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Fermo e Lucia
Tomo 3
CAPITOLO 5
Ho visto più volte un caro fanciullo, (vispo a dir vero più del bisogno, ma che
a tutti i segnali promette d'essere un galantuomo) l'ho visto affaccendato sulla
sera, a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d'India che egli aveva
lasciato spaziare il giorno in un giardinetto. Il fanticino avrebbe voluto farli
andar tutti di brigata al covile, ma era fatica perduta; uno si sbandava a
destra, e mentre il picciolo pastore correva per raggiungerlo, un altro, due
tre, uscivano dalla frotta a sinistra; dopo qualche impazienza egli si
persuadeva che non sarebbe riuscito a quel modo; spingeva dentro prima i più
vicini, e poi tornava a pigliar gli altri ad uno a due a tre, come gli veniva
fatto. Così pure abbiamo dovuto far noi coi nostri personaggi: per seguire Lucia
nelle sue dolorose vicende, ci è stato forza perder di vista Fermo: ora che
Lucia è uscita dal pericolo, e posta in sicuro, e gli altri tutti qual più qual
meno allogati, noi torneremo indietro sulle tracce del suo promesso sposo.
L'abbiamo lasciato che s'avviava da Monza a Milano, munito d'una lettera del
Padre Cristoforo ad un padre Bonaventura, il mattino del giorno undici di
novembre. Al dolore di avere abbandonata la casa, al rancore d'averla
abbandonata per la violenza d'un ribaldo, al tribolo di trovarsi tapino sur una
strada senza sapere dove si poserebbe il capo, ai patimenti, ai disagi, alle
stizze, agli sconcerti della notte passata s'era aggiunto ora un dolore, che
esacerbava tutti gli altri; il distacco da Lucia, e un pensiero che diceva: -
chi sa quando ci rivedremo -. Andava dunque il povero Fermo tutto sconsolato,
pensando a tutti i suoi guai, e in capo a tutti questi pensieri si trovava
sempre quel Don Rodrigo che era la prima cagione dei guaj: e Fermo allora lo
malediceva con tutti i tiranni, con tutti i dottori, con tutti quelli che
avrebbero dovuto proteggere il povero, e lo lasciavano opprimere. I curati non
li malediceva, ma ritirava da loro la sua benedizione. Si ricordava poi di
Domeneddio, e del Padre Cristoforo, questo gli accadeva ad ogni volta che si
abbatteva in una qualche immagine dipinta sur una di quelle cappellette che
erano allora frequentissime su le strade: allora Fermo tornava in sè, e si
sforzava di perdonare: di modo che, in quel viaggio, egli ebbe ammazzato in
cuore Don Rodrigo e risuscitatolo almeno venti volte.
A misura che Fermo si allontanava dalle colline e si avvicinava alla città,
l'aspetto del cielo e del paese gli diveniva più triste e saturnino: di tempo in
tempo la via profonda fra due ripe, solcata da rotaje che erano diventate
rigagnoli, e tutta fango negli altri spazj era presso che impraticabile: a quei
passi un sentiero erto a guisa di scaglioni su la ripa, segnava che altri
passeggeri si erano fatta una via nei campi, costeggiando quella che avrebbe
dovuto essere la via.
Fermo salito il primo di questi sentieri, da quel luogo più elevato, guardando
dinanzi a sè, vide la guglia del Duomo, e ristette attonito: conobbe tosto
quello che doveva essere, e ristette ancora a rimirare, dimentico per un momento
di tutti i suoi travagli e assorto in quella contemplazione: poiché, come tutti
i contadini di Lombardia, egli aveva fino dalla infanzia inteso parlare di quel
Duomo, come della maraviglia del mondo: e in allora i viaggi erano così rari, e
le comunicazioni così infrequenti, che Fermo dubitava assai se in vita sua
avrebbe veduta mai quella maraviglia.
Ma dopo qualche momento d'estasi, guardandosi intorno, e seguendo la catena dei
monti, vide sorgere fra gli altri le punte del suo Resegone e si sentì tutto
rimescolare il sangue, si mosse macchinalmente per correre da quella parte, e
tosto ravveduto gli volse le spalle, e continuò tristamente il suo cammino. Ad
ognuno in cui si abbatteva, domandava egli se quella era la via che conduceva a
Milano, non tanto per esser certo della via quanto per assaggiare quegli
abitatori sconosciuti, per sentire il loro linguaggio, giacché gli pareva di
trovarsi in un paese strano, e per dirla nel suo linguaggio pareva perduto. Gli
era risposto che andava bene, ed egli continuava. Finalmente cominciò a vedere
campanili, cupole, torri, tetti e si accorse d'esser vicino. Allora s'accostò ad
un viandante che veniva da Milano, e detto umilmente: «in grazia, Vossignoria»,
gli fece una domanda più precisa, e alla quale egli, con le sue idee
contadinesche, stimava che ogni milanese dovesse saper rispondere: «Dove si va»,
disse Fermo, «per andare dal Padre Bonaventura?»
L'uomo a cui Fermo s'era voltato e ch'egli aveva pigliato per un cittadino, era
un agiato abitante del contorno, il quale andato quel mattino alla città per sue
faccende, ne tornava senza aver fatto nulla, e non vedeva l'ora di trovarsi a
casa sua.
«Caro giovane», rispose questi con una dolcezza studiata, e dissimulando la noja
che gli dava l'essere fermato, «caro giovane, bisognerebbe che mi spiegaste più
chiaramente chi è questo Padre Bonaventura che voi cercate».
