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Fermo e Lucia
INTRODUZIONE
RIFATTA DA ULTIMO
«L'Historia si può veramente chiamare una guerra meravigliosa contro la Morte;
perché togliendoli di mano gl'anni già suoi prigionieri, anzi già fatti
cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in
battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal arringo fanno messe di palme,
rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando coi loro
inchiostri i fatti de Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi, tessendo
come in feral tela i conflitti di Marte, e trapontando coll'ago finissimo
dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo ricamo di azzioni
gloriose. Però alla mia debbolezza non è lecito solleuarsi a tal argomenti, e
sublimità pericolose; essendo che la Politica rinchiusa nelli latiboli delli
Gabinetti come la Dea cacciatrice negl'horrori del fonte, secondo che attesta
Ouidio, se qualche Atteone spinge lo sguardo troppo curioso a spiare i suoi
segreti, sprizzandoli l'acqua misteriosa nel fronte, lo tremuta in ceruo, con
diuenir bersaglio de veltri. Solo che hauendo io hauuto notitia di fatti degni
di memoria, auuegnaché successi a gente meccaniche et di piccol affare, ho
stimato bene di lasciarne una ricordanza a posteri con scolpirli in queste
carte. Nelle quali si vedranno in piccol teatro luttuose Traggedie di calamità,
et scene di malvaggità grandiosa, con intermezi di imprese virtuose, et bontà
angeliche che s'oppongono all'operationi diaboliche. Et veramente considerando
che questi Stati sijno soggetti alla Maestà del Re Cattolico, che è quel Sole
che mai non tramonta, et che sopra di essi, con riflesso lume, qual Luna non mai
calante risplenda chi ne fa le veci, et gl'amplissimi Senatori quali Stelle
fisse vi scintillino, et gl'altri Magistrati come erranti Pianeti portino la
luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo cielo, altra caggione
non si può dare delli fatti tenebrosi, prepotenze, sevitie ed atti tirannici
che si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica: poiché l'humana
malitia per se sola, forza bastante hauer non dovrebbe per deludere la vigilanza
di tanti Heroi, che vanno continuamente trafficandosi per il pubblico
emolumento. Perloché descrivendo questo racconto auuenuto nelli tempi di mia
gioventù, abbenché la più parte delle Persone in esso nominate sijno passate
ad altra vita, pure tacerò per degni rispetti li loro nomi, et il medemo farò
delli luoghi, solo indicando li territorij senza specificar il paese. Nè alcuno
dirà che questa sij imperfezzione del racconto, a meno non sij persona del
tutto ignara della Filosofia: che quanto agl'huomini dotti, ben vedranno nulla
manca alla sostanza di detto racconto; perché essendo fuori d'ogni dubitatione
che i nomi altro non sono se non purissimi accidenti...»
Tale è il proemio d'una curiosa storia, che avevamo animosamente impresa a
trascrivere da un dilavato autografo del secolo decimo settimo, ad intento di
pubblicarla. Ma copiate le poche righe che abbiam qui poste per saggio, il
fastidio che provammo d'una prosa così fatta ci fece avvertire a quello che ne
proverebbero i lettori, e intralasciare una fatica che sarebbe probabilmente
gittata. È ben vero che il nostro anonimo dopo essersi sul principio
sbizzarrito in concettini e in figure, piglia poi nel racconto un andamento più
posato e più piano, e solo di tratto in tratto spicca qualche salterello
d'ingegno, dove il soggetto lo richiede a parer suo. Ma quando egli cessa
d'esser gonfio diviene così pedestre! così sguaiato! Anzi, come il lettore ha
potuto accorgersene, ha l'arte di riunire queste qualità opposte in apparenza,
e d'esser rozzo insieme e affettato nella stessa pagina, nello stesso periodo,
nello stesso vocabolo: arte del resto comune a quasi tutti gli scrittori del suo
tempo, nel paese dove egli scrisse.
Ogni epoca letteraria ha un carattere generale suo proprio, una maniera, per dir
così, che si fa scorgere a prima vista negli scritti dozzinali, e dalla quale i
più distinti e originali non vanno mai esenti del tutto. In Italia poi, spesso
e forse ad ogni epoca, oltre la maniera generale v'ebbe in ciascuno Stato e
principalmente in ciascuna città capitale una maniera particolare per dir così
una sotto-maniera che era una modificazione di quella: ne riteneva alcuni
caratteri e ne aveva altri suoi proprii. Erano come tante varietà d'una specie.
