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Fermo e Lucia
Tomo 1
Capitolo 1
IL CURATO DI...
Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non
interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni e
per così dire piccioli golfi d'ineguale grandezza, si viene tutto ad un tratto
a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso diretto e
continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il punto dove il
lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor
più sensibile all'occhio ed all'orecchio questa trasformazione: poiché gli
argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere
sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno può
quasi sentire il doppio e diverso romore dell'acqua, la quale qui viene a
rompersi in piccioli cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata dalle pile
di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale.
Dalla parte che guarda a settentrione e che a quel punto si può chiamare la
riva destra dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla estrema
falda del Monte di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se l'argine non
vi fosse frapposto. Ma dall'opposto lato il ponte è appoggiato al lembo di una
riviera che scende verso il lago con un molle pendio, sul quale per lungo tratto
il passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta pianura. Questa
riviera è manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali spingendo la
ghiaja, i ciottoli, e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco a poco spinte le
rive avanti nel lago, ed erano abbastanza vicini perché le ghiaje gettate da
essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo toccarsi e formare un
terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre in un letto alquanto più
regolare, poiché questi stessi depositi hanno loro servito d'argine, e il
successivo loro impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei monti, dal
diboscamento, e dalla dispersione delle acque gli ha rinchiusi in un letto più
angusto. Così il terreno che li divide ha potuto essere abitato e coltivato
dagli uomini. Il lembo della riviera che viene a morire nel lago è di nuda e
grossa arena presso ai torrenti, e uliginoso negli intervalli, ma appena appena
dove il terreno s'alza al disopra delle escrescenze del lago e del traripamento
della foce dei torrenti, ivi tutto è prati campagne e vigneti, e questo tratto
d'ineguale lunghezza è in alcuni luoghi forse d'un miglio. Dove il pendio
diventa più ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo passato,
gli ulivi; al disopra di questi e sulle falde antiche dei monti cominciano le
selve di castagni, e al di sopra di queste sorgono le ultime creste dei monti in
parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in parte
coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra questi alberi crescono
pure varie specie di sorbi, e di dafani, il cameceraso, il rododendro ferrugigno,
ed altre piante montane le quali rallegrano e sorprendono il cittadino
dilettante di giardini che per la prima volta le vede in quei boschi, e che non
avendole incontrate che negli orti e nei giardini è avvezzo a considerarle
colla fantasia come quasi un prodotto della coltura artificiale piuttosto che
una spontanea creazione della natura. Dove però la mano dell'uomo ha potuto
portare una più fruttifera coltivazione fino presso alle vette, non ha lasciato
di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei piccioli vigneti posti su un
rapido pendio, e che terminano col nudo sasso del comignolo. La riviera è tutta
sparsa di case e di villaggi: altri alla riva del lago, anzi nel lago stesso
quando le sue acque s'innalzano per le piogge, altri sui varj punti del pendio,
fino al punto dove la montagna è nuda, perpendicolare, ed inabitabile.