«Non lo conosce?» replicò Fermo: «è il Padre Bonaventura cappuccino».
«Ve n'ha tanti!» disse l'interrogato; «sapreste dirmi di che convento egli sia?»
Fermo allora si trasse di seno la lettera del Padre Cristoforo, e la mostrò a
quel signore, il quale letto sulla soprascritta: nel convento della Concezione
in Porta Orientale, disse a Fermo: «Bravo giovane, siete fortunato, il convento
è qui vicino: pigliate questo viottolo a mancina; è una scorciatoia: vi
troverete tosto all'angolo di una fabbrica lunga e bassa: camminate lungo il
rigagnolo, e vi troverete alla porta orientale. Entrate, pigliate ancora la
mancina, e dopo forse cento passi, vedrete una piazzetta con dei bei faggi; ivi
è il convento di quei buoni padri. Dio vi accompagni». Ciò detto, fece egli un
grazioso saluto con la mano, e continuò il suo cammino lasciando Fermo
stupefatto del garbo con cui i cittadini parlavano ai foresi: perché i modi, il
volto, il tuono di quel signore non erano di una semplice cortesia ospitale;
v'era un non so che di riverente e di cortigianesco; si sarebbe detto che quel
signore parlava ad un uomo d'alto affare, e che voleva farglisi vedere amico
sviscerato. Ma Fermo non sapeva che quello era un giorno d'eccezione, in cui le
cappe s'inchinavano ai farsetti.
Entrò egli nel viottolo che gli era stato additato, e dopo un breve cammino si
trovò all'angolo del Lazzeretto; e dinanzi alla porta orientale.
Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre per la fantasia
le immagini che ora gli sono associate: ma che cerchi di raffigurare con la
mente gli oggetti quali erano al tempo di Fermo.
Al di fuori della porta, invece dell'ampia e diritta via fiancheggiata di pioppi
che si vede al presente, una stretta e tortuosa strada la quale da principio
seguiva la linea del lazzeretto, e poi correva sghemba fra due siepi. Una
portaccia sostenuta da due pilastri, coperta da una tettoia per riparare le
imposte, e fiancheggiata da una casipola pei gabellieri. A destra e a sinistra
di chi entrava due salite ai bastioni, non come ora inclinate regolarmente, fra
due cordoni paralleli, ed orlate d'alberi, ma tortuose, non battute, con una
superficie ineguale di rottami e di cocci gettati a caso. Il corso, ampio e
irregolare come al presente, aveva nel mezzo un fossatello, che fra due rive
erbose prosaicamente, senza esser campestri, menava un'acqua lenta, bruna e
carica d'immondizie: di modo che il corso era partito in due strade strette e
torte, coperte or di fanghiglia ora di polvere secondo l'ora del tempo e la
stagione. A pochi passi dalla porta, dove è ancora la contrada di Borghetto (chi
non la conosce è un tartaro) questo fossatello passava sotto una volta, e
lasciando libero il mezzo riusciva lungo alcune casipole a destra di chi
entrava, e quindi passando in un'altra tomba, attraversava sotterraneamente la
salita del bastione, e si gettava nel fosso che lambe il muro della città. Al
primo entrare si affacciavano a destra le casipole di cui abbiamo parlato, e
ch'erano abitazioni di lavandaj, addossate all'abbazia di San Dionigi la quale
occupava una parte di quello che ora è giardino pubblico: verso il mezzo del
giardino attuale v'era allora una strada che divideva il terreno dell'abbazia
dal terreno d'un monastero, di cui il chiostro rimane tuttavia in piedi, con una
facciata la quale vorrebbe dire: - sono un palazzo -, con tre altri lati che par
che dicano: - siamo un casolare dirupato -, ed un complesso che non sa bene
quello che si voglia dire. Questa via era posta quasi dirimpetto a quella di
Borghetto, tuttavia esistente; nel mezzo del quadrivio era una colonna con una
croce, e si chiamava la croce di San Dionigi. Delle fabbriche poi che allora
costeggiavano il corso, ben poche rimangono ancora, e sono le più povere e
disadatte: i palazzi, e le case ornate che ora si veggono son tutte nate molto
tempo dopo. Quando Fermo entrò vide la casa dei doganieri deserta, e deserta
quella prima parte del corso; e se non avesse inteso un romore lontano che
accennava un grande movimento, avrebbe creduto d'entrare in una città
abbandonata. Guardandosi indietro, come accade a chi trova solitudine dinanzi a
sè, mentre aspettava di trovar folla, vide troppe di gente che veniva. Andando
innanzi lungo le case dei lavandaj, senza saper che cosa pensare di quello che
gli appariva, vide egli lunghe strisce bianche, che avrebbe credute esser neve
se fosse stata egualmente diffusa; ma erano strisce le quali terminavano a
quella e a questa porta di quelle casipole. Abbassandosi a guardare più
attentamente, e toccando si accertò che ell'era farina, e disse tra sè: - Grande
abbondanza dev'essere in Milano, se in quest'anno vi si sciupa la grazia di Dio
a questo modo. - Procedendo così come trasecolato, e passando presso la croce
per attraversare il corso e incamminarsi dal lato destro, dov'era il convento,
parve di vedere al piè della colonna, e sugli scaglioni del piedestallo, certe
cose sparse qua e là, che non erano ciottoli, e se fossero state sul banco d'un
fornaio, egli non avrebbe dubitato un momento di chiamarle pani: ma non ardiva
creder così tosto ai suoi occhi, perché per esser pani eran troppo fuor di
luogo. Guardò più da vicino, si abbassò, ne ricolse uno: era un pane tondo,
bellissimo, e d'una pasta, di cui Fermo non ne aveva ancor mangiato molte volte:
«È pane davvero!» sclamò egli ad alta voce, tanto ne fu maravigliato. «Così lo
seminano in questo paese? e non si fermano a raccorlo quando cade? che venga da
sè come i funghi?»