Di tutte queste differenze si ponno trovare ad ogni caso molte cagioni nelle
varie circostanze dei diversi stati: una cagione comune è l'essere in ciascuno
di essi adoperato nei discorsi un dialetto particolare anche tra le persone
colte. Ogni lingua, ogni dialetto oltre i segni d'idee per così dire semplici e
che hanno segni sinonimi in ogni altra lingua, ha segni particolari, e ancor più
frasi che esprimono o accennano un giudizio o pongono la questione in un modo
particolare. La moltitudine di questi vocaboli e di queste frasi particolari dà
ad ogni dialetto un carattere, un colore suo proprio, e v'introduce una specie
di criterio individuale.
Quando l'uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una
lingua, il dialetto di cui egli s'è servito nelle occasioni più attive della
vita, per l'espressione più immediata e spontanea dei suoi sentimenti, gli si
affaccia da tutte le parti, s'attacca alle sue idee, se ne impadronisce, anzi
talvolta gli somministra le idee in una formola; gli cola dalla penna e se egli
non ha fatto uno studio particolare della lingua, farà il fondo del suo
scritto.
Di questo colore municipale si è fatto in varii tempi rimprovero a molti
scrittori: che deturpasse gli scritti non v'ha dubbio: quanto agli scrittori,
prima di rimproverarli così acremente si sarebbe dovuto pensare che non è cosa
tanto facile prescindere da quelle formole alle quali sono unite per abito tutte
le memorie, tutti i sentimenti, tutta la vita intellettuale. Non è cosa facile
certamente; e non è pur certo se questo sia un mezzo di far buoni libri.
Questa irruzione inevitabile di ciascun dialetto negli scritti generalmente
parlando, ha quindi contribuito grandemente a dare agli scritti d'ogni parte
d'Italia un carattere speciale: carattere così distinto che un uomo il quale
abbia un po' frugato nelle opere buone e triste dei varii tempi della
letteratura italiana, potrà dal solo stile d'un'opera argomentar quasi sempre
non solo il secolo ma la patria dello scrittore, e apporsi. Lo stile lombardo
per esempio ha un carattere suo proprio riconoscibile in tutti i tempi, e quasi
in tutti gli scrittori. Due classi ne ritengono meno degli altri: quegli che
hanno fatto uno studio particolare della lingua toscana; e quegli altri che
trattando materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono
serviti di uno stile per dir così europeo etc. etc.
Nella seconda metà del secolo decimo settimo, quando scriveva il nostro autore,
quella maniera che dominava in tutta la letteratura italiana e ha conservata una
turpe celebrità sotto il nome di secentismo; e che consisteva principalmente in
uno sforzo per trovare il maraviglioso ebbe nei diversi paesi d'Italia diverse
modificazioni, e tendenze principali: dove fu principalmente una affettazione di
sagacità raffinata, dove una esagerazione impetuosa d'idee di sentimenti e
d'immagini. In Lombardia, dove pochissime idee erano diffuse e ventilate, donde
nessun libro veramente importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana
si studiava pochissimo e da pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue
straniere, le quali del resto non avendo ancora opere ben pensate non potevan
comunicare idee in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in un modo
pedantesco, e molti studii trascurati anzi sconosciuti, il linguaggio comune
doveva esser rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale; e lo era infatti al
massimo grado. Sur un tal fondo si ricamava poi di quelle arguzie, si appiccava
quella ricercatezza che era la tendenza generale di tutta la letteratura
italiana; e ne usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d'ignoranza
affermativa, quella continuità d'idee storte espresse in solecismi, lo scrivere
insomma di cui si è dato un saggio. E il nostro autore non era uno dei peggiori
del suo tempo: era anzi alquanto al di sopra della proporzione media: ma in
verità s'io avessi avuta la pazienza di trascrivere la sua storia voi non
avreste quella di leggerla.
La storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch'ella dovesse
rimanersi sempre sconosciuta. Ci siamo quindi risoluti di rifarla interamente,
non pigliando dall'autore che i nudi fatti.
Ma, rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi
abbiamo noi sostituito? Qui giace la lepre.
Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata
qua e là, non solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola,
qualche frase assolutamente lombarda. E questa libertà l'abbiamo presa, perché
quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte d'Italia, si fanno
intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosciute
frasi dello stesso valore, le quali fossero non solo intelligibili, ma adoperate
negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le avremmo preferite a
quelle nostre, sagrificando di buona voglia l'imitazione d'una verità locale
alla purezza della lingua; persuasi come siamo che quel primo vantaggio sia da
trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si possa conciliare col secondo.