Lecco è la principale di queste terre e dà il nome alla riviera: un grosso
borgo a questi tempi, e che altre volte aveva l'onore di essere un discretamente
forte castello, onore al quale andava unito il piacere di avervi una stabile
guarnigione, ed un comandante, che all'epoca in cui accade la storia che siamo
per narrare era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre, dalle montagne al
lago, da una montagna all'altra corrono molte stradicciuole ora erte, ora
dolcemente pendenti, ora piane, chiuse per lo più da muri fatti di grossi
ciottoloni, e coperti qua e là di antiche edere le quali, dopo aver colle barbe
divorato il cemento, ficcano le barbe stesse fra un sasso e l'altro, e servono
esse di cemento al muro che tutto nascondono. Di tempo in tempo invece di muri
passano le anguste strade fra siepi nelle quali al pruno e al biancospino
s'intreccia di tratto in tratto il melagrano, il gelsomino, il lilac e il
filadelfo. Una di queste strade percorre tutta la riviera ora abbassandosi, ora
tirando più verso il monte, ora in mezzo alle vigne, ed ora sulla linea che
divide i colti dalle selve. Questa strada è talvolta seppellita fra due muri
che superano la testa del passaggero, dimodoché egli non vede altro che il
cielo e le vette dei monti: ma spesso lascia un libero campo alla vista la quale
quasi ad ogni passo scopre nuovi ampi e bellissimi prospetti. Poiché guardando
verso settentrione tu vedi il lago chiuso nei monti, che sporgono innanzi e
rientrano, e formano ad ogni tratto seni, o ameni o tetri, finché la vista si
perde in uno sfondo azzurro di acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi
l'Adda che appena uscita dagli archi del ponte torna a pigliar figura di lago, e
poi si ristringe ancora e scorre come fiume dove il letto è occupato da banchi
di sabbia portati da torrenti, che formano come tanti istmi: dimodoché l'acqua
si vede prolungarsi fino all'orizzonte come una larga e lucida spira. Sul capo
hai i massi nudi e giganteschi, e le foreste, e guardando sotto di te, e in
faccia, vedi il lungo pendio distinto dalle varie colture, che sembrano strisce
di varj verdi, il ponte ed un breve tratto di fiume fra due larghi e limpidi
stagni, e poscia risalendo collo sguardo lo arresti sul Monte Barro che ti sorge
in faccia, e chiude il lago dall'altra parte. Ma non termina quel monte la vista
da ogni parte, poiché di promontorio in promontorio declina fino ad una valle
che lo separa dal monte vicino; e come in alcune parti la stradetta si eleva al
disopra del livello di questa valle, da quei punti il tuo occhio segue fra i due
monti che hai in prospetto un'apertura che dalla valle ti lascia travedere
qualche parte dell'amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del Monte Barro.
La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto concorre a
renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo, se avendovi
passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze autunnali
della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio
spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni.
Su questa stradetta veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi verso
casa, una bella sera d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle terre
che abbiamo accennate di sopra. (Questa è la prima reticenza del nostro
storico). Talvolta tra un salmo e l'altro metteva l'indice nel breviario al
luogo dov'era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra mano, e
la destra nella sinistra dietro le spalle, continuava il suo passeggio guardando
in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi che erano stati sospesi così
così nel tempo che aveva recitata l'ultima parte di ufizio. Uscendo poi da
questa meditazione egli girava gli occhi intorno, e arrestava lo sguardo sulle
cime del monte, osservando come aveva fatto tante altre volte sul monte i
riflessi del sole già nascosto, ma che mandava ancora la sua luce sulle alture,
distendendo sulle rupi e sui massi sporgenti come larghi strati di porpora.
Ripigliato poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse ad una
rivolta della strada dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di guardare
quasi macchinalmente dinnanzi a sè, e così fece anche quel giorno. Dopo la
rivolta la strada andava diritta forse un centinajo di passi, e poi si divideva;
a destra saliva verso il monte, e dall'altro lato scendeva nella valle fino ad
un torrente. Da questa parte il muro non giungeva che all'anche del passaggero,
e lasciava libera la vista del pendio sottoposto, fino al torrente, e ad un
pezzo di monte che lo rinchiudeva dall'altra parte. In faccia a colui che aveva
voltata la strada, e alla separazione delle due strade v'era una cappelletta
sulla quale erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, e terminate in
punta che nella intenzione del pittore, e agli occhi degli abitanti del vicinato
volevano dir fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre figure da non potersi
descrivere, che volevano dire anime del purgatorio; anime e fiamme color di
mattone su un fondo bianco con qualche scrostatura in varie parti. Al
rivolgimento dunque della strada alzando gli occhi verso la cappelletta il
nostro Curato vide una cosa che non si aspettava e che non avrebbe voluta
vedere. Due uomini stavano uno rimpetto all'altro ai due capi della strada: uno
seduto a cavalcioni sul muricciuolo con l'un piede appoggiato sul terreno della
strada e l'altro penzoloni giù lungo il muro, l'altro in piedi appoggiato al
muro con una gamba sopra l'altra, e le braccia incrocicchiate sotto le ascelle.