Fermo aveva camminato dieci miglia, e sentiva appetito; e già al primo entrare
si era proposto di fermarsi alla prima bottega di fornajo che avrebbe
incontrata: ché non sapeva che in quel giorno a quell'ora in Milano v'era pane
da per tutto quasi fuorché da' fornaj. Trovandone ora così a proposito, stette
egli un momento a pensare se gli fosse lecito profittare di quella ventura; e
disse tosto: - L'hanno gettato alla balìa dei cani che passano: è meglio che ne
profitti un cristiano: alla fin fine, se viene il padrone, glielo pagherò. -
Fatto questo proponimento raccolse un pane, se lo pose in una tasca, ne raccolse
un secondo, e lo pose nell'altra; e raccolto il terzo cominciò a mangiare.
Frattanto vide gente che veniva dall'interno della città, e adocchiò
curiosamente i più vicini, avido di scoprire qualche cosa che gli rendesse
chiaro quel poco che aveva veduto fino allora. Erano un uomo e una donna che si
traevano dietro un ragazzotto, tutti e tre curvati sotto una carica, e in un
aspetto strano. Avevano l'abito e il volto infarinato, il volto per sopra più
stravolto, camminavano come affaticati e dogliosi, come se fossero stati pesti,
e parevano venire da qualche trambusto. L'uomo portava a fatica su le spalle un
sacco di farina, che bucato qua e là ne lasciava sfuggire degli sprazzi ad ogni
intoppo del portatore. Il ragazzotto teneva fermo sul capo con ambe le mani un
cesto colmo di pani: il ragazzotto non potendo fare il passo lungo a paro dei
suoi genitori rimaneva indietro di tempo in tempo, e quando egli affrettava il
passo per raggiungerli, e giungeva balzelloni, qualche pane cadeva. Ma la figura
la più strana e la più sconcia era quella della donna. Mostrava essa tutte le
gambe fino al ginocchio, e queste gambe si vedevano uscire da un gran corpo che
procedeva barcollando; da lontano sarebbe sembrato una pancia immensa; ma Fermo
vide che la donna teneva con le due mani il lembo della gonna rivolta in su, e
piena di farina, la quale pure traboccava ad ogni passo, e lasciava il segno di
quel viaggio faticoso. Mentre Fermo guatava quello spettacolo singolare,
sopraggiunsero alcuni che venivano da fuori, e accostatisi a quei caricati,
chiesero dove si andava a pigliare il pane. «Innanzi, innanzi», rispose la
donna. Quando quegli furono passati, Fermo intese la donna mormorare: «Questi
foresi birboni, verranno a portarci via tutto».
«Un po' per uno», disse l'uomo: «abbondanza, abbondanza».
«Se tu lasci ancor cadere uno di quei pani, brutto dappoco...» disse la madre,
digrignando i denti, e raggrinzando il naso verso il ragazzo, che in un
salterello ne aveva seminato un paio.
«Come ho da fare?» rispose il ragazzo.
«Eh! buon per te che ho le mani impedite!» ripigliò la donna, e così dicendo,
dimenò i pugni, come se desse una buona spellicciatura al poveretto; e con quel
movimento fece volare uno spruzzo di farina, da farne più che i due pani
lasciati cadere dal ragazzo.
«Via, via», disse l'uomo: «qualcheduno gli raccoglierà: abbiamo stentato tanto
tempo, ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace».
La conversazione non si sarà probabilmente terminata a quelle parole; ma
gl'interlocutori s'allontanavano da Fermo, ed egli non potè intenderne altro.
Da quel poco però ch'egli aveva inteso, e veduto, e che vedeva tuttavia, potè
egli comprendere che il popolo era sollevato, e che quello era un giorno di
conquista eroica, vale a dire, che ognuno pigliava secondo le sue forze, dando
busse in vece di danari.
