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2. I segni della natura e i segni
dell'Uomo
2.1 Storia
di un paesaggio
"Chorìa èrema": così
Ermocrate di Siracusa, ai tempi della guerra del Peloponneso,definiva le
arre costiere ioniche del Salento.
Millenni di attività umane hanno profondamente modificato il
territorio, aggiungendo ai
"segni" della natura i propri segni, caratterizzandolo ed
arricchendolo a volte, spesso stravolgendolo in modo irreversibile.
Il tratto costiero posto a sud di
Gallipoli ed esteso fino al limite dell'abitato di Marina di
Mancaversa è tra quei pochi
ancora leggibili nei loro caratteri originari, in quelle unità
paesaggistiche - dune fossili in corrispondenza dell'antica linea di
costa, bassure sub-litorali e dune lungo la linea di costa attuale - la
cui sequenza costituisce un modulo ricorrente lungo l'arco jonico, in
maniera evidente in corrispondenza del litorale ugentino e a nord di Porto Cesareo.
Le dune fossili poste
lungo la vecchia linea di costa, che delimitano verso l'entroterra l'area
interessata, sono le più recenti di una serie che si succede parallela
alla costa attuale per circa 5 km verso l'interno, e costituiscono un
affioramento calcarenitico che si inarca a partire da Masseria Monaci fino
a raggiungere le ultime propaggini della Serra di Castelforte, quello
sperone roccioso dov'è sita Masseria Nuova e da cui si gode il più bel
colpo d'occhio sull'area e sulla baia. Da qui l'affioramento si
ricongiunge con la linea di costa attuale in corrispondenza di Punta della
Suina e si estende verso sud fino a Posto li Sorci, comprendendo il
roccioso promontorio del Pizzo. Su questo substrato povero e poco
incline alla coltivazione, si insedia una gariga bassa selezionata nelle
sue essenze e dimensioni da secoli di pascolo ed incendi, e che assume
caratteristiche di particolare interesse in prossimità delle Masserie Itri
e L'Ariò e nell'intera zona del promontorio, dove assume portamento di
macchia e si arricchisce di endemismi. Ampi tratti di praterie steppiche
caratterizzano ancora alcune aree prossime alla costa, probabilmente non dissimili da
quelle ove qualche millennio addietro l'Equus hidruntinus veniva
insidiato dai nostri antenati dell'epoca e i cui reperti sono stati
individuati in prossimità di Punta della Suina.
In più siti lungo l'arco della
formazione, sono rilevabili nel banco calcarenitico delle cavità
riconducibili alla tipologia degli ipogei a dromos in alcuni
casi riutilizzati come laure in epoca bizantina, ed in particolare in
prossimità delle Masserie Monaci, L'Ariò e Vocali.
Nei siti dove il banco
calcarenitico assume maggior spessore, ed in particolare in prossimità
delle Masserie Monaci, Itri, L'Ariò e Capurre, intensa è stata
storicamente l'attività estrattiva, che praticata con mezzi manuali
e per un uso immediatamente locale fino ad epoca recente, ha articolato in
maniera non lesiva l'orografia di questa porzione di territorio, favorendo
l'insediarsi di specie rupicole e di rettili, uccelli e mammiferi (di
particolare interesse tra questi ultimi la volpe, il tasso e, un tempo,
l'istrice) ed arricchendo in definitiva il sito. Assai differente è
stato ed è tuttora l'impatto delle nuove tecniche estrattive, intensive e
meccanizzate: un intero tratto della formazione è stato asportato in
nell'area compresa tra le Masserie Li Foggi e L'Ariò, lasciando al suo
posto un'immensa lacuna non solo visiva, nel paesaggio, ma anche
funzionale nella sequenza dell'ecosistema utilizzata come discarica nelle
aree non più attive. Queste cave costituiscono uno dei più seri fattori di
degrado dell'intera area. Numerosi sono gli affioramenti della
falda superficiale lungo questa formazione, altamente permeabile. Da
nord a sud si segnalano una risorgiva in prossimità dell'ormai scomparsa
chiesa di Santo Stefano in Pygi, che da essa prendeva nome, e poi
più a sud presso Masseria Bianca, dove ancora adesso esiste un Casino La
Fontana, e ancora una grandiosa polla non distante dalla faglia diretta ai
piedi della Serra, in prossimità della Masseria La Fontana, in agro di
Taviano. Quest'ultima dà luogo, con la piccola vallata circostante, le
opere di canalizzazione in
pietra e la stessa masseria, un tempo utilizzata per lo spaccio del
"chinino di stato", ad un contesto corografico e naturalistico assai
pregevole. Lungo la costa, notevole è la sorgente, distante circa 15 m
dalla linea di battigia, posta in corrispondenza del fabbricato un tempo
utilizzato come fabbrica di mattoni ed ora punto di ristoro estivo e un
tempo denominata "Pozzello di Sant'Agata" in quanto legata al rinvenimento
della sacra reliquia ed ai riti religiosi in onore della santa patrona
della città bella. Più ad ovest, in prossimità della Torre del Pizzo, tre fonti versano in mare acqua
per complessivi 50 lt/sec. In presenza di una così ricca falda
superficiale, ben si inquadra l' esistenza di una rete di corsi
d'acqua superficiali ed una vasta area umida retrodunare.