L'abito e il portamento non lasciavano dubbio della loro professione. Avevano
entrambi una reticella verde in capo la quale cadeva su una spalla terminata in
un gran fiocco di seta: due grandi mustacchi inanellati all'estremità, il lembo
del farsetto coperto e avviluppato da una cintura lucida di cuojo, ripiena di
cartoccini di polvere, ed alla quale erano appese due pistole con uncini: un
picciol corno ripieno di polvere appeso al collo come i vezzi delle signore:
alla parte destra delle larghe e gonfie brache una tasca donde usciva un manico
di coltellaccio, due legacce rosse al disotto del ginocchio a un dipresso come i
cavalieri della giarrettiera: uno spadone dall'altro lato con una elsa di
lamette d'ottone attorcigliate come una cifra; al primo aspetto si mostravano di
quella specie d'uomini tanto comune a quei tempi, che avevano nome di bravi,
specie che ora si è del tutto perduta come tante altre buone istituzioni.
Che quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente; ma
quello che più spiacque al Curato fu di accorgersi per certi atti che quegli
che aspettavano era egli poiché al suo apparire si erano guardati alzando la
testa, con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e due a un tratto:
egli è desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò la sua gamba sulla strada e
si alzò, l'altro si staccò dal muro; e si avvicinarono rivolti verso il
curato. Questi tenendo sempre il breviario aperto dinanzi come se leggesse,
alzava gli occhi per ispiare i loro movimenti e vedendoli inviarsi così verso
di lui, mille pensieri alla rinfusa gli corsero pel capo. Domandò subito in
fretta a se stesso, se tra i bravi e lui vi fosse qualche uscita di strada a
dritta o a sinistra, e gli sovvenne tosto di no. Pensava se avesse qualche
inimicizia, se potesse temere qualche vendetta, e in quel turbamento il
testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto; ma i bravi si
avvicinavano. Pose la mano nel collare, come per ricomporlo e intanto piegò
indietro la testa e guardò colla coda dell'occhio fin dove poteva, se
qualcheduno arrivasse, e non vide nessuno. Diede un'occhiata al disopra del
muricciolo, nei campi; nessuno: guardò sulla via che gli era dinanzi; nessuno
fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: fuggire; era lo
stesso che farsi inseguire, o peggio. Non potendo fuggire il pericolo gli corse
incontro; perché i momenti di quella incertezza erano allora così penosi per
lui che non desiderava altro che di abbreviarli: allungò il passo, recitò un
versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità
che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando fu accostato dai
due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due piedi.
«Signor curato»: disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Chi mi comanda?» rispose subito il curato alzando gli occhi dal libro e
tenendolo spalancato e sospeso con ambe le mani.
«Ella ha intenzione», proseguì l'altro, «di sposare domani Fermo Spolino, e
Lucia Zarella».
«Non lo posso negare»: rispose il curato col tuono d'un uomo convinto d'una
trista azione; e soggiunse tosto: «io non c'entro: fanno gli aggiustamenti fra
di loro, vengono da noi, noi siamo i servitori del pubblico...»
«Bene bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio non si deve fare, ma né
domani né mai». «Ma, Signori miei», replicò il curato colla voce d'un uomo
che vuol persuadere un impaziente, «ma signori miei, si degnino di mettersi nei
miei panni: se la cosa dipendesse da me...»
«Orsù» interruppe ancora il bravo che pareva avesse giurato di non lasciargli
compire un periodo, «se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe più di noi:
ma noi non sappiamo né vogliamo sapere altro: era nostro dovere d'avvisarla e
l'abbiamo fatto». «Ma loro signori son troppo giusti, e ragionevoli...»
«Ma», interruppe questa volta quell'altro che non aveva parlato fino allora,
«ma il matrimonio non si farà e» (qui una buona bestemmia) «chi lo farà non
se ne pentirà perché non ne avrà tempo e...»
