Che il Bertozzi sia concorso con piena volontà e coscienza nei fatti che portarono direttamente alla uccisione dei partigiani di Valmozzola, delitto irrefutabilmente accettato nella sua materialità in base alle numerose testimonianze (anche quella del Bertozzi) e dei certificati di morte in atti, risulta dalla sua attività svolta nei pochi giorni che trascorsero dalla cattura alla fucilazione dei giovani, i quali furono proprio messi nelle sue mani onde dalle loro dichiarazioni si ricavasse quanto più possibile per scoprire altri partigiani e coinvolgere altre persone nell'accusa di resistenza ai fascisti e ai tedeschi. I disgraziati, dopo una breve punta a La Spezia, erano stati riportati a Pontremoli, e quivi sottoposti, come si disse, alle durissime inquisizioni. A Pontremoli il Vescovo fece il possibile per venire in aiuto agli infelici e insistette (lettura deposizione di don Marco Mori, segretario episcopale, vol. A f. 79) presso il Bertozzi, per l'inoltro della domanda di grazia, ma il Bertozzi rifiutò di accondiscendere alla richiesta: nella notte il Battaglione della Xª che, coi prigionieri, messi in una legnaia, era accantonato nel palazzo del Seminario, partì improvvisamente, e il mattino il fato dei poveri giovani era compiuto. Ora, basta tener presente che i poveretti erano stati mandati alla morte per semplice rappresaglia, non essendo risultato che essi avessero partecipato al precedente assalto al treno. Fu in seguito alle inquisizioni condotte dal Bertozzi in cui i prigionieri furono seviziati anche con le stesse mani di costui - teste Galeazzi Mario) e qualcuno, come il Cheirasco Ubaldo fu visto (teste don Mori) con la faccia tumefatta e chiazzata di lividure, e furono poi condotti al posto dell'esecuzione ciascuno sorretti da due militi perché non potevano reggersi in piedi (teste Chimenti) che fu decisa la loro soppressione per rappresaglia dell'attacco dei partigiani. Per quanto risulta dalle indagini, nessun vero e proprio tribunale fu costituito per giudicarli, nessuna sentenza fu pronunciata, né certo nessun tribunale straordinario di guerra poteva costituirsi per giudicare della gente che non aveva commesso fatti previsti come reati dalle leggi di guerra. Sono tutti arresti arbitrari, perquisizioni arbitrarie, uccisioni arbitrarie da parte di coloro - comandanti e dipendenti - i quali, illegittimamente combattendo contro i partigiani, cioè le forze armate del governo nazionale legittimo, e procedendo alla cattura dei loro avversari, li mandavano alla morte. In tale stato di cose, chiunque sia concorso nell'uccisione - che costituisce il delitto di omicidio volontario - perché l'uccisione per rappresaglia non è contemplata da nessuna legge italiana e tantomeno da qualsiasi convenzione internazionale - risponde del delitto di cui all'art. 575 c.p.. Nel caso presente, poi, il Bertozzi deve rispondere di tale delitto, perché la morte di giovani partigiani, purissimi eroi che si sono abbattuti al suolo col grido di "Viva l'Italia", è diretta dall'azione del pervenuto. Anche a voler ammettere che la cattura sia stata operata da altri reparti della X Mas, i prigionieri furono messi a disposizione del Bertozzi subito dopo la cattura, e da quel momento, e fino all'istante della fucilazione, furono in piena ed esclusiva del comandante dell'ufficio politico-militare investigativo, che inflisse loro il durissimo trattamento di cui si è già parlato. Eseguito tale compito, il Bertozzi provvide a che fosse eseguita la rappresaglia mortale, e accompagnò i morituri fino al luogo del supplizio. Che sia stato il Bertozzi a disporre la fucilazione, o a dare i prigionieri in mano a coloro che dovevano sopprimerli, non si può mettere in dubbio, perché il Vescovo di Pontremoli non poté ottenere dal Bertozzi che fosse dato corso a quella domanda di grazia che il comandante - e cioè il Bertozzi - ha facoltà di inoltrare a norma delle leggi penali militari a quella suprema autorità che il diritto di grazia può esercitare. Va perciò applicata al Bertozzi il disposto di cui alla 1ª parte dell'art. 116 c.p. perché egli, con la sua azione, ha voluto e previsto l'evento letale. Egli stesso, del resto, ha dimostrato, con l'assistere alla fucilazione, di essere concorso a portare alla morte i giovani partigiani, perché egli stesso dice di aver fatto presente che il Galeazzi Mario non meritava la morte, il che comprova come egli, di fronte al fatto che il Galeazzi non doveva considerarsi un vero e proprio partigiano, modificava il giudizio già dato, o meglio, l'ordine dato di passare per le armi per rappresaglia i prigionieri partigiani. E che esista il concorso, lo si desume anche da altre circostanze. Subito dopo la fucilazione, la notte del 18 marzo 1944, il Bertozzi, su notizie avute dai fucilati, fece arrestare l'operaio Spinosa Artemio (verb. dibatt. f. 272): condottolo nella caserma di La Spezia lo Spinosa fu interrogato a suon di botte dal Bertozzi e accoliti; il Bertozzi gli disse "se non parli