Nel nostro sistema d'imparzialità, e di fedeltà storica, noi dobbiamo confessare
che il primo sentimento di Fermo fu un sentimento di compiacenza. Egli aveva
tanto patito nello stato ordinario della società; l'aveva veduto così favorevole
e comodo per la iniquità, e provato così inerte e senza ajuto per la ragione
debole, che si sentiva naturalmente inclinato ad ogni cosa che lo rivolgesse, e
lo cangiasse. Il cangiamento al far dei conti, poteva essere un male peggiore,
ma intanto non era più quel male di prima, ma intanto i pari di Don Rodrigo, si
trovavano una volta nelle angosce che avevano date agli altri, e i pari di Fermo
facevano valere le loro ragioni. Per altra parte Fermo, come tutti quelli che
avevano sofferto della carestia, ne accagionava principalmente la scelleratezza
di alcuni, e la negligenza crudele, o la connivenza di alcuni altri; e gli
pareva giusto che la forza venisse in ajuto della parte oppressa dalla
scelleratezza e dalla connivenza. Gli passava bene per la mente che quella
cuccagna non sarebbe stata che pei birboni più vigorosi e più svergognati, che i
veri languenti per fame non si sarebbero gettati in quel tumulto, e così la
parte la più debole e la più degna di soccorso avrebbe continuato a patire, e in
quel giorno principalmente sarebbe stata forzatamente priva anche dei soccorsi
della carità volonterosa, ma impotente; vedeva bene col suo buon senso che
quell'orrendo sciupio non avrebbe certo diminuita la scarsezza, e che quella
farina calpesta per le vie non sarebbe più andata in nutrimento di nessuno; ma
queste riflessioni fugaci, e quasi inavvertite non bastavano a soffocare quel
gaudio del garbuglio e dell'anarchia che si alzava nel cuore buono, ma irritato,
e nella mente non perversa ma pregiudicata di Fermo. Nulladimeno egli propose di
starsene fuori, e si rallegrò di essere raccomandato ad un cappuccino; il quale
gli darebbe ricovero, e buoni pareri.
Passato dinanzi alla croce, si portò egli sulla sinistra del corso, camminando
lentamente verso il convento: ad ogni passo vedeva egli arrivare nuova gente
alla rinfusa; altri trionfante e carico delle spoglie, altri che quatto quatto
si ritirava dal tumulto. Dove sorge ora quel bel palazzo con una ampia loggia
v'era allora, e v'era ancora non son molti anni, una piazzetta, e in fondo ad
essa la chiesa dei cappuccini, e la porta del convento: noi facciamo i nostri
complimenti a quei lettori i quali non hanno veduto niente di tutto questo; ciò
vuol dire che son molto giovani; ed essendo al mondo da poco tempo avranno fatto
anche poche minchionerie.
Quel compito signore a cui Fermo aveva domandato del Padre Bonaventura gli aveva
dato così chiaro indirizzo che era impossibile andare in fallo: del resto tutte
le chiese e i conventi dei cappuccini avevano come una fisonomia speciale, e chi
ne aveva veduto uno ne avrebbe riconosciuto un altro a prima vista. Fermo
s'avvicinò alla porta, cavò la lettera di seno, e tirò il campanello. S'aperse
lo sportello, e il portinajo alla grata domandò chi era.
«Uno di fuori che ha una lettera pel padre Bonaventura», rispose Fermo.
«Non è in convento», disse il portinaio.
«Mi lasci entrare, e starò ad aspettarlo», replicò Fermo.
«Fate una cosa», disse il frate: «andate ad aspettare in Chiesa, o dove volete,
che per ora non si entra»; e, detto questo, chiuse lo sportello.
Fermo rimase interdetto: egli si era proposto quel convento come un punto di
riposo, e un ricovero dai pericoli di una città nella quale egli non conosceva
nessuno, non aveva che fare, e che era in tumulto. Sulla prima egli volle
seguire il consiglio del portinajo, e ricoverarsi in chiesa; ma lo spettacolo di
quella moltitudine sciolta da ogni legge, di quella attività clamorosa, di
quella fratellanza di tanti che non avevan fra loro altra relazione che la
complicità di quel momento, lo attirava; la curiosità vinse, e Fermo disse fra
sè: - andiamo a vedere -. Mentre egli si avvia tra la folla al centro della
città e del trambusto, noi parleremo brevemente, se sarà possibile, delle cose
che furono l'origine e il pretesto di esso.
Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata piuttosto
scarsità che carestia: le provvigioni rimaste degli anni grassi antecedenti
avevano supplito tanto o quanto al difetto di quello, e la popolazione era
giunta al nuovo raccolto, non satolla, e non affamata; ma certo affatto
sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto nel quale erano riposte tutte le speranze,
fu scarso, come abbiam detto, e lo fu d'assai più del primo, in parte per
maggiore contrarietà delle stagioni, e in parte per colpa orrenda degli uomini.
Si guerreggiava allora in Italia, e non lontano dal Milanese; il quale si trovò
soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie. Queste furono
tanto intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il guasto della soldatesca
portati a tal segno, che molte possessioni rimasero abbandonate, molte campagne
incolte, e molti contadini andarono accattando quel vitto che avrebbero
procacciato a sè e ad altri col lavoro delle loro braccia. E dove pure s'era
coltivato, le seminagioni erano state scarse, perché l'agricoltore, tentato
dall'urgente bisogno aveva sottratta e consumata una parte e la migliore del
grano che doveva esser destinato a quelle.
Ottenuto appena il raccolto, la guerra stessa che era stata la principale
cagione a renderlo scarso, fu la prima a divorarne una gran parte. Le
depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo sprecamento infinito
delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel misero raccolto,
che la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe stessa. I territorj che
circondano il milanese, in parte afflitti dalla guerra, e tutti dalla sterilità
comune di quell'anno, non lasciavano speranza di cavarne ajuto di viveri. Sorse
quindi quel sentimento di ansia e di terrore nei più, di gioja avara e crudele
in alcuni, che nasce da una cognizione confusa ma viva della sproporzione tra il
bisogno di nutrimento, e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame: e
questo sentimento produsse il suo effetto naturale, inevitabile: la ricerca
premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il rincaramento.
Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra, perché pesano ad
un tempo sur una moltitudine: quando un tal male esiste, i migliori mezzi per
alleggerirlo (giacché toglierlo non è in potere dell'uomo) sono tutte quelle
cose che possono diffonderlo più equabilmente, farne sopportare al maggior
numero, a tutti i viventi, se fosse possibile, una picciola porzione, affinché
nessuno ne abbia una porzione superiore alle forze dell'uomo, fare che quel male
sia un incomodo per tutti piuttosto che l'angoscia mortale per molti, e la morte
per alcuni. Quindi il primo, il più certo, e il più semplice mezzo di
alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi, che si privino di
una parte di nutrimento per lasciarne di più alla massa del consumo universale.
Poi tutto quello che può aumentare nelle mani degl'indigenti i mezzi di
acquistarsi il vitto, in proporzione dell'aumento delle difficoltà, cioè del
rincaramento. Aumento quindi delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per mezzo
di nuovi lavori ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i
guadagni usati. Questo mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un
accrescimento del male, se non fosse accompagnato dalla cura attenta, assidua di
somministrare il vitto anche a quei molti che per debolezza, o per infermità non
lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero allora dei lavoratori ben nutriti,
e degli impotenti morti di fame: e la beneficenza sarebbe crudele per molti. A
questi ultimi non si può provvedere altrimenti che con l'elemosina tanto
sapientemente comandata dalla religione: quella elemosina di cui molti scrittori
hanno enumerati, e censurati amaramente gli abusi. Nè a torto; poiché è utile
scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però cosa trista e
dannosa che in un soggetto di tanta importanza non si sieno quasi considerati
che gli abusi; e sarebbe da desiderare che alcuno pigliasse la bella e forse
nuova impresa di ragionare del buon uso della elemosina, di mostrare com'ella
sia uno dei mezzi più potenti, più semplici, e certo più irreprensibili a tutti
quei fini che si propone una saggia e ragionata economia pubblica.
Questi che abbiamo accennati sono certamente i principali e più sicuri rimedj
alla penuria delle sussistenze; e quando si fossero posti in opera, il meglio da
farsi, sarebbe sopportare quella parte inevitabile di patimento con
tranquillità, e con rassegnazione, giacché tutte le ire, tutte le declamazioni,
tutti i falsi ragionamenti non ponno far nascere una spiga di frumento né
accelerare di cinque minuti il nuovo raccolto che deve mettere alla disposizione
degli uomini una nuova massa di sussistenze.
Ma oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo, e
moltissimi, per esacerbarlo, per accrescerlo, per rendere più trista e
complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi mezzi sono stati
per l'ordinario più adoprati dei primi; e si possono ridurre a due capi
principali: le idee del popolo, e i provvedimenti dei magistrati. Nella epoca di
cui parliamo, le idee e i provvedimenti concorsero potentemente a produrre quel
tristo effetto in un grado singolare.
Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tutti i discorsi: fatto ben
naturale, ma degno di molta osservazione, e di commento. Tutti ragionano delle
cause del male, tutti propongono i veri rimedj, tutti dissertano di principi
generali, di commercio, di monopolio, di accapparramento, di importazione, di
esportazione, di circolazione. Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita
sua di questa materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei
principj precede alla ricerca di essi. Guaj allora a quegli che hanno pensato a
questi principj nel tempo in cui nessuno vi pensava; guaj a quegli che danno più
degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti proferiscono, guaj a
quegli che hanno esaminati con una vista generale i fatti che sono l'argomento
della discussione comune! Essi soli non sono ammessi a parlare: essi debbono
vedere pazientemente discorrere i sofismi precipitati, e baldanzosi della
ignoranza, perché chi può fermare il sofisma? la ragione in bocca loro è
paradosso, e quando non si avesse altro da opporle, basterebbe quella accusa che
le si fa di essere stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in
quelle dolorose circostanze è quella della irriflessione: ma cessata la
carestia, cessano tutti i discorsi: nessuno ne vuol più parlare né sentire a
parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino di quella materia,
sono per lo più un soggetto di contraddizione per un momento, e rimangono dopo
quasi dimenticati: la società è in quel caso simile ad un povero scapestrato, il
quale trovandosi all'estremo, non ha parlato d'altro che di novissimi e di
penitenza: convalescente accoglie ancora il prete per urbanità; guarito
allontana da sè tutti i pensieri di quel momento del terrore.
Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo che non
ha mai avuto maestri né ozio, l'irritazione fanatica ad un popolo che non trova
pane col suo lavoro. Ma quegli che meritano rimproveri acerbi, e severi, quegli
che per bene loro e d'altrui vorrebbero essere sborbottati come ragazzacci
caparbj, tanto che si correggessero, sono coloro, i quali potrebbero meditare a
loro agio sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che
ne hanno cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e
procacciarsi così una opinione ragionata; e non lo fanno mai; ma al momento del
serra serra escono in campo a sentenziare furiosamente, cominciano a pensare con
la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che
nascono da un antico pensiero, ripetono, in un linguaggio meno incolto e più
strano i giudizj storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed
accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a tutti quei
raziocinj che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale sulla natura e
sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla,
e stornare quelle risoluzioni che lo peggiorano: e infervorati in queste degne
imprese, non si spaventano col pensiero della loro ignoranza; anzi ne cavano
argomento di gloria, e di fiducia; e a tutte le obiezioni, (o alla metà delle
obiezioni perché di rado lasciano terminare una frase ad un galantuomo)
rispondono con quell'inverecondo sproposito: «noi non vogliamo teorie»; non
riflettendo nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie,
diverse da quelle dei loro avversarj, in ciò soltanto che non sono fondate sulla
cognizione, o almeno sulla ricerca dei fatti.