«Zitto, zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa che noi siamo
galantuomini, e non vogliamo fargli del male, se egli opererà da galantuomo.
Signor Curato, ci ha intesi, l'illustrissimo Signor Don Rodrigo nostro padrone
le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...» disse il curato:
«Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un riso tra lo
sguajato e il feroce. «Ella troverà un mezzo, Signor curato, e sopratutto non
si lasci uscire una parola di questo avviso che le abbiamo dato per suo bene,
perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel tal matrimonio.
Buona notte Signor Curato». Così dicendo, si svilupparono dal curato, il quale
pochi momenti prima avrebbe dato qualche gran cosa per isfuggirli, e allora
avrebbe voluto prolungare la conversazione, e avviandosi dalla parte donde egli
era venuto, presero la strada, cantando una canzonaccia che non voglio
trascrivere. Il povero Curato pigliò delle due strade quella che andava a casa
sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che gli parevano
ingranchite, e con animo che il lettore comprenderà meglio dopo d'avere appreso
qualche cosa di più dell'indole di questo personaggio, e della condizione dei
tempi in cui gli era toccato di vivere.
.......
L'impunità era organizzata, e aveva molte altre cause di simil genere, e la
trepidazione nell'eseguire le gride nata da queste cause, e la sicurezza già
antica nei trasgressori educati a soperchiare. Ora questa impunità minacciata
ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e ad ogni
insulto fare nuovi sforzi per conservarsi, aumentare la sua forza, resistere,
atterrire, tenersi unita, e così faceva difatti. Quindi la grida al suo nascere
trovava molta gente che aveva già prese le disposizioni necessarie per
continuare a fare ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna libertà nelle cose
oneste perché col fine di aver sotto la mano ogni uomo per prevenire e punire
ogni delitto, le gride assoggettavano ogni mossa del privato al volere
arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d'ogni sorta. Ma chi si era messo
in istato di guerra colle gride, e cogli ordini d'ogni specie, chi aveva già
disposti i suoi mezzi di difesa nella forza aperta, o nelle astuzie legali, o
nella protezione, o nella connivenza allora comune e scandalosa dei giudici, chi
poteva e voleva ammazzare o dar la mancia ad un birro, quegli era libero nelle
sue operazioni, al sicuro delle gride, e in caso di rivolgerle anche contro gli
altri quando i suoi mezzi privati non fossero stati bastanti. Accadeva a taluno
di costoro di morire di morte violenta, di esser sbanditi, vivevano in continuo
sospetto, che vuol dire, erano nella condizione di tutti i loro contemporanei.
Quegli stessi che non avevano un animo provocatore ed ingiusto si trovavano come
costretti di guardarsi e di stare sulle difese, il che teneva per dir così una
quantità di forze sempre in presenza e dava a tutta la società un'aria di
sospetto, di offesa. Ad ogni momento tutto era pronto, per venire alle mani.