Oh! dirà qui taluno, è questa una giustificazione o una burla? Come pensate
voi a scusarvi di quella picciola libertà, quando una così grande e così
strana ne avrete presa in ogni luogo? quando tutta questa vostra dicitura è un
composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un
po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie,
ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse?
quando perfino conciliando, come il nostro autore, due vizii opposti avete più
d'una volta peccato di arcaismo e di gallicismo in un solo vocabolo? dimodoché
non si potrà forse nemmeno dire dove specialmente pecchi questa lingua che
adoperate, e non si può dire se non che è cattiva lingua. Voi fate come chi
dopo aver pesto un galantuomo a furia di sassate gli chiedesse poi scusa di
avergli fatta qualche picciola macchia su l'abito.
Ringrazio prima di tutto, molto cordialmente il cortese che mi fa questa
censura; perché dessa prova ch'egli ha letto o tutto o almeno in gran parte il
mio scritto. E appresso, lo prego di scusarmi se non gli posso rispondere. Non
è già ch'io non abbia ragioni da addurre per mia discolpa, non è nemmeno
perché io mi vergogni di diffondermi in un sì frivolo argomento come sarebbe
la mia propria giustificazione: giacché lasciando da parte questa miserabile
applicazione, la questione generale è per sè vasta e importante. E questo
appunto è il motivo per cui non posso rispondere al cortese censore; perché le
ragioni son troppe. Ci bisognerebbe un libro: e il cortese censore sarà
d'accordo con me che di libri uno per volta è sufficiente, quando non è
troppo.
Basta all'autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di
chi legge, per dispregio del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che
hanno per gloria lo scriver male. Per gloria! quand'anche ella fosse impresa
difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe toccare a
ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all'autore che egli parli di sè: è un
privilegio delle prefazioni, un picciolo e troppo giusto sfogo concesso alla
vanità di chi ha fatto un libro: scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il
modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I doni dell'ingegno
non si acquistano, come lo indica il nome stesso; ma tutto ciò che lo studio,
che la diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch'io non lo
acquistassi.
Che cosa poi significhi scriver bene non credo che alcuno possa definirlo in
poche parole, e per me, anche con moltissime non ne verrei a capo. Ecco però
alcune delle idee che mi sembra doversi intendere in quella formola. A bene
scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle frasi, che per
convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori
(moralmente parlando) hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel
popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un'altra lingua, quando che
sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono
passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel
discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente
adoperate all'uno e all'altro uso. Parole e frasi divenute per quest'uso
generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno (moralmente
parlando) le riconosca appena udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore
per caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle
ad un senso diverso dal comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per
provare che quella parola sia barbara, o inopportuna non debba frugare un
vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb'esser molto difficile)
che quella parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli
basti appellarsene alla memoria, all'uso, al sentimento degli altri ascoltatori,
i quali fossero mille, converranno tosto del sì o del no.
Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l'egregio
cavino dallo stesso fondo, e dopo d'averli uditi successivamente, un uomo colto
senta fra di loro differenza d'idee, di raziocinio, di forza etc. ma non di
lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e immedesimate col loro
significato, che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa
servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità
e senza equivoco, ed ogni lettore vi senta in un punto e l'idea comune, e quel
passaggio, quella estensione etc. che ha in quell'uso particolare.
Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due
condizioni. Che lo scrittore (lasciando sempre da parte l'ingegno) le conosca,
che abbia letto libri bene scritti, e parlato con persone colte, che abbia posto
studio nell'udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa condizione è
la seconda. La prima è che parole e frasi adottate esclusivamente per
convenzione generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori, come
d'accordo, abbiano formata questa lingua ch'egli debbe scrivere, gli abbiano
preparati i materiali. Se in Italia vi sia una lingua che abbia questa
condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire il mio parere. È ben
certo che v'ha molte lingue particolari a diverse parti d'Italia, che in una
sfera molto ristretta di idee certamente, ma hanno quell'universalità e quella
purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare,
negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente
uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque
barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la
milanese. Ve n'ha un'altra in Italia, incomparabilmente più bella, più ricca
di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere idee più
generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la
quale, fino ad una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc.
era al livello delle cognizioni europee, lo sia ancora, se possa somministrare
frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto libri sempre
pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un'altra
quistione su la quale non ardisco dire il mio parere.
Frattanto, desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori
convengano una volta dove sia questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico
tutti, o il grandissimo numero, perché uno, due, tre, cento non possono aver
ragione soli in una tal materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel
che convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è
quistione di fatto; e il fatto su cui si disputa è appunto se esista o no
questo universale o quasi universale uso d'una lingua comune. E a dir vero il
solo cercarla è un gran pregiudizio ch'ella non vi sia. Certo dove ella v'è,
non si fa la quistione, e se uno la proponesse, non sarebbe pure inteso.