano alcuni. «Viva Ferrer! è un galantuomo!» gridavano
altri. «Noi vogliamo Ferrer! comandi Ferrer! morte ai birboni!»
«Sì figliuoli miei cari!» diceva il vecchio, alzando la voce quanto poteva:
«comanderò io: si farà giustizia: il pane a buon mercato. Intanto fatemi un
piacere, datemi un po' di passaggio. Vengo per mettere in prigione il vicario di
provvisione».
Questa nuova parola fu pure trasmessa di bocca in bocca. «Sì sì: bravo! in
prigione!» «No no! lo vogliamo morto!» «No! in prigione! giustizia! Largo!
largo!» «Sono imposture! chi l'ha da giudicare? Sono tutti d'una razza!» «Via!
via!» «Ferrer è un galantuomo! in prigione!»
La proposta inaspettata del gran cancelliere aveva divisi in un momento i pareri
e gli animi di quei comizj tempestosi, o per dir meglio aveva fatta scoppiare
una divisione che già esisteva. Alcuni o per una ebbrezza di furore e di
crudeltà, o per una fredda speculazione di anarchia volevano persistere nel
proposto sanguinario: ma i più, placati in parte e raddolciti dal vedere che un
alto magistrato veniva a riconoscere la giustizia della loro causa, e a compirla
legalmente, vinti dalla affezione che sentivano in quel momento pel vecchio
Ferrer, commossi da quella sua canizie e dal contegno supplice e carezzevole che
tanto piace alla moltitudine in un uomo che le si è sempre mostrato in un
aspetto di gravità e d'impero, innamorati anche dalla sicurezza animosa del
vecchio che non aveva dubitato di affrontare una tanta burrasca, gridavano che
gli si facesse luogo, e che il vicario gli fosse rilasciato. Fermo era tra
questi, e gridava a testa: «prigione, giustizia!»
I sentimenti, le grida, i movimenti di questa parte più placabile erano mossi e
regolati, senza ch'ella se ne avvedesse, da alcuni, i quali senza aver fra di
loro intelligenze precedenti, operavano pure di concerto, condotti da una
intenzione comune.
V'ha degli uomini onesti, ai quali nelle sommosse popolari, alle affoltate, alle
vociferazioni d'una moltitudine alleggiata, sono colpiti da un orrore pauroso,
non ponno sostenerne la vista, la vicinanza, e vanno a rimpiattarsi, se è
possibile, dove non ne giunga nemmeno il mormorio.
Ve n'ha altri, i quali sentono un orrore egualmente forte, ma che non li
confonde, che non toglie anzi cresce loro l'attività. Il tumulto è per essi un
nemico terribile, di cui vanno in cerca, per opprimerlo, o per ammansarlo:
accorrono dove la confusione è più bollente, il brulicame più fitto: non si
curano o dimenticano in quel momento da che parte sia la ragione e il torto,
dimenticano il proprio pericolo, e non hanno altro di mira che di frastornare le
risoluzioni feroci, d'impedire delitti: sono del partito degli oppressi e dei
minacciati, quali essi sieno; difenderli, salvarli, trafugarli, reprimere i
violenti, acquetare le cose è il loro scopo. Di questa specie d'uomini molto
rispettabile erano coloro che abbiamo accennati: l'oggetto dei loro sforzi era
di stornare la carnificina preparata al Vicario di Provvisione: sentirono essi
tosto che la venuta e la proposta di Ferrer era un mezzo potente alla loro mira,
anzi l'unico, al punto in cui erano le cose, e tutti, come d'accordo, fecero
tutto il possibile, per cavare ogni vantaggio da quell'incidente avventurato.
Ripetevano e spargevano le parole del gran cancelliere, vi aggiungevano i
commenti e le interpretazioni che erano più accomodate alle idee ed alle
passioni della moltitudine, gridavano quelle parole che potevano diventare un
grido universale, e comandare le azioni: lodavano, e dirigevano quegli che erano
già inclinati alla moderazione, ammonivano con dolcezza gli ostinati, o gli
svergognavano anche minacciosamente dove gli ostinati erano in minor numero, e
la forza e il favore erano per la moderazione. I loro sforzi non furono inutili,
e poco a poco apparve manifestamente che la moderazione aveva il maggior numero
di partigiani.
«Giustizia», e «Ferrer!» erano le due parole che più risuonavano tra il clamore
vario e indisciplinato.
Alcuni tra i guastatori avevano già deposti gli stromenti di distruzione, e
ristavano dall'impresa. «State quieti! aspettate! viene Ferrer a metterlo in
prigione», si gridava da mille parti a quegli che proseguivano a dar colpi alla
porta e al muro. Alcuni aggiungendo i fatti al consiglio, cercavano di toglier
loro di mano le leve e i martelli, e le travi: quindi una lotta tra gli uni e
gli altri che ritardò la presa della fortezza, e diede tempo al soccorso di
arrivare.
Ferrer si volse al cocchiere e gli disse in fretta, sotto voce ma
distintamente:...
Poi continuando a rivolgersi al popolo: «Signori», diceva: «un poco di
passaggio, vedo... capisco... sono angustiati... in cortesia... sì signori...
pane, abbondanza... in prigione, lo condurrò io, in castello...»
«Passo! passo a Ferrer!» «Vogliamo impiccarlo noi, il vicario! è un birbone!»
«No no: in prigione! giustizia!»
Intanto il cocchiere, imitando anch'egli la condotta del padrone, sorrideva alla
moltitudine, e con una grazia delicatissima moveva la frusta a destra e a manca
per accennare a quelli che erano dinanzi ai cavalli che si ritirassero un poco
sui lati: alcuni si ritiravano volontariamente, e quei bene intenzionati che
abbiam detto, posti nel mezzo rimovevano gli altri poco a poco, e la carrozza
dava qualche passo. Ferrer andava sempre ripetendo le stesse frasi, talvolta
dicendo le parole che soddisfacessero alle grida che sentiva più distintamente.
«Giustizia, m'impegno io, vengo a pigliarlo prigione: è giusto: il re nostro
signore vuole che si castighino quelli che fanno del male ai suoi fedelissimi
vassalli... a questi bravi galantuomini: largo di grazia: gli faremo il
processo: giustizia pronta: pane a buon mercato: abbondanza! abbondanza!»
Così passo, passo, la carrozza giunse dinanzi alla casa, su la porta, e si
fermò.
Quivi era il punto difficile, il momento sommo dell'impresa: ma il nostro Ferrer
era un valente in quel giorno, e doveva uscirne vincitore.