L'uomo che teme l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la
tendenza universale a quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in
corpi, in maestranze, in confraternite. Alcune classi già anticamente
costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e
spaventosa, quindi gli altri per non trovarsi sempre individui contra una società,
dovevano esser contenti di trovare un motivo per riunirsi, di avere
deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una bandiera, e di potere, quando
fossero toccati, rivolgere le forze solidali di molti a loro difesa. Il clero
era geloso sostenitore delle sue immunità, e come ad esso stava in gran parte
il decidere fin dove giungessero, non si deve domandare se le estendesse fin
dove potevano, e fin dove non potevano giungere. Che gli ecclesiastici vuoti di
spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari riponessero tutta la religione
in questa immunità non è da stupirsene, poiché è chiaro che è cosa molto
comoda l'avere una scomunica da opporre ad una ragione, e cessare ogni pericolo
con un privilegio d'inviolabilità indefinita. Ma quello che merita più
considerazione si è come i buoni non cedessero ai tristi in questa specie di
zelo, come uomini pii e d'una virtù molto superiore alla onestà, uomini
certamente di alto ingegno, potessero combattere acremente, lungamente, mettere
tutto a repentaglio per pretese, le quali non sembra che non possano conciliarsi
col minimo grado di riflessione, e con un grano di buona fede. Per ispiegare
questo fenomeno si dice che erano idee del tempo alle quali i migliori e più
sinceri intelletti pagavano tributo come gli altri. Ma questa spiegazione non ha
senso se non si trovano le cagioni per cui essi pure dovessero affezionarsi a
queste idee, quando il loro amore per la verità, e la loro attitudine a
trovarla dovevano condurli a scoprire il debole di queste idee. Le quali cagioni
appariscono chiare a chi dà una occhiata allo stato della società in quei
tempi. Tante erano le volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà le più
legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così potenti, che
il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado di esse,
senza avere una forza propria. Quindi tribunali civili e criminali per
assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una parzialità
ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato contro le
persone o i beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc. Malgrado
queste immunità, le quali con nome non affatto improprio allora si chiamavano
libertà, il Clero si trovava ad ogni istante inceppato da altre forze
organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno ambiziosi le credessero
non solo necessarie, ma insufficenti, se cercassero di estenderle, se vedessero
nella diminuzione di quelle, la diminuzione della religione stessa, e se
gridassero altamente che chi le intaccava, voleva rendere impossibile
l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non è detto per provare che
avessero ragione di pensare e di operare a quel modo, ma per ridurre il torto
alla sua giusta misura, e per ricondurlo alle sue vere cagioni, e per riflettere
che vi hanno degli inconvenienti che oltre il male diretto che fanno, ne
producono dei grandissimi forzando quasi gli uomini a cercare dei rimedi che non
sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e che oltre l'effetto per cui
sono posti in opera ne producono molti altri impreveduti e pessimi.
Abbondio non nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di essere
nella società come il vaso di terra cotta in compagnia di molti vasi di bronzo
sempre in movimento. Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà dei
suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico. A dir vero il suo
fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero. Egli
aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe rispettata e
forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite degli altri. Ma
non basta appartenere ad una classe per goderne tutti i vantaggi, come ognun sa:
bisogna anche che l'individuo sappia dirizzare a suo uso il più che può delle
forze che la sua società può mettere in opera, e non v'è organizzazione
comune che dispensi l'individuo dal farsi un suo sistema particolare. Don
Abbondio non poteva adottare un sistema nel quale fosse necessaria una qualunque
parte di risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla fin fine il
pover'uomo non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si
dice. Il suo sistema era dunque di evitare tutti i contrasti, e di cedere in
quelli che non avesse potuto evitare. Se egli era assolutamente forzato a
prender parte fra due contendenti, stava dalla parte più forte, procurando però
di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente avverso, che potendo
fare a suo modo sarebbe stato neutrale: pareva che gli dicesse: - Ma perché non
avete saputo essere il più forte? io sarei allora con voi. - Con queste arti il
pover'uomo era riuscito a poter giungere senza forti burrasche fino all'età di
cinquant'anni.
Ma il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di esser
mosso da principj bassi e da non confessarsi; e si era quindi fatto (come accade
sempre) una dottrina sua propria, secondo la quale la sua condotta era
ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi si vide in virtù di
questa sua buona condotta, bastantemente al coperto dalle offese altrui, pensò,
come accade, ad attaccare, e divenne un rigido censore delle azioni e degli
uomini che non tenevano la sua condotta, quando però questa sua censura potesse
esercitarsi senza alcuno anche lontano pericolo.
Chi era stato percosso e non era in caso di far vendetta era almeno almeno un
imprudente, un ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava parenti
irritati della sua morte, era un birbante; ma chi aveva commesso un omicidio
poteva esser certo che Don Abbondio non gli avrebbe mai trovato un difetto.