Il Canale dei Samari
deriva probabilmente il suo nome da una radice indoeuropea comune ad altri
idrotoponimi su una vasta area (Simeri in Calabria, Sammaro in Campania,
Sambra in Toscana, Sambre in Francia), indice di antichissime
frequentazioni, testimoniate dal rinvenimento di industria su selce e
ossidiana associata a ceramica d'impasto di tradizione neolitica. Esso
nasce da risorgive poste nei pressi della Masseria Goline, in agro di
Matino, e raccoglie nel suo alto corso le acque drenate da canali nelle
aree ad ovest di Casarano e Matino e a sud di Alezio e, attraverso il suo
affluente Raho, anche dalle zone a nord di Taviano: funge quindi da
collettore di quel bacino imbrifero relativamente esteso che il De Giorgi
chiamò Valle di Taviano. Con i suoi circa 7 km di sviluppo, il Canale o
Fosso dei Samari, è il più importante corso d'acqua della costa jonica
orientale: i suoi argini e le sue aree contigue, come quelli del Canale
Raho, costituiscono un ambiente residuale di assoluto rilievo ricco di
pregevoli punti paesaggistici e presenze vegetazionali notevoli in ambito
salentino, quali l'equiseto,
la ginestra, il corbezzolo, la rosa selvatica, la roverella, il
pioppo argentato, pervenuteci da contesti climatico-ambientali diversi
dall'attuale. Il suo corso superiore scorre incassato fra pareti calcaree
o argillose, mentre il tratto terminale, a livello con la vasta piana
subcostiera, che un tempo curvava verso sud per versarsi in mare a circa 500 m
dalla foce attuale, fu inalveato artificialmente con la realizzazione del
"drizzagno" durante gli anni '20. Recentemente la cementificazione
dell'alveo, precedentemente limitata a questo tratto terminale, è stata
brutalmente estesa a gran parte del corso sia ad opera del Consorzio
Bonifica Ugento-Li Foggi sia da parte dell'A.N.A.S. contestualmente ai
lavori di potenziamento della S.S.274: ne è conseguito il completo
snaturamento dell'habitat fluviale, la scomparsa delle specie ad esso
legate (castagna d'acqua, tritone e forse persino la lontra) e
l'eliminazione di quella funzione tampone dei confronti delle piene
stagionali i cui effetti sono stati fin troppo evidenti durante
l'alluvione del novembre 1993. L'artificializzazione del letto, la realizzazione di una strada e di
numerosi fabbricati tutt'altro che rurali a ridosso dell'alveo oltreché
l'immissione di sostanze tossiche di uso agricolo sono le principali cause
di degrado di questo particolare e prezioso ambiente.
L'area umida dei Foggi
- al pari delle omologhe Mammalia e Rottacapozza ad Ugento e Feda e
del Conte a Porto Cesareo - si è venuta a creare in epoca geologicamente
recente con la "chiusura" di una più profonda insenatura marina ad opera
delle dune costituenti l'attuale linea di costa e la successiva delle
acque dolci continentali. Prima del drastico ridimensionamento
operato dall'uomo nell'ultimo secolo, essa, soggetta ad ampie oscillazioni
stagionali di profondità ed estensione aveva come area di massima
espansione una fascia larga in media 500 m ed avente un fronte di circa 3
km, compreso tra la chiesa della Madonna del Carmine e la Masseria Li
Foggi, per una superficie totale di circa 150 ha. I corpi idrici
principali che la componevano erano, da nord a sud, i ristagni delle
Fontanelle, la Palude Grande o Bocca dei Samari e la Sogliana, alimentati
oltreché da un diffuso affioramento della falda anche dall'apporto del
Canale dei Samari, esondante durante le piene e dal deflusso in mare
ostacolato dai depositi di sabbia e posidonie alla foce. Da sempre
sito di attività e produzione, nonostante una tenace oleografia le voglia
esclusivamente luogo repellente e fonte di malattie, le aree umide
rivestirono un ruolo economicamente considerevole in epoca medioevale:
nella zona dei Foggi in particolare si praticavano la caccia, la pesca, la
raccolta di canne e di giunchi ed anche la vallicoltura e la macerazione
del lino. Lungo ampi tratti ai margini dell'area, temporaneamente emersi
nei mesi secchi, erano praticate colture stagionali. Bisognerà però
attendere la seconda metà del secolo scorso perché abbia impulso il
recupero agricolo delle zone. Ciò avvenne inizialmente ad opera di
privati, mediante la realizzazione di canaline di drenaggio e scolo -
realizzate in modo approssimativo per razionalità di connessione e
pendenza - e l'utilizzazione del materiale asportato per la
sopraelevazione del piano di campagna, originariamente posto fino a 20 cm
sotto il livello del mare, nonché di una strada mediana all'area parallela
alla costa. Non mancò l'applicazione di tecniche sperimentali come le
pompe idrovore ad energia eolica di fabbricazione olandese che il cavalier
Auverny utilizzò con scarso successo per il prosciugamento della parte di
palude posta a sud del canale. Sarà quindi lo Stato, con una
decisa azione legislativa a cavallo dei due secoli volta ad una
sistematica bonifica delle aree palustri soprattutto in funzione
antianofelica, a modificare profondamente la zona con le opere di riordino
idraulico attuate poi tra il 1923 ed il 1930. Tali opere consistettero
diacronicamente nella sistemazione idraulica del tratto terminale del
Fosso dei Samari - che comportarono la modifica del tracciato e la
realizzazione di un alveo e della bocca a mare in cemento -, nella colmata
artificiale e nel drenaggio con canali a marea il cui sversamento nel
Corso dei Samari era regolato da chiuse e nella realizzazione di circa 5
km di strade di servizio nell'area. E' significativo ricordare come buona
parte della colmata venne realizzata utilizzando la sabbia costituente le
dune, nonostante precise raccomandazioni ministeriali ne prescrivessero la
salvaguardia e fossero in quegli stessi anni oggetto di riforestazione. A
quel periodo è pure da riferire l'introduzione nell'area di specie
alloctone sia vegetali, quali il pioppo, l'eucalipto e persino il raro
Taxodium, quel cipresso calvo proveniente dalle remote Everglades
della Florida che campeggia in splendida solitudine al centro dell'area,
sia animali, come nel caso di
Gambusia holbrooki, altra specie nordamericana introdotta
quale antagonista delle larve dei ditteri e tuttora
presente. Nonostante l'assidua opera di manutenzione iniziale, con
taglio periodico del canneto e ripristino delle canalizzazioni, la zona fu
solo stagionalmente coltivata per cadere poi in abbandono e tornare ad
assumere le caratteristiche naturali dell'area umida coperta da un fitto
fragmiteto e popolata da un'abbondante avifauna e specie di rettili ed
anfibi tipici dell'ambiente su quasi tutta l'area originaria. A
partire dalla fine degli anni '50, dopo la realizzazione della litoranea
un nuovo tipo di intervento umano ha caratterizzato la zona, questa volta
in maniera irreversibile: iniziò allora, con l'edificazione del villaggio
Baia Verde, l'urbanizzazione dell'area, contestualmente ad una rivoluzione
che fu di costumi ed anche economica nell'approccio dell'uomo verso le
aree umide costiere non più viste come terre perdute da redimere alla
coltura agricola, ma da "valorizzare" come ameni luoghi di soggiorno
estivo. Episodi recenti di colmata artificiale sterile, palesemente lesivi
dei vincoli di legge gravanti sull'area hanno portato ad una profonda
alterazione dei connotati paesaggistici della funzionalità biologica e
dell'assetto idrogeologico dell'area umida, ridotta oramai a poche decine
di ettari di estensione, rendendo necessaria un'ampia opera di ripristino
ambientale.
La fascia costiera del
litorale sud-gallipolino è caratterizzata da un esteso deposito sabbioso
di origine bioclastica a granulometria medio elevata con frequenti
affioramenti del substrato calcarenitico. Ampio in larghezza circa 300 m e
con dune elevantisi fino a 12 m, come il De Giorgi ce lo descrive alla
fine del secolo scorso, questo tratto costiero fu interessato a più
riprese da opere di riforestazione tendenti a stabilizzarlo ed a riparare
dall'aerosol salmastro le colture dell'immediato entroterra cui si deve
l'introduzione di specie alofile come il pino d'Aleppo, l'eucalipto
arbustivo, l'acacia saligna, il tamerice e, nel retroduna, il pino delle
Canarie, che si aggiunsero ai preesistenti ginepri, integrati da nuovi
impianti. Interessante la tecnica usata già dagli anni '30 per la
fissazione preventiva della duna mediante le siepi morte e l'impianto di
psammofile. Attualmente l'intero sistema dunare è soggetto ad una
serie di fattori di degrado essenzialmente di natura antropica e
segnatamente: la presenza della strada litoranea e di altre strutture
rigide, che interrompono la naturale sequenza biogeologica falsando i
meccanismi di apporto-asporto del sedimento, l'eccessiva pressione antropica
nei mesi estivi col conseguente calpestio e l'eliminazione del manto
vegetale, il dissesto idrogeologico delle aree immediatamente a monte
della formazione. L'abbassamento del livello medio del deposito e
l'arretramento della linea di costa sono i segni più tangibili di questo
degrado, cui solo una gestione razionale del flusso di "fruitori"
dell'area e di graduale ripristino ambientale potrà porre rimedio.
Anche su questo settore del
territorio insistono testimonianze archeologiche di assoluto rilievo, come
i resti di focolare preistorico in prossimità di Punta della Suina
e, presso Punta Pizzo, resti di pavimentazione di una villa
romana e le uniche vasche per la lavorazione della preziosa
porpora rinvenute lungo le sponde europee del Mediterraneo!
Oltre che con questi segni
diffusi, intervenuti in varia misura nella trasformazione del territorio e
leggibili su scala corografica, l'attività umana nelle sue varie forme si
è espressa nell'ambito di nostro interesse con interventi edilizi
pregevoli non solo dal punto di vista architettonico, ma anche per il
significato storico che rivestono ed attribuiscono al contesto: ci si
riferisce in particolare alla chiesa di San Pietro dei Samari, alla
Masseria Itri ed alla Torre del Pizzo.
La chiesa di San Pietro dei
Samari, poco discosta dal fosso da cui trae il nome, è uno splendido
esempio architettura normanna, con navata unica a doppia cupola e
decorazione ad archetti ciechi alla cornice. Un'iscrizione ottocentesca
alla trabeazione dell'avancorpo postumo la vuole restaurata o addirittura
fondata da Ugo Lusignano al ritorno dalla seconda crociata, corrente
l'anno 1148. La
struttura, così come la comunità monastica residente, erano
probabilmente collegate alla coltivazione del lino, testimoniata nel sito
dal celebre Beneficio di
Federico II, risalente al 1200. Successivamente abbandonata ed adibita a ricovero per gli
armenti e per gli attrezzi agricoli, è attualmente soggetta a vincolo
architettonico individuo, così come l'area di contorno, ricca di
micro-cave e vegetazione spontanea.
La Masseria Itri è un
"segno" strettamente connesso non solo allo sfruttamento agricolo e,
soprattutto, pascolativo di un territorio "difficile", ma anche con la
difesa dello stesso in un periodo storico che vide frequenti incursioni
piratesche, particolarmente sul tratto di costa prospiciente . Questa
doppia funzione è facilmente leggibile nella torre fortificata - a due
piani, con spigoli rinforzati, caditoie e ponte levatoio per l'accesso al
piano rialzato - risalente alla prima metà del XVI secolo e dall'ampio
recinto con capanne ad archi per gli ovini.
La Torre del Pizzo,
anticamente detta del Catriero o
di Cutreri - forse dal greco akroterion, in relazione alla
conformazione del sito - attiene tipologicamente, con la base troncoconica
e la struttura in pietrame, alle torri costiere del primo periodo
viceregnale, fra il 1532 ed il 1563, volute da Don Pedro di Toledo ad
opera dei privati proprietari. Attualmente è adibita ad alloggio estivo e
versa in buono stato di conservazione.
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