farai la fine dei sette tuoi amici fucilati a Valmozzola" e gli diede personalmente sette o otto colpi di frustino. Sempre dopo la fucilazione, alcuni parenti dell'ucciso Mosti Domenico, cioè la madre Dolfi Marianna (verb. dibatt. f. 235) e la zia Anna, recatesi al cimitero di Valmozzola, non furono in grado di riconoscere la salma, sfigurata per i colpi ricevuti e fors'anche per le percosse ricevute in precedenza. Si recò persino dal Bertozzi la sorella dell'ucciso, Mosti Bruna (verb. dibatt. f. 236) e il Bertozzi disse che si ricordava di lui e diede tali indicazioni dalle vesti, che la donna poté identificare il cadavere. In tale occasione il Bertozzi aggiunse che il Mosti era quello che gli aveva fatto più compassione, ma d'altra parte, un esempio ci voleva, il che conferma che il Bertozzi volle e concorse a far uccidere per rappresaglia il giovane. Il Bertozzi restituì alla donna il portafogli del morto senza però il denaro e, mostrando la fotografia di tale Ancovini, disse "Questo è la rovina di tutti i giovani." Non va taciuto, infine, quanto narrò (verb. dibatt. f. 219) Rovagna Mauro, il quale nel 1944 era cameriere presso il Battaglione S. Marco e poi alla mensa ufficiali della X Mas. Ricorda il Rovagna che una sera del marzo 1944 furono condotte in caserma 18 (....................) fu inscenata, per impressionare i partigiani, una finta fucilazione. Alla farsa assistette il teste: nel pomeriggio i prigionieri furono interrogati dal Bertozzi e il teste, dall'uscio socchiuso, poté vedere il Bertozzi personalmente battere e calpestare con una cattura di ferro gli arrestati. In un giorno del maggio successivo il Bertozzi, vedendo il Rovagna al servizio della mensa e saputo che il teste era di S. Terenzo al mare, gli disse: "tutti carogne quelli di S. Terenzo. Spero di far fare a molti di voi la stessa fine che ho fatto fare a Trogu (pure di S. Terenzo)." E a proposito sempre del povero Trogu la sorella di costui, Trogu Luigia (verb. dibatt. f. 228) riferisce di essere stata chiamata pochi giorni dopo l'esecuzione dal Bertozzi il quale le consegnò il portafogli e i documenti del fratello Angelo, e le disse che il fratello aveva chiesto grazia per sé e compagni, ma che non era stato possibile, e aggiunse che egli non era pentito di quello che aveva fatto. Va ricordato (verb. dibatt. f. 230) che, dopo l'eccidio di Valmozzola, il Bertozzi non essendo riuscito ad arrestare il capo partigiano Galli Libero, appartenente alla formazione dei fucilati, arrestò il di lui padre, che per suo ordine fu seviziato e perdette un occhio e morì nel dicembre 1945 in conseguenza delle lesioni. All'arrestato furono asportate £. 45.000. Nei suoi interrogatori il Bertozzi, pur ammettendo che presso il pubblico godeva la fama di belva feroce, escluse sempre di aver preso parte alle sevizie ecc., alle uccisioni, e di avere ordinato comunque atti coercitivi e, di fronte alla molteplicità delle accuse, volle spiegare in qualche modo il fenomeno facendo presente che si addossavano a lui, in buona o mala fede, le malefatte di un suo quasi omonimo, Bertozzi Augusto, il quale nel 1944 era segretario federale del P.F.R. di La Spezia. In realtà, è risultato che questo Bertozzi Augusto era a quell'epoca segretario federale della città di La Spezia, che però era sfollato con la famiglia a Fivizzano che, all'infuori di aver coperto la carica, non si era macchiato di nessuna delle colpe che si addebitano all'odierno imputato, o simili, né in provincia di La Spezia, né in quelle limitrofe di Massa o Apuania, che egli mancò ai vivi verso la metà del luglio 1944, vittima di un incidente automobilistico in Genova che, infine, tutti i denuncianti sono concordi nel sostenere che l'oggetto delle denunce è il tenente Bertozzi (e non già il Federale), il tenente Bertozzi, da loro e dalle persone che da loro sono indicate, ben conosciuto. L'attività dell'ufficio I della X Mas e del suo comandante in collaborazione con i tedeschi, continuò ininterrotta nei mesi seguenti, fino a quando la X Mas fu trasferita in Piemonte, e sempre con perquisizioni, arresti, ruberie, sevizie a detenuti e uccisioni di partigiani, nelle provincie di La Spezia e nelle limitrofe di Parma e di Apuania. Essa culminò, nell'estate 1944, nei rastrellamenti e nelle terribili uccisioni di Forno di Massa, Piana di Battolla, Fivizzano, Gragnola, Licciana di cui ai vari capi di imputazione. L'eccidio di Forno di Massa, in cui risultano fucilati a opera dei nazifascisti non meno di 62 persone, di cui soltanto una parte si poté identificare, e molti altri scomparsi, senza lasciare traccia, probabilmente arsi vivi nelle case incendiate per rappresaglia, è uno dei più gravi episodi della lotta clandestina, che ridonda a eterna infamia degli oppressori tedeschi e dei loro fiancheggiatori italiani. La responsabilità del Bertozzi non solo nel rastrellamento e relative violenze e ruberie, ma anche nella (..............)

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