Quello poi che più gli dava collera era il vedere qualcuno dei suoi confratelli
pigliare le parti di un debole, difenderlo contro una soperchieria. Questo
chiamava egli un comprarsi le brighe a contanti, un volere addirizzare le gambe
ai cani. I potenti, i ricchi, i facinorosi, i protettori, i protetti, insomma i
vittoriosi d'ogni genere erano per lui uomini d'oro, e ne parlava sempre col
mele alla bocca. E se qualche seccatore trovava da apporre ad alcuno di questi,
mettendo il discorso sopra qualche grossa bricconeria commessa da alcuno di
questi grandi galantuomini, Don Abbondio si metteva a declamare contro quel
vizio di pretendere che gli uomini sieno perfetti. E quanto a quelli che avevano
sofferto di quella bricconeria, egli sapeva trovar loro qualche torto, il che
non è mai difficile, perché tra lo scellerato e l'onesto, la ragione e il
torto non si dividono mai con un taglio così netto che l'uno stia tutto da una
parte, e l'altro tutto dall'altra. E sigillava sempre il discorso col suo
assioma favorito, proferendo il quale rifletteva con compiacenza sopra di sè: e
l'assioma era: che ad un galantuomo che vuol viver quieto, che sa stare nel
fatto suo, non accadono mai brutti incontri.
S'immagini ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don Abbondio.
L'impressione di spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea d'un
pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni di
studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla quale era
fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto,
pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poiché
se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato
finito, essendo la coscienza di Don Abbondio bastantemente soddisfatta della
idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni, e non
istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il mondo, troverà
strano questo ritardo, e molto più una ripulsa, mormorerà, e che cosa
rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da questi pensieri il nostro Curato
per sollevarsi un poco si scatenava in suo cuore contro chi era venuto a
togliergli per sempre la sua pace. Egli non conosceva Don Rodrigo che di nome, e
di vista, e non aveva avuta altra relazione con lui che di fargli una grande
scappellata quando lo incontrava e di riceverne un mezzo saluto di protezione.
Gli era occorso talvolta di difenderlo, quando si parlasse di qualche
soperchieria da lui fatta, e aveva detto forse cento volte che Don Rodrigo era
un degno cavaliere. Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali
l'aveva difeso in altre occasioni. Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei
due sposi che in fondo erano la prima cagione di una tanta sua angustia.
Ragazzi, - andava ripetendo - ragazzi, non pensano che a maritarsi e non si
fanno carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo.
Colla compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta
e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria
stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono
più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un
curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio
erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona che
per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria.
«Ma che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente niente».
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la contò
per una risposta, e proseguì.
«Come, niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad
intendere?...»
«Quando dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente, o
è cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso alla confessione
che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.
«Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua
salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
Quando Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la
cosa era grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a dormire il Curato
senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa
ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?» «Sì sì,
da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto». «Ma io non
dirò niente se ella mi toglie da questa inquietudine». «Non direte niente
come quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti i
miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di domandargli
scusa, come quando...» Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse
avuto un secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da
questo intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don
Abbondio, ma in aria sommessa: «Oh per amor del cielo, che va ella mai
rimescolando: sono stata ben castigata, non aveva creduto far male, e dopo
d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...»
«Via, via, non giurate». «Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non
abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con
attenzione, ma ella sa», e qui fece voce da piangere, «ella sa che i misterj
non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...»
In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde
fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti le narrò il miserabile
caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e l'inquietudine del
fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata
alzata nel pugno che tenne puntato sulla tavola. «Misericordia!» sclamò
Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh
calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!» «Zitto zitto, a che serve
tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?» «Oh! vedete», disse il
curato in collera, «i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò,
come farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela». «Sa
il cielo se me ne spiace, Signor padrone, ma bisogna pensarci». «Sicuro, e
nell'imbroglio son io».
«Pur troppo», disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro
potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non
strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde». «Lo conoscete voi questo
cane? e sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene che...» «Zitto,
zitto, questo non serve». «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma
intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone».
«Ma se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e detto questo, si avvicinò
al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per dargli la leva: il
curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato vi si
ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo qualche
esclamazione, come: - Una bagattella! ad un galantuomo par mio: - ed altre
simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente, e
ordinatamente sui casi suoi.