Le storture del popolo, e di questi che abbiamo detto intorno alla carestia sono
moltiplici per sè, e infinite nelle loro applicazioni e nei loro rivolgimenti;
molte si possono vedere enumerate in alcuni libri che le hanno esaminate e
ribattute con più sagacità e pazienza che profitto; ma si possono forse ridurre
a due capi principali. Il primo è l'opinione che il male non esista, che il
difetto di sussistenze sia soltanto una apparenza nata da combinazioni perfide
degli uomini. Questa opinione viene sempre espressa e ripetuta con una formola
concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o un equivoco: - il grano
c'è -. Proposizione ambigua che può intendere una verità fatua e inconcludente,
o una affermazione temeraria e fanatica. Poiché se con quelle inconsiderate
parole si vuol dire che esiste una indeterminata quantità di biade, si dice il
vero, ma che cosa s'insegna? che cosa si vuol concludere? quella non è, né può
essere la questione. Ognun sa che i grani si raccolgono una volta l'anno, o a
certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto e l'altro ci
debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse assolutamente, non si
parlerebbe più di stentare, ma di morire, e tutti, e in pochi giorni. Se poi
dicendo: - il grano c'è -, s'intende (come s'intende) che ne esista una quantità
eguale al consumo ordinario, proporzionata al bisogno, o al desiderio della
popolazione; come mai una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter
conoscere, senza cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la
quantità del grano esistente? Eppure un fatto che con le più minute indagini,
coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il più freddo non si conosce mai con
precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza indagini, senza
calcoli, senza esame: un fatto che appena si può conoscere approssimativamente
per gli indizj del prezzo, della ricerca, della distribuzione, del consumo, si
afferma assolutamente contra la testimonianza di tutti questi indizj.
L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale è nel supporre che il
male sia il caro prezzo del grano: mentre questo non è che un effetto del male
vero, la sproporzione tra il grano e il bisogno; è un effetto, e un doloroso,
deplorabile, funesto, acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete; non saranno mai
troppi; ma il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo è un rimedio, considerato
parzialmente per un territorio, perché vi attrae il grano dai paesi dove è meno
scarso, e quindi a minor costo: è rimedio considerato generalmente, perché,
forzando pur troppo migliaja d'uomini a diffalcare una parte del consumo
ordinario, è cagione che si risparmj, si distribuisca per tutto l'anno fino al
raccolto la scarsa e mancante vittovaglia. Se una forza qualunque, potesse
illudere, addormentare fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di
modo che in un anno scarso generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli
anni abbondanti, ne avverrebbe certamente che il consumo, fin che grano vi
fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe lietamente a
discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di questo terribile beneficio
sarebbe di fare sparire tutta la provvigione qualche mese prima del raccolto.
Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due storture è
accetto al popolo che patisce; e la cosa è troppo naturale: non riconoscendo il
male nella natura delle cose, attribuendolo tutto alla perversità umana, essi
mostrano nello stesso tempo una compassione che pare più sincera per chi soffre,
un grande orrore per chi fa soffrire, e fanno sempre intravedere la possibilità
d'un rimedio pronto ed assoluto.
Ma quegli i quali veggono chiaramente la realtà del male, non hanno cose gradite
da dire a chi lo sopporta; poiché chi dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per
minorare il male, confessa che molto è senza rimedio, e raccomanda la
rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce; chi nega
all'addolorato che la causa prima, unica del suo dolore sia nella volontà
scellerata di alcuni, converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perché
l'addolorato si contenti di crederlo cieco e insensato, e non lo chiami atroce,
fautore, complice di quelli che creano il dolore. Sono i chiaroveggenti, in quel
caso, come un medico, che giunga al letto d'un infermo circondato da una
famiglia amante e ignorante, dove si trovi un ciarlatano il quale assevera che
il male è tutto nella cecità o nella impostura dei medici, e ch'egli tiene
un'ampollina dov'è la salute. Se il medico il quale vede che la malattia è
incurabile, si lascia uscire dalla chiostra dei denti questo suo parere, la
famiglia lo riguarderà come un pazzo crudele che desidera di veder morire le
persone.
Queste false idee che a malgrado di tanti scritti ragionati, e dell'aumento di
tante cognizioni, vivono tuttavia latenti e come addormentate nella mente di
moltissimi, pronte a ricomparire quando una penuria (che Dio tenga lontana) dia
loro occasione di mostrarsi, erano ben più universali, più pertinacemente
tenute, più furibondamente applicate nei tempi della nostra storia; nei quali
l'ignoranza era tanto più generale, e la scienza che era pure di pochi,
consisteva in un peripateticismo inteso come si poteva, e applicato come si
voleva a tutte le quistioni possibili di ogni genere, in tempi in cui non
esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta in
trattati, perché l'economia politica di fatto esiste nella società
necessariamente, più o meno spropositata.
Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità del raccolto,
avevano vedute e sofferte le atroci dissipazioni della soldatesca, e gli
sventurati abitanti della città le avevano pure intese raccontare: ma quando la
carestia cominciò a farsi sentire, né gli uni né gli altri volevano accagionare
di un tanto male una causa passata, e irrevocabile. Come se non avessero veduto
nulla, o tutto dimenticato, essi attribuivano il caro prezzo soltanto alla
crudele ingordigia di quegli che possedevano il grano. E una circostanza
speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più freddamente, se l'esame
freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente era pure stato scarso; e
si era per tutto quell'anno gridato contra gli accapparratori come contra la
sola cagione della carezza; si era detto che il grano abbondava, ma era tenuto
chiuso, stivato, murato nei granaj degli avari.
Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo raccolto; sarebbe stata cosa molto
naturale ricercare se quel grano era stato finalmente venduto, o no. Nel primo
caso, avrebbero dovuto gli uomini conchiudere che s'erano dunque ingannati
nell'affermare che il grano abbondava, poiché s'era venduto a caro prezzo fino
al raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente non era
venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj erano occupati; come
dunque potevano essi fare ancora nuove incette? Ma la popolazione sfogando
sempre il suo dolore con imprecazioni, non pensava che le ultime contraddicevano
alle prime. Si diceva anche che molti accapparravano i grani per ispedirli in
altri paesi; e in questi altri paesi si gridava che i grani erano spediti a
Milano. Tutti quelli che ne possedevano, erano oggetto di minaccia e di
abbominazione: i possessori che non lo vendevano erano tiranni, quegli che lo
comperavano per rivenderlo, i fornaj che ne facevano provvista, scellerati che
volevano ritirarlo dal commercio e imporgli il prezzo che sarebbe piaciuto alla
loro avidità. Che ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli necessaria
fino al raccolto, era cosa impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto o
potuto rendersi un conto esatto delle sue idee, e dei suoi desiderj, avrebbe
trovato ch'ella voleva che il grano non fosse in nessun luogo. Il prezzo
straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe nell'autunno, crebbe
straordinariamente al cominciare dell'inverno, e col prezzo crebbe il fremito e
il clamore del popolo, il quale accusava già apertamente i magistrati di
negligenza, anzi di connivenza con coloro che lo affamavano.
Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro molti
spropositi, ma questi erano in numero e in grossezza, ancora ben lontani dai
desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio delle cose forza a riflettere
anche quelli che sono più nemici della riflessione; e chi deve operare o
comandare direttamente, scorge talvolta anche a mal suo grado, anche chiudendo
gli occhi, l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento, che è domandato con
furore dai molti che lo stimano giusto, e lo credono agevole. Oltre di che
l'effetto immediato di quegli spropositi era di esacerbare la condizione
universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si attribuiva non già alla
efficacia funesta degli spropositi fatti, ma al non farne abbastanza. Era stato
tassato il prezzo massimo del riso, a lire quaranta imperiali il moggio per la
città di Milano: la conseguenza fu che quegli che possedevano riso, e potevano
venderlo a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne spedirono più un grano
alla città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che tassa il riso allo
stesso prezzo massimo per tutto lo stato: altra conseguenza, che i possessori
ricusino di vendere ad un prezzo comandato, quella merce a cui la rarità ne ha
assegnato un maggiore. Ordine di vendere il genere a chiunque ne offra il prezzo
tassato: industria dei possessori a nasconderlo per poter rispondere: «non ne
ho». Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova industria,
nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare le pene, senza esser
danneggiato. Comparvero allora, come dovevano comparire, di quegli uomini, i
quali conoscono a perfezione l'arte di eludere gli editti, arte tanto più
facile, quanto più gli editti sono assurdi. Costoro osservato lo stato delle
cose, fatte le loro ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto
maggiore dell'assegnato arbitrariamente si poteva fare ancor molto guadagno:
offersero quel prezzo ai possessori, i quali non rispondevano di non aver riso
da vendere a chi lo pagava più di quello che comandava la legge. Questi nuovi
compratori, trovavano poi il modo di rivendere il riso a maggior prezzo agli
stati vicini, dove non v'era tassa, o di conservarlo nascosto in onta degli
editti: il modo consiste, come ognun sa, nello studiare non tanto la volontà
unica donde è uscita la legge, quanto le volontà moltiplici, varie, più vicine
che debbono eseguirla, e nel trovare i mezzi di eludere queste volontà, o di
comperarne la complicità.
Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come il
possederli, il farne commercio, era un rischio dell'avere e della persona, un
soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi un marchio d'infamia,
così avvenne che questo commercio non fosse quasi più ricercato che dagli uomini
i più esperti ad eludere il rischio, i più agguerriti contra l'odio e contra
l'infamia; i quali sapevano come tutte queste cose, affrontate e sofferte con
una certa sapienza particolare possono fruttare danari.
La scarsità del frumento, e i mezzi posti in opera per renderlo più comune lo
avevano fatto salire ad un prezzo esorbitante. Si vendeva cinquanta lire il
moggio, se crediamo al Ripamonti allora vivente: settanta anzi ottanta se
vogliamo stare al detto di Alessandro Tadino, medico riputatissimo di quei tempi
che scrisse anch'egli (a dir vero con le gomita) una storia della peste, e della
carestia che l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di
quest'ultimo, il prezzo attestato dal Ripamonti era tale da porre in angustia
una gran parte della popolazione.
I mali nei loro cominciamenti, producono nell'uomo, generalmente parlando, una
irritazione più forte del dolore. Sclama egli da prima che i mali sono
intollerabili, che sono giunti all'estremo, e tanto fa, tanto s'ingegna, tanto
s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea egli questo estremo che naturalmente non
sarebbe arrivato: s'accorge allora che si può soffrire molto di più di quello
ch'egli aveva creduto dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà di
patire e di accomodarsi, ch'egli non sospettava in se stesso; e salta per lo più
dalla rabbia all'abbattimento senza aver toccata la rassegnazione.
Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo secondo i
suoi desiderj, l'uomo che partecipava delle sue idee, e che assecondandole gli
procurò una gioja corta e fallace, a cui doveva succedere, un nuovo dolore senza
disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza del delitto, lo spavento delle pene, e
quindi la tranquillità stupida della disperazione impotente.
Il Governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava allora a
campo sotto Casale per una guerra, atroce nella condotta, orrenda nelle
conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei quali parleremo più tardi e più
laconicamente che sarà possibile. Nella sua assenza, governava lo stato il gran
cancelliere Antonio Ferrer. Questi stordito dai richiami continui e crescenti
del popolo, stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati invece di
togliere il male lo avevano accresciuto, non sapendo più che fare, e persuaso
che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al partito di quelli che non
veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di determinazione: fece
un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse trentatrè lire il moggio, né più
né meno. Ammessa l'ipotesi, tutte le cose si raddrizzavano, e correvano a verso.
Il prezzo del pane si trovava proporzionato alle facoltà della massima parte,
cessavano quindi i patimenti, le minacce, le angustie; era un altro vivere.
Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato, Antonio
Ferrer, fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si sarebbe ricondotto,
se si fosse potuto far discendere il pane al prezzo corrispondente a quel prezzo
ipotetico del frumento. Procedendo col pensiero, trovò che un suo ordine poteva
produrre questo effetto; e conchiuse che bisognava dar l'ordine. Il poveruomo
non badò che cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto, operare come se le
cose fossero in un stato diverso da quello in cui erano: non pose mente a
distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto fosse stato
conseguenza naturale della proporzione tra la ricerca, e la quantità esistente,
ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non pensò a niente di tutto questo: fece
come una donna di mezza età che per ringiovinire alterasse la cifra della sua
fede di battesimo. L'ordine fu dato, promulgato, ed eseguito.
Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella natura
stessa delle cose, ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza esecuzione, ma
alla esecuzione di questo vegliava il popolo il quale come era ben naturale
l'aveva accolto con un grido di esultazione; e vedendo finalmente esaudito e
convertito in legge il suo desiderio, non sofferiva che fosse da burla. Il
popolo accorse tosto ai forni a domandare il pane a quel prezzo legale, e lo
domandò con quell'aria di risolutezza e di minaccia che danno la forza e la
legge insieme unite.
Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che strillassero i
fornaj: un politico avrebbe potuto dire che quello era il caso di fare soffrire
un picciol numero per sollevare e tranquillare una gran moltitudine: ma il male
era che questo picciol numero era appunto quello che doveva, e che poteva solo
dare in fatto quello che la legge comandava e prometteva in parole: e a produrre
l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine preciso, non
bastava che avessero molta paura, che fossero disposti a sopportare l'ultima
rovina delle sostanze per salvare la persona: era necessario che potessero. Ora
la cosa comandata era non solo dolorosa per essi, ma diveniva di giorno in
giorno più difficile; ma doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata
impossibile. Il popolo stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse
risolutamente e tenesse confusamente che quel prezzo stabilito era equo,
ragionevole, sentiva però anche confusamente che esso era come in guerra con
tutto il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della natura, e
prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto andar così sempre, né
a lungo.
Approfittava quindi del momento di baldoria, assediava continuamente i forni,
come dice il Ripamonti, si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato
quasi da una ventura momentanea, e la sua pressa indiscreta gareggiava con la
fretta e col travaglio dei fornaj. Così quella cieca moltitudine consumava
improvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la scarsa e preziosa
provvigione la quale però doveva servirgli per tutto l'anno. I fornaj costretti
ad affacchinare e a scalmanarsi per discapitare, ponevano in opera tutte le arti
per far perder tempo ai chieditori di pane, senza irritarli all'estremo,
adulteravano il pane con tutte quelle sostanze, che senza troppo lasciarsi
distinguere, ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che
la legge fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i richiami, come
Enea agli scongiuri di Didone.
Generalmente parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da
una sua ipotesi: con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei fatti,
perché finalmente l'evidenza l'ha trovata; ma l'ipotesi l'ha fatta egli; e l'ha
fatta non per ozio né per ispasso, ma per un gran bisogno che ne aveva, per
uscire da un impaccio. Oltre questa cagione generale, si può supporre senza
temerità che quell'uomo, benché dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il
suo ordine era stato pazzo, non voleva rivocarlo egli, e perdere così tutto il
favore del popolo anzi cangiarlo in furore; giacché certamente il popolo
l'avrebbe creduto subornato e corrotto se avesse tolto ciò che egli aveva
stabilito come giusto. Prevedeva egli dunque che la cosa non sarebbe durata, ma
lasciava ad altri la briga di dichiararla cessata legalmente. Come però spesse
volte bisogna rispondere qualche cosa ai richiami che non si vogliono
soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva ai fornaj, a tutti quelli che per uficio
erano costretti parlargli dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i
fornaj avevano guadagnato assai assai in passato, e che era giusto che
tollerassero allora quella picciola perdita. I fornaj repplicavano che non
avevano fatti questi guadagni, e che non potevano più reggere alla perdita
presente; Antonio Ferrer, ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che
sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto.