VITA DI SAN DOMENICO
P. Enrico D. Lacordaire dei Predicatori
INTRODUZIONE
Il secolo duodecimo dell’era cristiana era
cominciato sotto i più felici auspici. Comunanza di fede e di
sentimenti governava allora l’Occidente, formando di vari popoli
ossequienti e liberi come una sola famiglia. A capo dell’ordine
sociale stava il Sommo Pontefice, il quale con maestà e giustizia
insieme, ora soccorreva dal trono all’infermità della natura,
che mal sapeva comandare, ora alla debolezza della medesima, che
per gl’insopportabili abusi della forza, mal sapeva ubbidire.
Vicario di Dio e dell’umanità, con la destra distesa sul Cristo
e la sinistra sull’Europa, il pontefice romano guidava per
diritte vie l’umana generazione, prevenendo in se medesimo l’abuso
de' suoi pieni poteri col sentimento della personale debolezza. La
fede, la ragione, la giustizia mai si erano incontrate in sì alto
grado; né mai il ristabilimento dell’unità nelle viscere
lacerate del genere era sembrato più probabile e più vicino.
A Gerusalemme, sulla tomba del Salvatore
sventolava già il vessillo cristiano, invitante la Chiesa greca
ad una gloriosa riconciliazione colla Chiesa latina. L'Islam vinto
nella Spagna e cacciato dalle coste italiane, si trovava assalito
nel cuore stesso della sua potenza; e venti popoli, marciando
insieme alle frontiere dell'umanità rigenerata per difendere il
Vangelo di Gesù Cristo contro l'orgoglio dell'ignoranza e la
brutalità della forza., promettevano all'Europa la fine di quelle
sanguinose migrazioni di cui 1'Asia era il focolare. Chi avrebbe
potuto predire allora l'ultimo termine delle vie trionfali aperte
nell’Oriente dalla cristiana cavalleria? Chi prevedere ciò che
sarebbe addivenuto il mondo sotto l'indirizzo di un pontificato
che al di dentro avea saputo creare una così grande unità, e al
di fuori dar vita ad un movimento così straordinario?
Il secolo duodecimo però non finì come avea
cominciato; e quando giunto a sera piegò al tramonto per
riposarsi nell'eternità, anche la Chiesa parve declinare con lui,
china la fronte sotto un pesante avvenire. Non più la croce di
Cristo sui minareti di Gerusalemme. Ai nostri cavalieri vinti da
Saladino, era rimasto appena, qualche palmo di terra nella Siria;
e la Chiesa greca, anziché ravvicinata a quella romana, per
l'ingratitudine e la perfidia de' suoi verso i crociati, sempre
più ostinavasi nello scisma. L’Oriente era perduto! La storia
ha chiarito dipoi le conseguenze di un tale disastro.
Costantinopoli vinta; una parte delle terre europee in mano ai
Turchi ottomani; milioni di cristiani sotto la dura servitù della
loro potenza, ed il resto della cristianità minacciata fino ai
tempi di Luigi XIV dalla scimitarra di Maometto; e poi tre secoli
di scorrerie tartariche nel cuore stesso dell'Europa; lo scisma
greco abbracciato anche dalla Russia, pronta a precipitarsi
sull'Occidente per distruggervi ogni legge ed ogni libertà;
l'Europa
insomma addivenuta talmente sconvolta per
l'indebolimento delle razze mussulmane, come prima lo era stata
per la loro potenza; e l'Asia così difficile ad essere spartita
come prima a conquistarsi. Fu detto dal Montaigne esservi disfatte
tali da fare invidia, alle vittorie; e noi possiamo affermare con
verità, che l'esito infelice del piano di Gregorio VII e de' suoi
successori rispetto all'Oriente, abbia rivelato meglio il loro
genio, che non l'avrebbero fatto i più gloriosi successi.
Né le interne condizioni della Chiesa
offrivano meno triste spettacolo. Tutti gli sforzi di S. Bernardo
per stabilire una sana disciplina contro il licenzioso trascorrere
del fasto, dell'avarizia e della simonia del clero, erano,
riusciti quasi inutili: e sorgente di questi mali, a sì vivi
colori descritti da S. Bernardo medesimo, erano appunto le
ricchezze della Chiesa, divenute oggetto di cupidigia universale.
Alle violenti investiture dell'anello e del pastorale era
sottentrata una subdola usurpazione, una simonia codarda e
servile. "O vana gloria! esclama Pietro di Blois, o cieca
ambizione! o fame, insaziabile delle dignità e degli onori
mondani, vermi corruttori dei cuori e naufragio delle anime! E
donde mai ne venne tal peste? Come s'è fatta ardita sì
esecrabile presunzione che spinge indegni alla ricerca delle
dignità, tanto più accaniti a volerle, quanto meno meritevoli?
Noncuranti dell'anima loro, né del loro corpo, da ogni parte si
precipitano, i miseri, sulla cattedra pastorale addivenuta per
loro cattedra di morte, e per tutti causa di perdizione". E
già trent'anni prima, S. Bernardo aveva scritto con amara ironia:
«Fanciulli di scuola, giovanetti imberbi sono promossi alle
ecclesiastiche dignità solo per la nobiltà dei natali,
passando dalla sferza del pedagogo al governo
del clero; più lieti talvolta di essersi sottratti alle sferzate,
che di rivestire una pubblica autorità; più soddisfatti di non
esser soggetti al comando, che premurosi di esercitarlo».
Tale è la sventura della Chiesa! Voi la vedete
convertire a prezzo di sangue infedeli nazioni a Gesù Cristo; la
vedete incivilire i costumi dei barbari e coltivarne le
intelligenze, dissodare le loro selve, riempire le loro città e
le campagne di conventi e di santuari. E poi quando venti
generazioni di santi hanno attirato su quei religiosi asili le
benedizioni del cielo e della terra, allora in luogo del ricco
che, mosso da Dio, colà si ritirava per piangere le sue colpe, in
luogo del povero che, rassegnato nella Provvidenza vi piegava a
terra le forti ginocchia, anelando di farsi ancora più povero,
invece di santi, eredi di santi, ecco che vi trovate il povero che
vuol esser ricco, il ricco che vuol divenire potente, anime
mediocri, che ignorano perfino l'oggetto stesso de' loro desideri.
Ben presto l'intrigo farà capitare il pastorale del vescovo o
dell'abate in mani che una pura intenzione non ha benedette; ben
presto il mondo gioirà al vedere i suoi favoriti governare la
Chiesa di Dio, e cangiare il giogo amabile di Gesù Cristo in
secolaresco impero. Risuoneranno i chiostri all'abbaiare di cani
da caccia ed al nitrire di superbi cavalli. E chi discernerà più
le vocazioni vere dalle false? Chi possederà tale scienza, o
avrà pur tempo a pensarvi? Non curasi non di sapere come le anime
siano state rigenerate a Gesù Cristo; basta solamente conoscere
il loro nascimento secondo la carne. La preghiera, l'umiltà, la
penitenza, il sacrificio se ne vanno come timidi uccelli fugati
dai loro nidi, e le tombe dei santi nella stessa loro casa
rimangono come cose di estranei.
Tale lo stato miserabile a cui sacrilega
ambizione ed empia cupidigia aveano ridotto non pochi dei chiostri
e delle chiese d'Occidente sul finire, del dodicesimo secolo; e se
in vari luoghi il male non era così profondo, pure tuttavia era
considerevole. La Santa Sede, per quanto tribolata anch'essa dagli
scismi promossi e sostenuti contro di lei dall'imperatore Federico
I, non era rimasta inoperosa nell'apprestar rimedi a sì gravi
disordini. In cinquantasei anni avea celebrato tre Concili
ecumenici; però sempre senza conseguire, o solo in parte, quelle
riforme, che pure erano meritevoli di ottenere gli illustri
pontefici sorti quasi ininterrottamente dalle ceneri di Gregorio
VII.
Un dì, verso il 1160, un ricco signore di
Lione, chiamato Pietro Valdo, vedendo un suo concittadino colpito
da un fulmine cadere morto a' suoi piedi, tanto ne, restò
conquiso, che distribuito ai poveri tutto il suo avere, si
consacrò interamente al servizio di Dio. E siccome la riforma
della Chiesa era ciò che allora preoccupava maggiormente gli
spiriti, Valdo dalla stessa abnegazione di sé, fu portato a
credere di essere a ciò chiamato; onde raccolti un certo numero
di uomini, tutti li fé persuasi di abbracciare con lui una vita
apostolica. Quanto poco differiscono alle volte gli ideali che
fanno i grandi uomini da quelli che li rendono pubblici
perturbatori! Se più genio e virtù più soda fossero stati in
Pietro Valdo, anch'egli sarebbe potuto riuscire un S. Domenico o
un S. Francesco d'Assisi; mentre fu vittima di una tentazione,
fatale in tutti i tempi ad uomini di qualche talento. Salvar la
chiesa con la chiesa gli parve cosa impossibile. Dichiarò quindi
che la verace sposa di Gesù Cristo era venuta meno sotto
Costantino per quel veleno dei temporali possedimenti; che la
chiesa romana era la famosa prostituta descritta nell'Apocalisse,
madre e maestra di tutti gli errori; che Scribi erano i prelati e
Farisei i religiosi; che il pontefice romano e tutti i vescovi
erano omicidi; che il clero non aveva diritto né a decime né a
terre; esser peccato dotar chiese e conventi; dover tutti i
chierici, ad esempio degli apostoli, guadagnarsi la vita col
lavoro delle proprie mani; finalmente lui, Pietro Valdo, esser
venuto a ristabilire sulle sue fondamenta la società vera dei
figlioli di Dio. Tralascio gli errori secondari che dovettero
necessariamente pullulare da questi primi. Tutta la forza dei
Valdesi era nell'attacco diretto contro la gerarchia
ecclesiastica, e nel contrasto, vero o apparente, dei lori costumi
coi costumi sregolati del clero d'allora. Arnaldo da Brescia,
morto a Roma sopra un rogo, ne era stato il precursore: uomo la
cui figura risalta nella storia assai più, che quella di Pietro
Valdo. Ma Pietro Valdo ebbe il vantaggio di venir dopo di lui,
quando lo scandalo era maturo; ond'è che egli ebbe un successo
formidabile. Valdo fu il vero patriarca delle eresie occidentali,
improntate da lui d'uno dei grandi caratteri che le differenziano,
dalle greche eresie, di un carattere, cioè più pratico che
speculativo.
Favorita dalle medesime circostanze che davano
animo ai Valdesi, un'altra, eresia d'origine orientale,
insinuatasi prima in Germania ed in Italia, era giunta per ultimo
a porre la sua principale stanza, nel mezzogiorno della Francia.
Combattuta sempre e sempre rigogliosa, quest'eresia rimontava fin
verso la fine del terzo secolo, quando pullulò sulle frontiere
della Persia e dell'Impero Romano dalla fusione delle idee
cristiane con la vecchia dottrina dei Persiani, che attribuiva i
misteri di questo mondo alla lotta di due principi coeterni, l'uno
buono, cattivo l'altro. Comunissime erano a quei tempi queste
miscele di principi appartenenti a religioni e filosofie diverse,
e ciò per quella tendenza degli spiriti deboli di volere unire
insieme cose tra loro del tutto incompatibili. Un persiano, per
nome Manete, diede la sua ultima forma al mostruoso miscuglio di
cui ora parliamo; ma fu men fortunato degli altri eresiarchi,
perocchè la sua setta non ebbe mai né templi, né sacerdozio,
né popolo tali da poter costituirsi in società. Le leggi degli
imperatori, convalidate dalla pubblica opinione, la combatterono a
morte, quantunque ciò non giovasse che a prolungarle la vita. La
condizione di società pubblica è una prova a cui l'errore non
può mai reggere se non per breve tempo, tanto più breve quanto
l'errore ha meno omogenee fondamenta e conseguenze più immorali.
I Manichei adunque impediti di mostrarsi all'aperto, si relegarono
nelle tenebre, stringendosi in società segreta: unica via
concessa all'errore di perpetuarsi a lungo. Per tali misteriose
associazioni infatti è più facile sfuggire la legge, che
sottrarsi alla pubblica condanna. Niente impedisce che uomini
imbevuti di uomini i più perversi e di pratiche le più ridicole,
valgano a reclutare fra le ombre spiriti malvagi e ad attirare
gente amante di avventure all'incantesimo delle loro pratiche; ad
imporre loro la credenza a dottrine non soggette a sindacato; a
colpirli con uno scopo grande e remoto, al quale si creda che
cento generazioni abbiano professato culto profondo; a legare
finalmente i loro animi per mezzo delle più basse inclinazioni
del cuore, consacrandone le passioni sopra altari sconosciuti al
resto dell'umanità. Nel mondo perdurano tuttavia tali società
segrete, che forse, non contano neppur tre soli iniziati, ma che
nonostante per invisibile successione risalgono fino all'antro di
Trofonio od al sotterranei dei templi egiziaci. Cotali uomini,
inorgogliti oltre ogni dire di un sì raro deposito, attraversano
imperturbabili, i secoli con un profondo disprezzo di ciò che
accade intorno a loro, giudicando tutto alla stregua della
privilegiata dottrina che hanno avuto in sorte e di nient'altro
più desiosi che di plasmare a lor modo qualche Anima, ché sia
l'erede della loro occulta felicità. Sono i Giudei dell'errore! E
tale fu la vita de' Manichei, che appariscono qua e là nella
storia, a somiglianza di quei mostri che seguono incognite vie nel
fondo dell'oceano, e che tratto tratto levano la testa secolare al
disopra delle acque. Il singolare dell'apparizione de Manichei nel
secolo duodecimo fu, che per la prima volta riuscì loro di
costituirsi sotto forma di pubblica società. Strano spettacolo
invero! Settari che il Basso Impero avea costantemente repressi,
si stabiliscono apertamente in Francia, e sotto gli occhi di
quegli stessi pontefici che avevano potere di costringere
l'imperatore medesimo a rispettare le leggi divine e la volontà
delle nazioni cristiane! Nessun altro fatto rivela maggiormente la
cupa reazione e agitava allora l'Europa. In Francia era alla testa
dei Manichei, volgarmente chiamati Albigesi, Raimondo VI, conte di
Tolosa, pronipote di quel Raimondo, conte di S. Gilles, il cui
nome vien celebrato con quello dei più illustri fra i cavalieri
della prima crociata: coi nomi di Goffredo di Buglione, di
Balduino, di Roberto, di Ugo, di Boemondo. Lasciatosi accalappiare
dai misteri propri de' Manichei e dalla maschera valdese presa da
essi per meglio, formarsi al modo di pensare dei popoli
occidentali, Raimondo rinunziò all'eredità della gloria e delle
virtù trasmessegli dai suoi maggiori per farsi capo della più
detestabile eresia che mai sia nata in Oriente.
Né questo è tutto. L'insegnamento delle
scuole cattoliche, ristabilito dopo lunga interruzione, veniva
sviluppandosi sotto l'influenza della filosofia di Aristotele; e
la tendenza di questo movimento sembrava appunto quella di voler
far prevalere la ragione alla fede nella esposizione dei dommi
cristiani. Abelardo, più celebre per le sue colpe che pe' suoi
errori, era stato una delle vittime di questo nuovo metodo
applicato alla teologia. S. Bernardo difatti lo accusa di
trasformare la fede, che alla parola di Dio si appoggia, in una
pura opinione fondata su principi e conclusioni d'ordine
esclusivamente umano. E quantunque il Santo conseguisse una facile
vittoria, onorata dalla verace sottomissione del suo avversario e
da un raro esempio di riconciliazione, ciò nondimeno il male
continuava il suo corso: chè in ogni tempo è difficile resistere
a certi impulsi, la cui forza viene da lontano e dall'alto.
L'epoca greca era rimasta impressa nella memoria delle persone
colte siccome il più alto grado cui fosse giammai asceso il genio
umano; né il cristianesimo aveva avuto ancora agio di creare una
letteratura paragonabile all'ellenica, di farsi una scienza ed una
filosofia sua propria. Certamente negli scritti dei Padri il seme
ne era stato gettato; tornava però più comodo accettare un
sistema di discipline filosofiche e scientifiche già bello e
fatto. Fu dunque prescelto Aristotele quale rappresentante della
sapienza. Sventuratamente però Aristotile e l'Evangelo non erano
sempre concordi; ond'è che procedettero tre sétte, una che
sacrificava la filosofia a Gesù Cristo, conforme a quelle parole:
Voi non avete che un solo maestro, che è Cristo (Mt 23,10);
un'altra che sacrificava Gesù Cristo alla filosofia, dovendo la
ragione, primo lume intellettuale dell'uomo, riportare ogni cosa
il primato; - una terza finalmente che metteva due ordini di
verità, l'uno secondo la ragione, l’altro secondo la fede, ed
il vero nell'uno, potere nell'altro esser falso.
Insomma l'eresia e lo scisma, avvalorati dal
deplorevole stato della disciplina ecclesiastica e dalla
rinascenza delle scienze pagane, scuotevano nell'Occidente
l'edificio cristiano; mentre l'infelice successo delle crociate ne
compiva la rovina nell'Oriente, e schiudeva ai barbari le porte
della Cristianità. I papi, è vero, opposero sommo coraggio
contro i pericoli ognor crescenti di così triste situazione,
rintuzzando la prepotenza di Federico I, invitando i popoli a
nuove crociate, celebrando Concili contro l'errore e la
corruzione, invigilando nelle scuole sulla integrità della
dottrina, riallacciando colle provvide loro mani relazioni più
amichevoli tra la fede e il comun modo di sentire in Europa;
finché dal sangue così commosso del vecchio tronco pontificio ne
nacque un Innocenzo III. Ma chi avrebbe potuto sostenere da solo
tutto il peso delle cose divine ed umane? Anche gli uomini più
grandi hanno bisogno del concorso di molte forze, e quelle che la
Provvidenza aveva accordate pel passato, sembravano scarse ai
bisogni del presente e dell'avvenire. L'opera di Clodoveo, di San
Benedetto, di Carlo Magno e di Gregorio VII, in piedi
ancora e forte del genio di chi l'aveva
stabilita, pure invocava in suo aiuto una nuova effusione di
questo Spirito, che solo genera l'immortalità. Sono questi i
momenti supremi in cui si ha da por mente ai consigli di Dio.
Trecento anni più tardi abbandonerà nuovamente Iddio mezza
Europa in preda all’errore, affinché l'errore stesso conduca a
trionfi di cui già comincia a intravedersi il segreto: ma allora
gli piacque di soccorrere la Chiesa per la diretta via della
misericordia. Rivolse Gesù lo sguardo alle sue mani ed ai suoi
piedi per noi trafitti; e da quello sguardo amoroso ne sorsero due
uomini, San Domenico e S. Francesco d'Assisi, la storia de` quali,
tanto simili fra loro e pur tanto diversi, dovrebbe andar sempre
insieme. Pur troppo però ciò che Dio creò in un sol tratto, una
sola penna non vale a descriverlo. Onde sarà sempre molto per
noi, se riusciremo a dare qualche cenno della vita del Patriarca
S. Domenico a coloro che non ne sanno affatto la storia.
CAPITOLO I.
Genesi di San Domenico.
In una valle della Vecchia Castiglia irrigata
dal Duero e quasi ad egual distanza da Aranda come da Osma, sorge
un piccolo villaggio col nome di Caleruega nel dialetto del paese,
e Calaroga nella lingua più dolce di molti storici. Quivi nacque
S. Domenico l'anno 1170 dell'era cristiana; e prima a Dio, poi a
Felice di Gusman ed a Giovanna d'Aza dovè la sua esistenza. Sono
ancora in piedi alcuni ruderi della casa che quei pii signori
possedevano a Calaroga, ed in cui S. Domenico venne alla luce.
Alfonso il Savio, re di Castiglia, d'intesa con la moglie, coi
figli e coi
Grandi di Spagna, nel 1266 trasformò
quell'abitazione in un monastero di religiose domenicane. Vi si
notano tuttora parti più antiche che non il corpo dell'edifizio,
e punto rispondenti all'architettura di un monastero, quali: una
torre militare del medio evo, in cui sono incrostate le armi dei
Gusman; una fontana che dai Gusman prende nome; ed altri avanzi
chiamati dal popolo, organo della tradizione, il palazzo dei
Gusman. Il ramo castigliano di questa illustre famiglia aveva la
sua principale residenza a poche leghe dalla città, nel castello
dei Gusman; e la tomba a Gumiel d'Izam, nelle vicinanze di
Calaroga, in una cappella della chiesa dei Cisterciensi. Là, dopo
morti, furono trasportati Felice Gusman e Giovanna d'Aza, e
seppelliti in due cripte contigue. Ma la venerazione stessa di cui
furono oggetto, fu presto causa, che venissero separati. L'infante
di Castiglia Giovanni Emanuele, verso il 1318 volle che il corpo
di Giovanna d'Aza fosse trasferito nel convento dei Domenicani di
Pennafiel, da lui medesimo fatto edificare. Fu così che Felice
rimase solo nel sepolcro de' suoi maggiori, qual testimonio fedele
dello splendore della sua famiglia, da lui trasmesso a S.
Domenico; mentre Giovanna se ne andava a raggiungere la posterità
spirituale del suo figliuolo, onde godere di quella gloria da lui
acquistata coll'anteporre la fecondità che viene dal Cristo a
quella della carne e del sangue .
E’ celebre il prodigio che precedè la
nascita di San Domenico. Parve alla madre di vedere in sogno il
frutto delle sue viscere sotto la forma di un cane, che avesse in
bocca una fiaccola accesa e che le balzasse dal grembo come per
incendiare tutta la terra. Turbata assai da un presagio, di cui
ignorava affatto il significato, andava spesso a pregare sulla
tomba di S. Domenico di Silos, già abate del monastero omonimo,
posto a poca distanza da Calaroga. E fu in riconoscenza delle
consolazioni di là riportate che la madre volle imposto il nome
di Domenico a quel suo figliuolo, che era stato l'oggetto di tante
sue preghiere. Era il terzo figlio che usciva dal suo seno
benedetto. Antonio, il primogenito, consacrò la vita al servigio
dei poverelli, e la sua grande carità molto fece onore al
carattere sacerdotale di cui fu insignito; il secondo, per nome
Mannes, morì rivestito anch'egli dell'abito dei Frati
Predicatori.
Quando Domenico fu portato alla chiesa per
esservi battezzato, un nuovo prodigio manifestò la grandezza a
cui era predestinato. La madrina - gli storici non ce la fanno
conoscere se non col nome di nobile - vide una stella risplendere
mirabilmente sulla fronte del battezzato; del che pare rimanesse
vestigio sul volto di Domenico, quale segno caratteristico della
sua fisonomia, brillando sempre sulla sua fronte un certo
splendore che dolcemente attraeva il cuore di chi lo riguardasse.
Il battistero di marmo bianco dove Domenico fu rigenerato coll'acqua
sacramentale, nel 1605 venne trasportato nel convento dei Frati
Predicatori a Valladolid per comando di Filippo III, che volle
farvi battezzare suo figlio. Oggi si può vedere in S. Domenico di
Madrid, e parecchi altri infanti di Spagna vi sono stati iniziati
alla vita in Gesù Cristo, Signor Nostro amatissimo.
Domenico fu nutrito unicamente di latte
materno; la sua madre non permise che altro sangue gli scorresse
nelle vene: Lo volle invece stretto sempre al suo seno, dal quale
non potè attingere che casto alimento, e vicino alle proprie
labbra, da cui non potè altro ascoltare che parole di verità. In
questo commercio di amore materno egli avea forse a temere
l'involontaria mollezza delle fasce, e quella sovrabbondanza di
cure, da cui anche la più cristiana tenerezza non sa sempre
contenersi; ma la grazia che operava, in lui fu ben presto virtù
preservatrice anche contro questo pericolo. Domenico infatti
appena potè muovere con libertà le membra, segretamente usciva
dalla culla per coricarsi in terra, quasi conoscesse già le
miserie degli uomini e la differenza della loro sorte quaggiù,
né pieno di amore per essi, gli reggesse il cuore di rimanere in
morbido letto a preferenza dell'ultimo de' suoi fratelli; o meglio
ancora, già iniziato ai segreti della culla di Gesù Cristo, non
ambisse altro letto diverso dal suo. Questo è quanto sappiamo dei
primi sei anni della sua vita.
Entrato nel settimo anno Domenico lasciò la
casa paterna per essere condotto a Gumiel d'Izam, presso suo zio,
arciprete di quella chiesa. Ivi, vicino alla tomba dei suoi
antenati, sotto la doppia autorità della parentela e del
sacerdozio, passò Domenico la seconda metà dell'infanzia. Scrive
uno storico: "prima che il mondo avesse fatto impressione
sull'animo del fanciullo, fu affidato, come Samuele, alla scuola
della, Chiesa, acciocchè un sano insegnamento mettesse radici nel
suo tenero cuore. E basato sopra così solidi fondamenti, crebbe
veramente di corpo e di spirito, elevandosi ogni giorno, con
progresso felice, a più alto grado di virtù" .
La terza scuola in cui Domenico venne
formandosi, fu, l'Università, di, Palenza, nel regno di Leone, la
sola allora in tutta la Spagna. Era sui quindici anni, e là per
la prima volta si vide in balla di se stesso, lungi dalla
fortunata valle, dove, sotto le torri di Calaroga e di Gumiel d'Izam,
avea lasciato tutte le dolci e care memorie, che richiamano
l'anima verso la terra natale. Rimase a Palenza per dieci anni,
dei quali i primi sei consacrò allo studio delle lettere e della
filosofia, quali allora s’insegnavano. «Ma per quanto
l'angelico giovanetto, fa notare uno storico, penetrasse assai
facilmente nelle ragioni della scienza umana, nondimeno non vi si
sentiva troppo attratto, cercandovi indarno la sapienza divina,
che è il Cristo. Questa infatti niun filosofo la potè mai ad
altri comunicare; nessun principe di questo mondo l'ha mai
conosciuta. Onde per il timore di sprecare in vani esercizi il
fiore e la forza della sua giovinezza, e per estinguere la sete
che lo divorava, Domenico attinse, alle profonde e limpide
sorgenti, della teologia. Invocando e pregando il Cristo, ch'è la
sapienza del Padre, aprì alla verace scienza il suo cuore, agli
insegnamenti della Sacra Scrittura apprestò le sue orecchie. E
così dolce gli giunse la divina parola, e con sì ardente brama
la ricevette nell'anima, che durante i quattro anni che vi si
applicò, passò quasi insonni le notti consacrando allo studio il
tempo del riposo; e per dieci anni si astenne anche dal vino, onde
dissetarsi al fonte di questa divina sapienza con castità di lei
sempre più degna. Era cosa ammirabile e cara veder lui sì
giovane, quale traspariva dal florido aspetto, accoppiar tanto
bene e nelle parole e nel modi la gravità di una veneranda
vecchiezza. Superiore ai divagamenti propri della sua età, non
ricercava che la giustizia; geloso del tempo, anteponeva
ad inutili passeggi la solitudine della chiesa,
sua madre, e la sacra quiete dei di lei tabernacoli, fra la
preghiera ed il lavoro egualmente assiduo passando tutti i suoi
giorni. Né il fervido amore col quale osservava i divini
comandamenti fu senza la meritata ricompensa; chè il dator di
ogni bene infuso in lui tanto spirito di saggezza e
d'intelligenza, da fargli risolvere senza alcuna difficoltà le
più ardue questioni» .
Due episodi di questi dieci anni passati a
Palenza ci sono stati tramandati. Il primo, quando Domenico
durante una carestia che desolava la Spagna, non contento di dare
ai poveri tutto ciò che aveva, non escluse le vesti, giunse a
vendere anche i libri annotati di proprio pugno per distribuirne
il denaro ai poveri. Ed a chi faceva le meraviglie com'egli si
fosse potuto privare dei mezzi stessi di studio, rispose con
queste poche parole, le prime che di lui ci siano pervenute:
«Potrei forse studiare su pelli morte, quando vi sono uomini che
muoiono di fame?» . Nobile esempio, che mosse i professori stessi
e gli alunni dell'Università a venire anche loro in soccorso di
quegli sventurati. - L'altro episodio avvenne quando alla vista di
una donna che piangeva dirottamente perché non aveva modo di
riscattare il suo fratello schiavo dei Mori, il Santo offrì per
il riscatto la sua stessa persona. Dio però non lo permise,
riserbando Domenico alla redenzione spirituale di moltissimi
uomini. Come a un viaggiatore che passi, al cader dell'autunno,
per un campo spogliato di messi, uno o l'altro frutto sfuggito
alla mano dell'agricoltore ed unico resto di una fertilità
scomparsa basta per giudicare dei campi sconosciuti che
attraversa; così la Provvidenza lasciando nell'ombra del passato
la giovinezza del suo servo Domenico, pure ha voluto che la storia
ce ne conservasse alcuni tratti: imperfette ma vive rivelazioni di
un'anima, in cui la purità, la grazia, l'intelligenza, la
verità, tutte le virtù insomma erano i frutti dell'amore di Dio
e degli uomini, maturi innanzi stagione.
Domenico toccava già l'anno venticinquesimo, e
Dio non gli aveva ancora manifestato ciò che richiedesse da lui.
Per l'uomo di mondo la vita è come uno spazio da percorrersi il
più lentamente possibile, e per la via più dolce; tale però non
è per il cristiano, il quale sa che ogni uomo è vicario di Gesù
Cristo per cooperare col sacrificio di sé alla redenzione dell’umanità,
e che nel disegno di questa grand'opera ciascuno ha un posto
preparatogli fin dall'eternità, ma ch'egli è libero di accettare
o di ricusare. E sa di più che se abbandonerà volontariamente il
posto offertogli dalla Provvidenza nella milizia delle creature
utili, un altro migliore di lui vi sarà sostituito; ed egli
rimarrà abbandonato a se stesso nella via larga, ma corta
dell'egoismo. Questi pensieri occupano seriamente il cristiano a
cui non è ancor nota la sua vocazione; e convinto che il più
certo mezzo per conoscerla è il vivo desiderio di adempirla
qualunque essa sia, sta pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui.
Di tutti gli uffici necessari alla repubblica cristiana, non ne
disprezza alcuno, perché in ciascuno possono sempre riscontrarsi
le tre condizioni che ne costituiscono la vera importanza: la
volontà di Dio che lo impone, il bene che ne risulta dalla fedele
esecuzione, e l'ossequio del cuore devoto chiamato ad esercitarlo.
Crede eziandio fermamente che gli uffici meno onorati non sono i
più dispregevoli, e che la corona dei santi mai discende più
opportunamente dal cielo di quando va ad ornare una fronte povera
e incanutita nell'umiltà volontaria di una dura abnegazione. Poco
dunque importa al cristiano dove Dio lo destini; gli basta sapere
che fa la di Lui volontà. Ora Iddio aveva preparato pel giovane
Domenico un mediatore ben degno, il quale gli rivelasse la sua
vocazione non solo, ma gli aprisse le porte della sua futura
carriera, e l'introducesse per vie impreviste sul teatro ove la
Provvidenza lo aspettava.
Fra i mezzi di riforma proposti da coloro che
si studiavano di rialzare l'ecclesiastica disciplina, uno era
particolarmente raccomandato dai Sommi Pontefici, cioè
l'introduzione della vita comune nel clero. In comune erano
vissuti gli Apostoli: e S. Agostino ispirandosi appunto a loro
aveva lasciato a tal fine la famosa Regola che porta il suo nome.
La vita comune non è in sostanza che la vita di famiglia e di
amore al più alto grado di perfezione; ed è impossibile
praticarla fedelmente, e non sentirsi compresi da sentimenti di
fraternità, di povertà, di pazienza, di abnegazione, che sono
l'anima del cristianesimo. Da un secolo e mezzo circa davasi il
nome di Canonici Regolari a quei preti, che abbracciavano tal
genere di vita. Essi peraltro, se ne eccettui l'Ordine dei
Canonici Regolari Premonstratensi, fondate da San Norberto nel
1120, non costituivano un corpo solo sotto un medesimo capo; ma
ogni casa aveva il suo proprio Priore, dipendente unicamente dal
Vescovo. Martino di Bazan, vescovo di Osma, desideroso di
contribuire egli pure alla restaurazione della Chiesa, aveva di
recente mutato in Canonici Regolari i canonici della sua
cattedrale; e venuto a sapere come all'Università di Palenza si
trovasse un giovane di raro merito, nativo della sua diocesi,
concepì la speranza d'incorporarlo al suo capitolo e d'averlo
così cooperatore nella riforma. Affidò l'affare a quell'uomo che
gli era stato principale aiuto nella difficile opera intrapresa,
uomo illustre per nascita, per ingegno, per dottrina, per
immacolatezza di vita, e che a queste qualità, comuni anche ad
altri, aggiunse poi un titolo non diviso con altri mai. Sono sei
secoli che, lo spagnuolo Don Diego d'Azevedo riposa sotto una
pietra che non mi fu dato visitare; ciò nonostante non posso
proferire il suo nome, senza provarne sentimenti di affettuosa
riverenza. Egli fu il mediatore, scelto da Dio per illuminare e
dirigere il patriarca di una famiglia di cui sono figliuolo; ed io
risalendo con la memoria la lunga catena de’ miei padri
spirituali, lo ritrovo fra S. Domenico e Gesù Cristo.
La storia non ci ha conservato i primi colloqui
fra Don Diego e il giovane Gusman; ma dagli effetti che ne
seguirono, è facile indovinarli. Sull'età dei venticinque anni
ogni anima generosa non altro e meglio desidera che di donare sé
stessa. Ricca di amore come di forza non chiede al cielo e alla
terra che una causa, grande cui consacrarsi con devozione
magnanima. E
se ciò è vero di ogni anima ben temperata per
felice disposizione di natura, quanto più dovrà dirsi di quella
in cui il cristianesimo e la natura insieme si uniscano quasi
vergini fiumi, di cui non una stilla sola siasi perduta in vane
passioni? Facile adunque è immaginare quali fossero i discorsi
fra Don Diego ed il giovane studente di Palenza. In pochi minuti
gl'insegnò senza dubbio quel che indarno si cerca nei libri e
nelle Università: a qual punto cioè fosse allora giunta la lotta
del bene e del male nel mondo, quali le profonde ferite inflitte
alla Chiesa, quale la generale tendenza delle cose, quale insomma
l'intreccio segreto di tutto un secolo. E Domenico, messo a parte
dei mali del suo tempo da un uomo che li sentiva profondamente,
provò certamente l'irresistibile bisogno di contribuire anch'egli
col corpo e collo spirito a vantaggio della Cristianità
sofferente. Intravide in un baleno la sua vocazione, il suo dovere
nello stato sacerdotale secondo l'ordine di Melchisedech,
sull'esempio di Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, unica
sorgente di verità, di bene, di grazia, di pace, di ogni nobile
sacrificio; i cui nemici, comunque si chiamino, sono i nemici
eterni del genere umano.
Questo divin sacerdozio, avvilito in mani
troppo indegne della consacrazione, aveva bisogno di essere
rinobilitato al cospetto di Dio e dei popoli: cosa impossibile ad
ottenersi, se non col far rivivere le apostoliche virtù in coloro
che ne avevano l'onore e l'obbligo. E perché in ogni rinnovazione
di cose, questo è il primo passo: fare cioè quel che si vuol poi
fatto dagli altri; l'erede dei Gusman consacrò la sua vita a Dio
nel capitolo già riformato di Osma, sotto la direzione di Don
Diego che ne era il priore. «Allora - così si esprime il beato
Giordano di Sassonia - egli sì mostrò tra canonici suoi fratelli
quasi fiaccola ardente, primo in santità, ultimo di tutti per
umiltà di cuore, spirante intorno a sé un odore di vita, che
vita in altri infondeva, ed un profumo simile a quello d'incenso.
I suoi fratelli attratti da questa sua condotta tanto religiosa,
lo elessero a loro sottopriore, affinché collocato più in alto,
il suo esempio fosse meglio avvertito e più efficace. E Domenico,
come olivo che mette rampollo, come cipresso che s'innalza al
cielo, passava il giorno e la notte in chiesa pregando
incessantemente, senza uscir quasi mai fuori del chiostro per
timore di rubar tempo alle consuete contemplazioni. Dio gli aveva
fatto grazia di piangere pei peccatori, per gl'infelici e per gli
afflitti; il santuario interno della sua compassione era ricolmo
dei loro mali, e questo amore doloroso, premendogli fortemente il
cuore, ne traeva le lacrime. Era suo costume, e di rado lo
interrompeva, di passare la notte pregando, intrattenendosi, a
porte chiuse, con Dio. Ed allora si udivano talvolta vive voci e
come dei gemiti, indarno soffocati in petto. La domanda che più
di frequente indirizzava a Dio era specialmente quella della
grazia di una carità verace, di un amore che niente risparmiasse
per la salute degli uomini; persuaso di non poter essere un membro
vero del Cristo, se non quando si fosse consacrato con tutte le
forze alla redenzione delle anime, sull'esempio dello stesso
Salvator nostro Gesù Cristo, immolatosi generosamente per la
salute di tutti. Leggeva un libro intitolato Conferenze dei Padri,
dove si parla dei vizi e della spirituale perfezione; e leggendolo
faceva ogni sforzo per conoscere tutte le vie del bene e seguirle.
Queste letture coadiuvate dalla grazia lo sublimarono a purità di
coscienza non comune, ad un grado di contemplazione illustrata da
copiosi lumi, ad una perfezione insomma elevatissima.
La Provvidenza non ebbe fretta riguardo a
Domenico, quantunque la sua vita non dovesse esser lunga; e per
ben nove anni lo lasciò ad Osma, affinché si preparasse ad una
missione a lui ancora sconosciuta. In questo frattempo, cioè nel
1201, Don Diego d'Azevedo successe nella sede vescovile a Martino
di Bazan; e Domenico, poco dopo, cominciò ad annunziare la parola
di Dio, sempre però nelle vicinanze di Osma, continuando molto
probabilmente in questo suo ministero, di cui ignoriamo i
particolari, fino al 1203: momento solenne, in cui Domenico
sull'età di trentaquattro anni lasciò la Spagna, per
incamminarsi, senza saperlo, verso il luogo de' suoi destini.
Qui finisce la genesi di S. Domenico, vale a
dire la serie di. quelle cose che formando il corpo e l'anima di
lui, lo prepararono alla missione provvidenziale ch'egli
liberamente dovea compiere. Ogni uomo ha la sua genesi
proporzionata alla sua futura missione nel mondo, la conoscenza
della quale basta da sola a fare intravedere ciò ch'egli sarà.
L'amicizia ci apre i nascondigli profondi ove stan sepolti i
misteri del passato e dell'avvenire; la confessione ce li fa
conoscere sott'altro aspetto; la storia tenta di penetrarvi dentro
fino a rintracciarli nelle prime loro cause, per rannodarne così
il filo alla mano di Colui che crea i germi e vi depone il bene
sotto innumerevoli forme. Domenico chiamato da Dio a fondare un
Ordine nuovo, che avrebbe edificata la Chiesa con la povertà, con
la predicazione e con la scienza divina, ebbe una genesi
manifestamente conforme a tale predestinazione. Nasce da famiglia
illustre, perché la povertà volontaria è più attraente in chi
ha saputo dispregiare e la fortuna e la nobiltà che possedeva;
nasce nella Spagna, fuori del paese che sarà il teatro del suo
apostolato, perché uno dei più grandi sacrifici riserbati
all'apostolo è quello appunto di abbandonare la patria per esser
lume a nazioni di cui ignora anche la lingua; passa
all'Università i primi, dieci anni della sua giovinezza per
acquistarvi la scienza necessaria all'evangelico ministero, e
trasmetterne l'eredità e la cultura al suo Ordine; per altri nove
anni si assoggetta alle pratiche della vita comune affine di
sperimentarne i benefici, le difficoltà, i pregi e non imporre in
seguito ai suoi fratelli un giogo che egli stesso non avesse
portato per molto tempo.
Fin dall'infanzia poi Dio gli dà l'istinto e
la grazia di sottomettere il corpo ad un genere di vita assai
duro. Imperocché come l'apostolo sopporterebbe la fatica de'
viaggi, il caldo, il freddo, la fame, le prigioni, le percosse, la
miseria, se per tempo non avesse adusato il corpo alla più rigida
disciplina? E anche un gusto precoce ed ardente della preghiera
gli è dato da Dio, essendo la preghiera l'atto onnipotente che
mette a disposizione dell'uomo le forze stesse del Cielo: il Cielo
è inaccessibile alla violenza; la preghiera lo abbassa fino a
noi. Soprattutto poi Domenico è adorno del dono senza il quale
tutti gli altri son un nulla, il dono di una carità immensa, che
giorno e notte lo stimola a consacrarsi tutto alla salvezza de'
suoi fratelli, e lo rende sensibile fino alla lacrime a tutte le
loro afflizioni. Ad iniziarlo infine ne' misteri del suo secolo,
Dio lo fa incontrare in un uomo di forte tempra, che gli sarebbe
amico fedele e suo Vescovo, e che lo avrebbe introdotto, come ora
vedremo, in Francia ed a Roma. Questi i fatti, non numerosi,
ma progressivi e profondi, che s'intrecciano
man mano in un giro di trentaquattro anni, e che ci mostrano
Domenico già formato e giunto immacolato alle porte di una,
virilità la più splendida che possa desiderare un, uomo, il
quale abbia conoscenza di Dio.
CAPITOLO II
Arrivo di S. Domenico in Francia.
Suo primo viaggio a Roma.
Colloquio a Montpellier.
Alfonso VII, re di Castiglia avendo divisato di
dare per sposa al suo figliuolo una principessa di Danimarca,
scelse a trattare l'affare il Vescovo d'Osma; il quale preso con
sé Domenico, verso la fine del 1203 se ne partì a tale scopo pel
Settentrione della Germania. Ambedue, nell'attraversare la
Linguadoca, poterono verificare coi propri occhi i progressi
spaventosi degli eretici Albigesi, e n'ebbero il cuore amaramente
contristato. Giunti poi a Tolosa, Domenico s’accorse che lo
stesso loro albergatore era eretico; e per quanto il tempo fosse
ristretto - non dovevano trattenersi che una sola notte - pure
egli non volle che il suo passaggio restasse infruttuoso pel
traviato uomo. Gesù Cristo aveva detto agli Apostoli: «Quando
voi entrerete in una casa sia questo il vostro saluto: Pace a
questa casa! E se la casa n'è degna, la vostra pace discenderà
sopra di essa; se poi non ne è degna, la vostra pace ritornerà a
voi» (Mt 10, 12-13). I Santi, che tutte le parole di Gesù Cristo
sentono vive nell'anima, e conoscono la virtù di una benedizione
data anche a chi l'ignori, si credono come inviati da Dio ad ogni
creatura in cui s'imbattono, e procurano di non lasciarla, se
prima non le abbiano deposto nel seno qualche germe di
misericordia. Domenico quindi non fu pago di pregare in segreto
per l'albergatore infedele, Ma passò la notte conversando, con
lui; e l'inaspettata eloquenza del forestiero sì fortemente
scosse il cuore dell'eretico, che prima dell'alba, già era
ritornato alla fede. - A questo tenne dietro un altro prodigio.
Poiché Domenico tocco fortemente e dalla conquista da lui fatta a
prò della verità, e dallo spettacolo straziante delle rovine
cagionate dall'errore, concepì allora per la prima volta l'idea
di creare un Ordine tutto consacrato alla difesa della Chiesa. Per
mezzo della predicazione. E tal pensiero subitaneo talmente
s'impadronì del suo spirito, che mai più lo lasciò. Ond'egli
partì dalla Francia col segreto ormai trovato della sua futura
vocazione; quasi che la Francia, gelosa di non aver dato alla luce
un tant'uomo, avesse impetrato da Dio che almeno Domenico non
avesse invano messo piede sul suo suolo, e fosse a lei riserbata
l'ispirazione suprema della di lui vita.
Don Diego e Domenico giunti, non senza gran
disagio, a termine del loro viaggio, trovarono la corte di
Danimarca disposta a stringere gli sponsali desiderati da quella
di Castiglia. Quindi incontanente se ne partirono per darne
notizia a re Alfonso, e ritornare poi con più magnifico apparato
a prender la principessa e condurla in Spagna. Ma essa in questo
frattempo morì. Don Diego liberato dalla sua missione, spedì al
re un messaggio; ed in compagnia di Domenico rivolse i passi verso
Roma.
Non v'era cristiano a quei tempi il quale si
rassegnasse a morire senza aver prima appressate le proprie labbra
sulla tomba dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Il poverello stesso
muovevasi a piedi da terre le più lontane per visitare le loro
reliquie, e ricevere almeno una volta in vita la benedizione del
Vicario di Gesù Cristo. Don Diego e Domenico s'inginocchiarono
insieme su quella tomba che governa il mondo; e levando umilmente
la fronte dalla polvere, provarono anche un'altra consolazione, la
più grande che possa toccare ad un cristiano quaggiù, quella di
vedere sul trono pontificio un uomo degno di occuparlo. Questi era
Innocenzo III. Quali furono i sentimenti di cui fu ripiena l'anima
loro alla vista della mondiale città, la storia non lo dice. Chi
va a Roma per la prima volta ed ha l'unzione del cristianesimo
insieme alla grazia della giovinezza, questi solo può comprendere
l'emozione che essa è capace di produrre; altri nol potrà
giammai. Ed io amo la sobrietà di quegli antichi storici che
tacquero quel che la parola non vale ad esprimere.
Il Vescovo di Osma avea in mente di chiedere
una grazia al Pontefice; voleva cioè rinunziare all'episcopato
per consacrare tutto il resto della sua vita alla propagazione
della fede in, mezzo ai Cumani, popolo barbaro sui confini
dell'Ungheria, e famoso per la crudeltà dei suoi costumi.
Innocenzo III però ricusò di accondiscendere a questo eroico
desiderio; e quantunque Diego facesse premure, affinché gli fosso
almeno concesso, pur conservando il vescovato di Osma, di potere
andare a predicare agli infedeli, il Papa stette fermo nella
negativa e gli comandò di tornarsene alla sua sede.
I due pellegrini adunque nella primavera del
1205 rivalicarono le Alpi coll'intenzione di tornare direttamente
nella Spagna. Cedettero tuttavia al pio desiderio di visitare,
passando, uno dei più celebri monasteri della cristianità; e
facendo un largo giro, si fermarono a bussare alla porta dell'abazia
di Citeaux.
Lo spirito di S. Bernardo aleggiava ancora
colà. Che se la povertà non era più quella, pur v'erano,
rimembranze assai belle delle di lui virtù, tanto che il Vescovo
d'Osma ne rimase innamorato, e manifestò ai religiosi il
desiderio di ricevere il loro abito illustre. Gli fu concesso
senza difficoltà; e coll'indossare quelle divise monastiche,
poté lenire alquanto il dolore di non esser riuscito a farsi
povero missionario in paesi infedeli. Domenico si trattenne
dall'imitare l'amico, per quanto riportasse da Citeaux grande
stima e viva affezione verso i religiosi di quell'Ordine. Ambedue
quindi, dopo breve soggiorno nell'abazia, ripresero il cammino; e
scendendo, com'è da presumere, lungo le sponde della Saona e del
Rodano, raggiunsero i sobborghi di Montpellier.
Tre uomini che a quei tempi ebbero gran parte
negli affari della Chiesa, si trovavano allora a Montpellier,
cioè: Arnaldo, abate di Citeaux; Rodolfo e Pietro di Castelnau,
monaci del medesimo Ordine. Il papa Innocenzo III li aveva
nominati legati apostolici per le provincie d'Aix, d'Arles, e di
Narbona, con piene facoltà di fare quanto avessero creduto
opportuno per la repressione dell'eresia. La loro legazione però,
quantunque datasse da più di un anno, non avea riportato alcun
frutto. Il conte di Tolosa, signore di quelle provincie,
proteggeva apertamente gli eretici; tra i vescovi, chi per viltà,
chi per trascuratezza, taluni anche per essere eretici loro
stessi, tutti insomma si ricusavano d'aiutare i legati; ed il
clero era talmente caduto nel disprezzo dei popoli «che il nome
di ecclesiastico - fa notare Guglielmo di Puy Laurens - era
passato in proverbio come quello di ebreo; e invece di dire:
vorrei piuttosto essere un ebreo, che far questa o quella cosa;
dicevasi da molti: vorrei piuttosto essere un ecclesiastico. E
quando i chierici uscivano in pubblico, procuravano a bella posta
d'aggiustarsi i capelli in modo da nascondere la tonsura resa già
piccolissima. Raramente i nobili indirizzavano i loro figliuoli
per la via del chiericato; e per provvedere alle chiese di cui
essi riscotevano le decime, presentavano i figli dei loro
dipendenti; i vescovi poi conferivano gli ordini a chi potevano»
- . Innocenzo III non aveva dissimulato ai suoi legati la gravezza
del male; che anzi in una lettera del 31 maggio 1204, così loro
si esprimeva: «Quelli stessi che S. Pietro avea chiamati a parte
delle sue cure per vegliare sul popolo d'Israele, non vegliano la
notte sopra la greggia, ma se la dormono; e mentre Israele è alle
prese con Madian, essi si ritraggono dalla battaglia. Il pastore
degenerò in mercenario; più non pasce il gregge, ma se medesimo;
ha cura del latte e della lana, lascia poi che i lupi entrino pur
nell'ovile; non si oppone affatto quale antemurale ai nemici della
casa del Signore; ma vero mercenario, fugge davanti all'empietà
che potrebbe distruggere, e con tradimento se ne fa protettore.
Quasi tutti hanno abbandonata la causa di Dio; e fra quelli che le
son rimasti fedeli, la maggior, parte le sono inutili» .
I tre legati erano uomini di fede viva e di
fermo carattere; ma, abbandonati da tutti non avean potuto agire
né per via di autorità, né per via di persuasione. Nessun
vescovo di quelle provincie avea voluto unirsi a loro per esortare
il conte Raimondo VI a riandare colla memoria le gloriose gesta
de' suoi maggiori. Né più felice era stato il successo delle
conferenze tenute con gli eretici, i quali sempre rinfacciavano
loro l'abominevole vita del clero, facendosi forti con quelle
parole di Gesù: Voi li conoscerete dai loro frutti (Mt 7,16).
Quindi nonostante la virile tempra del loro animo, i legati
sconfortati sperimentavano dolorosamente esservi dei pesi
impossibili a sollevarsi dall'uomo, quando colpe accumulate hanno
esposto la verità ad esser vittima delle passioni. Ed era sotto
l'incubo di questa impressione che a Montpellier stavano
deliberando sul da farsi. La comune risoluzione era stata quella
d'informare di tutto esattamente il Pontefice, e nel tempo stesso
rimettere nelle sue mani un incarico che essi non valevano a
disimpegnare né con frutto, né con onore. Ma ciò che è
disperato agli occhi degli uomini, non lo è per Iddio. La divina
Provvidenza preparava già da trent'anni una risposta ai lamenti
de' suoi servi ed alle ingiurie de' suoi nemici; e l'ora era
sonata perché questa risposta si desse. Infatti in quell'istante
medesimo che i legati avevano presa così triste determinazione,
vennero a sapere che Don Diego d'Azevedo, vescovo di Osma, era
giunto a Montpellier. Subito fecero pratiche perché li andasse a
trovare, e Don Diego accondiscese al loro invito.
Qui lasceremo parlare il B. Giordano di
Sassonia.
«I legati lo accolgono con onore e lo
richiedono di consigli, sapendo bene esser lui un santo uomo,
savio, e pieno di zelo per la fede. Dotato com'era di prudenza e
addentro nelle vie del Signore, comincia egli dall'informarsi
degli usi e dei costumi degli eretici, e trova che questi facevan
proseliti per la via della persuasione, con la predicazione cioè,
e con un certo apparato di santità; mentre i legati erano
circondati da grande e sfarzoso corteggio di servi, di cavalli e
di vestimenta. Ond'egli allora: - Non è questo, fratelli miei, il
modo di comportarsi; non è possibile far rinsavire questi
traviati colle parole soltanto, quando essi si fanno forti coll'esempio.
Costoro seducono le anime semplici simulando povertà ed
austerità evangelica; se voi adunque presenterete loro tutt'altro
spettacolo, edificherete poco, e distruggerete molto; né il loro
cuore sarà scosso mai. Combattete l'esempio coll'esempio; ad una
finta santità opponete la vera; per vincere l’ingannevole fasto
degli apostoli bugiardi, non c'è altra via che una provata
umiltà. Fu per questo che Paolo si trovò costretto a mostrare la
sua virtù, le austerità, i continui travagli della sua vita a
coloro che si gonfiavano contro di lui dei loro meriti e delle
loro fatiche. I legati risposero: Ottimo padre, e allora qual
consiglio ci dareste? - Di fare, rispose Diego, quello che farò
io. - E pieno dello spirito del Signore, chiama quelli del suo
seguito; ordina loro di tornarsene ad Osma con tutti gli equipaggi
ed i bagagli; con sé non ritiene che un piccol numero di
ecclesiastici, dichiarando di voler rimanere in quelle contrade a
difesa della fede. Tra quelli
fatti rimanere, c'era il sottopriore Domenico,
da lui amato e stimato sommamente; quel Domenico, che fu
l'istitutore dell'Ordine dei Frati Predicatori, e che fin da quel
momento non si chiamò più sottopriore, ma Fra Domenico, uomo del
Signore veramente, per l'innocenza della vita e per lo zelo della
legge di Dio. I legati attratti dal consiglio e dall'esempio di
Don Diego, senza indugio l'imitarono. Rimandarono anch'essi i
bagagli ed i servi, non conservando con sé
altroché i libri necessari per le
controversie; e a piedi, in istato di perfetta povertà
volontaria, con a capo il Vescovo di Osma, se ne andarono a
predicare la vera fede» .
Con quale arte e con quanta pazienza aveva Dio
preparato tal soluzione! Sulla riva di un fiume spagnuolo due
uomini, diversi di età, ricevono abbondantemente lo Spirito del
Signore, ed a suo tempo s'incontrano, attirati l'un l'altro dal
profumo delle loro virtù, come due alberi preziosi piantati in
una stessa foresta che si cercano e si piegano a vicenda per
toccarsi. Quando poi una lunga amicizia ha congiunto intimamente
la loro vita ed i loro pensieri, un destino imprevisto li
trasporta fuori del paese natale, li fa viaggiare per l'Europa dai
Pirenei al mar Baltico, dal Tevere ai colli della Borgogna,
affinché senza neppure averlo sognato, arrivino in tempo a dare
un consiglio a uomini sconfortati, comeché di grande animo;
consiglio che cambia la faccia delle cose, salva l'onor della
Chiesa e prepara legioni di apostoli per un prossimo avvenire! I
nemici della Chiesa non ne devono aver mai letta attentamente la
storia; altrimenti avrebbero notato l'inesauribile fecondità de'
suoi mezzi e l'opportunità medesima di tanta fecondità. La
Chiesa, simile a quel gigante, figlio della terra, che raccoglieva
nuovo vigore dalle sue stesse cadute, tu la vedi ritornare per
mezzo delle sventure alle virtù della sua culla, e, nella perdita
stessa della possanza avuta dal mondo, ricuperare la naturale sua
forza. Il mondo non potrà toglierle se non ciò che le ha dato:
ricchezze, nobiltà di sangue, parte del governo temporale,
privilegi, onori, protezioni: vesti tessute da mani impure, tunica
di Dejanira, che la Chiesa non deve portare sulla sua carne ch'è
sacra, ma tutt'al più sopra il sacco della sua nativa povertà.
Se l'oro invece di essere strumento della carità ed ornamento
della verità, altera l'una e l'altra, è d'uopo che vada perduto;
e il inondo, spogliandone allora la Chiesa, non fa che renderle la
veste nuziale donatale dal divino suo sposo, e che niuno varrà
mai a strapparle di dosso. Come infatti togliere la nudità a chi
la vuole? Come rapire il nulla a chi ne fa suo tesoro? Nella
privazione volontaria Dio ha posto la forza della sua Chiesa, e
non v'ha mano d'uomo che possa penetrare in quest'abisso per
impossessarsi di qualche cosa. Onde i persecutori più accorti non
tanto si studiarono di spogliare, quanto di corrompere la Chiesa;
ed è questo l'ultimo gradino di depravazione possibile. Battendo
questa rotta tutto sarebbe perduto, caso mai Dio permettesse che
la corruzione fosse universale. Ma invece la corruzione genera la
vita, e la Coscienza rinasce dalle sue stesse rovine: circolo
vizioso di cui Dio solo ha il segreto e con cui governa il mondo.
Niente v'era di più disperato, delle
condizioni religiose in Linguadoca nel 1205. Il principe, un
eretico appassionato; la maggior parte dei baroni favoreggianti l’eresia;
i vescovi senza cura dei loro doveri, anzi alcuni, come il vescovo
di Tolosa e l'arcivescovo d’Auch, contaminati da pubblici
delitti; il clero caduto in disistima; i cattolici rimasti fedeli
pochi di numero; l'errore insultante con menzognere virtù ai
disordini della Chiesa; lo scoraggiamento infine in coloro stessi
che in un cuore casto e forte serbavano immacolata la fede. Eppure
due cristiani passati a caso per di là, bastano per far cambiare
aspetto ad ogni cosa. Rincuorano i legati della S. Sede,
confondono gli eretici con un apostolato povero ed austero,
confermano le anime vacillanti e consolano le salde, scuotono i
vescovi dalla loro indolenza, un gran vescovo salirà allora sulla
sede di Tolosa; e se il successo rimarrà ancora in forse, pur
sarà sempre bastante per far conoscere da qual parte stia la
verità, la giustizia, l'abnegazione e la certezza di una causa
divina.
CAPITOLO III.
Apostolato di S. Domenico
dall'abboccamento di Montpellier fino al principio della
guerra Albigese
Fondazione del monastero di Notre-Dame
di Prouille.
Quanto fra i legati apostolici ed il Vescovo di
Osma era stato stabilito, senza indugio fu mandato ad effetto.
L'abate di Citeaux partì per la Borgogna a presiedervi il
capitolo generale del suo Ordine, e promise che sarebbe tornato
con buon numero di operai evangelici. Gli altri due legati con Don
Diego, con Domenico e con alcuni preti spagnoli s'avviarono a
piedi verso Narbona e Tolosa. Strada facendo, sostavano nelle
città e nelle borgate a seconda che lo Spirito del Signore li
ispirava o potevano rilevare dalle circostanze che la loro parola
sarebbe stata fruttuosa. Divisato poi che avessero di predicare in
qualche luogo, ci si fermavano più o meno, attesa l'importanza
del paese e l'impressione prodottavi. Ai cattolici predicavano
nelle chiese; con gli eretici tenevano conferenze in case private.
L'uso di tali conferenze è antichissimo. San Paolo stesso ne
teneva di frequente con gli Ebrei, e S. Agostino coi Donatisti e
coi Manichei dell'Africa. E per verità, se fra le cause
dell'errore si conta pure l'ostinazione, l'ignoranza ne, è la
causa più comune. La maggior parte degli uomini non rigettano la
verità so non perché, ignorandola, se la rappresentano sotto
forme, che non hanno niente di reale.
Uno degli obblighi dell'apostolo è adunque
esporre chiaramente la vera fede, sceverandola da tutte le
opinioni particolari che la oscurano, lasciando allo spirito umano
tutta la libertà che la parola di Dio e la Chiesa, sua
interprete, gli consentono. Ma questa esposizione non è possibile
se non in quanto attira coloro che ne hanno bisogno; ed allora
solo è completa, quando permette agli avversari la discussione,
come noi ci riserbiamo il diritto di esaminare le loro dottrine.
E' questo il fine delle conferenze, onorevole palestra, dove
uomini di buona fede invitano a discutere uomini di buona fede,
dove la parola è l'arma uguale per tutti, e la coscienza il solo
giudice.
Se però l'uso delle conferenze è antico,
quelle tenute cogli Albigesi rivestirono una certa novità ed
arditezza tutta propria. I cattolici non temettero di eleggere
spesso ad arbitri delle controversie gli stessi avversari,
rimettendosi al loro giudizio, invitando a presiedere l'assemblea
i più celebri fra gli eretici, e dichiarando fin da principio che
sul valore delle ragioni addotte da ambedue le parti, sarebbero
stati alle loro decisioni. Quest'eroica fiducia fruttò loro assai
bene, e più volte poterono rallegrarsi di avere confidato assai
nel cuore umano; ebbero anzi le più solenni prove
dell'inesauribile disposizione al bene che sempre vi si nasconde.
Una delle prime borgate dove i nostri si
fermarono fu Caraman, non lontano da Tolosa. Con tanto successo vi
annunziarono per otto giorni la verità, che gli abitanti volevano
cacciarne
a forza gli eretici; e quando i missionari
partirono, li accompagnarono per lungo tratto. - Beziers li ebbe
per quindici giorni. Ivi la piccola schiera rimase priva di Pietro
di Castelnau pregato dagli amici ad allontanarsi a cagione
dell'odio particolare che a lui, portavano gli eretici. - Una
terza stazione fu fatta a Carcassona; un’altra a Verfeuil, nelle
vicinanze dì Tolosa; una quinta. a Fanjeaux, piccola città
situata in alto fra Carcassona e Pamiers. Quest'ultima è rimasta
celebre
per un fatto miracoloso, che il B. Giordano di
Sassonia racconta con queste parole: «Accadde che a Fanjeaux
fosse tenuta una clamorosa conferenza davanti ad una moltitudine
di fedeli ed infedeli. I cattolici avevano preparati diversi
memoriali pieni di argomenti e di autorità a sostegno della loro
fede; esaminati però, e confrontati insieme, fu prescelto, per
opporre al memoriale che dal canto loro avrebbero presentato gli
eretici, quello del beato servo di Dio Domenico. Di comune accordo
cogli eretici furono designati tre arbitri per giudicare da qual
parte militassero ragioni migliori, e per conseguenza più soda
fosse la fede. Ma dopo molto ragionare, non consentendo gli
arbitri in una stessa sentenza, venne loro in mente di gettare nel
fuoco le due memorie, persuasi che se una fosse risparmiata dalle
fiamme, essa avrebbe contenuto senza dubbio la vera dottrina. Si
accese dunque un gran fuoco e vi si gettarono i due volumi; quello
degli eretici fu subito in fiamme, mentre l'altro che il beato
servo di Dio Domenico aveva scritto, non solamente rimase illeso,
ma fu respinto via dal fuoco stesso in presenza di tutta quanta
l'assemblea. Vi si rigettò una seconda volta e poi una terza, ed
il prodigio sempre ripetutosi die' manifestamente a conoscere da
qual parte stesse la verità, e quanta fosse la santità di chi
avea scritto quel libro» . La memoria di questo fatto è rimasta
non solo nella storia, ma anche nelle tradizioni di Fanjeaux; e
nel 1325 gli abitanti di quel luogo ottennero da Carlo il Bello di
poter comprare la casa ove era avvenuto il prodigio e di
trasformarla in cappella, arricchita poi dai Sommi Pontefici di
molti privilegi Un miracolo simile accadde più tardi a Montréal,
ma in secreto, fra eretici convenuti nottetempo per esaminare un
altro memoriale del medesimo servo di Dio. Per quanto però si
fossero promessi a vicenda di occultare la cosa, pure uno di essi,
convertitosi alla fede, la rivelò.
Frattanto Domenico si era bene accorto che una
delle cause per cui l'eresia progrediva era la scaltrezza con la
quale gli eretici attiravano a sé l'educazione di nobili
giovinette, che le famiglie per mancanza di mezzi non potevano
educare convenientemente alla loro condizione. Stava quindi
investigando al cospetto di Dio il da farsi per rimediare a tanta
seduzione; e credè di potervi provvedere colla fondazione di un
monastero destinato a ricevere quelle fanciulle cattoliche che la
nobiltà dei natali e la povertà insieme esponevano alle insidie
dell'eresia. Eravi a Prouille, villaggio posto in una pianura tra
Fanjeaux e Montréal, alle falde dei Pirenei, una chiesa dedicata
alla SS. Vergine e celebre da molto tempo nella venerazione dei
popoli. Domenico nutriva devozione particolare per Notre-Dame di
Prouille; spesso nei suoi viaggi apostolici ci si era fermato a
pregare; e sia che salisse i primi colli dei Pirenei, sia che ne
discendesse, l'umile santuario di Prouille gli era sempre apparso,
all'entrare nella Linguadoca, come un luogo di speranze e di
consolazioni. Quivi adunque, a fianco della chiesa, coll'approvazione
e con l'aiuto del vescovo Folco, asceso allora alla sede di
Tolosa, edificò Domenico il suo monastero. Folco era monaco
cisterciense, assai noto per la purità della vita e l'ardore
della fede; ed i cattolici, di Tolosa se l'erano scelto per
vescovo, dopochè Raimondo di Rabenstens, suo predecessore, per
decreto del Pontefice ne era stato rimosso. La sua elezione ad una
sede tanto importante fu accolta con somma gioia in tutta la
Chiesa; e quando lo venne a sapere anche il legato Pietro di
Castelnau, allora gravemente infermo, sollevatosi un po' dal
letto, a mani giunte ne rese grazie al Signore. Folco ben presto
fu l'amico di Domenico e di Don Diego, e favorì quanto poté
l'erezione del monastero di Prouille, cui concesse prima l'uso e
poi la proprietà della chiesa di Santa Maria, accanto alla quale
Domenico l'avea edificato. E prima di Folco, Berengario,
arcivescovo di Narbona, aveva donato alle suore, quattro mesi
appena dacché si erano riunite, la chiesa di S. Martino di Limoux
con tutte le rendite che le appartenevano. In seguito anche il
conte Simone di Montfort ed altri nobili cattolici fecero doni
rimarchevoli a Prouille, che ben presto addivenne un fiorente e
celebre monastero. Parve anzi che una grazia speciale sempre lo
assistesse; perocché la stessa guerra civile e religiosa che di
lì a poco scoppiò, non si avvicinò alle sue mura se non per
venerarle. E mentre le chiese erano spogliate, i monasteri
distrutti, l'eresia in armi e spesso vittoriosa, povere figliole
del tutto indifese pregavano tranquillamente a Prouille, all'ombra
ancor giovane del loro chiostro. Le prime opere dei Santi spirano
sempre un profumo di verginità che tocca il cuore di Dio; e Colui
che protegge il filo d’erba contro la tempesta, veglia alla
culla delle grandi cose.
Quale fosse in principio l'abito e quali le
regole delle Suore di Prouille, non si sa con certezza. A capo
stava una Priora sotto la Direzione di Domenico, che ritenne
l'amministrazione spirituale e temporale del monastero, affinché
le sue care figliole non fossero disgiunte dal futuro Ordine che
stava meditando, anzi ne fossero come il primo seme. Però non
permettendogli le sue cure apostoliche di fissare in Prouille la
sua residenza, commise l'amministrazione temporale del monastero
ad un abitante di Pamiers, a lui bene affetto, per nome Guglielmo
Claret; e chiamò altresì a parte della direzione spirituale uno
o due ecclesiastici, francesi o spagnoli non so, e di cui anche il
nome è rimasto sconosciuto. Una parte del monastero fuori di
clausura, fu adibita ad uso di Domenico e dei suoi coadiutori,
affinché la loro abitazione distinta, ma sotto un medesimo tetto,
fosse garanzia dell'unione che legherebbe un giorno i Frati
Predicatori alle Suore Predicatrici, due rami sbocciati da un
medesimo tronco. E quando tutto fu ultimato il 27 dicembre 1206,
festa di S. Giovanni Evangelista Domenico ebbe la consolazione di
aprir le porte di Notre-Dame di Prouille a parecchie gentildonne e
giovanette che per mezzo suo aveano desiderato consacrarsi a Dio.
Tali i primordi delle istituzioni Domenicane.
Da principio un asilo a protezione della triplice debolezza del
sesso, della nascita e della povertà, come la redenzione del
mondo che cominciò nel seno di una vergine povera e figlia di
David. Notre-Dame di Prouille, solitaria e modesta, aspettò
ancora lungamente ai piedi della montagna i fratelli e le sorelle
che avrebbe avuti senza numero, e che avrebbero portato il suo
nome fino all'estremità della terra. Primogenita di un padre che
lentamente avanzava sotto la paziente direzione di Dio, cresceva
anch'essa in silenzio, onorata dall'amicizia di molti uomini
grandi e quasi cullata sulle loro ginocchia. Domenico poi, che
dopo l'abboccamento di Montpellier avea lasciato il titolo di
sottopriore d'Osma, per prender quello di Fra Domenico, aggiunse
allora a questa umile e dolce denominazione, l'altra di Priore di
Prouille, onde veniva chiamato: Fra Domenico, priore di Prouille.
Qualche tempo dopo questa fondazione, Domenico
trovandosi a Fanjeaux, fatta la predica. era rimasto, secondo il
suo solito, in Chiesa a pregare: quand'ecco che nove nobili
signore si prostrano ai suoi piedi e: «Servo di Dio, gli dicono,
aiutateci. S'egli è vero ciò che oggi voi avete predicato, ben
da gran tempo il nostro spirito è acciecato dall'errore;
perocchè a coloro che voi chiamate eretici, e noi buonomini, fino
ad oggi abbiamo prestato fede ed aderito, con tutta convinzione,
ora non sappiamo più che pensare. Servo di Dio abbiate pietà di
noi e pregate il Signore Dio vostro, che ci faccia conoscere la
vera fede nella quale dobbiamo vivere e morire, per esser salve».
Domenico rimasto assorto ancora per qualche momento nella
preghiera, poi rispose loro: «Abbiate pazienza e aspettate senza
timore. Io credo che il Signore, il quale non vuole che alcuno si
perda, vi mostrerà a qual padrone abbiate servito fin qui». E
tutta ad un tratto apparve in forma di immondo animale lo spirito
di errore e di odio; e Domenico rassicurandole: «Voi potete
argomentare da questo mostro, che Dio vi ha fatto comparire
dinanzi, chi sia colui che, dando retta agli eretici, fino ad ora
avete servito» . Le donne, piene di riconoscenza verso. il
Signore, sull'istante e con fermo proposito si convertirono alla
fede, cattolica; anzi alcune si consacrarono a Dio nel monastero
di Prouille.
Nella primavera dell'anno,1207 fu tenuta a
Montréal una delle solite conferenze fra albigesi e cattolici.
Questi ultimi scelsero fra gli avversari quattro arbitri ai quali
furono rimessi da ambedue le parti alcuni memoriali sulle materie
controverse. La pubblica disputa fu protratta per quindici giorni,
dopo i quali gli arbitri si ritirarono senza volersi pronunziare.
Sentivano vivamente nella loro coscienza la superiorità dei
cattolici, ma non avevano coraggio di fare una dichiarazione
aperta contro il loro partito. Ciò nonostante, centocinquanta
uomini abiurarono l'eresia e ritornarono nel seno della Chiesa. Il
legato Pietro di Castelnau era presente a questa conferenza; e
poco dopo giunsero a Montréal anche l'abate di Citeaux, dodici
altri abati del medesimo Ordine e circa venti religiosi, tutti
uomini di cuore, versati nelle cose divine e d'una santità di
vita degna della missione che venivano a compiere. Avevano
lasciato Citeaux allo sciogliersi del capitolo generale, e secondo
le raccomandazioni del Vescovo d'Osma si erano messi in viaggio
non portando seco che il puro necessario. Questo rinforzo rianimò
i cattolici, i quali dopo due anni di fatiche vedevano finalmente
qualche frutto dei loro sudori e sperimentavano di non avere
confidato invano sull'assistenza promessa a tutti coloro che
sinceramente si consacrano alla causa di Dio. La provincia di
Narbona era già stata evangelizzata da cima a fondo; molte le
conversioni operate; l'orgoglio degli eretici rintuzzato da virtù
superiore alle loro forze; ed i popoli spettatori di tanto
risveglio, avevano ben potuto comprendere non esser poi la Chiesa
Cattolica sull'orlo della tomba. Folco avea rialzata la dignità
episcopale; Navarre, vescovo di Conserans, lo imitava; gli altri
colleghi, prima freddi, scuotevansi anch'essi dal loro torpore; e
con la fondazione del monastero di Prouille era stata riabilitata
la nobiltà cattolica decaduta. Il più gran fatto però era
quello di aver potuto riunire insieme uomini eminenti per virtù,
per dottrina e per carattere, animati dal comune pensiero
dell'apostolato; e di aver dato a questo apostolato nascente una
consistenza insperata. - Tuttavia richiedevasi ancora maggiore
unità fra questi elementi retti da quattro differenti autorità,
cioè dai legati, dai vescovi, dagli abati di Citeaux e dagli
spagnoli; per la qual cosa parlavasi spesso della necessità di
fondare un Ordine religioso che avesse per ufficio la
predicazione. E se la venuta dei cisterciensi a Montreal
consolidò tutte le cose fino allora operate, ispirò ancora un
desiderio più risoluto di andare innanzi. Anima dell'impresa era
il Vescovo d'Osma, per quanto come semplice vescovo fosse
inferiore ai legati, e come straniero dipendesse nell'esercizio
del suo spirituale ministero dai prelati francesi. Ma era stato
lui che coi suoi consigli avea ridato vita ad ogni cosa quando
tutto era disperato; lui che per primo avea messo mano all'opera
senza mai voltarsi indietro; lui che si era conciliato perfino
l'affezione degli eretici, i quali andavan dicendo: «essere
impossibile che un tant'uomo non fosse predestinato alla vita; e
senza dubbio non per altro fine essere inviato fra loro, che per
ammaestrarli sulla vera dottrina» . Insomma quella forza segreta
che spinge ciascun uomo verso il proprio destino, avea innalzato
Diego al di sopra di tutti. Pensò egli adunque di tornare nella
Spagna onde regolare gli affari della sua diocesi, raccogliere
offerte a vantaggio del monastero di Prouille che versava nel
momento in strettezze, e reclutare nuovi operai da condurre in
Francia, affine di stabilire sempre meglio l'impresa già bene
avviata. Fermo in questa risoluzione, riprese a piedi la via per
la Spagna.
Giunto a Pamiers, Don Diego s'incontrò con il
Vescovo di Tolosa, con quello di Conserans, e con un gran numero
di Abati di diversi monasteri, i quali saputo della sua partenza,
erano venuti per salutarlo. La presenza loro fu occasione di una
celebre disputa coi Valdesi, predominanti in Pamiers sotto la
protezione del conte di Foix. Il conte invitò alternativamente a
mensa i cattolici e gli eretici, ed offrì loro il suo palazzo per
tenervi la conferenza. Ad arbitro della disputa i cattolici
scelsero il più spinto fra i loro avversari, il quale era ancora
uno dei più distinti personaggi della città. Il successo superò
ogni aspettativa. Arnaldo di Campranham, l'arbitro designato,
pronunziò la sentenza in favore dei cattolici ed abiurò
l'eresia; e un altro eretico assai celebre, Durando di Huesca, non
contento di essersi convertito alla vera fede, abbracciò in
seguito la vita religiosa in Catalogna dove si era ritirato, e fu
il fondatore di una nuova congregazione sotto il nome di veri
cattolici. Queste due abiure, e non furono le sole, destarono,
gran rumore nella città di Pamiers, e meritarono ai cattolici
dimostrazioni grandi di gioia e di stima da parte del popolo. Dopo
questo trionfo, degna corona di un laborioso apostolato, Don Diego
disse addio a tutti i venuti ad ossequiarlo avanti la sua partenza
dalla Francia. S’ignora se Domenico l’avesse accompagnato fin
là; forse la loro separazione ebbe luogo a Prouille, e sotto quel
tetto prediletto si videro per l'ultima volta. Negli
imperscrutabili giudizi di Dio era scritto, che essi mai più si
sarebbero incontrati su la terra.
Don Diego valicati i Pirenei, e traversata,
sempre a piedi, l'Aragona, rivide finalmente Osma, e si assise
sulla sua cattedra, vedovata per tre anni del suo pastore. Quando
già stava preparandosi a lasciare di bel nuovo la patria, Dio lo
chiamò alla città permanente degli angeli e degli uomini. Fu
sepolto in una chiesa della città vescovile, con questa breve
iscrizione: Qui giace Diego di Azevedo, vescovo di Osma, morto l’anno
1245 . La sua morte tramandata ai posteri con tanta semplicità,
ebbe nondimeno tali conseguenze da far chiaramente rilevare la
scomparsa di un uomo grande. Ne era infatti giunta appena la voce
oltre i Pirenei, che l'opera grandiosa da lui organizzata subito
venne meno. Gli abati e i religiosi di Citeaux ripresero la via
per i loro monasteri; la maggior parte degli spagnuoli che Don
Diego aveva lasciati sotto la presidenza di Domenico, se ne
tornarono nella Spagna; dei tre legati, Rodolfo era morto, Arnaldo
si era appena fatto vivo per un momento, e Pietro di Castelnau era
in Provenza, alla vigilia di cader vittima sotto i colpi di un
assassino. Un uomo solo perseverava, sempre compreso dell'antico
pensiero dì Tolosa e di Montpellier; uomo giovane straniero,
senza poteri, rimasto fino allora in seconda linea, impotente
quindi a sostituirsi d'un tratto ad un Azevedo in cui
l'episcopato, l'età, la rinomanza avvaloravano di gran lunga il
genio e la virtù. Il più che poté fare Domenico adunque fu non
soccombere al terribile colpo di tale perdita, e, anche privo
dell'amico, rimanere costante. Otto anni di continue fatiche gli
furono necessari per riparare al vuoto che intorno a lui si era
fatto; né ci fu mai uomo che più penosamente di Domenico si sia
spinto verso la meta prefissa, per raggiungerla poi con una
rapidità ancor più meravigliosa.
Alcuni miracoli resero celebre la tomba di
Azevedo. Nella medesima chiesa dove riposavano le sue spoglie fu
in seguito eretta una cappella a S. Domenico: la pietà de' fedeli
li volle ravvicinati fra loro, col trasportare il corpo dell'uno
sotto l'immagine dell'altro. Ma come se Domenico non potesse
permettere che stesse ai suoi piedi chi sulla terra era stato il
suo mediatore, da una mano riverente fu tolto di là il venerabile
capo, tempio una volta del pensiero dell'amico, e dato al convento
dei Frati Predicatori di Malaga. Nonostante questi onori, la
rinomanza in Azevedo non ha uguagliato il suo merito. La Francia
non lo vide che di passaggio; la Spagna lo conobbe troppo poco; ed
ei scomparve senza aver condotto a termine alcun impresa. Dio non
l’avea predestinato che a precursore di un altro uomo più santo
e più straordinario di lui. Arduo compito, per cui richiedesi un
cuore totalmente disinteressato, ed a cui Azevedo corrispose con
quella stessa semplicità che gli facea varcare a piedi i Pirenei.
Egli fu sempre dimentico di se stesso; ma la posterità di S.
Domenico ne serba riverente e grata memoria, come fu grande la sua
umiltà; ed io non posso ora separarmi da lui, se non con, la
pietà di un figlio che testé abbia chiuso gli occhi al suo
genitore.
Tutto adunque andò in dispersione per la morte
del Vescovo di Osma, e Domenico si trovò quasi solo sul campo. I
due o tre cooperatori rimasti con lui, avrebbero potuto
abbandonarlo da un momento all’altro, trattenuti com'erano solo
dal loro buon volere. Né questa solitudine fu l'unica sua
sventura; ché una terribile guerra venne ad accrescerne le
amarezze e le difficoltà.
Il legato Pietro di Castelnau avea detto più
volte che la religione non sarebbe rifiorita in Linguadoca, prima
che il sangue di un martire avesse irrigato il suolo; e
ardentemente pregava Dio di concedergli la grazia d'esser lui la
vittima. I suoi voti furono esauditi. Dietro premurosi inviti del
conte di Tolosa lui poco prima scomunicato, e che ora diceva
volersi riconciliare colla Chiesa, Pietro e l'abate di Citeaux,
spinti da vivissimo desiderio di pace, si erano recati a
Saint-Gilles, per il richiesto abboccamento. Ma il conte non
voleva che burlarsi di loro, e mostrò col fatto di non avere
avuto altro fine nell'invito che di ottenere col terrore la
liberazione dalla scomunica, minacciando la morte ai legati, se
avessero ardito partite da Saint-Gilles prima di averlo assolto. I
legati però disprezzando le suo minacce se ne ripartirono,
protetti da una scorta data loro dai magistrati della città. La
notte sostarono sulla riva del Rodano, e la dimane, accomiatata
quella gente che li aveva accompagnati, già si disponevano a
passare il fiume, quando si fecero loro innanzi due uomini, uno de’
quali immerse la lancia nel petto di Pietro di Castelnau. Il
legato, ferito a morte, disse al suo uccisore: «Che Iddio ti
perdoni come io ti perdono» . E ripetute più volte queste
parole, ed esortati i compagni a servire intrepidamente ed
instancabilmente la Chiesa, esalò l'ultimo respiro. Il suo corpo
fu trasportato all'abazia di Saint-Gilles; l'uccisione avvenne il
15 gennaio 1208.
Quest'omicidio fu il segnale di una guerra, in
cui per quanto Domenico non avesse parte alcuna, pure fu a lui
sorgente di grandi tribolazioni nell'esercizio del suo apostolato;
e gli avvenimenti di tal guerra sono così collegati con quelli
della di lui vita, che non posso fare a meno di tracciarne
rapidamente la storia.
CAPITOLO IV
Guerra degli Albigesi .
La guerra è l'atto con cui un popolo si oppone
all’ingiustizia a prezzo del proprio sangue. Dov'è ingiustizia
ivi è ragione legittima di guerra fino ad equa riparazione. La
guerra adunque, dopo la religione è il primo de' doveri umani;
l'una insegna il diritto, l'altra lo difende; l'una è la parola
di Dio, l’altra ne è il braccio. Santo, santo, santo è il
Signore, Dio degli eserciti, vale a dire il Dio della giustizia,
il Dio che crea i forti in soccorso dei deboli, il Dio che balza
dal trono i superbi, che suscita Ciro contro Babilonia, infrange
le porte di bronzo a favore dei popoli, fa del carnefice un
soldato e del soldato una vittima. Anche la guerra però, come le
cose, più sante, può essere sviata dal suo fine, e degenerare in
strumento di oppressione; onde a giudicare rettamente di essa in
casi particolari, è necessario conoscerne lo scopo. Ogni guerra
di liberazione è sacra; ogni guerra d’oppressione è maledetta.
Fino ai tempi delle crociate, la difesa del
proprio paese e del governo legittimo di ciascun popolo fu quasi
il solo ideale di cui si occupasse e da cui traesse vigore la
santità della spada. Il soldato moriva alle frontiere della
patria, nome il più caro che ispirasse il suo cuore nell'ora
della battaglia. Ma dopoché Gregorio VII ebbe suscitato nello
spirito dei suoi contemporanei l'idea della repubblica cristiana,
il campo del sacrificio si estese insieme a quello della
fratellanza. L'Europa, unita nella stessa fede, comprese che ogni
popolo cattolico oppresso avea diritto, chiunque fosse
l'oppressore, ad essere soccorso; e che essa, per difenderlo,
giustamente poteva impugnare la spada. Fu così che sorse la
cavalleria; e la guerra addivenne non solo un dovere cristiano, ma
anche un ufficio monastico. Battaglioni di monaci furon veduti
ricoprire di cilizio e di scudo le frontiere d'Occidente; ogni
anima battezzata senti di essere il braccio del diritto contro la
forza; e figlia di quel Dio che raccoglie il minimo lamento di
ogni sua creatura, sentì ancora il dovere di esser pronta al
primo grido di dolore. Come un cacciatore armato che ritto a piè
d'un albero ascolta da qual parte venga il vento, l'Europa con la
lancia in resta e il piede nella staffa, stava in quei tempi
spiando attentamente da qual parte venisse l'ingiuria. E sia che
fosse lanciata dal trono o dalla torre d'un semplice castello, sia
che abbisognasse traversare mari o bastasse breve e corsa a
cavallo per rintuzzarla, tempo, luogo, pericoli, grandezza, niente
valeva a trattenere alcuno. Né si calcolava prima se vi sarebbe
stato danno o tornaconto: il sangue o non si dà, o si dà da
generosi; quaggiù la coscienza, lassù lo rimerita Iddio.
Fra i deboli oppressi che la cristiana
cavalleria avea preso a proteggere, la Chiesa, come la cosa più
sacra, teneva il primo posto. La Chiesa senza soldati, senza
bastioni a difesa; era stata sempre alla mercé de’ suoi
persecutori; ogni principe che le avesse voluto male, poteva osar
tutto contro di lei. Ma poiché la cristiana cavalleria si fu
affermata, fu essa la protettrice della città di Dio: dapprima
perché la città di Dio era debole; in seguito perché la causa
della di lei libertà era la causa stessa del genere umano. La
Chiesa oppressa avea diritto, siccome ogni altro, alla difesa del
cavaliere; e fondata com'è da Gesù Cristo per perpetuare l'opera
dell'emancipazione terrena e della salvezza eterna degli uomini,
la Chiesa reputavasi allora come la madre, la sposa, la sorella di
chiunque avesse avuto sangue generoso e buona spada, io credo che
ai nostri giorni non vi sia persona la quale non sappia apprezzare
tali sentimenti. Il nostro secolo fra le tante miserie, almeno
questo ha d i gloria; di saper riconoscere esservi interessi ben
più alti e più universali che non quelli di famiglia e di
nazione. La simpatia de' popoli travalica nuovamente le frontiere,
e la voce degli oppressi trova un'eco nel mondo. Qual francese non
accompagnerebbe, se non colla persona, almeno col desiderio, un
esercito di cavalieri che attraversasse l'Europa a soccorso della
Polonia? O qual francese, anche incredulo, fra i delitti, di cui
è vittima quell'illustre nazione, non vorrà numerare la violenza
fatta alla sua religione, l'esilio dei suoi preti e dei suoi
vescovi, la soppressione dei monasteri, la rapina delle chiese, la
tortura delle coscienze? Se il sequestro arbitrario e
l'incarcerazione dell'arcivescovo di Colonia hanno prodotto, tanta
impressione nell'Europa moderna, che non dové essere nell'Europa
del secolo decimoterzo all'annunzio che un ambasciatore apostolico
era stato ucciso proditoriamente a colpi di lancia? .
Né questo era il, solo atto d'oppressione di
cui la cristianità avesse diritto di chieder ragione al conte di
Tolosa; già da lungo tempo nelle terre dov'egli imperava non vi
era più libertà alcuna pei cattolici. Devastati i monasteri,
messe a ruba le chiese, di cui molte trasformate in fortezze; i
vescovi di Carpentras, e di Vaison cacciati dalle loro sedi; ed un
cattolico invano avrebbe sperato giustizia contro un eretico.
Tutte le intraprese dell'eresia erano dal conte protette; mentre
verso la religione cattolica ostentava quel disprezzo affettato
che in un principe è già tirannia. Un giorno che i Vescovo d'Orange
si presentò in persona a lui per supplicarlo di rispettare i
luoghi santi e di astenersi, almeno la domenica e le altre feste,
da quelle vessazioni con cui opprimeva la provincia d'Arles,
Raimondo presa la mano destra del prelato, soggiunse: « lo giuro
per questa mano di non fare nessun conto né di domeniche, né di
feste, e di non far grazia né a persone, né a cose
ecclesiastiche» . La Francia in quel tempo era infestata da
tristi avventurieri, i quali divisi in numerose bande, rendevano
le strade piene di ladroneggi e di sangue. Inseguiti da Filippo
Augusto, aveano trovato impunità e sicurezza nelle terre del suo
vassallo, il conte di Tolosa, in premio dell'ardore con cui
cooperavano ai di lui disegni colle loro aggressioni e. sacrileghe
crudeltà. Portavano via dai tabernacoli i vasi sacri, profanavano
il Corpo di Gesù Cristo, strappavano alle immagini i loro
ornamenti per abbellirne femmine prostitute; atterravano da cima a
fondo le chiese, ne uccidevano a colpi di verghe 'e di mazze i
sacerdoti, e molti ne scorticavano vivi; ed il conte con
esecrabile tradimento lasciava indifesi i suoi sudditi contro
questo pugno di assassini. Quando poi, dopo tanti delitti di cui
era stato l'autore od il complice, giunse ad accogliere fra i suoi
amici e ricolmare di favori l'uccisore stesso di Pietro di
Castelnau, la misura fu colma. Il momento era giunto in cui la
tirannia pei suoi eccessi è ruina a se stessa.
Sarebbe per altro un grave errore credere che
la cristianità di allora avesse potuto facilmente domandar
giustizia al conte di Tolosa; ché potente egli era e da temersi,
come i fatti chiaramente lo dimostrarono. In verità dopo
quattordici anni di guerra Raimondo VI morì vincitore de' suoi
nemici, e poté trasmettere al figlio, che ne godè fino alla
morte, il patrimonio de' suoi maggiori: né questo gran feudo fu
riunito alla corona di Francia, se non in seguito al matrimonio di
un fratello di S. Luigi con la figlia unica del conte Raimondo VII.
- Le cause per cui la dinastia dalla quale discendeva Raimondo era
potente, assommavano a parecchie. In primo luogo essa era
antichissima in quel paese, ed una gloria ben meritata la
raccomandava moltissimo all'amore, de' popoli. Nuovo legame tra il
principe ed i sudditi era l'eresia, ivi ormai generalmente
diffusa, e che importando come una separazione dal resto della
cristianità, dava alle mutue loro relazioni la forza di un legame
religioso. 1 vassalli d'ogni specie condividevano gli errori col
proprio signore, e la cupidigia dei beni del clero aggiungeva alla
comunanza delle idee Anche quella degli interessi. Né i
cattolici, rimasti pochi di numero e non troppo ferventi, potevano
far molto per indebolire un partito così compatto, e di cui era
l'anima io stesso conto di Tolosa. Aggiungasi che questi avea per
alleati nella sua causa i conti di Foix e di Comminges, il
visconte di Béarn, il re di Aragona Pietro II, di cui avea
sposata la sorella; e che niente avea da temere dalla Guyenne,
posseduta dagli Inglesi. Filippo Augusto, signore di Raimondo,
preoccupato in casa sua per causa di litigi tra l'Inghilterra e
l'impero, non era al caso di capitanare la crociata; e senza
Filippo a capo, il solo a temersi, l'esercito dei crociati,
composto di gente accozzata alla meglio, non poteva dare speranza
che di effimere vittorie; appariva anzi destinato a naturale
dissoluzione, prima ancora di essere sconfitto. Padrone adunque di
tutta la striscia dei Pirenei, con dietro l'Aragona a difesa e con
due mari inoffensivi a destra e a sinistra, circondato da una
moltitudine di forti città custodite da fedeli vassalli, Raimondo
avea tutte le probabilità di esser più forte dei suoi nemici.
Ond'è che la guerra Albigese fu una guerra assai seria, in cui le
difficoltà morali furono più gravi ancora di quelle strategiche.
Ora vedremo quali fossero i nobili e generosi sentimenti
d'Innocenzo III, sempre d'avviso che là ci si trovava un abisso;
e vedremo anche un gran capitano, dapprima vittorioso, soccombere
poi sotto il peso delle afflizioni, avanti
che la morte del soldato lo raggiunga.
Innocenzo III appena saputo dell'uccisione del Castelnau, scrisse
una lettera ai conti, ai baroni, ai cavalieri delle provincie di
Narbona, d'Arles, d'Embruni, d'Aix e di Vienna, nella quale dopo
aver dipinto a vivi colori l'uccisione del suo legato, dichiarava
scomunicato il conto di Tolosa coi suoi vassalli, dichiarava
sciolti dal giuramento di obbedienza i di lui sudditi, e la sua
persona e le sue terre messe al bando della cristianità. Nel caso
però che il conte si fosse pentito de' suoi delitti, lasciavagli
aperta la porta per riconciliarsi colla Chiesa. Questa lettera è
in data del 10 marzo 1208. Il Sommo Pontefice scrisse inoltre
sullo stesso tenore agli arcivescovi ed ai vescovi di quelle
provincie, all'Arcivescovo di Lione a quello di Tours, e al re di
Francia. All'abate di Citeaux, il solo superstite dei suoi legati,
aggiunse Navarre, vescovo di Conserans, ed Ugo, vescovo di Riez,
incaricando l'abate di predicare in modo speciale e di far
predicare ai suoi religiosi la crociata. I preparativi furono
fatti nel rimanente di quest'anno e nella primavera dell'anno
seguente.
Frattanto il conte di Tolosa impauritosi, e
saputo che i vescovi della provincia di Narbona avevano inviato al
Papa i loro colleghi di Tolosa e di Conserans perché l’informassero
minutamente di tutti i mali cagionati alle loro chiese, credé
bene di mandare anche lui a Roma l'arcivescovo d'Auch, e
Rabenstens, già arcivescovo di Tolosa, affinché si lagnassero
amaramente dell'abate di Citeaux, e dicessero al Pontefice che il
loro signore era pronto a sottomettersi e a dare giusta
soddisfazione alla Santa Sede, purché gli venisse concesso di
trattare con legati più ragionevoli. Innocenzo III accondiscese a
tali richieste, e fece partire per la Francia Milone, notaro
apostolico ed uomo di consumata prudenza, con lo speciale incarico
di esaminare e giudicare la causa del conte. Milone convocò a
Valenza un'assemblea di vescovi, e Raimondo, presentatosi,
accettò le condizioni di pace che gli furono proposte. Erano le
seguenti: ch'egli cacciasse gli eretici dalle sue terre; rimovesse
dal pubblici uffici gli ebrei; riparasse i danni da lui cagionati
ai monasteri ed alle chiese; ristabilisse nelle loro sedi i
vescovi di Carpentras e di Vaison; provvedesse alla sicurezza
delle strade; non esigesse balzelli che non fossero secondo le
antiche consuetudini del Paese; purgasse i suoi domini da quelle
masnade armate che l'infestavano; ed in pegno della sua sincerità
consegnasse nelle mani del legato la contea di Melgueil e sette
città della Provenza che a lui appartenevano a condizione che le
avrebbe perdute qualora non fosse stato di parola. La solenne
riconciliazione con la Chiesa fu stabilito di farla a Saint-Gilles,
secondo le forme allora in uso.
Se il conte di Tolosa avesse agito in buona
fede, la pubblica penitenza accettata, lungi dall'umiliarlo agli
occhi de' suoi contemporanei e dei posteri, lo avrebbe anzi reso
oggetto di somma ammirazione davanti a tutta la cristianità.
Teodosio non offuscò la sua gloria per essersi arreso a S.
Ambrogio sulla soglia della cattedrale di Milano: solo il delitto
fa disonore; mentre l'espiazione volontaria, specialmente in un
sovrano, è tale omaggio reso a Dio ed all'umanità, che
rinobilita colui che lo rende, e lo fa partecipe della gloria
insuperabile che si ritrova in Gesù Cristo crocifisso. L'orgoglio
non comprenderà forse ciò che dico; ma che importa? E’ già da
tempo che la croce è padrona del mondo, senza che l'orgoglio ne
abbia indovinata la ragione. Non ci curiamo di questo cieco nato,
e ripetiamo a chi è capace d'intendere le parole di Colui che
conquistò la terra e il cielo con un supplizio volontariamente
sofferto: Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà
esaltato (Mt 23,12). Quando adunque il conte di Tolosa avesse
agito sinceramente, la penitenza accettata gli avrebbe fruttato
assai bene sotto ogni rispetto. Ma l'uomo nella sventura non
saprà mai apprezzare abbastanza la potenza dell'arma che ha fra
mano. Il conte di Tolosa mentiva; solamente per politica aveva
promesso cose che non avea in animo di mantenere; e quando sulla
soglia dell'Abazia di Saint-Gilles, dopo avere giurato sulle
reliquie dei Santi e sul corpo stesso del Signore che sarebbe
stato alle promesse, presentò le spalle nude alla verga del
legato, non diede che un turpe spettacolo di spergiuro e
d'ignominia. Una circostanza notevole si aggiunse ad aggravare il
castigo e a dargli un carattere speciale. Perocché all'uscire di
chiesa, tanta era la folla, da non permettere a Raimondo di
muovere neppure un passo; onde apertagli una porta segreta che
metteva nei sepolcreti, si trovò a passare nudo e fustigato
davanti alla tomba di Pietro di Castelnau.
Pochi giorni dopo questo fatto, avvenuto il 18
giugno 1209, il legato Milone se ne partì per Lione per
raggiungere l'armata dei crociati, capitanata dal duca di
Borgogna, dai conti di Nevers, di S. Paolo, di Bar e di Montfort,
e da altri distinti personaggi, nonché da alcuni prelati.
Innocenzo III aveva ordinato che se il conte di Tolosa fosse stato
assolto, i domini che direttamente gli appartenevano, fossero
rispettati; si facesse però marciare l'esercito contro i di lui
vassalli ed alleati, onde ridurli a sommissione.
Le truppe adunque si avanzarono verso la
Linguadoca, e non erano ancora a Valenza che il conte Raimondo
già le precedeva, vestito anch'egli da crociato, fu assediato
Beziers, che preso d'assalto all'improvviso, rimase preda del
furor soldatesco, senza che si avesse riguardo alcuno né
all'età, né al sesso, e neppure alla religione medesima. I
legati nelle lettere mandate al Pontefice fanno ascendere il
numero dei morti quasi a ventimila; e questo massacro da nessuno
voluto e nemmeno previsto, è pur troppo uno di quegli avvenimenti
che hanno gettato sulla guerra Albigese quel marchio di terrore,
che nessuno storico varrà mai a cancellare. Alla presa di Beziers
tenne dietro quella di Carcassona. Gli abitanti si arresero, e
così ebbero salva la vita; la città però fu abbandonata al
saccheggio. Non poteva cominciar peggio una guerra in sé
giustissima.
Fino ad ora anima e capo della crociata era
stato l'abate di Citeaux; ma dopo la presa di Beziers e di
Carcassona, i crociati, di cui molti pensavano di ritirarsi,
credettero meglio di eleggersi a capo un militare. La scelta fu
rimessa ad un consiglio composto dell'abate di Citeaux, di due
vescovi, e di quattro cavalieri, i quali giudicarono il più degno
del comando Simone conte di Montfort. Discendente dalla casa di
Hainaut, questo guerriero era nato da Simone III, conte di
Montfort e d'Evreux, e da una figlia di Roberto, conte di
Leicester, ed aveva in sposa Alice di Montmoreney, donna eroica
come il suo nome. Non c'era capitano più ardito, né cavaliere
più religioso del conte di Montfort; e se alle eminenti qualità
che ornavano la sua persona, avesse congiunto maggior dolcezza e
disinteresse maggiore, nessuno dei crociati d'Oriente lo avrebbe
sorpassato nella gloria. Appena però egli fu eletto al comando si
vide quasi da tutti abbandonato. Il conte di Nevers, quello di
Tolosa, il duca di Borgogna, l'un dopo l'altro si ritirarono e con
lui non restarono che una trentina di cavalieri ed un esiguo
nucleo di soldati: conseguenza inevitabile di siffatte spedizioni,
alle quali come ciascuno liberamente interveniva, così
liberamente poteva ritirarsene indietro. La mia intenzione, già
l'ho detto, è solo di tracciare il disegno generale della guerra
e dei negoziati che ne seguirono; pur ciò non è facile,
disputandosi la direzione delle cose il piano dell'abate di
Citeaux e quello del Pontefice.
L'abate di Citeaux d'accordo coi principali
vescovi della Linguadoca e dei paesi circonvicini, proponeva
senz'altro la distruzione totale della casa di Tolosa: ingiusta
idea e contraria ad ogni politica. Ingiusta, perché se Raimondo
VI si era ciò meritato, e non era più possibile fidarsi di lui
in avvenire, non poteva, dirsi lo stesso del suo figlio,
giovinetto ancora di dodici anni, non complice quindi dei delitti
del padre, né incapace di una cristiana educazione sotto una
tutela disinteressata; contraria ad ogni politica, in quanto che
confondendo una questione religiosa che interessava tutta la
cristianità, con una questione di famiglia, avrebbe potuto
dividere gli animi e dare un colore di ambizione ad una guerra
intrapresa per ben più alti fini. E’ vero che l'abate di
Cíteaux avea avuto la rara sorte di imbattersi nel conte di
Montfort uomo nato fatto per quel suo divisamento; e forse solo
dopo averlo visto valorosamente combattere gli era venuto in mente
la distruzione della casa di Tolosa. Ma le doti guerresche del
conte di Montfort, non erano, pei sudditi e pei vassalli di quella
casa, che le prerogative di un nemico; e l'abate di Citeaux, che
avea di mira di raggiungere quanto prima il suo intento pel timore
che poi gli venissero a mancare le forze della crociata, avrebbe
dovuto sapere che quel tempo stesso che temeva di non potere avere
al suo scopo, sarebbe stato necessario anche per sostituire nel
governo di un paese una famiglia nuova ad un'antica; ed avrebbe
anche dovuto temere di cambiare una guerra cattolica in una guerra
personale tra i R.aimondi ed i Montfort. E fu appunto dall'abuso
ch'ei fece della sua autorità per far prevalere un falso
divisamento, che procedettero quegli errori e quelle violenze, che
tolsero alla guerra Albigese l'impronta di santità, che
d'altronde le sarebbe dovuta.
Innocenzo III era tutt'altro uomo che l'abate
di Citeaux; e per giunta sedeva su quella cattedra privilegiata,
la quale non solo ha l'eterno Spirito che sempre l'assiste, ma per
la medesima altezza a cui si trova, è pura dalle passioni che
tanto facilmente s'insinuano anche nelle cause più belle. E se
troppo spesso uno zelo eccessivo tentò distruggere insieme uomini
ed errori, il papato cercò sempre di salvar gli uomini pur
annientando l'errore. Innocenzo III non desiderava affatto che la
casa di Tolosa fosse distrutta, anzi sperava di poter ridurre il
vecchio Raimondo a sentimenti degni degli avi suoi. Nelle stesse
lettere in cui fulminava contro di lui la scomunica,
provvedeva formalmente anche al caso ch’ei si
fosse pentito; e conosciuti i trattati di Saint-Gilles, subito si
era affrettato di dare ordine che fossero rispettate le di lui
terre. Sventuratamente il Pontefice non trovò in Francia persona
alcuna che lo secondasse in queste sue generose intenzioni; onde
dové cedere anch'egli alla forza delle cose, ed i suoi sforzi,
riusciti inutili, non valsero che ad onorarne la memoria. il conte
Raimondo poi, rimovendosi da quel sistema di pacificazione che
dapprima aveva adottato, contribuì da se stesso a far trionfare i
nemici della sua famiglia; e non ci volle che l'intervento di una
mano suprema, perché le cose improvvisamente cambiassero aspetto.
Il Montfort, sebbene rimasto con pochi soldati,
non avea per questo lasciato di andare innanzi, conquistando, e
poi riperdendo, e riconquistando di nuovo alcune città; mentre il
conte di Tolosa, sicuro della sua riconciliazione con la Chiesa,
pareva non curarsi della, caduta de' suoi alleati, né de' suoi
vassalli. Ma un concilio celebratosi in Avignone dai metropolitani
di Vienna, d'Arles, d'Embrun e d'Aix, sotto la presidenza dei due
legati Ugo e Milone, venne a disturbarlo dalla sua quiete. Tal
concilio infatti, che fu aperto il 16 settembre 1209, concesse al
conte una dilazione di solo sei settimane per soddisfare alle
promesse fatte a Saint-Gilles; non soddisfacendole, sarebbe di
nuovo incorso nella scomunica. Raimondo dopo questa intimazione
partì subito per Roma. Ammesso all'udienza del S. Padre, che lo
accolse con dimostrazioni di sincero affetto, si lamentò del
rigore dei legati verso di lui; presentò autentici documenti di
molte chiese da lui già risarcite nei danni; si dichiarò pronto
a mantenere tutte le altre convenzioni giurate; e chiese ancora di
potersi discolpare dell'imputazione a lui fatta dell'uccisione di
Pietro di Castelnau e delle accuse di tenere pratiche segrete con
gli eretici. Il Pontefice esortò Raimondo a star fermo in questi
suoi propositi, ed ordinò che si radunasse in Francia un nuovo
concilio di vescovi per ascoltare le giustificazioni del conte,
coll’esplicita ingiunzione, che quand'anche fosse trovato
colpevole la sentenza, si riservasse alla S. Sede. Raimondo,
lasciata Roma, visitò la corte dell'imperatore e quella del re di
Francia, sperandone qualche protezione; ma restò deluso. Non
poté adunque fare a meno di presentarsi al concilio al quale era
stata rimessa la sua causa, e che fu celebrato a Saint-Gilles
verso la metà di ottobre dell'anno 1210. Vi andò coll'intenzione
di scolparsi dei due capi d'accusa che gli erano mossi: di essere
cioè d'intesa con gli, eretici, e di esser complice
nell'uccisione di Pietro di Castelnau. Ma il concilio si ricusò
di ascoltarlo su ciò, e solo lo richiese di stare alla parola
data di purgare le sue terre dagli eretici e dalla gente di mala
vita che le infestavano. Sia che Raimondo non valesse a soddisfare
a queste
richieste, sia che gliene mancasse la volontà,
tornò a Tolosa persuaso in cuor suo che ogni artifizio più non
giovava, e che ormai l'unica speranza era riposta nelle armi. Ciò
nondimeno il concilio si astenne da scomunicarlo, avendo il Papa
riservata a sé la sentenza; ed Innocenzo III si contentò di
scrivergli una lettera forte sì, ma insieme affettuosa in cui
l'esortava, senza nessuna minaccia, ad eseguire ciò che avea
promesso . Anche il re di Aragona intervenne dal canto suo onde
impedire una rottura definitiva; ed a tale scopo nell'inverno del
1211 furono tenute due riunioni, una a Narbona, l'altra a
Montpellier. Nella prima il conte di Tolosa rigettò apertamente
le condizioni che gli erano state imposte a
Saint-Gilles; nella seconda parve dapprima che le accettasse, ma
poi senza neppure accomiatarsi, all'improvviso se ne partì. Per
la qual cosa il re di Aragona sdegnato, fidanzò suo figlio,
bambino ancora di tre anni, ad una figlia del conte di Montfort,
anch'essa della stessa età; e di più affidò al conte il proprio
figliuolo, affinché lui stesso ne curasse l'educazione. Non molto
dopo però il re si pentì di ciò che aveva fatto, e diede la sua
sorella in moglie al figlio unico di Raimondo, onde riallacciare
con tali nozze i legami, già forti, che lo univano alla causa
degli eretici.
L'abate di Citeaux fulminò finalmente la
scomunica, e spedì espressamente un messaggio al Pontefice per
ottenerne la conferma. Innocenzo accondiscese; e Raimondo si
accinse allora alla guerra, incominciando dall'assicurarsi la
fedeltà dei suoi sudditi e l'aiuto di diversi principi,
specialmente dei conti di Foix e di Comminges. Il Montfort
avanzatosi fin sotto le mura di Tolosa, venne respinto, e
l'esercito Albigese s'accampò in faccia a Castelnaudary, finché
una battaglia campale lo costrinse a levare l'assedio. I crociati
trionfarono, varie città caddero nelle loro mani; anche le terre
di Foix e di Comminges furono invase dall'armata. Raimondo corse
allora nella Spagna per implorare aiuto dal re di Aragona.
Ciò che in seguito avvenne dimostra
chiaramente, come il Papa fosse tuttora dubbioso ed incerto.
Infatti il re di Aragona prima di ricorrere alle armi in difesa
del suo cognato, credé bene tentare ancora una volta la
riconciliazione, e spedì legati al Pontefice con incarico di
querelarsi con lui così del conto di Montfort, impadronitosi di
feudi dipendenti dalla corona, come ancora dei legati apostolici
assolutamente irremovibili dalla determinazione presa di rigettare
ormai qualunque ravvedimento di Raimondo. Innocenzo III mosso da
queste lagnanze scrisse risentito ai legati, e loro ingiunse di
adunare a nuovo concilio i vescovi ed i signori di quelle
contrade, per trattare dei mezzi onde ristabilire la pace .
Ordinò poi al conte di Montfort di restituire al re di Aragona ed
ai suoi vassalli i feudi tolti «per non dar motivo, diceva il
Pontefice, di credere aver lui combattuto per proprio interesse e
non per la causa della fede» .
Finalmente prese anche la deliberazione di
sospendere la crociata; e manifestò questa sua volontà in una
lettera indirizzata all'abate di Citeaux, già da qualche tempo
creato arcivescovo di Narbona .
Mentre però queste lettere, in data del
principio dell’anno 1213, erano per via, si era già radunato un
Concilio a Lavaur per richiesta del, re di Aragona, il quale in un
memoriale avea supplicato i legati ed i vescovi di restituire ai
conti di Tolosa, di Comminges e di Foix, ed al visconte di Béarn
le terre di cui erano stati spogliati, e di riammetterli nella
comunione della Chiesa a prezzo di qualunque soddisfazione. Che se
non fosse piaciuto loro esaudirlo in favore del vecchio Raimondo,
il re li esortava ad aver riguardo almeno del figlio. Ma il
concilio rispose che quanto al conte di Tolosa, ormai non c'era
più luogo a giustificazione, avendo egli mancato più volte e
pertinacemente alla sua parola; i conti invece di Foix e di
Comminges, ed il visconte di Béarn, fossero pure ricevuti a
penitenza, quando essi lo bramassero. Questa risposta più e più
insinuò nel re il sospetto che si fosse già stabilito di
distruggere la casa di Tolosa. Dichiarò allora altamente ch'egli
avrebbe appellato alla clemenza della S. Sede per l'inesorabile
rigore dei legati e dei vescovi, e che intanto avrebbe preso sotto
la sua regale protezione il conte Raimondo ed il suo figliuolo. Il
re non poteva esser sospetto di eresia, avendo già sottomesso il
suo regno come feudo alla Chiesa romana, ed avendo valorosamente
difesa la cristianità contro i Mori della Spagna. Il suo nome
quindi e la sua spada avevano un gran peso per mettere a rischio
tutta l'impresa. Fu per questo che il concilio ebbe subito premura
di spedire quattro messaggieri al Pontefice con una lettera in cui
si cercava di persuaderlo che la causa cattolica sarebbe perduta,
qualora il conte di Tolosa ed i suoi eredi non venissero privati
per sempre dei loro domini. Gli arcivescovi d'Arles, d'Aix e di
Bordeaux, i vescovi di Maguelone, di Carpentras, d'Orange, di
Saint-Paul Trois-Cháteaux e di Perigueux scrissero al S. Padre
sullo stesso tenore. Innocenzo III si dolse allora di essere stato
ingannato dal re di Aragona; al quale comandò subito di desistere
dalla determinazione presa, e di far tregua col conte di Montfort,
finché fosse arrivato da Roma un cardinale per esaminare le cose
sul luogo. Ma il dado ormai era gettato; ed il re, composta
un'armata nella Catalogna e nell'Aragonia, varcava i Pirenei per
congiungere le sue truppe con quelle dei conti di Tolosa, di Foix
e di Comminges.
Montfort ricevé a Fanjeaux l'avviso che
l'esercito dei confederati, forte di quarantamila fanti e di
duemila cavalli, s'era avanzato verso Muret, piazza
importantissima, situata sulla Garonna, tre leghe al disopra di
Tolosa. Fu questo per lui il momento critico della vita. Non aveva
al suo comando che ottocento cavalli incirca, ed uno scarso numero
di fanti. Tuttavia appena cominciò al albeggiare partì subito
per Muret, accompagnato dall'armata, dai vescovi di Tolosa, di
Nimes, di Uzès, di Lodève, di Beziers, d'Agde, di Comminges, e
da tre abati di Citeaux. Giunto in quello stesso giorno al
monastero dei Cisterciensi di Bolbonne, entrò in chiesa, vi
pregò lungamente, e nel riprendere la spada che aveva posata
sopra l'altare, rivolse a Dio queste parole: «O Signore che, per
quanto ne fossi indegno, mi sceglieste a combattere nel vostro
nome, io prendo ora la spada sul vostro altare, onde ricevere da
Voi medesimo le armi, essendo per Voi che io vado a combattere».
Si diresse quindi a Saverdun, dove pernottò. Il giorno appresso
si accostò al Sacramento della Penitenza, scrisse il suo
testamento, che inviò all'abate di Bolbonne, con preghiera, nel
caso ch'ei fosse morto, di trasmetterlo al Pontefice; e la sera,
passata attraverso un ponte la Garonna senza essere disturbato dai
nemici, si trovò tosto dietro le torri di Muret, guardate da una
trentina di cavalieri. Era il mercoledì del 12 settembre 1213.
Non ancora era entrato in città, quando lo raggiunsero i vescovi,
che per un momento si erano allontanati da lui per recarsi a
domandar pace al campo nemico. Ma il re d'Aragona avea risposto
non valer la pena, che un re e dei vescovi venissero a
parlamentare per un pugno di soldati. Malgrado questo tentativo
riuscito vano, appena cominciò ad albeggiare, i vescovi per mezzo
di un religioso fecero noto al re, che loro stessi e tutti gli
ordini ecclesiastici sarebbero andati a piedi scalzi a
scongiurarlo, affinché si venisse a migliori risoluzioni. Quanto
il conte di Tolosa avrebbe dovuto allora rammaricarsi dei suoi
spergiuri e delle sue vane umiliazioni! Come avrebbe dovuto
imputare a se stesso la colpa di aver ricusato fin da principio
una guerra leale e da forti, anziché lasciare opprimere i suoi
amici e disonorar la sua causa! Ma egli non ci vedeva più; la
guerra però come l'artifizio dovevano riuscirgli funesti. Dio
vedeva il cuore di questo principe, e non s'impietosì della
triste sua sorte.
I vescovi si preparavano già ad uscire da
Muret nell'umile atteggiamento di supplicanti, quando un gruppo di
cavalieri nemici si precipitò verso le porte. Montfort ordinò
allora ai suoi di schierarsi in battaglia sulla parte bassa della
città; ed egli medesimo, dopo aver pregato in una chiesa mentre
il Vescovo di Uzès offriva il santo sacrificio, indossò la
corazza, e così armato, tornò ancora a pregare. Però nel
piegare il ginocchio gli si ruppero i lacci dalla parte inferiore
dell'armatura; e nel mettere il piede sulla staffa, fu osservato
che il cavallo, alzando la testa, lo toccò. Quantunque allora si
facesse gran caso a questi incidenti, siccome a tristi presagi,
punto si turbò il cuore del prode cavaliere. Insieme a Folco che
portava in mano un Crocifisso, si diresse verso le suo truppe. I
cavalieri scesero allora a terra per adorare il Salvatore e
baciarne l'immagine; ma il vescovo di Comminges, vedendo che il
tempo stringeva, prese il Crocifisso dalle mani di Folco, da un
luogo alquanto elevato arringò con brevi parole l'armata e la
benedisse. Dopo ciò tutti gli ecclesiastici che erano presenti,
si ritirarono in chiesa a pregare; e Montfort uscì fuori della
città alla testa di ottocento soldati a cavallo, più la
fanteria.
L'esercito dei confederati era schierato in una
pianura ad occidente della città. Il Montfort, uscito dalla porta
opposta, come se avesse voluto fuggire, divise il suo drappello in
tre squadre e si diresse verso il centro nemico. Dopo la fiducia
che aveva riposta in Dio, il suo piano era di rompere le linee dei
nemici, seminarvi disordine e spavento, e profittare allora di
tutti quegli incidenti che l'occhio dei grandi capitani sa
scoprire nell'orrore della mischia. La prima squadra difatti si
scagliò contro l'avanguardia dei nemici; la seconda penetrò fin
nelle ultime file dove si trovava il re d'Aragona circondato dal
fiore dei suoi soldati; Montfort che veniva dietro colla terza,
investì di fianco gli Aragonesi già messi in scompiglio. La
fortuna delle armi rimase sospesa per qualche tempo; tempo fatale
perocché i battaglioni così d'improvviso sbandati, erano
piuttosto sbalorditi che disfatti, e caricando alle spalle,
avrebbero ancora potuto opprimere il Montfort. Ma un colpo ben
diretto stese a terra il re d'Aragona, e decise della battaglia.
Gli Aragonesi colle loro grida e con la fuga trassero seco anche
gli altri confederati. Ed i vescovi che pregavano angosciosamente
nella chiesa di Muret, chi prostrato a terra, chi con le mani
levate a Dio, accorsi all'annunzio della vittoria, videro tutta la
pianura disseminata di fuggenti, incalzati alle spalle dalla spada
formidabile dei crociati. Così un esercito che si era proposto di
prender d'assalto la città, gettate a terra le armi, fu
distrutto, mentre si era dato ad una fuga precipitosa. Montfort,
dopo inseguiti i nemici, ripassando sul campo di battaglia,
s'imbatté nel cadavere del re d'Aragona prosteso a terra e già
spogliato delle sue vesti. Scese allora da cavallo, e piangendo
baciò il gelido corpo di quel principe sfortunato. Pietro II, re
di Aragona, era un valoroso cavaliere, amato dai sudditi, sincero
cattolico, e degno di una morte migliore. Ma i legami che univano
le sue sorelle ai due Raimondi l'avevano coinvolto nella difesa di
una causa ch'egli non riteneva più come causa contro gli eretici,
ma come causa di giustizia e di parentela.
E forse appunto perché disprezzò le preghiere
dei vescovi ed abusò in cuor suo di una vittoria che riteneva
sicura, per secreto giudizio di Dio ne rimase vittima. Montfort,
dopo aver pensato alla di lui sepoltura, a piedi scalzi rientrò
in Muret, andò subito in chiesa, a render grazie al Signore
dell'aiuto ricevuto e donò ai poveri il cavallo e l'armatura
usati nella pugna. Questa memoranda battaglia, frutto di una
coscienza che si sentiva sicura di combattere per Iddio, sarà
sempre annoverata tra i più belli attestati di fede che gli
uomini abbiano mai dato sulla terra.
Anche Domenico si trovava a Muret unito ai
sette vescovi che abbiamo nominati e ai tre abati di Citeaux; anzi
da alcuni storici è stato recentemente scritto ch'egli medesimo,
con la croce in mano, stesse alla testa dei soldati. Ed a Tolosa,
nel palazzo dell'Inquisizione si mostrava nei tempi passati un
crocifisso tutto , crivellato da frecce, che dicevasi essere
quello portato da Domenico alla battaglia di Muret. Gli storici
contemporanei però non dicono nulla di tutto questo; affermano al
contrario che Domenico era rimasto dentro la città a pregare
insieme coi vescovi e coi religiosi; e Bernardo Guidonis, uno
degli scrittori della di lui vita, che abitò nel palazzo
dell'Inquisizione di Tolosa dall'anno 1308 all'anno 1322, di tal
crocifisso non ne fa affatto menzione.
La battaglia di Muret fu un colpo mortale pel
conte di Tolosa. I suoi alleati e gli abitanti della capitale del
suo regno si sottomisero al Sommo Pontefice, il quale incaricò il
cardinale Pietro di Benevento di riconciliarli con la Chiesa, e di
obbligare il conte di Montfort a rimandare in Spagna il nuovo re
d'Aragona, giovanetto ch'ei riteneva in ostaggio fin da quando era
stato fidanzato colla sua figlia. Il cardinale soddisfece a questo
duplice mandato nell'inverno del 1214; e, cosa notevole, diede
anche l'assoluzione al conte di Tolosa, per quanto quest'atto di
clemenza non giovasse punto al vinto riguardo ai suoi interessi
temporali. Infatti nel seguente mese di dicembre fu convocato un
concilio a Montpellier per decidere a chi dovesse appartenere la
sovranità delle terre conquistate; ed il concilio fu unanime nel
pronunziarsi in favore del Montfort, alla cui spada forte e
valorosa era dovuto l'esito della guerra. Ciò nondimeno il Sommo
Pontefice con una lettera in data del 17 aprile 1215 dichiarò che
il Montfort avrebbe ritenuto tali domini solo temporaneamente,
fino a che il concilio Lateranense, al quale era riservata la
sentenza definitiva, si fosse pronunziato. Fu questo, un ultimo
sforzo di Innocenzo III per salvare la casa di Tolosa.
Raimondo intanto, abbandonato da tutti, si era
ritirato col figlio nella corte del re d'Inghilterra.
Il giorno 11 novembre 1215, il sole al suo
levarsi dalla parte degli Appennini, si trovò ad indorare coi
suoi raggi, nella chiesa solitaria di S. Giovanni in Laterano,
l'assemblea più augusta del mondo. Stavano colà raccolti primati
e metropolitani in numero di settantuno, più quattrocentododici
vescovi, ottocento, abati e priori di monasteri, una moltitudine
di procuratori degli abati e dei vescovi assenti, gli ambasciatori
del re dei Romani, dell'imperatore di Costantinopoli, dei re di
Francia, d'Inghilterra, d'Ungheria, d'Aragona, di Gerusalemme e
dì Cipro; poi un numero sterminato di rappresentanti di principi,
di città, e di signori; e al di sopra di tutti la veneranda
figura di Innocenzo III. Era presente anche l'abate di Citeaux,
ora arcivescovo di Narbona; il conte di Montfort invece si era
fatto rappresentare dal suo fratello Guido. I due Raimondi erano
venuti in persona, come pure i conti di Foix e di Comminges. Nel
giorno stabilito per giudicare la gran causa della crociata
albigese, i due Raimondi, ed i conti di Foix e di Comminges si
presentarono all'assemblea, e tutti e quattro si prostrarono ai
piedi del trono pontificio. Fatti alzare, raccontarono come
malgrado la loro sottomissione alla Chiesa romana, e l'assoluzione
che avevano ricevuta dal legato Pietro di Benevento, fossero stati
privati dei loro feudi. Un cardinale con molta forza ed eloquenza
parlò in loro favore; lo stesso fecero l'abate di S. Tiberio ed
il cantore della Chiesa di Lione, il quale principalmente parve
intenerire, il Pontefice. Ma la maggior parte dei vescovi, e
specialmente i francesi, si pronunziarono contro i supplicanti,
protestando che sarebbe finita in Linguadoca per la religione
cattolica, qualora quei principi fossero tornati al potere; e
tutto il sangue versato per questa causa, e tutti i sacrifizi
fatti, non sarebbero stati che sacrifizi e sangue sprecati. Il
concilio dichiarò adunque Raimondo VI privato de' suoi .feudi,
che fin d'allora sarebbero passati definitivamente nelle mani del
conte di Montfort, ed assegnò a Raimondo una pensione di
quattrocento marchi d'argento, a condizione che fosse andato ad
abitare fuori dei suoi antichi domini. Dichiarò inoltre che tutti
i beni della dote di Leonora, moglie del conte, fossero
rispettati, e che il marchesato di Provenza sarebbe riservato al
loro figlio Raimondo, ancor giovanetto, giunto che fosse a
maggiorità e se si fosse mantenuto fedele alla Chiesa. Quanto ai
conti di Foix e di Coniminges, la loro causa fu rimandata per
essere studiata meglio. E’ da notarsi che il marchesato di
Provenza, riservato, pel giovane Raimondo, si componeva ,di quelle
città che suo padre avea date in pegno alla S. Sede, qualora
avesse mancato alle convenzioni di Saint-Gilles; e che essendo
stato più volte proposto al S. Padre di riunire quel marchesato
ai domini apostolici, mai l'aveva voluto fare; e solo fece valere
i suoi diritti quando si trattò di conservarlo alla casa di
Tolosa.
Chiuso il concilio, Raimondo il giovane, che
con la nobiltà de' suoi modi si era attirata la simpatia di
tutti, recatosi dal Papa per congedarsi, gli disse chiaramente che
lui si credeva ingiustamente privato del patrimonio de' suoi
maggiori, soggiungendo con ingenua e rispettosa fermezza, che non
avrebbe lasciata passare occasione alcuna per ricuperare con
gloria quel che senza colpa avea perduto. Innocenzo III commosso
dinanzi all'innocenza, al coraggio e insieme all'infelicità di
quel giovine di diciotto anni, pronunziò su di lui questa
profetica benedizione:«Che: tu possa, o figlio, cominciar bene
tutte le tue azioni, e finirle ancor meglio» .
Montfort rivestito da Filippo Augusto dei
titoli di duca di Narbona e di conte di Tolosa, non godè
lungamente del potere tanto laboriosamente acquistato. Doveva
terminare ancora l’anno 1216, ed il giovane Raimondo era
nuovamente divenuto padrone di una parte della Provenza; Tolosa,
già stanca di portare il giogo del nuovo conte, aveva riaperto le
porte al vecchio Raimondo richiamato dall'Inghilterra, dove si era
ritirato; un gran numero di signori al primo annunzio di questa
mutazione di cose, era corso subito a prestare giuramento di
fedeltà all'antico sovrano; ed il vincitore di Muret dové allora
comprendere che non basta vincere battaglie ed espugnare città
per acquistare il prestigio nel governo dei popoli. Per sua
sventura egli ebbe contro di sé quella preziosa forza che è
nelle viscere dell'umanità, e che rendo impossibile regnare sui
popoli quando non si regni sui loro cuori. Cacciato da Tolosa,
invano da lui disarmata e spaventata coi supplizi, il Montfort con
infelice pensiero la strinse d'assedio, senza però mai più
rientrarvi. La lunghezza dell'assedio, l'incertezza dell’avvenire,
le lagnanze che per la sua inazione gli venivan fatte dal
cardinale Bertrando legato apostolico ed anche l'abbattimento che
cagionano le sventure da lungo tempo previste, gettarono il prode
cavaliere in una melanconia tale da fargli desiderare la morte.
Il 25 giugno del 1218 gli fu annunziato di buon
mattino che i nemici stavano già in agguato nei fossati del
castello. Egli chiese allora la sua armatura, e indossatala, andò
ad ascoltare la Messa. La Messa era appena cominciata, quando un
altro venne ad avvisarlo che era stato dato l’assalto alle
macchine da guerra e che stavano in procinto di essere distrutte.
«Lasciate, disse il Montfort, ch`io vegga il Sacramento della
nostra Redenzione!» Ma ecco arrivare ancora un terzo per dire che
i soldati non valevano più a far fronte. «Eppure io non verrò,
egli rispose, se prima non abbia veduto il mio Salvatore» .
Finalmente, dopo che il sacerdote ebbe elevata l'ostia, Montfort
inginocchiato a terra ed alzate al cielo le mani, profferì queste
parole: Nunc dimittis, e sortì. La sua presenza sul campo di
battaglia fece indietreggiare il nemico fino ai fossati della
piazza; ma fu l'ultima vittoria. Una pietra lo colpì nella testa;
ed ei battendosi il petto e raccomandandosi a Dio e alla
Santissima Vergine Maria, cadde morto.
La fortuna continuò a favorire i Raimondi. Di
due figli infatti che Montfort avea lasciati, il più giovane fu
ucciso sotto le mura di Castelnaudary; ed il primogenito, ormai
convinto da quattro anni d'infortuni di non esser abile a
sostenere il peso dell'eredità paterna, cedé al re di Francia
tutti i suoi diritti. Il vecchio Raimondo, tranquillo dentro la
città di Tolosa, all'ombra delle vittorie del suo figlio, ebbe
tempo di rivolger gli occhi a quel Dio che l'avea umiliato e
rialzato insieme; finché un giorno, era il 12 luglio 1222, nel
tornare dalla Chiesa, alla cui entrata, essendo ancora
scomunicato, era stato a pregare, si sentì male. Mandò a
chiamare in tutta fretta l'abate di Saint-Sernin, affinché lo
riconciliasse colla Chiesa. L'abate lo trovò che più non
parlava; il vecchio conte però quando lo vide, alzò gli occhi al
cielo, e prese le di lui mani, le tenne strette fra le sue fino
all'ultimo respiro. Il suo corpo fu trasportato alla chiesa dei
cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, dove egli aveva scelto la
sepoltura; ma a causa della scomunica, nessuno osò seppellirlo.
Lasciatolo scoperto in una bara, dopo tre secoli era ancor là,
senza che una mano pietosa avesse ardito d'inchiodare una tavola
su quella cassa consacrata ormai dalla morte e dal tempo. A
richiesta del figlio, sotto i pontificati di Gregorio XI e
d'Innocenzo IV, era stata trattata la questione della di lui
sepoltura, e molti testimoni avean provato che prima di morire
aveva dato segni di verace pentimento; ciò nonostante si temé
sempre di agitar quelle ceneri, e di rendergli onori, per quanto
tardivi.
Raimondo VII sopravvisse al padre ventisei
anni; più volte seppe difendersi contro le armi stesse di
Francia; ma troppo debole per sostenerne continui assalti, nel
1228 conchiuse con S. Luigi un trattato che pose fine a questa
guerra interminabile. Le principali condizioni della pace furono
le seguenti: che Raimondo desse in sposa l'unica sua figlia al
conte di Poitiers, uno dei fratelli del re, assegnandole per dote
la contea di Tolosa; cedesse alcune terre da lui possedute, e
promettesse di esser fedele alla Chiesa, usando della sua
autorità contro gli eretici. La Chiesa ratificò questa pace, e
riammise alla sua comunione il giovane conte, il quale, in
penitenza si obbligò a servire per cinque anni la cristianità in
Palestina. Solo però venti anni dopo, pensò a soddisfare al suo
dovere ed a partire per Terra Santa; ma la morte lo prevenne.
Ammalatosi a Pris, non lontano da Rhodez, e fattosi trasportare a
Milhaod, ivi mori il 27 settembre 1248, circondato dai vescovi di
Tolosa, di Agen, di Cahors e di Rhodez, dai consoli di Tolosa e da
un gran numero di signori, tutti colà accorsi a ricevere l'ultimo
respiro di un principe da loro amato, ed unico rampollo, in linea
maschile, del ramo diretto di un'illustre famiglia. Quando gli fu
portato il Santissimo Viatico, il conte levatosi dal letto, si
gettò ginocchioni per terra davanti al corpo del Signore: si
avverò così anche in morte, come era stato in vita, il voto che
Innocenzo III, benedicendo il conte ancor giovanetto, avea emesso:
«Che tu possa, o figlio, cominciar bene tutte le tue azioni e
finirle meglio!».
CAPITOLO V
Apostolato di S. Domenico dal principio
della guerra Albigese fino al quarto Concilio Lateranense
Istituzione del SS. Rosario
S. Domenico ed i suoi primi discepoli a
Tolosa
Lo scoppio della guerra albigese segnò il
momento supremo in cui tutta la virtù e tutto il genio di
Domenico si rivelarono. L'alternativa di abbandonare la sua
missione in un paese pieno di sangue e di rivolgimenti, o di
prender parte alla guerra, come avevano fatto i religiosi di
Citeaux, era ugualmente fatale per la sua vocazione. Fuggendo
sarebbe venuto rinnegare l'apostolato; intromettendosi nella
guerra avrebbe tolto alla sua vita ed alla sua parola tutto il
carattere apostolico. Ond'egli non fece né una cosa, né l'altra;
e sull'esempio dei primi apostoli, i quali, nonché fuggire il
male, andavano ad affrontarlo nel centro stesso della sua
possanza, rivolse particolarmente lo sguardo verso Tolosa, la
capitale dell'eresia in Europa. San Pietro innalzò in Antiochia,
città regina d'Oriente, la sua prima cattedra, e di là inviò il
suo discepolo San Matteo in Alessandria, la più commerciale
allora e la più ricca città del mondo; S. Paolo si trattenne
lungo tempo a Corinto, la più celebre fra le città greche per
gli splendori stessi della sua corruzione; l'uno e l'altro, senza
nessuna precedente intesa, vennero a morire a Roma. Non sta, bene,
aveva detto Gesù Cristo, che un profeta muoia fuori di
Gerusalemme (Lc 13,23). Era adunque conveniente che anche
Domenico, qualunque piega le cose prendessero, innalzasse la sua
tenda a Tolosa, focolare e faro di tutte le eresie. Gli uomini di
poca fede aspettano, dicono essi, la pace per operare; l'apostolo
semina nei giorni procellosi, per raccogliere quando torna il
sereno. Egli ha presenti alla memoria quelle parole del suo
maestro: guerre e rumori di guerre feriranno le vostre orecchie;
guardate di non paventare (Mt 5,4). Domenico quindi rimase fermo
al suo posto, nonostante i terrori della guerra; e più che mai
allora comprese la necessità di non alterare affatto il suo
atteggiamento pacifico e rassegnato. Imperocché per quanto sia
giusto impugnare la spada contro chi tenti opprimere la verità
colla violenza, pure è ben difficile che la verità non risenta
di tal protezione, e non diventi complice di quegli eccessi, che
in ogni sanguinoso conflitto sono inevitabili. La spada non sempre
si arresta precisamente là, dove termina la giustizia; e quando
fra le mani dell'uomo s'è riscaldata, con difficoltà rientra di
sua natura nel fodero. Bisognerebbe esser angeli per saper
combattere esclusivamente per la giustizia; lo spirito umano va
soggetto a tali vicende da ripromettere qualche volta agli stessi
oppressori vinti un qualche rifugio nella compassione, non sempre
giusta, dei vincitori. Era dunque di assoluta necessità che
Domenico restasse fedele al magnanimo disegno di Azevedo, e che
accanto alla cavalleria armata a difesa della libertà della
Chiesa, apparisse l'uomo evangelico, fidente nella sola forza
della grazia e del convincimento. Una volta in Polonia quando il
sacerdote leggeva dall'altare il Vangelo, il cavaliere sfoderava
la spada per metà, ed in tale atteggiamento marziale ascoltava le
soavi parole del Cristo. Era per significare i veri rapporti fra
la città del mondo e la città di Dio. La città di Dio,
personificata nel sacerdote, parla, prega, benedice, offre se
stessa in sacrifizio; la città del mondo, rappresentata dal
cavaliere, ascolta silenziosa, unita intimamente a tutti gli atti
del sacerdote, tenendo pronta la spada non per imporre la fede, ma
per assicurarne la libertà. Il prete ed il cavaliere compiono due
uffici nel mistero del cristianesimo che non devono mai esser
confusi, ed il primo deve essere sempre più in vista che il
secondo. Mentre il sacerdote canta ad alta voce il Vangelo alla
presenza del popolo ed in mezzo allo scintillio dei ceri, il
cavaliere tiene a mezzo la spada nel fodero, quasi che la
giustizia e la misericordia gli parlino ad un tempo, e l'Evangelo
stesso, alla cui difesa sta già apparecchiato, gli sussurri
all'orecchio: Beati gli uomini mansueti, perocchè possederanno la
terra (Mt 24,6). Domenico e il Montfort furono i due eroi della
guerra albigese: sacerdote l'uno, l'altro cavaliere. Vedemmo come
il Montfort soddisfece al proprio ufficio; ora vediamo come
Domenico adempì il suo.
Il lettore avrà certo notato come in tutti gli
avvenimenti della guerra sopra descritta mai figuri il nome di
Domenico. Concili, conferenze, riconciliazioni, assedi, trionfi,
tutto si fa senza di lui, né di lui si parla in alcuna lettera
che vada a Roma o ne venga. Una volta sola l'abbiamo trovato a
Muret, là, in una chiesa a pregare, nell'ora stessa della
battaglia. E questo unanime silenzio degli storici è tanto più
notevole, in quanto che sono essi di diverse scuole, alcuni
ecclesiastici altri laici, chi favorevoli ai crociati e chi amici
di Raimondo. Onde non è possibile che Domenico prendesse parte ai
trattati ed alle operazioni militari della crociata, e che tutti
gli storici, quasi a gara, l'abbiano taciuto. Fatti di altro
genere ci sono stati fedelmente raccontati: perché nascondere
questi ultimi? Or ecco i pochi frammenti rimasti di lui vita in
quel tempo. «Dopo che il vescovo fu ritornato nella sua diocesi,
dice il B. Umberto, S. Domenico rimasto quasi solo, animato
unicamente da pochi compagni non legati a lui da nessun voto,
sostenne per il corso di dieci anni la fede cattolica in diversi
luoghi della provincia di Narbona, particolarmente a Carcassona e
a Fangeaux, consacratosi senza riserva alla salvezza delle anime
col ministero della predicazione, e soffrendo di buon animo
affronti, ignominie e angosce assai pel nome del Signor nostro
Gesù Cristo» .
Domenico aveva prescelto a sua abituale
residenza Fangeaux, città situata sopra un'altura, perché di là
scoprivasi al piano il monastero di Prouille. Quanto a Carcassona,
che non era a maggior distanza da quella dolce solitudine,
manifestò egli medesimo il motivo della sua preferenza, quando
interrogato perché non stava volentieri nella città e diocesi di
Tolosa: «Perché, rispose, nella diocesi di Tolosa m'imbatto
spessissimo in gente che mi onora, mentre a Carcassona, tutti mi
sono contrari» . E veramente i nemici della fede rivolgevano ogni
sorta di insulti contro il servo di Dio: gli sputavano in faccia,
gli gittavano addosso il fango, gli appuntavano per derisione
delle paglie al mantello; e lui, superiore a tutto si teneva
felice, come l'Apostolo, d'essere giudicato degno di patire tali
obbrobri per il nome di Gesù. Gli eretici macchinarono anche di
togliergli la vita; ed una volta che di ciò lo minacciarono,
rispose loro: «La gloria del martirio non è per me, che siffatta
morte non mi sono ancor meritato» . E dovendo passare per un
luogo dove sapeva benissimo essergli state tese insidie, non
solamente si avanzò intrepido, ma giubilando e cantando. Talché
gli eretici maravigliati di tanta fermezza, un'altra volta, per
tentarlo, gli domandarono che cosa avrebbe fatto se fosse capitato
nelle loro mani: «V'avrei pregato, rispose, di non uccidermi con
un sol colpo, ma di tagliarmi a pezzi le membra, e dopo avermele
poste dinanzi, cavarmi ancora gli occhi, lasciandomi mezzo morto a
nuotare nel mio sangue, o facendo quello che più vi fosse
piaciuto degli ultimi avanzi della mia vita» .
Teodoro d'Apolda fa il seguente
racconto:«Accadde che dovendosi tenere una solenne conferenza con
gli eretici, un vescovo si era preparato per recarvisi con gran
pompa. Allora l'umile banditore di Cristo: - Padre mio e Signore,
gli disse, ma non è così che bisogna agire contro i figli
dell'orgoglio. I nemici della verità si han da vincere con esempi
di umiltà, di pazienza, di religione e di tutte le virtù, non
già col fasto e con le grandezze, né col far mostra della gloria
del secolo. Armiamoci della preghiera, e facciamo risplendere
nelle nostre persone le stimmate dell'umiltà; andiamo a piedi
scalzi incontro a questi Golia. - Il Vescovo accondiscese al pio
consiglio, e tutti si scalzarono. Avvenne che, non pratici del
cammino, presero per guida un uomo incontrato per via, creduto
cattolico, ma che al contrario era eretico, il quale promise loro
di condurli direttamente sul posto; invece li fece maliziosamente
passare attraverso un bosco pieno di rovi e di spine, sicché i
loro piedi ne furono lacerati, fino a scorrere di sangue. L'atleta
di Dio giulivo e paziente esortò allora i compagni a render
grazie al Signore per quel che soffrivano, e confidate, o
carissimi, nel Signore, disse loro; la vittoria è sicuramente per
noi, dacché i nostri peccati sono espiati col sangue. - L'eretico
mosso dall'esempio di sì ammirabile pazienza e dalle parole del
Santo, confessò il mal fatto, e abiurò l'eresia» .
Nei dintorni di Tolosa si trovavano alcune
nobili signore, le quali sedotte dall'apparente austerità degli
eretici, avevano abbandonata la fede. Domenico al principio di una
quaresima chiese loro ospitalità, allo scopo di ricondurle nel
seno della Chiesa. Non entrò mai con loro in dispute, ma durante
tutta la quaresima tanto lui che il suo compagno si cibarono di
solo pane e non bevvero che acqua; quando poi la prima sera esse
si affaccendavano a preparar loro dei letti, gli ospiti chiesero
per coricarsi due sole tavole, e la durarono così fino a Pasqua,
interrompendo
ciascuna notte i corti sonni con fervide
orazioni. Questa muta eloquenza fu onnipotente sul cuore di quelle
signore, le quali riconobbero nel sacrifizio l'amore, e nell’amore
la verità.
Non avrà dimenticato il lettore che Domenico a
Palenza voleva vendersi per riscattare il fratello di una povera
donna. Anche in Linguadoca, alla vista di un eretico trattenuto
nell'eresia solo dalla miseria, ebbe lo stesso eroismo; era pronto
a vendersi per potergli dare da vivere; e l'avrebbe fatto se la
divina Provvidenza non avesse provveduto altrimenti al
sostentamento di quell'infelice.
Un altro fatto anche più singolare ci fa
conoscere le finezze della di lui carità. «Essendo stati
catturati alcuni eretici nel territorio di Tolosa, scrive Teodoro
d’Apolda, ed essendo stati convinti di eresia, perché ostinati
nei loro errori, furono consegnati al braccio secolare e
condannati ad esser bruciati. Domenico, dal cuore iniziato ai
segreti di Dio, fissò uno di loro, e rivolto agli ufficiali della
corte: - Lasciate costui in disparte, disse, e badate bene di non
bruciarlo- .
Appressatosi poi all'eretico gli sussurrò
dolcemente: - So che vi ci vorrà del tempo, o figlio, ma finirete
col farvi buono e santo. - Scena commovente e meravigliosa! Ancora
venti anni costui rimase nell'accecamento dell'eresia; finché
sopravvenuta la grazia, chiese di vestir l'abito de' Frati
Predicatori; e sotto tale divisa visse e morì nella fede» .
Costantino d'Orvieto ed il B. Umberto, narrando
questo stesso fatto vi aggiungono una circostanza degna di nota.
Essi fanno osservare che gli eretici prima di essere stati
consegnati al braccio secolare, da Domenico erano stati convinti:
unica parola del secolo decimoterzo da cui alcuni pretesero
inferire che il Santo prendesse parte a processi criminali. Ma gli
storici della guerra Albigese c'insegnano chiaramente in che
consistesse questo convincere gli eretici. E da sapere infatti che
in Linguadoca gli eretici non vivevano in segreto, ma in piena
luce combattevano armati a difesa de' loro errori. Quando nella
guerra qualcuno di loro cadeva in mano de' crociati, si avea cura
che alcuni ecclesiastici gli esponessero i dommi cattolici, e gli
facessero rilevare la stranezza delle loro dottrine: questo si
chiamava convincerli, non già di essere eretici, ché ciò non si
curavano affatto di nascondere, ma di essere in una via falsa,
contraria alle Scritture, alla tradizione, alla ragione medesima.
Con promessa di perdono si scongiuravano insistentemente ad
abiurare l'eresia; e quelli che avessero ceduto a tali istanze,
venivano assoluti; quelli poi che ostinatamente perseveravano
nell'errore, venivano consegnati al braccio secolare. Il
convincere adunque gli eretici non era che un ufficio di
abnegazione in cui l'energia dello spirito e l'eloquenza della
carità traevano vita dalla speranza di sottrarre alla morte degli
sventurati. Che S. Domenico almeno una volta abbia esercitato tale
ufficio non c'è da dubitarne, quando due storici contemporanei
l'attestano; ma trarre argomento da ciò per accusarlo di rigore
contro gli eretici, è confondere il sacerdote che assiste il
delinquente, col giudice che lo condanna, o col carnefice che gli
toglie la vita.
Forse qualcuno domanderà con meraviglia come
Domenico avesse tanta autorità da sottrarre dal supplizio un
eretico con una semplice predizione; ma lasciando stare
l'autorità che la fama di santo aveva meritato alla sua parola,
è da notarsi che egli era stato investito dai legati della S.
Sede dell'ufficio di riconciliare alla Chiesa gli eretici. Della
qual cosa ne abbiamo prova autentica in due documenti, ambedue
senza data, ma che non possono appartenere che a quest'epoca della
sua vita. Uno è cosi formulato: «Frate Domenico, canonico di
Osma, umile ministro della predicazione, a tutti i fedeli in
Cristo a cui perverranno le seguenti lettere, salute e sincera
carità nel Signore. Rendiamo noto per vostra norma aver noi
permesso a Raimondo Guglielmo d'Hautérive Pelagianire di ricevere
ad abitare nella sua casa di Tolosa Guglielmo Uguccione, che ci ha
confessato d'avere indossato altra volta l'abito degli eretici. E
questo glie lo permettiamo, fino a che dal Signor Cardinale non
sia ordinato altrimenti a me od a lui; né tale coabitazione
dovrà tornare nessun modo a suo pregiudizio o disonore» .
Nell'altro documento leggesi quanto appresso: «Fra Domenico,
canonico di Osma, a tutti i fedeli di Cristo ai quali perverranno
le presenti lettere, saluto in Cristo. - Noi, per autorità del
Signor Abate di Citeaux, che ci ha imposto tale ufficio, abbiamo
riconciliato colla Chiesa il latore della presente, Ponzio Roger,
per la grazia di Dio convertito dall'eresia alla fede; ed
ordiniamo che in virtù del giuramento da lui emesso nelle nostre
mani, per tre Domeniche, o giorni festivi, dall'entrata del paese
debba portarsi alla chiesa nudo fino alla cintura e percosso con
verghe dal sacerdote. Ordiniamo ancora che in ogni tempo egli si
astenga dal mangiar carne, uova, formaggio, e quanto trae origine
dalla carne, eccettuati i giorni di Pasqua, di Pentecoste, e di
Natale, nei quali ne mangerà in protesta degli antichi suoi
errori. Farà tre quaresime all'anno, digiunando ed astenendosi
anche dal pesce, salvo che l'infermità del corpo o i calori
dell'estate non richiedano una dispensa. Vestirà abiti religiosi
sì nella forma che nel colore, ed alle estremità ci attaccherà
due crocette. Ogni giorno, ove possa, ascolterà la Messa, e nei
giorni festivi andrà anche a vespro. Sette volte il giorno
reciterà dieci Pater noster, e venti ne dirà a mezzanotte. Non
violerà la legge della castità, e una volta al mese, alla
mattina, mostrerà il presento documento al cappellano del
villaggio di Cerè, al qual cappellano ordiniamo di aver cura che
il suo penitente conduca una buona vita, ed osservi tutto ciò che
gli è stato prescritto, fino a tanto che il Signor Legato non
disponga altrimenti. Che se il penitente trascurerà, e ciò con
disprezzo, di ubbidire, vogliamo che, si abbia per scomunicato, e
separato dalla società dei fedeli, siccome uno spergiuro ed
eretico» .
Forse alcuni troveranno strane ed eccessive
queste prescrizioni; ma dovrebbero ricordare le penitenze
canoniche della Chiesa primitiva, gli usi penitenziari ,dei
chiostri, e le pratiche a cui volontariamente si assoggettavano
molti cristiani del medio evo ad espiazione delle proprie colpe.
Tutti sanno, per non citare che un esempio, che Enrico II, re
d'Inghilterra, si fece battere con verghe da alcuni monaci sulla
tomba di Tommaso Becket, arcivescovo di Cantorbery, perché aveva
dato occasione al di lui assassinio. Ed anche oggi nelle grandi
basiliche di Roma il sacerdote dopo avere assoluto il penitente,
lo percuote leggermente nelle spalle con una lunga bacchetta. S.
Domenico quindi non fece che conformarsi agli usi del suo tempo; e
chiunque conosca tali usi, non riscontrerà nel suo modo di agire
che un vero spirito di bontà.
Né minore della carità e della dolcezza era
nel santo il disinteresse. Gli furono offerti i vescovati di
Beziers, di Conserans e di Comminges, ma costantemente li ricusò;
ed una volta giunse a dire che piuttosto se ne sarebbe fuggito
nottetempo col suo bordone, anziché accettare vescovati o
qualsiasi dignità. Ecco il ritratto che ce ne fa Guglielmo di
Pietro, abate del Monastero di S. Paolo in Francia, uno di quelli
che più lo conobbero nei dodici anni del suo apostolato in
Linguadoca, e che fu chiamato per testimone a Tolosa nel processo
di canonizzazione del Santo. «Il Beato Domenico avea una sete
ardente della salute delle anime, e con zelo illimitato si
adoprava a loro vantaggio. Predicatore ferventissimo, di giorno,
di notte, nelle chiese, nelle case, sui campi, per le vie mai si
stancava di annunziare la divina parola, raccomandando ai suoi
frati di fare lo stesso e di non parlare altro che di Dio.
Avversario degli eretici, o colla predicazione, o con le dispute,
o in qualunque altro modo possibile sempre loro si opponeva. Amò
poi tanto la povertà, da rinunziare persino i possedimenti, le
terre, i castelli e tutte le entrate di cui in più luoghi il suo
Ordine era stato arricchito; ed era talmente frugale, che un pane
e una zuppa bastavano al suo nutrimento, salvo rare eccezioni in
cui rallentava alquanto da tale austerità per riguardo ai suoi
frati ed agli altri commensali; imperocché quanto agli altri,
voleva che possibilmente avessero tutto in abbondanza. Ho inteso
dire da molti ch'ei si mantenne sempre vergine. Ricusò il
vescovato di Conserans, e non volle mai governare quella chiesa,
per quanto ne fosse stato legittimamente eletto pastore e prelato.
Io non conobbi uomo più umile di lui, né di lui più avverso
alla gloria del mondo e a tutto che ad, essa appartenga. Le
ingiurie, le maledizioni, gli obbrobri li sopportava con pazienza
e con gioia, quasi fossero doni di gran valore. Non lo
spaventavano punto le persecuzioni, ed intrepidamente affrontava i
pericoli; mai per paura abbandonò la via intrapresa. Che anzi, se
cammin facendo era vinto dal sonno, sostava lungo la strada
medesima o a pochi passi di distanza, e prendeva riposo. In
santità poi superò quanti mai io abbia conosciuti. Noncurante di
sé fino al disprezzo, si riteneva per un uomo da nulla. Con
tenera bontà consolava i suoi frati ammalati, compassionando in
modo ammirabile la loro infermità. Veniva a sapere che alcuno di
loro gemeva sotto il peso delle tribolazioni? E lui pronto ad
esortarlo alla pazienza, e secondo il suo meglio ad infondergli
coraggio. Amante della regola, ne riprendeva paternamente i
trasgressori; nelle parole, nei modi, nel vitto, nel vestito,
nella purezza de' costumi, in tutto era di esempio ai suoi
fratelli. Non conobbi uomo più abituato alla preghiera, o che
versasse tante lacrime. Quando pregava mandava tali gemiti, che si
udivano anche in lontananza; e gemendo diceva al Signore: -
Pietà, o Signore, del popolo; e che sarà dei peccatori? - E
passava le notti insonni piangendo e sospirando pei peccati degli
uomini. Generoso ed ospitale, dava liberalmente ai poveri tutto
che avesse; amava ed onorava tutti i religiosi e tutti gli altri
che alla religione fossero amici; né mai udii, né'seppi, che
avesse altro letto che la chiesa, se pure gli era dato di trovare
una chiesa; altrimenti coricavasi sopra una tavola o per terra; e
se gli preparavano un letto, tolti via materassi e lenzuola, si
distendeva sulle dure corde. Lo vidi sempre con una sola tonaca e
rappezzata, usando abiti più vili degli altri frati. Della fede e
della pace fu amatore grandissimo, e per quanto poté, dell'una e
dell'altra fedelissimo promotore» .
A virtù così sublimi, si aggiunse in Domenico
anche il dono di far miracoli. Un giorno traversato un fiume su di
una barca e giunto all'altra riva, fu richiesto dal barcaiolo
della dovuta mercede. «Io, rispose Domenico, sono un discepolo e
un servitore di Cristo, né ho con me oro od argento; penserà Dio
a compensarvi pel prezzo della mia traversata». Ma il barcaiolo
inquieto, presolo per la cappa, tirandogliela diceva: «O io avrò
la mia mercede, o voi lascierete la cappa». Domenico, allora
alzati gli occhi al cielo si raccolse un momento, e dipoi
guardando in terra e mostrando al barcaiolo una moneta d'argento
che la Provvidenza gli aveva mandato: «Fratello mio, gli disse,
ecco ciò che voi domandate; prendete, e lasciate che lo me ne
vada in pace» .
Nell'anno 1211, tempo in cui i crociati erano
accampati nei dintorni di Tolosa, alcuni inglesi che andavano
pellegrinando a S. Giacomo di Compostella, non volendo passare
dentro quella città, perché interdetta, pensarono di traversare
in barca la Garonna. Avvenne che la barca troppo carica - eran
circa cinquanta - si capovolse. Alle grida dei pellegrini e dei
soldati, Domenico uscì fuori da una chiesa vicina, e gittatosi
per terra con le mani in croce, si mise ad implorare da Dio la
salvezza di quegli infelici omai annegati. Terminata la preghiera,
si alzò, e voltosi verso il fiume, disse ad alta voce: «Nel nome
di Gesù Cristo, io vi comando di venir tutti a riva».
Gli annegati ricomparvero subito sopra le
acque, e per mezzo di lunghe pertiche apprestate loro dai soldati,
guadagnarono la sponda .
Il primo priore del convento di S. Giacomo di
Parigi, conosciuto sotto il nome di Matteo di Francia, addivenne
discepolo di Domenico in seguito ad un altro miracolo di cui fu
testimone. Egli era priore di una collegiata nella città di
Castres. Domenico andava spesso a visitar quella chiesa perché vi
si conservavano le reliquie del martire S. Vincenzo; ed
ordinariamente vi rimaneva a pregare fino all'ora di mezzogiorno.
Una volta però fece passare anche quest'ora, ed il priore mandò
uno de' suoi chierici ad avvertirlo. Il chierico, arrivato in
chiesa, trovò Domenico elevato un mezzo braccio da terra, rapito
in estasi dinnanzi all'altare. Corse ad avvisarne il priore,
il quale rimase talmente impressionato dal
vedere il Santo in estasi, che poco dopo si fece compagno del
servo di Dio; e Domenico, come era solito praticare con quelli che
metteva a parte del suo apostolato, gli promise il pane della vita
e l'acqua del cielo.
Gli storici raccontano ancora brevemente come
il Santo cacciasse il demonio da un ossesso; come volendo pregare
in una chiesa le cui porte erano chiuse, d'un tratto si trovasse
trasportato dentro; come viaggiando con un religioso, senza che
l'uno sapesse la lingua dell'altro, conversassero per tre giorni
insieme quasi usassero tutti e due lo stesso idioma. Raccontano
ancora come essendo caduti nell'Ariège i libri che Domenico
portava con sé, ritrovati da un pescatore dopo vari giorni,
sembravano neppur toccati dalle acque. Questi fatti, sparsi qua e
là nelle storie, li abbiamo voluti raccogliere qui siccome sante
reliquie.
Iddio infuse nel suo servo anche lo spirito di
profezia. Nella quaresima dell'anno 1212, che Domenico passò a
Carcassona predicando e disimpegnando l'ufficio di vicario
generale a lui affidato dal vescovo assente, fu interrogato da un
religioso di Citeaux sull'esito della guerra. «Maestro Domenico,
gli domandò, ma non finiranno mai questi mali?». E Domenico
tacque. Ma il religioso, sapendo bene che Dio gli rivelava molte
cose, insisté ancora, finché Domenico: «Sì, rispose, questi
mali avranno fine, ma non così presto; molto sangue ancora, oltre
il già sparso, si verserà, ed anche un re morirà nella
battaglia». Quelli che intesero tal predizione, temerono subito
pel primogenito di Filippo Augusto, che avea fatto voto di
arruolarsi ai crociati contro gli Albigesi; ma Domenico
rassicurandoli: «Non temete pel re di Francia, soggiunse; un
altro re dovrà soccombere, e presto, in mezzo alle vicende di
questa guerra» . Poco dopo fu spento a Muret il re di Aragona.
La durata ed i fortunosi avvenimenti della
guerra parevano un ostacolo insormontabile all'attuazione
dell'idea sempre fissa in Domenico di fondare un Ordine religioso
tutto consacrato al ministero della predicazione. Per questo non
si stancava mai di chiedere a Dio la pace; e per ottenerla, ed
affrettare così il trionfo della fede istituì, non senza segreta
ispirazione, quel metodo di preghiera, divulgatosi poscia in tutta
la Chiesa, sotto il nome di Rosario.
Quando l'Arcangelo Gabriele fu inviato da Dio
alla Vergine per annunziarle il mistero dell'Incarnazione del
Verbo nel di Lei purissimo seno, la salutò, dicendole: Salve, o
piena di grazia, il Signore è teco; tu fra le donne sei la
benedetta (Lc 1,28). Queste parole, le più soavi che altra
creatura abbia mai ascoltato, passarono di età in età sulle
labbra dei cristiani, che dal fondo di questa valle di lacrime
anche oggi non cessano di ripetere alla Madre del loro Redentore:
Salve, o Maria. Le gerarchie del cielo delegarono uno de' loro
principi per indirizzare all'umile figlia di David il glorioso
saluto; ed ora che Ella se ne sta sopra gli angeli e tutti i cori
celesti, il genere umano che la ebbe figlia e sorella, le innalza
di quaggiù l'angelico saluto: Salve, o Maria. E come la Vergine,
tosto che intese per la prima volta l'Ave misterioso dalle labbra
di Gabriele, concepì nel suo purissimo seno il Verbo di Dio, cosi
sempre che bocca umana le ripete il saluto, che fu il segno della
sua maternità, le sue viscere verginali tutte si commuovono alla
rimembranza di un momento il cui simile non fu mai né in cielo,
né su la terra; e l'eternità stessa risente della felicità di
cui fu allora piena la Vergine. Però, quantunque sia antico l'uso
dei cristiani di rivolgere con tale invocazione il loro cuore a
Maria, nondimeno ciò si faceva prima senza regola né forma
solenne. Ciascuno abbandonavasi all'impulso del proprio cuore,
senza che i fedeli indirizzassero mai in comune tal saluto
all'amatissima loro protettrice. Domenico, che ben comprendeva la
forza dell'associazione nella preghiera, credé ottima cosa far
sì che la salutazione angelica fosse detta in comune, affinché
la solenne acclamazione di tutto un popolo salisse al cielo con
maggiore possanza. Aggiungasi che la brevità stessa delle parole
dell'Angelo, quasi esigeva che fossero ripetute più volte,
precisamente come le acclamazioni dei popoli al passaggio dei loro
sovrani. E poiché la ripetizione poteva generar distrazione allo
spirito, Domenico provvide anche a questo, distribuendo le
salutazioni vocali in più serio, a ciascuna delle quali unì il
ricordo di uno dei Misteri della nostra redenzione, che furono
alla lor volta per la Vergine benedetta argomento di gioia, di
dolore, di trionfo. Così l’orazione mentale sarebbe stata
necessariamente congiunta colla pubblica preghiera; ed il popolo,
salutando la sua Madre e Regina, l'avrebbe accompagnata dal fondo
del cuore in ciascuno dei principali avvenimenti della di Lei
vita. A meglio provvedere poi alla durata ed alla solennità di
cosiffatto modo di pregare, Domenico pensò ancora alla fondazione
di una Confraternita. Pietoso divisamento che fu benedetto dal
più grande successo, il gradimento universale dei popoli. I
cristiani si tramandarono di secolo in secolo tal pratica con
incredibile fedeltà; le Confraternite del Rosario si
moltiplicarono senza numero; né v'ha cristiano al mondo, che
sotto il nome di Corona non abbia con sé il suo Rosario. E chi
sul far della sera non ha udito nelle chiese di campagna la voce
grave dei contadini recitare a due cori l'angelico saluto? chi non
ha incontrato processioni di pellegrini con in mano, la corona,
che scorrono lentamente fra le dita, rendendo meno penosa la
lunghezza del viaggio col ripetere alternativamente il nome di
Maria? Ora, una pratica che arriva a guadagnarsi l'approvazione
universale e per sempre, è segno manifesto che ha necessaria e
misteriosa corrispondenza coi costumi e coi destini dell'uomo.
Pure il razionalista sogghigna al veder passare lunghe file di
uomini che van ripetendo sempre le medesime parole; ma chi è
rischiarato da luce più bella, sa bene come l'amore ha solo una
parola, che ridetta sempre non si ripete mai.
La devozione del Rosario, interrotta nel
decimoquarto secolo per la terribile peste che desolò l'Europa,
nel secolo seguente fu ripristinata dal B. Alano de La Roche,
domenicano di Brettagna. Nel 1573 poi, il sommo pontefice Gregorio
XIII, a memoria della celebre battaglia di Lepanto vinta contro i
Turchi sotto il pontificato di un Papa domenicano, e nel giorno
stesso in cui le confraternite del Rosario a Roma e nel mondo
cristiano facevano pubbliche processioni, istituì la Festa del
Rosario, che ogni anno si celebra da tutta la Chiesa la prima
Domenica di ottobre .
Queste adunque le armi adoperate da Domenico
contro l'eresia e contro i mali della guerra: predicazione,
dispute, pazienza nel sopportare le ingiurie, povertà volontaria,
vita austera per sé, carità illimitata verso gli altri, il dono
dei miracoli, e finalmente il culto della SS. Vergine, da lui
promosso con l'istituzione del S. Rosario. I dieci anni che
passarono dall'abboccamento di Montpellier fino al Concilio
Lateranense, furono spesi in questo genere di vita in lui così
metodico, che gli storici contemporanei, per timore di riuscire
monotoni, si risparmiarono di descrivercelo; e dell'umile ed
eroica perseveranza di Domenico nell’esercizio continuo delle
virtù non ci tramandarono che uno scarso numero di fatti. Narrare
un giorno della sua storia in quegli anni, è narrarne la vita.
Questa stessa mancanza di avvenimenti però in un secolo
agitatissimo fa risaltare maggiormente la figura di Domenico
accanto a quella del conte di Montfort. Uniti da vincoli di
sincera amicizia e da un ideale comune, nel genere di vita essi si
trovano, così diversi, quanto l'armatura di un cavaliere è
differente dal sacco di un povero frate. Il sole della storia
converge infiniti raggi sulla corazza del Montfort e la fa
risplendere di generose azioni, per quanto frammiste ad ombre;
sulla cappa di Domenico appena ve ne getta un solo; però è così
puro, così santo che lo stesso tenue splendore è la. più
smagliante testimonianza di gloria. Poco è il lume, perché
l'uomo di Dio si tiene sempre lontano dai rumori del sangue;
perché perseverante nel suo ministero non schiude la bocca e he a
benedire, non apre il cuore che per pregare, non stende il braccio
so non per atti di carità; perché infine la virtù quando è
pura, non altro la illumina che Iddio.
A quarant'anni Domenico cominciò a raccogliere
il frutto dei suoi lunghi meriti. I crociati nel 1215 gli aprirono
col loro trionfo le porte di Tolosa: e la Provvidenza che sa far
cospirare nello stesso tempo ad un medesimo centro i più opposti
elementi, mandò a lui i due uomini di cui abbisognava per gettare
i primi fondamenti dell'Ordine dei Frati Predicatori. Entrambi
cittadini di Tolosa e ragguardevoli per nascita e per merito
personale, furono questi Pietro Cellani, che della sua grande
virtù facea ornamento alle sue molte ricchezze, e un altro
conosciuto sotto il nome di Tommaso, uomo di rara eloquenza e di
amabilità singolare. Mossi da un medesimo impulso dello Spirito
Santo, insieme si offrirono a Domenico per compagni, e Pietro
Cellani offrì ancora la, propria casa, assai grande, situata
presso il castello dei conti Tolosani, detto il castello di
Narbona. Domenico riunì in tale abitazione i suoi discepoli, sei
in tutti: Pietro Cellani, Tommaso e altri quattro; piccola
greggia, ma che pure era costata dieci anni di apostolato e
quarantacinque anni di vita tutta consacrata al Signore. Come
conoscono poco la natura delle cose durature quelli che hanno
troppa fretta nel loro cammino! E come poco la conoscono anche
quelli che rigettano da sé un secolo perché sconvolto e
tempestoso! Dopoché Domenico passando la prima volta per Tolosa,
in una veglia spesa a convertire un eretico ebbe intraveduta l’idea
del suo Ordine, il tempo era stato con lui inesorabile. La morte
prematura del suo amico e maestro Azevedo lo avea abbandonato
orfano in terra straniera: una guerra sanguinosa lo avea coinvolto
in mille impacci: l'odio degli eretici, dapprima meno furioso per
la sicurezza medesima della loro superiorità, s'era in seguito,
esaltato più che mai; finalmente l'indirizzo stesso dei cattolici
volto a tutt’altra piega che quella dell'apostolato, lasciavano
Domenico in una solitudine da sgomentare. Ma ecco che il soffio di
Dio dirada le nubi; il conte di Tolosa, che un giorno se ne
morirà tranquillo e vittorioso, ora è sopraffatto in una
decisiva battaglia; Dio concede al suo servo alcuni mesi di pace,
e l'Ordine de' Frati Predicatori nell'intermezzo di due tempeste
viene stabilendosi nella capitale stessa dell'eresia.
L’abito dei primi compagni di Domenico fu
quello stesso che lui indossava; una tonaca di lana bianca, una
cotta di lino, una cappa e un cappuccio di lana nera. Era l'abito
dei canonici regolari da lui sempre portato dopo il suo ingresso
nel capitolo di Osma, e che continuò a portare insieme co' suoi,
finché per un memorabile avvenimento di cui parleremo a suo
luogo, l'abito fu alquanto mutato. Tutti menavano vita comune
sotto certe regole; e giovò assai a tal fondazione la
cooperazione di Folco, vescovo di Tolosa, quel generoso Vescovo
cisterciense, che vedemmo favorire fin da principio gli ideali di
Azevedo e di Domenico. Né Folco si limitò a concorrere solo
spiritualmente a tal fondazione; che anzi della sua liberalità a
tale scopo abbiamo un insigne monumento, che la riconoscenza dei
Frati Predicatori deve, per quanto può, rendere imperituro. «Nel
Nome del nostro Signor Gesù Cristo. Rendiamo noto a tutti i
presenti e futuri che noi, Folco, per la grazia di Dio umile
ministro della sede di Tolosa, volendo estirpare l'eresia, bandire
i vizi, insegnare agli uomini le regole della fede ed informarli a
buoni costumi, instituiamo a predicatori della nostra diocesi Fra
Domenico e i suoi compagni, i quali si son prefissi di viaggiare a
piedi e da religiosi, secondo l'evangelica povertà, e di
annunziare la verace parola. E perché l'operaio è degno del
necessario sostentamento, né si ha da imbavagliar la bocca al
bove che trebbia il grano; che anzi chi predica il Vangelo deve
vivere del Vangelo; noi vogliamo che Fra Domenico ed i suoi
compagni, spargendo il seme della verità nella nostra diocesi, vi
debbano anche raccogliere di che sostentare la vita. Onde, di
comune accordo col capitolo di S. Stefano e di tutto il clero
della nostra diocesi, a loro, ed a tutti quelli che per lo zelo
del Signore e per la salute delle anime si daranno nello stesso
modo alla predicazione, assegniamo in perpetuo la sesta parte
delle decime che usufruiscono le fabbricerie delle nostre Chiese
parrocchiali, acciocché essi possano provvedere ai loro bisogni,
e di tanto in tanto possano aver modo di riposarsi dalle fatiche.
Se alla fine dell'anno ci sarà un sopravanzo, vogliamo e
ordiniamo che s'impieghi nell'ornare le nostre chiese
parrocchiali, o in soccorso de poveri, secondo che al, Vescovo
sembrerà opportuno. Imperocché essendo ordinato dal diritto che
una corta porzione delle decime sia elargita ai poveri, senza
dubbio noi siamo tenuti di farne parte a coloro che abbracciano
per Gesù Cristo la povertà, con animo di arricchire il mondo dei
loro buoni esempi e del dono della celeste dottrina; affinché
quelli da cui noi riceviamo le cose temporali, ricevano da noi,
direttamente o indirettamente, le cose spirituali. Dato l'anno
1215 dell'Incarnazione del Verbo, regnando in Francia re Filippo,
ed essendo Principe di Tolosa il conte di Montfort» .
Quest'atto di munificenza non fu il solo in
favore del nascente Ordine dei Frati Predicatori. «In quel tempo,
così gli storici, il Signor Simone, conte di Monfort, illustre
principe che combatté con la spada materiale gli eretici, ed il
Beato Domenico, che li combatté con la spada della divina parola,
strinsero fra loro grande famigliarità ed amicizia» . Montfort
donò all'amico il castello di Cassanel, nella diocesi d’Agen,
coi suoi possedimenti; e prima avea già confermate numerose
donazioni a favore del monastero di Prouille, le cui possessioni
da lui medesimo erano state accresciute. Né la stima e
l'affezione sua per Domenico si limitarono ai doni; ma pregò
ancora il Santo di battezzargli la figlia, fidanzata per alcun
tempo all'erede del regno d'Aragona, e di benedire il matrimonio
del conte Amanry, suo figlio primogenito con Beatrice, figlia del
delfino di Vienna. Un giorno vedremo Domenico, ormai vecchio,
pentirsi di avere accettato temporali, possedimenti; e prima di
scendere nel sepolcro, lo vedremo sollecitamente liberarsene come
d'un peso che l'opprimeva, lasciando per patrimonio a suoi figli
quella sola quotidiana Provvidenza, che è sollecita di ogni
laboriosa creatura, e di cui sta scritto: Lascia al Signore la
cura della tua vita, ed egli stesso ti nutrirà (Sal 54, 23.).
CAPITOLO VI
Secondo viaggio di S. Domenico a Roma
Approvazione provvisoria dell'Ordine
dei Prati Predicatori fatta da Innocenzo III
Incontro di S. Domenico con S.
Francesco d’Assisi
Il punto raggiunto da Domenico nell'attuazione
del suo ideale gli dava a sperar bene per l’approvazione
dell'opera da parte della Sede Apostolica; onde, approfittando
dell'occasione del prossimo Concilio Lateranense, nell'autunno del
1215, insieme al Vescovo di Tolosa partì per Roma. Prima però di
licenziarsi dai suoi, fece cosa molto importante, e che tracciò
per sempre una delle grandi vie per le quali il suo Ordine avrebbe
dovuto avanzare. Era allora in Tolosa un celebre dottore per nome
Alessandro, il quale copriva con molta lode una cattedra di
Teologia. Un giorno, mentre costui di buon mattino se ne stava
nello studio, tutto inteso nelle sue occupazioni, fu preso dal
sonno e profondamente si addormentò. Gli parve allora, sognando
che sette stelle si appressassero a lui, piccole dapprima, ma poi
via via crescenti in grandezza e splendore, da restarne al fine
illuminata tutta la Francia ed il inondo intero. Riavutosi da
questo sopore quando già era giorno, chiamò i servi che erano
soliti portargli i libri, e si avviò alla scuola. Vi era appena
arrivato, che Domenico ed i suoi discepoli, vestiti della bianca
tunica e della cappa nera dei canonici regolari, a lui si
presentarono, qualificandosi per frati banditori del Vangelo ai
fedeli ed agli infedeli nel paese di Tolosa, ardentemente
desiderosi di ascoltare le sue lezioni. Alessandro si ricordò
subito delle sette stelle vedute in sogno; e più tardi,
trovandosi alla corte del re d'Inghilterra, quando già l'Ordine
dei Frati Predicatori era in grandissima rinomanza, raccontò egli
stesso come i primi figli di questa nuova religione erano stati
suoi scolari.
Domenico adunque, lasciati a guardia de' suoi
discepoli la preghiera e lo studio, partì per Roma. Erano già
passati undici anni dacché insieme con Diego vi era stato per la
prima volta, pellegrino come lui e come lui inconsapevole del
perché Iddio li avesse chiamati così da lontano ai piedi del suo
Vicario. Ora invece Domenico riporta al Padre comune della
cristianità il frutto della di lui benedizione; e malgrado la
morte gli abbia tolto il compagno del suo primo pellegrinaggio,
non vi ritorna solo. Era come un destino per lui l'incontrar
sempre illustri amici; e mentre la Spagna, sua patria natale,
racchiudeva nella tomba l'amico e il protettore della sua
giovinezza, la Francia, sua patria adottiva, gli offriva un altro
amico e protettore nella persona di Folco. Fu ancora fortuna per
Domenico il ritrovare sulla cattedra di S. Pietro Innocenzo III;
per quanto questo grande Pontefice non si mostrasse da principio
troppo favorevole ai suoi desideri. Volentieri infatti aveva egli
preso sotto la protezione della Chiesa Romana il monastero di
Prouille, e n'avea già spedite lettere in data dell'8 ottobre
1215; ma d'approvare un nuovo ordine consacrato al servizio della
Chiesa mediante il ministero della predicazione, non sapea
risolversi; perciò, a testimonianza degli storici, per due
ragioni. In primo luogo perché essendo la predicazione ufficio
proprio dei vescovi, successori degli Apostoli, pareva cosa
contraria all'antichità affidarne l'incarico ad altro Ordine che
non fosse l'episcopale. E’ vero che già da lungo tempo i
vescovi cedevano molto volentieri ad altri l'onore di annunziare
la parola di Dio; ed il quarto Concilio Lateranense, di recente
celebrato, avea loro ingiunto di affidare, nel caso, il pulpito a
sacerdoti degni di rappresentarli. Ma altro era che si provvedesse
da ciascun vescovo alla predicazione nella propria diocesi con
vicarii revocabili a beneplacito, altro affidare il ministero
d'annunziare il Vangelo dovunque e per sempre ad un Ordine vivente
di vita sua propria. Non era questo fondare un nuovo Ordine
apostolico nella Chiesa? E vi può mai essere nella Chiesa altro
Ordine apostolico che l'episcopale? Questa questione suscitata
dallo zelo di Domenico, teneva sospeso quel genio stesso, ch'era
Innocenzo III. Imperocché oltre tali ragioni, già forti,
considerato dal punto di vista della tradizione, altre ve ne erano
avvalorate dall'esperienza stessa e dalla necessità. Certo che
l'apostolato era venuto meno nella Chiesa e l'errore avea fatto
progressi appunto per mancanza d'insegnamento sodo e
disinteressato; onde i Concili celebratisi nella Linguadoca,
durante la guerra albigese, aveano richiamati i vescovi
all'adempimento di questo loro dovere. Ma è la grazia di Dio che
forma gli apostoli, e non le prescrizioni conciliari; ed i
vescovi, tornati dopo quelle assemblee al loro palazzi,
ritrovavano facile scusa alla loro inerzia evangelica, nel peso
dell'amministrazione della diocesi, negli affari di Stato ai quali
dovean prender parte, insomma in tutta la resistenza delle
consuetudini introdotte, che agli uomini stessi della più forte
tempra riesce difficile sopportare. Né era cosa più agevole
trovare chi li sostituisse nel ministero della predicazione;
poiché non si può dire così all'improvviso ad un prete: sii
apostolo! Lo spirito apostolico è il frutto di un genere di vita
tutto particolare. Nella Chiesa nascente era più comune, perché
c'era il mondo da conquistare, e tutti gli spiriti si sentivano
come invitati ad un genere di azione che conduceva a tal meta;
quando invece la Chiesa fu Signora delle nazioni, il ministero
pastorale prevalse sull'apostolico, e si ebbe
di mira piuttosto di conservare che di
estendere il regno di Gesù Cristo. Ma per una legge costante in
tutte le cose create, là ove cessa il progresso, sottentra la
morte. Il sistema di conservazione, che può bastare alla maggior
parte delle intelligenze, è incapace di frenare certe anime
ardenti, le quali sdegnano una fedeltà che non le spinga innanzi,
come i soldati che si annoiano di trovarsi trincerati in un campo
senza mai scontrarsi col nemico. Tali anime, isolate dapprima, e
poi raccolte segretamente insieme, acquistano, senza addarsene,
quell'energia che ancora loro mancava, fino al giorno che
credendosi abbastanza forti contro la Chiesa, le ricordano con
improvvisa comparsa, che la verità non signoreggia quaggiù gli
spiriti se non a condizione di non cessar mai dal conquistarli. E
le condizioni dell'Europa facevano sentire anche troppo vivamente
ad Innocenzo III questa legge dell'umanità. Doveva egli rifiutare
il soccorso che gli veniva offerto così a proposito? Doveva
resistere al soffio di Dio, che pur suscitando degni vescovi nella
sua Chiesa, aggiungeva a loro cooperatori una corporazione di
religiosi?
Ma più che altro, quello che inceppava in tale
questione ogni libertà di pensare era un decreto del Concilio di
Laterano, in cui per evitare la confusione e tutti i mali che
derivavano dal moltiplicarsi degli Ordini monastici, il Concilio
aveva stabilito che non si permettessero altre fondazioni di nuovi
istituti. Era conveniente andar così presto contro una decisione
tanto solenne?
Iddio però che presta alla Chiesa Romana tale
assistenza, di cui la comunità medesima è una delle meraviglie
visibili della di Lui sapienza, dopo aver provato con un’ultima
tribolazione il suo servo Domenico, pose termine alle incertezze d’Innocenzo
III.
Una notte il Pontefice mentre dormiva nel
palazzo di S. Giovanni in Laterano, vide in sogno la basilica che
stava per rovinare, e Domenico lì con le sue spalle a puntellarne
le mura cadenti. Bastò quest'ispirazione per rivelare ad
Innocenzo il volere di Dio; e mandato subito a chiamare l'uomo
apostolico, gli ordinò di tornarsene senz'altro in Linguadoca, e
di scegliere d'accordo co' suoi quella regola, fra le antiche, che
più sembrasse confacente alla nuova milizia di cui egli
desiderava arricchire la Chiesa. Felice trovata d'Innocenzo per
salvare il decreto del Concilio di Laterano e dare insieme ad
un'idea tutta nuova l'impronta e la protezione dell'antichità.
Domenico provò a Roma un'altra gioia
vivissima. Egli non era il solo eletto dalla Provvidenza ad
arrestare in quei tempi critici il decadimento della Chiesa; e
mentre egli ravvivava il fiume della parola apostolica alle sante
e profonde sorgenti del suo cuore, un altr'uomo avea ricevuto la
missione di risuscitare in mezzo ad un'opulenza corruttrice la
stima e la pratica della povertà. Questo sublime innamorato di
Gesù Cristo spuntò alle pendici delle montagne dell'Umbria,
nella città di Assisi, figlio d'un ricco ed avaro mercante.
Perché aveva imparato bene la lingua francese onde sbrigar meglio
gl'interessi del padre, fu chiamato Francesco, nome che non è
quello di nascita, né quello di battesimo. Nell'età di
ventiquattro anni, dopo un viaggio fatto a Roma, lo Spirito del
Signore che più volte l'aveva stimolato, pienamente !a sé lo
attrasse. Condotto da suo padre dinanzi al vescovo d'Assisi
acciocchè rinunziasse a tutti i diritti di famiglia, l'eroico
giovane spogliatosi delle stesse vesti che avea indosso, le depose
al piedi del Vescovo con queste parole: «Ora sì, ch'io potrò
dire con tutta verità: O Padre nostro che sei nel cielo!». E
dopo questo fatto, assistendo un giorno al santo Sacrificio della
Messa, provò tanta gioia alla lettura di quel tratto di Vangelo
dove Gesù Cristo raccomanda agli apostoli di non possedere né
oro, né argento, né bisaccia per viaggio, e neppure due tonache,
né scarpe, né bastone, che levatosi tosto le scarpe dai piedi, e
lasciato il bastone, gettò via con orrore quel poco di danaro che
gli era rimasto e per tutto il rimanente della sua vita uniche
vestimenta furono un paio di mutande, un sacco ed una corda. E
temé di possedere ancora troppo; talché prima di morire alla
presenza de' suoi frati si fece porre nudo sul pavimento, come al
principio della sua totale conversione a Dio s'era spogliato di
tutto davanti al Vescovo d'Assisi.
Queste cose avvenivano mentre Domenico a
rischio della propria vita evangelizzava la Linguadoca, e
schiacciava l'eresia coi successi del suo apostolato. Una,
meravigliosa corrispondenza correva già fra questi due grandi,
senza che essi neppur lo sospettassero; e la comunanza de' loro
destini si ripercosse anche negli avvenimenti che dopo la morte li
seguirono. Domenico, maggiore in età di dodici anni e preparato
in forma più solenne alla sua missione, fu raggiunto a tempo dal
suo fratello più giovane, il quale non aveva avuto bisogno di
frequentare Università per apprendere la scienza della povertà e
dell'amore.
Quasi nel medesimo tempo in cui Domenico
gettava a Notre-Dame di Prouille, alle falde de' Pirenei, le
fondamenta del suo Ordine, Francesco faceva altrettanto a S. Maria
degli Angeli, ai piedi degli Appennini, ed un antico santuario
della beata Vergine Madre di Dio addiveniva, così per l'uno come
per l'altro, l'umile e preziosa pietra angolare del loro edificio.
Notre-Dame di Prouille! ecco il luogo prediletto da Domenico.
Santa Maria degli Angeli! ecco il lembo di terra per cui Francesco
ha riserbato un grado particolare d'affezione nell'immensità del
suo cuore distaccato da ogni cosa quaggiù. Ambedue avevano
cominciata la loro vita pubblica con un pellegrinaggio a Roma;
ambedue ora ci son tornati per far premure al Pontefice affinché
approvi gli Ordini da loro stabiliti. Innocenzo dapprima si
rifiutò per entrambi; ma da una stessa visione fu poi indotto a
concedere a voce a tutti e due una provvisoria approvazione.
Domenico e Francesco sotto l'austera flessibilità delle loro
regole raccolsero allora uomini, donne, e gente ancora del secolo,
formando di tre ordini una sola potenza che pugnasse per Nostro
Signor Gesù Cristo con tutte le armi della natura e della grazia;
ed in questo solo si distinsero, che Domenico cominciò dalle
donne e Francesco dagli uomini. Lo stesso Pontefice, Onorio III,
confermò con bolle apostoliche i loro istituti; lo stesso
Pontefice, Gregorio IX, li dichiarò Santi entrambi; e sulle loro
tombe fiorirono i due più grandi dottori di tutti i secoli: S.
Tommaso su quella di Domenico, e S. Bonaventura su quella di
Francesco.
Eppure questi due uomini i cui destini nel
cielo come sulla terra furono congiunti con tanta meravigliosa
corrispondenza, al punto in cui siamo della nostra storia ancora
non si conoscevano. Presenti ambedue in Roma durante il quarto
Concilio Lateranense, non pare che il nome dell'uno fosse mai
pervenuto alle orecchie dell'altro. Una notte però, stando
Domenico secondo il consueto in orazione, gli apparve Gesù Cristo
sdegnato col mondo, e la divina sua Madre, che, per placarlo, gli
presentava due uomini. In uno di questi Domenico riconobbe se
stesso; chi fosse l'altro non riuscì a determinarlo; ma lo fissò
così bene che glie ne rimase vivamente impressa nella memoria la
fisonomia. Il giorno seguente trovandosi, non si sa bene in quale
chiesa, riconobbe sotto il sacco di un mendicante, quella figura
stessa che nella notte, gli era stata mostrata. Fu allora che
correndo incontro a quel povero, se lo strinse con santa effusione
fra le braccia, esclamando: « Tu sei il mio compagno e camminerai
insieme con me. Stiamo uniti, e nessuno contro di noi prevarrà!»
. E raccontatagli la visione, i loro cuori si fusero insieme tra i
più affettuosi abbracci e soavi discorsi.
Il bacio di Domenico e di Francesco si trasfuse
di generazione in generazione sulle labbra dei loro figlioli; ed
una cara amicizia lega anche oggi i Frati Predicatori ai Frati
Minori. Su tutti i punti ,della terra si sono essi incontrati ad
esercitare il medesimo ministero; negli stessi luoghi hanno eretto
i loro conventi, hanno bussato alle stesse porte, ed il loro
sangue sparso per Gesù Cristo mille volte si è mescolato insieme
in un medesimo sacrificio e colla stessa gloria. Principi e
principesse hanno indossato le loro divise; a gara hanno popolato
il Cielo di Santi. Di virtù, di potenza, di fama, di bisogno
hanno essi avuto comunanza sempre e per tutto, né mai un soffio
glaciale appannò il puro cristallo di quest’amicizia sei volte
secolare. Come rami rigogliosi di due, pianto eguali di tempo e di
forza, si dilatarono insieme nel mondo; come due gemelli riposano
sul seno dell'unica loro madre, così essi si acquistarono e si
divisero l'affezione dei popoli, elevandosi insieme verso Dio,
come due preziosi profumi leggermente salgono ad uno stesso punto
del cielo. Ogni anno, a Roma, il giorno della festa di S. Domenico
alcune vetture partono dal convento di Santa Maria sopra Minerva,
dove il P. Generale dei Domenicani ha la sua residenza, e vanno al
convento d'Ara-coeli a prendere il P. Generale dei Francescani.
Questi, accompagnato da un bel numero de’ suoi frati, giunge
alla Minerva; e Domenicani e Francescani schierati in due file
parallele si recano all'altare maggiore, dove ricambiatosi il
saluto, i primi si ritirano in coro, gli altri rimangono
all'altare per celebrarvi l'Officio dell'amico del Padre loro.
Siedono poi alla stessa mensa, prendono insieme quel pane che per
ben sei secoli non è mai loro mancato; e terminata la refezione,
il cantore dei Frati Minori e quello dei Frati Predicatori cantano
insieme nel mezzo del refettorio quest'antifona: «Il serafico
Francesco e l'apostolico Domenico, ci hanno insegnata la tua
legge, o Signore». Tali cerimonie si rinnovano al convento d'Ara-coeli
il giorno della festa di S. Francesco ; come pure qualche cosa di
simile avviene dovunque un convento di Domenicani sia così vicino
a quello di Francescani, da permettere al cenobiti di attestarsi
con un segno visibile il pio ed ereditario amore che insieme li
lega.
CAPITOLO VII
Riunione di S. Domenico e de' suoi
compagni a Notre-Dame di Prouille
Regola e Costituzioni dei Frati
Predicatori
Fondazione del convento di S. Romano a
Tolosa
Durante l'assenza di Domenico, Iddio n'aveva
benedetta e moltiplicata la greggia. I sei discepoli lasciati in
Tolosa alla sua partenza nella casa di Pietro Cellani, avevano
raggiunto al ritorno il numero di quindici o sedici. Dopo le prime
espansioni del cuore, diede loro appuntamento per Notre-Dame di
Prouille, onde deliberare sulla scelta della regola, conforme agli
ordini del Pontefice. Fino allora, vale a dire fino alla primavera
del 1216, la piccola comunità non avea avuto che un assetto
provvisorio e indeterminato, essendosi occupato Domenico ad
operare piuttosto che a scrivere; sull'esempio di Gesù Cristo, il
quale con la parola e con l'esempio, non con regole scritte,
preparò gli apostoli alla loro missione. Ma l'ora era giunta di
stabilire la legislazione della famiglia domenicana; ché senza
leggi le, quali assecondino le osservanze, è impossibile
perpetuarne la tradizione. Domenico, già padre, doveva ora farsi
legislatore; e dopo aver tratto fuori dal suo seno una generazione
di uomini simili a sé, era d'uopo provvedere alla loro
fecondità, e armarli contro il tempo avvenire di quella forza
misteriosa, che dona alle istituzioni l'immortalità. Se la
conservazione di una stirpe per mezzo de' legami della carne e del
sangue è pur saggio di abilità e di virtù, se la fondazione
degl'imperi segna l'apogeo del genio umano, che cosa non si
richiederà per stabilire una società semplicemente spirituale,
che astrae nella sua vitalità dalle affezioni della natura, né
si affida alla difesa della spada e dello scudo? Gli antichi
legislatori spaventati del loro incarico, con una menzogna, che si
risolveva poi in realtà, cercarono di edificar le nazioni sopra
qualche cosa di divino. Domenico, nato sotto il regno di Cristo,
quando la pienezza della realtà era sottentrata alle ruine ed
alle finzioni, non ebbe bisogno di menzogna alcuna per esser
veritiero. Egli prima di farsi ardito di tracciare con mano
mortale una regola, era andato a prostrarsi ai piedi del
rappresentante di Dio, per implorare dalla più sublime paternità
visibile quella benedizione ch'è germe d'immortalità; e
ritiratosi poscia nella solitudine, sotto la protezione di Colei
che fu madre senza cessare di esser vergine, stava supplicando
ardentemente Iddio perché gli infondesse parte di quello spirito,
che stabilì la Chiesa Cattolica sopra incrollabili fondamenta.
Due uomini, nati alla distanza di un secolo
l'uno dall'altro, S. Agostino e S. Benedetto, erano stati in
Occidente i patriarchi della vita religiosa; nessuno dei due però
si era proposto lo scopo cui mirava Domenico. Sant'Agostino, poco
dopo convertito, si rinchiuse in una casa di Tagaste, sua città
natale, per dedicarsi tutto con alcuni amici allo studio e alle
contemplazioni delle cose divine. Elevato più tardi al sacerdozio
fondò in Ippona un altro monastero; reminiscenza anche questo,
pari al primo, di quei famosi istituti cenobitici di cui S.
Antonio, e S. Basilio erano stati gli architetti. Successo poi al
vecchio Valerio nella cattedra episcopale d'Ippona, pensò
altrimenti; senza però che in lui mutasse l'ardente amore che
traevalo ad incatenare la sua vita coi vincoli della fraternità.
Aprì la sua casa al clero d'Ippona, e sull'esempio di S. Atanasio
e di S. Eusebio di Vercelli, imitatori essi stessi degli Apostoli,
fece una sola comunità de' suoi cooperatori. Fu da questo,
monastero episcopale che trassero origine e forma i Canonici
Regolari; come da quello di Tagaste i religiosi conosciuti sotto
il nome di Eremitani di Sant'Agostino. Quanto a S. Benedetto, non
avendo egli avuto di mira che di risuscitare la vita claustrale,
condivisa fra il canto del coro ed il lavoro manuale, l'opera da
lui stabilita ancor più manifestamente era aliena dallo scopo di
Domenico.
Pertanto, obbligato a scegliersi il patriarca
fra i due grandi uomini, Domenico preferì S. Agostino. E la
ragione è evidente. Imperocchè per quanto l'illustre Vescovo non
avesse avuto in mente d'istituire un Ordine apostolico, pure era
stato egli stesso un dottore ed un apostolo, che avea speso la sua
vita nell'annunziare la divina parola e nel difenderne
l'integrità contro tutti gli eretici de' suoi tempi. Qual patrono
migliore adunque per il nascente Ordine de' Frati Predicatori?
Aggiungasi che per Domenico, vissuto molti anni nel capitolo
regolare di Osma, tal patronato non riesciva del tutto nuovo;
sicché a tale scelta, oltre le convenienze colla nuova vocazione,
concorrevano ancora le reminiscenze della vita trascorsa. La
regola poi di S. Agostino, e ciò bisogna notarlo, possiede, a
preferenza delle altre, il singolare privilegio di non essere che
una semplice esposizione dei doveri fondamentali della vita
religiosa. Nessuna forma di governo ivi è tracciata, non
prescritta alcuna osservanza, tranne la comunanza dei beni, la
frugalità, la preghiera, la custodia dei sensi, la correzione
fraterna dei difetti, l'obbedienza al superiore del monastero, e
soprattutto la carità, di cui il nome e l'unzione riempiono
quelle ammirabili, ma troppo poche pagine. Domenico adunque
conformandosi a tali prescrizioni, non faceva propriamente che
accettare il giogo stesso dei consigli evangelici; ed il suo
ideale rimaneva sempre perfettamente libero, benché circoscritto
da alcune linee tracciate da mano, la quale più che un chiostro,
sembrava aver voluto creare una città. Non restava adunque che
innalzare l'edificio particolare dei Frati Predicatori dentro la
cinta di questa città comune, all'ombra delle vetuste sue mura.
Senonché fin da principio si presentava un
grave quesito: dovrà un Ordine tutto consacrato all'apostolato
adottare le costumanze monastiche; oppure, tralasciando nella
maggior parte gli usi claustrali, informarsi alla vita più libera
del sacerdozio secolare? Non si trattava. come è evidente, dei
tre voti di povertà, di castità, e d'obbedienza, senza i quali
una società spirituale non può sussistere, come un popolo senza
l'imposizione delle imposte, senza la castità matrimoniale e
l'obbedienza alle stesse leggi sotto un medesimo capo. Ma la
recita pubblica del divino officio, l'astinenza continua dalle
carni, i lunghi digiuni, il silenzio, il capitolo delle colpe, le
penitenze per le trasgressioni della regola, il lavoro manuale
erano queste pratiche da doversi conservare, siccome confacenti
allo scopo dell'apostolato? Tale disciplina austera, buona a
formare il cuore solitario del monaco e a santificare gli ozi
della sua vita, era conciliabile con l'eroica libertà
dell'apostolo, che va spargendo innanzi a sé, a destra e a
sinistra, il buon seme della verità? Domenico lo credé.
Sostituito quindi lo studio della scienza divina al lavoro
manuale, mitigata la severità di alcune osservanze, dispensandone
anche, quando occorresse, i religiosi addetti in modo particolare
all'insegnamento ed alla predicazione, quanto al resto fu d'avviso
che sarebbe stato possibile conciliare le osservanze monastiche
colla vita apostolica; e forse l'idea di tale separazione non gli
si affacciò neppure alla mente. Imperocchè l'apostolo non è
solo un uomo che sa ed insegna per mezzo della parola soltanto; ma
è un uomo che predica il cristianesimo con tutto se stesso, la
cui sola presenza deve essere già un'apparizione di Gesù Cristo.
Qual cosa adunque più efficace ad imprimere in lui le sacre
stimmate di questa rassomiglianza col Cristo, delle austerità del
chiostro? Domenico stesso non era un assieme di monaco e apostolo?
Studiare, pregare, predicare, digiunare, dormire per terra,
camminare a piedi, passare dall’atteggiamento di penitente a
quello di propagandista era stata la sua vita di tutti i giorni.
Chi adunque poteva conoscere meglio di lui tutte le affinità del
deserto e dell'apostolato?
Fu così che a Prouille si stette per le
tradizioni monastiche, fatte solo alcune modificazioni, di cui la
più importante fu, «che ciascun superiore nel proprio convento
avesse facoltà di dispensare i suoi frati, qualora lo giudicasse
opportuno, dalle osservanze comuni e principalmente da quelle che
fossero d'impedimento allo studio, alla predicazione, al bene
delle anime; essendo l'Ordine istituito fin dalla sua origine per
la predicazione e per la salvezza delle anime, e dovendo tutti i
loro sforzi essere ordinati al profitto del prossimo» . Ecco
perché venne determinato che l'officio divino si recitasse in
chiesa brevemente e succintamente, affine di non scemare la
divozione nei frati e non impedire lo studio; che in viaggio i
frati fossero dispensati dai digiuni della regola, eccettuato il
tempo d'Avvento, alcune vigilie e il venerdì di ogni settimana;
che fuori di convento potessero mangiar carne; che non fossero
tenuti ad un assoluto silenzio; che potessero comunicare cogli
estranei anche nell'interno del monastero, se ne eccettui le
donne; che un certo numero di studenti fosse mandato alle più
celebri Università; che si potessero ricevere gradi accademici ed
aprire scuole: cose tutte che senza distruggere nel Frate
Predicatore l'uomo monastico, lo elevano al grado di uomo
apostolico.
Riguardo al regime fu stabilito che ogni
convento fosse governato da un Priore, ciascuna provincia,
composta di un dato numero di conventi, da un Provinciale; e tutto
l'Ordine da un solo capo, che prese poi il nome di Maestro
Generale. L'autorità scesa dall'alto e rannodata al trono stesso
del Sommo Pontefice avrebbe consolidati tutti i gradi di questa
gerarchia, mentre l'elezione dal basso risalendo all'alto avrebbe
mantenuto fra chi comanda e chi obbedisco lo spirito di
fratellevole concordia, rifulgendo così sulla fronte di ogni
depositario del potere un doppio carattere: la scelta dei suoi
confratelli, e la conferma della suprema autorità. Ciascun
convento quindi eleggerebbe il suo Priore; la provincia,
rappresentata dai Priori e da un deputato di ogni convento, il
Provinciale; tutto l'Ordine, rappresentato dai Provinciali e da
due deputati per ciascuna provincia, il Maestro Generale.
Viceversa al Maestro Generale sarebbe riserbato il diritto di
confermare i superiori provinciali, ed a questi i conventuali.
Tutti gli uffici poi, ad eccezione del supremo, sarebbero
temporanei, affinché la provvidenza della stabilità fosse
congiunta all'emulazione che si trova nel cambiamento. Capitoli
generali, tenuti a non lungo intervallo, contrabbilancerebbero la
potestà del Maestro Generale; capitoli provinciali, quella del
superiore Provinciale; il Priore conventuale poi negli affari più
importanti del suo ufficio sarebbe assistito da un consiglio di
Padri. L'esperienza ha confermata la saggezza di questa forma di
governo con cui l'Ordine dei Frati Predicatori ha liberamente
raggiunto i suoi destini, lontano così dalla licenza come
dall'oppressione, e professando per l'autorità quel sincero
rispetto collegantesi a un che di franco e di naturale, che rivela
a prima vista il cristiano libero dal timore per l'amore. La
maggior parte degli Ordini religiosi furono soggetti a riforme che
li divisero in diversi rami: quello dei Frati Predicatori, sempre
il medesimo, ha traversato le vicissitudini di sei secoli di
esistenza, per tutto il mondo ha steso i vigorosi suoi rami, senza
che neppure uno siasi mai staccato dal tronco che lo aveva
nutrito.
Restava a risolversi la questione del come
l'Ordine avrebbe provveduto al suo sostentamento. Domenico, fin
dal primo giorno del suo apostolato si era affidato alla divina
Provvidenza, vivendo giorno per giorno di elemosine, e riversando
a vantaggio del monastero di Prouille quanto gli fosse stato
offerto in più dei bisogni del momento. Non era stato se non dopo
l'aumento della sua famiglia spirituale che aveva accettato da
Folco la sesta parte delle decime della diocesi di Tolosa, e dal
conte di Montfort la terra di Cassanel. Tutte le sue reminiscenze
però, tutto il suo cuore erano per la povertà. Troppo gli
stavano dinanzi le piaghe che l'opulenza avea generate nella
Chiesa, per poter desiderare al suo Ordine altra ricchezza
all'infuori della virtù. Nondimeno, quanto al punto di
dichiararsi mendicanti, l'assemblea di Prouille sospese la
decisione. Domenico ebbe forse timore che Roma opponesse ostacoli
ad un pensiero così ardito; onde amò meglio rimetter la cosa a
tempo più opportuno.
Furon queste le leggi fondamentali, consacrate
dai patriarchi dell'istituto domenicano. Paragonate con quelle dei
Canonici Premostratensi appaiono ad esse così rassomiglianti,
quantunque, il fine sia diverso, da attestarci chiaramente come
Domenico avesse intimamente studiata l'opera di S. Norberto; e
l'occasione l’ebbe forse, nel capitolo di Osma, alla cui riforma
molto probabilmente servì di prototipo quello di Prémontré.
Folco frattanto, sempre pronto a favorire i
disegni di Domenico, gli donò tutte insieme tre chiese: una a
Tolosa, sotto il titolo di S. Romano martire; un'altra a Pamiers,
ed una terza situata fra Sorèse e Puy-Laurens, conosciuta sotto
il nome di Notre-Dame di Lescure, affinché accanto a ciascuna
sorgesse un convento di Frati Predicatori; ma l'ultima non lo ebbe
mai, e quella di Pamiers molto tardi, cioè l'anno 1269.
Era conveniente, l'abbiamo già notato, che
Tolosa, la grande città dell'eresia, avesse visto per prima fra
le sue mura un convento di domenicani. Però sebbene i discepoli
di Domenico fossero già da un anno ivi riuniti in una medesima
abitazione, pure la loro casa non avea altro di monastico, se non
la vita che vi si menava; la necessità quindi di mettere
l'abitazione in corrispondenza alla vita vieppiù s'imponeva. A
lato adunque della chiesa di S. Romano si fabbricò con
sollecitudine un modesto chiostro. - Il chiostro è un cortile
intorniato da un portico. In mezzo a questo cortile, doveva
sorgere sempre, giusta le antiche tradizioni, un pozzo, simbolo di
quell'acqua viva della Scrittura che zampilla a vita eterna; sotto
il pavimento del portico si scavavano sepolcri; lungo le mura
incidevansi funerarie iscrizioni; nell'arco formato dal piegare
delle volte dipingevansi le gesta dei santi dell'Ordine o del
monastero. Questo luogo era sacro e i religiosi stessi non vi
passeggiavano se non in silenzio e con la mente occupata dal
pensiero della morte e della memoria dei loro predecessori.
Attorno a questa seria galleria che metteva alla chiesa per due
porte, l'una rispondente al coro, l'altra alla navata, erano la
sacrestia, il refettorio e le grandi sale comuni. Una scala
conduceva ai piani superiori costruiti al disopra del portico e
sulla medesima pianta. Dal fondo dei quattro corridoi, per quattro
grandi finestre, vi entrava largamente la luce, e quattro lampade
vi spandevano i loro raggi la notte. Lungo questi corridoi alti e
larghi, decenti, ma non di lusso, l'occhio meravigliato scopriva a
dritta e a manca una lunga fila simmetrica di porte perfettamente
eguali, e nello spazio tra l'una e l'altra vecchi quadri, carte
geografiche, piante di città e di antichi castelli, la tavola dei
monasteri dell'Ordine, e mille semplici rimembranze della terra e
del cielo. Al suono di una campana tutte quelle porte si aprivano
dolcemente e con rispetto. Canuti e sereni vegliardi, uomini di
precoce maturità e giovanetti ai quali la penitenza e il fiore
degli anni davano un'aria di bellezza incognita al mondo, tutte
insomma le stagioni della vita ne uscivano e si mostravano insieme
sotto una medesima divisa. Povera la celletta di quei cenobiti e
tanto larga da bastare appena a contenere un letto di paglia o di
crine, un tavolino e due seggiole: un crocifisso e qualche
immagine sacra n'erano il solo ornamento. Da questo sepolcro ove
il religioso abitava nel corso dei suoi anni mortali, egli passava
a quello che precede l'immortalità, senza essere neppure allora
separato dai suoi fratelli, fossero vivi o morti. Seppellivasi
vestito de' suoi abiti sotto il pavimento del coro, e la sua
polvere mescolavasi con quella dei suoi predecessori, mentre le
laudi del Signore, cantate dai contemporanei e dai discendenti
parevano destare quelle fredde reliquie e richiamarvi la vita. O
care e sante magioni! Furono edificati superbi palagi, magnifici
sepolcri, e templi degni della divinità si elevarono sulla faccia
della terra: ma un monastero è la bella creazione dell'arte e del
sentimento.
Quello di S. Romano non fu abitabile che alla
fine del mese di agosto del 1216. Nella sua struttura fu assai
modesto: le celle misuravano sei piedi di larghezza, e poco meno
di lunghezza; i tramezzi non oltrepassavano l'altezza di un uomo
affinché i frati mentre attendevano liberamente alle loro
occupazioni, fossero in qualche modo sempre fra loro uniti; il
mobilio poi era il più ordinario. L'Ordine conservò questo
convento fino all'anno 1232; epoca in cui i Domenicani di Tolosa
si trasferirono in un convento e in una chiesa più vasti, dove
rimasero fino a che ne furono scacciati dalla rivoluzione
francese. Ora quei magnifici avanzi servono di caserma e, di
magazzino!
CAPITOLO VIII
Terzo viaggio di S. Domenico a Roma.
Conferma dell'Ordine dei Frati
Predicatori.
Predicazione di S. Domenico nel palazzo
del Papa.
Mentre sotto gli occhi stessi di S. Domenico si
stava fabbricando con tutta sollecitudine il convento di San
Romano, giunse ad attristare il cuore del Santo Patriarca la
notizia inaspettata che Innocenzo III era morto a Perugia il 16
luglio, e due giorni appresso, eletto in fretta e furia, era
asceso al soglio pontificio il cardinal Conti, dell'antica stirpe
dei Sabelli col nome di Onorio III. Così, oltre a venire a
mancare un valido sostenitore dell'opera domenicana, si paravano
ancora dinanzi tutti gl'intoppi di una nuova corte. Innocenzo III
era uno di quei pochi che la Provvidenza aveva mandati quali
apprezzatori e sostenitori di Domenico; della tempra anch'egli
degli Azevedo, dei Folchi, dei Montfort, generosa costellazione,
astri l'un dopo l'altro si andavano eclissando, Azevedo era
scomparso per primo, e con lui l'ordine de' suoi eroici disegni.
Ed ora che Domenico ne aveva con rande stento riallacciate le fila
sotto gli auspici di Innocenzo III, anche questo gran Papa moriva,
senza aver consumata l'impresa a cui si era ripromesso metter
l'ultimo suggello. Questa prova però fu di poca durata. Domenico,
rivalicato le Alpi per la terza volta, malgrado le difficoltà di
un nuovo governo, ottenne prontamente dal Pontefice il premio
dovuto alle sue lunghe fatiche. Il 22 dicembre del 1216 il suo
Ordine fu solennemente confermato con due bolle di questo tenore:
«Onorio vescovo, servo dei servi di Dio, ai
suoi cari figli Domenico, priore di S. Romano di Tolosa, ed ai
fratelli presenti e futuri che professeranno vita regolare, salute
ed apostolica benedizione. Essendo ottima cosa porre sotto
l'apostolica protezione coloro che si danno alla vita religiosa,
affinché temerari assalti non li distolgano dai loro disegni, e
non infrangano, che Dio ne liberi, i santi legami della religione;
per questo, o cari figli nel Signore, noi volentieri acconsentendo
alle vostre giuste richieste, con la presente riceviamo sotto la
protezione del Beato Apostolo Pietro e nostra la chiesa di S.
Romano di Tolosa, nella quale voi vi siete consacrati al servizio
divino. Noi vogliamo in, primo luogo che l'Ordine fondato
canonicamente in detta chiesa secondo l'ispirazione di Dio e la
regola di S. Agostino, sempre ed inviolabilmente sia rispettato;
inoltre, che i beni giustamente acquistati dalla chiesa, o che in
seguito possano acquistarsi per concessioni di pontefici, per
generosità di re e di principi, per elargizioni di fedeli, o in
qualunque altro legittimo modo, siano inviolabili nelle vostre
mani, ed in quelle dei vostri successori. Abbiamo ancora creduto
opportuno nominare distintamente i seguenti possedimenti cioè: il
luogo ove è fabbricata la chiesa di S. Romano con tutto le sue
pertinenze; la chiesa di Prouille e sue pertinenze, la tenuta di
Cassanel, la chiesa di Notre-Dame de Lescure e sue pertinenze,
l'Ospedale di Tolosa, chiamato Arnaldo Berard, parimenti con le
sue pertinenze, la chiesa della SS. Trinità di Lobens e sue
pertinenze, e le decime che il venerabile nostro fratello Folco,
vescovo di Tolosa, nella sua caritatevole e previdente
liberalità, di consenso col suo Capitolo, vi ha concesso, come
dagli Atti risulta. Nessuno poi presuma di esigere decime da voi,
sia sui campi che coltivate voi stessi o a vostre spese, come pure
sui prodotti del bestiame. Vi permettiamo di ricevere e ritenere
presso di voi, senza timore di esserne poi rimproverati, chierici
e laici desiderosi di lasciare il secolo, purché non siano
stretti da altri giuramenti. Proibiamo ai vostri fratelli che
hanno fatta la professione, di obbligarsi ad altri voti senza il
permesso del loro Priore, salvo il caso che si tratti di entrare
in una religione più austera, e proibiamo a chicchessia di
riceverli senza il vostro consenso. Voi provvederete al servizio
delle chiese parrocchiali che vi appartengono, scegliendo e
presentando al vescovo diocesano preti degni di ricever da lui la
cura delle anime; i quali dipenderanno dal Vescovo quanto alle
cose spirituali, da voi quanto alle temporali. Proibiamo che alla
vostra chiesa siano imposti oneri nuovi ed insoliti; né contro di
essa, né contro di voi sarà lecito fulminare sentenze
d'interdetto o di scomunica, tranne il caso di motivi patenti e
ragionevoli. Se verrà fulminato qualche interdetto generale, voi
potrete tuttavia celebrare i divini uffici, ma a voce bassa, senza
suono di campane, a porte chiuse e dopo averne fatti uscire gli
scomunicati e gl'interdetti. Per la Cresima, per l'Olio Santo, per
la consacrazione degli altari, per l'ordinazione dei vostri
chierici vi rivolgerete al vescovo diocesano, se cattolico, nella
grazia e comunione della S. Sede, ed accondiscenda a prestar tutto
senza condizioni ingiuste; altrimenti potrete rivolgervi a
qualunque altro vescovo cattolico vi piacerà, purché nella
grazia e comunione della S. Sede; ed egli in virtù della nostra
autorità potrà soddisfare alle vostre richieste. Vi concediamo
la libertà di seppellire nelle vostre chiese, ordinando che
nessuno si opponga alla devozione ed all'ultima volontà di coloro
che vorranno esservi sepolti, a meno che fossero scomunicati o
interdetti, e salvi i diritti delle chiese a cui appartiene il
trasporto dei defunti. Alla morte vostra o a quella dei vostri
successori niuno pretenda di ascendere al comando nella carica di
Priore di codesto luogo con intrighi o violenze, ma solo colui
che, secondo il volere di Dio e la regola di S. Agostino, sarà
stato eletto col consenso di tutti o almeno della maggiore e più
rispettabile parte de' suoi fratelli. Noi ratifichiamo ancora le
libertà, le immunità e le consuetudini ragionevoli introdotte
nella vostra chiesa o conservate fino ad oggi, volendo che siano
per sempre inviolabili. Che niuno adunque osi molestare cotesta
chiesa, appropriarsi e ritenere i suoi beni, diminuirli o farne
oggetto di vessazione; ma rimangano intatti, ad uso e
sostentamento di coloro in favore dei quali sono stati ceduti,
salvo l'autorità apostolica e ciò che, secondo i canoni, spetta
al Vescovo diocesano.
«Se alcuno, ecclesiastico o secolare, pur
conoscendo questa nostra costituzione, non temesse d'infrangerla,
ed avvertito una seconda ed una terza volta ricusasse di dare
soddisfazione, sia privato di ogni potere e di ogni onore, sappia
che si è reso colpevole d'iniquità al tribunale di Dio, che
sarà quindi separato dalla comunione del Corpo e del Sangue del
nostro Dio Signore e Redentore Gesù Cristo, e che l'aspetterà
tremenda pena il giorno del giudizio finale. Al contrario la pace
del Signor Nostro Gesù Cristo discenda su coloro che
rispetteranno i diritti di cotesto luogo; ricevano quaggiù il
frutto di una buona azione, dal Giudice poi supremo una ricompensa
eterna. Così sia».
L'altra bolla, documento breve, ma profetico,
è così concepita:
«Onorio, Vescovo, servo dei servi di Dio, al
caro figlio Domenico, Priore di S. Romano di Tolosa, ed a quanti
suoi fratelli hanno fatto o faranno professione di vita regolare,
salute ed apostolica benedizione. Considerando che i frati del
vostro Ordine saranno i campioni della fede e la vera luce del
mondo, noi confermiamo il vostro Ordine con tutte le terre e
possessioni presenti e future, e prendiamo l'Ordine, stesso, con
tutti i suoi diritti e tutti i suoi beni, sotto il Nostro governo
e la nostra protezione» .
Queste due bolle furono rogate a S. Sabina nel
medesimo giorno; e la prima, oltre la firma di Onorio, è
sottoscritta da diciotto Cardinali. Peraltro, per quanto si
largheggiasse in favori, i voti di Domenico non erano del tutto
soddisfatti. Egli desiderava che il nome stesso del suo Ordine
fosse testimonio perenne del fine da lui propostosi nel fondarlo.
Fin dal principio del suo apostolato egli si era compiaciuto del
nome di Predicatore; inoltre da un atto di omaggio al quale egli
era intervenuto il 21 giugno 1211, appare come fin d'allora si
servisse di un sigillo in cui erano scolpite queste parole:
Sigillo di Fra Domenico Predicatore; e nella sua andata a Roma al
tempo del Concilio di Laterano, Domenico si era appunto proposto
d'ottenere dal Papa, dice il B. Giordano di Sassonia, la conferma
di un Ordine i cui membri avessero l'ufficio e il nome di
Predicatori. Rimonta pure a tale epoca un fatto notevole.
Innocenzo III, che già aveva incoraggiato Domenico all'opera
coll'approvarne i suoi disegni, ebbe bisogno di scrivergli; e
chiamato un segretario, gli disse:
«Scrivete la tal cosa a Fra Domenico ed ai
suoi compagni». Poi riflettuto un poco, soggiunse: «Non scrivete
così, ma in quest'altro modo: A fra Domenico e a coloro che
predicano con lui nelle contrade di Tolosa». E fermatosi ancora:
«Scrivete così: Al Maestro Domenico et ai Frati Predicatori» .
Ciò nonostante Onorio nelle sue bolle si era
astenuto dal dare al nuovo Ordine alcuna denominazione. Fu certo,
per riparare a tal silenzio che un mese dopo, il 26 gennaio 1217,
dettò la lettera seguente:
«Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai
suoi cari figli, il Priore ed i frati di S. Romano, Predicatori
nel Paese di Tolosa, salute ed apostolica benedizione. Noi
infinitamente ringraziamo il dispensatore di ogni bene per tutto
quello che vi ha concesso, e confidiamo di vedervi perseverare in
lui fino alla fine. Divorati internamente dal fuoco della carità,
diffondete intorno a voi uno squisito profumo, che rallegra i
cuori sani e ristabilisce gli infermi. Da abili medici voi offrite
loro delle mandragole spirituali che li preservino dalla
sterilità, vale a dire il seme della divina parola, fecondato da
una salutare eloquenza. Servitori fedeli, sapete far fruttare il
talento che è stato riposto nelle vostre mani, e lo restituite al
Padrone con sovrabbondanza. Atleti invincibili di Cristo portate
alto lo scudo della fede e l'elmo della salute senza timore di
coloro che possono uccidere il corpo, opponendo, da magnanimi,
contro i nemici della fede la parola dl Dio, che penetra più
addentro della spada la più acuta, odiando le vostre anime in
questo mondo, per ritrovarle nella vita eterna. E perché non il
combattimento, ma il suo fine, è quel che ci onora, e la
perseveranza sola raccoglie il frutto di tutte le virtù, noi con
queste lettere apostoliche preghiamo e seriamente esortiamo la
vostra carità, che per la remissione dei vostri peccati vi
fortifichiate sempre più nel Signore, seminiate il Vangelo sempre
e dovunque, adempiate insomma pienamente al dovere di Evangelisti.
Se per questo vi toccherà a soffrire qualche tribolazione,
sopportatela non solo con tranquillità d'animo, ma sì
allegramente, e gloriatevi coll'Apostolo di essere giudicati degni
di soffrire obbrobri pel nome di Gesù. Sono leggere e transitorie
afflizioni, pegno d'immensa gloria, a cui i mali del tempo non
sono paragonabili. Vi chiediamo inoltre, figli diletti, che
stringiamo particolarmente al nostro cuore, d'intercedere per noi
presso il Signore colle vostre preghiere, acciò si degni
concedere per vostra intercessione, ciò che pei nostri proprii
meriti non varremmo ad ottenere» .
Fu così che il nome e l'ufficio di Frati
Predicatori furono pontificialmente attribuiti ai religiosi
Domenicani; ed è notevole la progressiva gradazione dei tre
documenti da noi riferiti. Nella lunga bolla approvata in
Concistoro e sottoscritta dai Cardinali, non si parla affatto del
fine dell'Ordine. Se ne parla semplicemente come di un Ordine
canonicamente stabilito, sotto la regola di S. Agostino. La
seconda bolla, nella sua stessa brevità, è più chiara, dando ai
figli di Domenico l'appellativo di campioni della fede e veri del
mondo. Il terzo diploma infine dà loro apertamente la qualifica
di Predicatori, lodandoli per le loro apostoliche fatiche ed
incoraggiandoli per l’avvenire. L'insieme di questi documenti ha
dato po' da fare agli storici, riuscendo difficile spiegare come
il Sommo Pontefice abbia potuto emanare nello stesso giorno due
bolle al medesimo scopo; ed hanno congetturato che la prima fosse
destinata a conservarsi negli archivi dell'Ordine, la seconda
dovesse invece servire ai religiosi come di passaporto
giornaliero. Ma un Ordine solennemente approvato dalla Santa Sede,
ha egli bisogno di presentarsi sempre dovunque con una bolla alla
mano? non è da se stesso la miglior prova della sua autenticità?
ed in caso di contestazione non è evidente che il documento
necessario sarebbe stato quello contenente le libertà ed i
privilegi dell'Ordine, piuttosto che un atto di poche righe, che
punto ne determinava la canonica esistenza? D'altra parte nella
progressiva ricognizione dei Frati Predicatori c'è una
singolarità tale che fa intravedere un'altra spiegazione. Ci
sembra probabile che nella corte pontificia trovasse opposizione
l'istituzione d'un Ordine apostolico, e che per questa. ragione la
bolla principale tacesse affatto intorno allo scopo della nuova
religione che veniva autorizzata; ma che poi il Pontefice,
sollecitato da Domenico ed ispirato da Dio, sottoscrivesse nello
stesso giorno una dichiarazione sul motivo speciale che l'avea a
ciò indotto; ed un mese più tardi credesse opportuno di
manifestare liberamente tutto il suo pensiero e la sua volontà.
Onorio inoltre, ai 7 del seguente febbraio, confermò con apposito
breve una disposizione data nella prima lettera, quella cioè che
proibiva ai Frati Predicatori di lasciare la propria religione per
entrare in un'altra, a meno che non fosse più austera.
Avendo così Domenico ottenuto da Roma tutto
che aveva sperato, doveva certo aver fretta di tornate fra i suoi;
ma l'imminente quaresima lo trattenne; ed ei ne prese occasione
per esercitare nella capitale del mondo cristiano il ministero
apostolico che gli era stato affidato. Straordinario ne fu il
successo. Nel palazzo stesso del Papa, alla presenza di
rispettabili uditori, commentò le lettere di S. Paolo; e ciò dà
a conoscere come Domenico, ad eccezione delle controversie cogli
eretici, seguisse nella predicazione il metodo stesso dei Padri
della Chiesa, spiegando al popolo la Sacra Scrittura, non a frasi
spezzate prese qua e là, ma per ordine, in modo che la storia, la
morale e il domma si illustrassero l'un l'altro, e
l'ammaestramento fosse il fondo dell'eloquenza. Il pulpito infatti
non è che una cattedra di teologia popolare. Di là, per mezzo
delle labbra del sacerdote iniziato a tutti i misteri della
scienza divina, devono sgorgare, sulla terra i fiumi della
dottrina eterna con le tradizioni del passato e le speranze
dell'avvenire. Secondo il crescere e l'abbassarsi di questi fiumi,
crescerà o illanguidirà la fede nel mondo. Domenico eletto da
Dio a ravvivare l'apostolato nella Chiesa, avea senza dubbio
riflettuto alle condizioni proprie della parola evangelica; e a
giudicarne, dal primo saggio che ne dette a Roma nella piena
maturità della Vita, dobbiamo credere che egli desse gran peso
all’esposizione ordinata delle sacre lettere. Una memorabile
istituzione sta ad attestare il frutto di questa sua predicazione.
Imperocchè desiderando il Papa che tutto il bene allora ottenuto
non fosse passeggero nel popolo romano e specialmente nella sua
corte, a cui quella predicazione era stata particolarmente
ordinata, volle farne un ufficio perpetuo col nome di Maestro del
Sacro Palazzo. E Domenico fu il primo ad essere investito di tale
carica, ritenuta anche oggi con onore dai suoi discendenti. Anzi
col tempo ne sono cresciuti i privilegi e i doveri; e da semplice
predicatore e maestro di spirito in Vaticano, il Maestro del Sacro
Palazzo è divenuto il teologo del Papa, il censore generale dei
libri che si stampano e s'introducono in Roma, il solo che abbia
facoltà nell'Accademia teologica romana di elevare al grado di
dottore, quegli che designa chi deve predicare nelle solennità
alla presenza del S. Padre: tutte cose importanti, e che portano
con sé buon numero di onorifici privilegi; onde tale ufficio
giustamente ed invidiabilmente si è trasmesso dall'uno all'altro
nei figli di Domenico.
Il santo Patriarca, dietro la fama acquistatasi
in Roma con la sua predicazione, ebbe occasione di visitare la
casa del Cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, venerando vegliardo
di settantatrè anni, discendente dalla nobile famiglia dei Conti,
già da venti anni decorato della porpora, ed amico altresì di S.
Francesco d'Assisi, il quale gli presagì la tiara, e più volte
gli scrisse in questi termini: Al Reverendissimo padre e signore
Ugolino, futuro vescovo di tutto il mondo e padre delle nazioni.
Per quanto di età avanzata, Ugolino si sentì attratto verso
Domenico come lo era stato verso Francesco; ed il suo cuore,
sempre giovane, fu capace di, nutrire per ambedue eguale amicizia.
E’ privilegio di alcune anime l'esser feconde di caldi affetti
fino all'ultima ora; quello di Domenico fu di non perdere
un'amicizia che per acquistarne delle altre. Ed il vecchio
cardinale Ugolino, destinato a morire quasi centenario sul trono
pontificale, fu dato da Dio a Domenico, affinché lo riponesse
nella tomba, ne celebrasse i funerali colla pietà di un amico, ne
tramandasse ai posteri la memoria, scrivendone il nome, con
infallibilità di pontefice, nell'albo dei Santi. Né questi soli
furono i frutti di cosi nobile amicizia.
Nella casa del Cardinale vi era un giovane
italiano, Guglielmo di Monferrato, venuto a Roma a passarvi le
feste di Pasqua. La figura e i modi di Domenico molto
l'impressionarono e finirono per condurlo a delle risoluzioni,
ch'egli stesso così racconta: «Ecco, sono quasi sedici anni
ch'io venni a Roma per passarvi la quaresima, e fui ospite
dell'attuale Pontefice, allora Vescovo di Ostia. Fra Domenico,
fondatore e Maestro dell'Ordine dei Predicatori, che si trovava
allora presso la corte romana, veniva spesso a trovare il Vescovo
d'Ostia; così ebbi modo di conoscerlo, e tanto mi piacque la sua
conversazione, che presi ad amarlo. Più e più volte parlammo
delle cose riguardanti la nostra salvezza e quella degli altri, e
mi parve di non essermi mai imbattuto in uomo più religioso di
lui, quantunque di santi uomini fin d'allora ne, avessi conosciuti
parecchi; ma nessuno mi era apparso ripieno di tanto zelo per la
salvezza del genere umano. Nello stesso anno andai a Parigi per
studiarvi teologia, dopo aver convenuto fra noi che fra due anni,
terminati io gli studi e lui ultimata la fondazione del suo
Ordine, saremmo andati insieme ad evangelizzare i pagani, che si
trovano nella Persia e nelle regioni del Settentrione» . Così
Domenico si guadagnava ad un tempo il cuore di un vecchio ed il
cuore di un giovane, e non aveva appena ottenuto la conferma del
suo Ordine, che già pensava ad aprirgli lui stesso le porte del
Settentrione e dell'Oriente. La sua anima, quasi a disagio
nell'Europa incivilita, lanciavasi verso i popoli non ancora
illuminati dal cristianesimo; là desiderava di terminar la sua
corsa e di suggellare col martirio il suo apostolato.
Una visione contribuì ad infervorarlo nei suoi
propositi. Mentre un giorno pregava in S. Pietro per la
conservazione e la propagazione del suo Ordine, fu rapito in
estasi, e gli apparvero i due Apostoli Pietro e Paolo: Pietro
nell'atto di offrirgli un bastone, Paolo un libro; ed una voce
ripeté queste parole: «Vai e predica, poiché a questo sei
eletto» ; e nel tempo stesso vide i suoi discepoli diffondersi a
due a due per tutto il mondo ad evangelizzarlo. Da quel giorno
Domenico ebbe il costume di portar sempre con sé le lettere di S.
Paolo ed il Vangelo di S. Matteo; e sia nei suoi viaggi, sia
ancora per le città camminò sempre col bastone in mano.
CAPITOLO IX
Nuova riunione dei Frati Predicatori a
Notre-Dame di Prouille,
e loro diffusione in Europa.
Domenico, partito da Roma dopo le feste di
Pasqua dell'anno 1217, con sollecitudine si riunì ai suoi
fratelli, giunti al numero di sedici: otto francesi, sette
spagnuoli ed uno inglese. Guglielmo Claret, Matteo di Francia,
Bertrando di Garriga, Tommaso, Pietro Cellani, Stefano di Metz,
Natale di Prouille ed Oderico di Normandia erano francesi; ed
insieme ai loro nomi, la storia ci ha conservati anche alcuni
episodi che ritraggono in qualche modo il carattere della maggior
parte di essi.
Guglielmo Claret, nativo di Pamiers, fu uno dei
primi compagni di Domenico. Il Vescovo di Osma al suo partir dalla
Francia, gli affidò il governo temporale della missione in
Linguadoca. Si dice che dopo aver consacrato all'Ordine più di
vent'anni di vita, facesse nuovi voti nell'abazia di Bolbonne fra
i Cistercensi, e s'impegnasse ancora perché il monastero di
Prouille fosse a loro ceduto.
Matteo di Francia aveva passata la sua
giovinezza nelle scuole di Parigi. Il conte di Montfort lo creò
Priore della collegiata di S. Vincenzo di Castres; fu là che fece
conoscenza con Domenico, anzi si dié intieramente a lui, quando
lo vide un giorno in estasi sollevarsi da terra. Matteo fu il
fondatore del famoso convento di S. Giacomo di Parigi, ed il suo
corpo riposa ora nel coro di quella Chiesa, a piè dello stallo da
lui occupato come Priore del monastero.
Bertrando di Garriga, chiamato così dal luogo
di nascita, un piccolo borgo della Linguadoca vicino ad Alais, fu
uomo di straordinaria austerità. Domenico gli consigliò un
giorno di pianger poco i suoi peccati, e molto quelli degli altri:
nell'ultimo suo viaggio in Italia gli confidò ancora il governo
di S. Romano. Bertrando morì nel 1230, e fu sepolto ad Orange in
un monastero di monache. Le sue reliquie operarono miracoli; e
nel. 1427 per ordine del papa Martino V, furono trasferite al
convento dei frati Predicatori della stessa città .
Tommaso era un distinto cittadino di Tolosa,
designato dal B. Giordano di Sassonia per uomo pieno di grazia e
di eloquenza . Si fece discepolo di Domenico l'anno 1215,
contemporaneamente a Pietro Cellani, suo concittadino.
Quest'ultimo, giovane, ricco, onorato, nobile di cuore più ancora
che di natali, offrì, a Domenico in uno stesso giorno e la sua
persona e la sua casa. Fu il fondatore, del convento di Limoges.
La più grande venerazione l'accompagnò fino alla tomba, dove
discese l'anno 1257, dopo avere esercitato in tempi difficilissimi
l'ufficio d' inquisitore a lui affidato da Gregorio IX.
Stefano di Metz fin dall'anno 1213 si trovava
insieme con Domenico a Carcassona; fondò il convento di Metz, da
cui prese la denominazione, che lo distingue nella storia.
Nulla di notevole è rimasto riguardo a Natale
di Prouille.
Oderico di Normandia fu il primo fratello
converso dell'Ordine.
Questi gli elementi francesi della famiglia
Domenicana d'allora. Pochi di numero; ma di un'azione così
operosa ed estesa, da potersi ben dire che la Francia sia stata la
miniera e il crogiuolo donde ne venne fuori l'Ordine dei
Predicatori. Donne francesi formarono sotto la direzione di
Domenico il monastero di Notre-Dame di Prouille, culla
dell'Ordine; due francesi che senza alcuna riserva si affidano a
lui, danno ora principio a S. Romano di Tolosa; Matteo di Francia
fonderà, come vedremo, S. Giacomo di Parigi; ed un altro
francese, ancora a noi sconosciuto, fonderà S. Nicola di Bologna.
Studiando la predestinazione della Francia tal quale ce la
rivelano la sua posizione topografica, il suo genio, la sua
storia, non è difficile comprendere perché volle Iddio che
avesse sì gran parte nella formazione di un Ordine apostolico.
Del popolo francese è stato detto ch'egli è un soldato; meglio
si direbbe ch'egli è un missionario; imperocchè anche la sua
spada è propagandista. Nessuno più della Francia ha contribuito
ad estendere in Occidente il regno di Gesù Cristo, e dal tempo
delle crociate il suo nome nella lingua degli orientali è rimasto
sinonimo di cristiano. Insieme al dono di credere, riceveva nel
battesimo anche quello di amare con eguale potenza; e la sua
posizione geografica in perfetta corrispondenza col suo carattere,
apriva tutti i continenti del mondo alle sue conquiste. La Francia
è un vascello di cui l'Europa è il porto, e che ha gettate le
ancore in tutti i mari. C'è dunque da maravigliarsi se Dio la
elesse ad essere, sotto la mano di Domenico, il principale
strumento di un Ordine destinato ad un'azione universale? Non per
questo però la Spagna fu ingrata verso il più illustre suo
figlio; e quantunque tutta occupata in quella lunga e gloriosa
lotta contro gli antichi dominatori delle sue terre, inviò più
d'un soldato a rafforzare l'esercito Spirituale del suo Gusman,
cioè: Domenico di Segovia, Suero Gomez, il Beato Mannes, Michele
di Fabra, Michele di Uzero, Pietro di Madrid, Giovanni di Navarra.
Domenico di Segovia fu uno dei primi compagni
dell’Apostolo in Linguadoca; Giordano di Sassonia lo chiama uomo
di perfetta umiltà, povero di scienza, ma sublime nella virtù .
Narrasi di lui che visitato in camera da una donna impudica la
quale voleva mettere a prova la sua virtù, coricatosi fra tizzoni
ardenti, rivolgesse alla tentatrice, queste parole: «se mi ami
davvero, questo n'è il luogo e il momento» .
Suero Gomez apparteneva ai più nobili della
corte di Sancio I, re di Portogallo. La notizia della crociata
contro gli Albigesi lo fece partire per la Linguadoca, dove si
arruolò tra i cavalieri della causa cattolica. Ma chiamato da
Dio, conobbe che vi era una milizia anche migliore; abbandonò
allora tutto, per predicare Gesù Cristo colla parola e colla
povertà. Fu il fondatore del convento di Santaren sul Tago, poche
leghe sopra Lisbona: dal re Alfonso II ricevé grandi attestati di
stima; morì nel 1233, onorato da molti storici del titolo di
Santo.
Il Beato Mannes fu fratello di S. Domenico.
Quando e come, prendesse l'abito dell'Ordine, non si sa. Mori
verso il 1230, e fu sepolto a Gumiel d'Izàn, nella tomba dei suoi
antenati .
Michele di Fabra, che fu nell'Ordine il primo
lettore o professore di Teologia, insegnò nel convento di Parigi,
fu predicatore e confessore di Giacomo, re di Aragona; fondò i
conventi spagnoli di Maiorca e di Valenza. Antichi scrittori
lodano molto in lui lo zelo apostolico, i servigi resi, nella
guerra contro i Mori, l’assiduità alla preghiera e alla
contemplazione, ed anche i suoi miracoli. Le sue spoglie furono
prima riposte nella sepoltura comune di Valenza; ma poi il Priore
prodigiosamente avvertito di dar loro più onorevole sepoltura, le
fece trasportare con gran pompa in una cappella del convento
dedicata a San Pietro martire.
Nulla di notevole ci ha trasmesso la tradizione
intorno a Michele di Uzero, e Pietro di Madrid.
Giovanni di Navarra, nato a Saint-Jean-Pied-de
Port, prese l'abito dell'Ordine il giorno della festa di S.
Agostino, 28 agosto 1216. Di tutti i primi compagni di Domenico
questi fu il solo che fece da testimone nel processo della
canonizzazione del S. Padre; dalla sua deposizione rilevasi come
di frequente egli avesse abitato e viaggiato con lui.
L'Inghilterra mischiò anch’essa una goccia
del suo sangue al sangue francese e spagnolo di questa prima
generazione della dinastia domenicana; come se tutti i popoli
marittimi d'Europa avessero dovuto portarle il loro tributo. Il
nome dell'inglese, seguace di Domenico, fu Lorenzo.
Se grande fu la gioia in tutti al ritorno del
padre di famiglia, non fu minore la sorpresa quando intesero
ch'egli tornava colla risoluzione di sbandare immediatamente il
suo gregge, mentre si credevano sicuri di potere stare ancora per
molto tempo insieme raccolti nella santa e studiosa oscurità del
chiostro. E perché rompere l'unità in un corpo assai debole? e
che aspettarsi da pochi uomini sparsi per l'Europa, prima ancora
che rinomanza alcuna del nuovo Ordine li abbia preceduti?
L'Arcivescovo di Narbona, il Vescovo di Tolosa, il conte di
Montfort, tutti insomma cui stava a cuore la nascente istituzione,
scongiuravano Domenico che per un desiderio prematuro di far del
bene, non volesse compromettere tutto l'avvenire. Ma egli
tranquillo ed irremovibile nel, suo disegno: «Miei signori e
padri, rispondeva, non vi oponete a ciò, perché so bene quello
che faccio» . Stava a lui dinanzi la visione avuta nella basilica
di San Piero, e sentiva come risuonargli all'orecchio quelle
parole dei due apostoli: «Va e predica»; ed un altro indizio
l'aveva anche ritratto dalla ruina imminente del conte di Montfort.
Aveva visto in sogno un albero che coi grandi suoi rami copriva la
terra e prestava rifugio agli uccelli del cielo; quando ad un
colpo inaspettato ecco l'albero a terra, e dispersi coloro che
alla sua ombra avevan cercato asilo. Allorché tali misteriosi
presagi vengono da Dio, da lui ne viene pure la luce, che ne
scopre il significato. Domenico comprese che Montfort era l'albero
la cui caduta avrebbe dileguate le speranze dei cattolici, e che
sarebbe stato imprudenza fabbricare sopra un sepolcro. Oltredichè
un'altra altissima considerazione si aggiungeva a questa
rivelazione, per distoglierlo dal consiglio de' suoi amici.
L'apostolo, egli pensava, si forma più nell'azione che nella
contemplazione; ed il mezzo più sicuro per dare incremento al
nuovo Ordine è di piantarlo arditamente proprio là, dove lo
spirito umano è più agitato. E ne dava lui stesso ragione ai
suoi discepoli con una figura bella, non men che ingegnosa: «Il
grano, diceva loro, dà frutto se vien seminato; ammucchiato si
guasta» .
Tre città governavano allora l'Europa. Roma,
Parigi, Bologna: Roma col Pontefice, Parigi e Bologna colle loro
Università, convegno della gioventù di tutte le nazioni. Queste
elesse Domenico a capitali del suo Ordine, per averne ben presto
schiere di apostoli. Non poteva però dimenticare la sua patria,
per quanto estranea in quel tempo al movimento generale d'Europa;
né abbandonare la Linguadoca, a cui avea consacrate le primizie
delle sue fatiche. Sedici uomini adunque gli parvero sufficienti
per conservare Prouille e Tolosa; per occupare Roma, Parigi,
Bologna e la Spagna. Né i suoi progetti erano con questo
esauriti, ma aspirava ancora, come abbiam detto, ad evangelizzare
gl'infedeli d'oltremare: e già si lasciava crescer la barba
all'uso orientale, per esser pronto alla prima occasione; anzi, in
vista di ciò, aveva espresso il desiderio che i suoi fratelli
eleggessero canonicamente chi fra loro lo surrogasse alla
partenza. Questo il suo piano; e dopo gustato per un momento il
piacere di vivere in mezzo a' suoi, li convocò tutti nel
monastero di Prouille per la prossima festa dell'Assunzione.
Gran gente era accorsa a Prouille in quel
giorno; alcuni attirati dall'antica devozione per quel santuario,
altri dalla curiosità; l'affezione poi e un devoto sentimento ci
aveva condotti vari vescovi e cavalieri, e lo stesso conte di
Montfort. Domenico offrì il Santo Sacrificio su quell'altare
tante volte testimone delle sue lagrime segrete; lì ricevette i
voti solenni de' suoi fratelli, fino allora a lui legati solo
dalla costanza del loro volere o da voti semplici unicamente; e
avanti di terminare il discorso indirizzato loro, rivoltosi al
popolo, uscì in queste parole: «Sono già molti anni che io
v'esorto dolcemente, predicando, piangendo, pregando, ma invano;
v'è però nel mio paese un proverbio che dice: dove non può più
nulla la benedizione, il bastone può ancora qualche cosa. Ecco
che noi susciteremo contro di voi prelati e principi; essi
armeranno contro questo paese nazioni e regni; e molti periranno
di spada, e le terre si faran deserte, e le mura abbattute, e voi
tutti, oh dolore! ridotti in schiavitù. Per tal modo il bastone
otterrà qualche cosa, dove la benedizione e la dolcezza nulla
valsero ad ottenere». Questo addio di Domenico alla terra ingrata
che per dodici anni aveva irrigato co' suoi sudori, sembra un
testamento diretto contro coloro che avrebbero un giorno profanata
la sua memoria, e determina per sempre il carattere del suo
apostolato, di cui tutta la forza era riposta nella dolcezza,
nella predicazione, nella preghiera e nelle lacrime. La profetica
minaccia che vi è contenuta, ricorda nel suo stile il celebre
lamento di Gesù Cristo sopra Gerusalemme: Oh se conoscessi
anche tu, e proprio in questo giorno, quel che giova alla tua
pace! Ora invece son cose celate ai tuoi occhi. Ché verranno per
te giorni, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, e t’attornieranno,
e ti stringeranno per ogni parte, e distruggeranno te e i tuoi
figlioli con te, e non lasceranno in te pietra su pietra; perché
non conoscesti il tempo della tua visita (Lc 19, 42-44). Né
Domenico disse che lui stesso in persona avrebbe sollevato
principi e prelati; ma non disgiungendo se stesso dal rimanente
della cristianità, in generale e a nome di tutti usci in quelle
parole: «Ecco che noi vi susciteremo contro principi e popoli!».
Domenico, estraneo a tutto ciò che si commise in guerra o in
difesa della giustizia, e gemente sulle sventure avvenire, si
avanza incontaminato dal sangue; lascia la Francia, e con essa il
teatro delle sommosse e delle guerre; si fa fondatore di conventi
in Italia, in Francia ed in Spagna; e col bastone da viaggiatore
in mano, col sacco da pellegrino sulle spalle, spende in queste
pacifiche creazioni quel che gli resta di una vita omai logora dal
sacrificio.
Compiuta la pubblica cerimonia, Domenico
manifestò al fratelli le sue intenzioni riguardo a ciascuno di
loro; cioè, che Guglielmo di Claret e Natale di Prouille
sarebbero rimasti nel monastero di Notre-Dame di Prouille; Tommaso
e Pietro Cellani in quello di S. Romano di Tolosa; Domenico di
Regovia, Suero Gomez, Michele d'Uzero e Pietro di Madrid
partirebbero per la Spagna; per Parigi poi sarebbero destinati i
tre Francesi, Matteo di Francia, Bertrando di Garriga e Oderico di
Normandia, i tre spagnoli, Michele di Fabra, Giovanni di Navarra
ed il Beato Mannes, più l'inglese Lorenzo. Domenico per la
fondazione dei conventi di Roma e di Bologna non si riservava che
il solo Stefano di Metz.
Prima di separarsi, essi elessero Matteo di
Francia Abate, vale a dire superiore generale dell'Ordine, sotto
la suprema autorità di Domenico. Questo titolo che ritraeva
qualche cosa di grande, per il sommo onore in cui erano tenuti i
capi di Ordini nelle antiche religioni, non fu ammesso che questa
sola volta, e sparì per sempre colla persona di Matteo di
Francia. Fu stabilito che si chiamasse col nome più umile di
Maestro chi fosse elevato al governo generale dei Frati
Predicatori.
Questo dividersi il mondo fra pochissimi uomini
ha già dello straordinario; ma lo è ancor più per le
circostanze. I nuovi, apostoli partono a piedi, senza danaro,
privi di ogni umana risorsa, e con la missione non solo di
predicare, ma di fondar conventi. Uno solo fra tutti, Giovanni di
Navarra, ricusa di mettersi in viaggio a tali condizioni, e chiede
danaro. Domenico a vedere un frate Predicatore che pel suo
sostentamento non sa affidarsi alla Provvidenza, piangente si
getta al piedi di quel figlio di poca fede; pur non riuscendo a
persuaderlo di confidar tutto nel Signore, gli fa consegnare
dodici danari.
Quando tutte queste cose furono compiute, il 13
settembre 1217, quattro anni precisi dalla battaglia di Muret, il
vecchio conte Raimondo rientrava in Tolosa. L'opera dell'abate di
Citaux era stata distrutta, ultimata quella di Dio.
CAPITOLO X
Quarto viaggio di S. Domenico a Roma
Fondazione dei conventi di S. Sisto e
di S. Sabina
Miracoli che accompagnarono queste due
fondazioni
Inviati qua e là i suoi frati, Domenico rimase
ancora per qualche tempo nella Linguadoca. Ne abbiamo la prova in
un trattato da lui conchiuso il dì 11 del seguente settembre, a
proposito delle decime già accordategli da Folco. Trattavasi di
sapere fina a qual punto si estendesse tal diritto; e fu convenuto
che ne fossero escluse quelle parrocchie che contassero meno di
dieci famiglie; di più furono eletti alcuni arbitri per comporre
tutte le difficoltà che in avvenire fossero potute nascere. Ciò
fatto, Domenico con un solo compagno, Stefano di Metz, riprese a
piedi, com'era suo uso, la via delle Alpi. La storia lo perde di
vista fino a Milano, dove lo ritrova alle porte della collegiata
di S. Nazario a chiedere ospitalità a quei canonici; i quali, in
grazia dell'abito che indossava, lo ricevettero come uno dei loro.
Giunto a Roma, sua prima cura fu di cercare un
luogo adatto per la fondazione di un convento. Ai piedi del monte
Celio dalla parte di mezzogiorno, lungo la via Appia e di fronte
alle rovine gigantesche delle terme di Caracalla, sorgeva,
un'antica chiesa dedicata a S. Sisto II, Papa e martire, dove
altri cinque papi e martiri come lui gli stavano accanto nella
stessa tomba. A un lato della chiesa rifatta da poco, eravi un
convento quasi interamente costruito; però il silenzio profondo
che regnava intorno alla chiesa ed al convento, facea contrasto
coi recenti lavori, di cui per tutto apparivano segni manifesti:
chiaro indizio che inaspettato avvenimento avea interrotto
l'esecuzione di un qualche bel progetto. Ed in verità per la
morte d'Innocenzo III era stata sospesa la restaurazione di quel
celebre ed antico luogo, destinato dal Papa a raccogliere sotto
una medesima regola varie religiose, che vivevano in Roma con
troppa libertà. Domenico, che ignorava tutto questo, si affrettò
a chiedere al Pontefice chiesa e monastero; ed Onorio III a viva
voce glie li cedè.
In tre o quattro mesi Domenico potè riunire in
San Sisto non meno di cento religiosi; ed una rapida e prodigiosa
fecondità successe a quella lentezza, che parve fino allora
regolare i di lui destini. Quest'uomo, che non avea cominciato la
sua vera carriera che a trentacinque anni, dopo averne spesi altri
dodici a formare soli sedici discepoli, se li vede al fine
prostrarsi a’ suoi piedi con quell'abbondanza con cui le spighe
mature cadono sotto la falce, del mietitore. Né c'è da stupirne.
E’ legge di natura come di grazia che una forza lungamente
compressa, rotti i legami e le resistenze, dia fuori con impeto.
Così in tutti gli avvenimenti c'è un punto di maturità che ne
rende il successo prontissimo, non meno che inevitabile. San Sisto
posto sulla strada che percorrevano in altri tempi i trionfatori
romani per salire al Campidoglio, pel corso di un anno fu
spettatore di scene assai più meravigliose degli spettacoli a cui
i generali di Roma aveano accostumata la via Appia. In nessun
altro luogo o tempo Domenico dié meglio a conoscere l'autorità
da Dio conferitagli sulle anime; e mai la natura l'obbedì con
più rispettosa sudditanza. Siamo al momento più solenne della
sua vita.
Bisognò da principio condurre a termine il
monastero. In questo frattempo Domenico riprese il corso delle sue
predicazioni nelle chiese, e delle solite istruzioni nel palazzo
del Papa: ed ogni giorno colla sua eloquenza riusciva a guadagnare
qualche nuovo discepolo per popolare quanto prima la parte
abitabile del convento. Uscito la mattina col suo solito bastone,
la sera ritornava con la preda, e l'edificio spirituale di S.
Sisto progrediva così di pari passo con quello materiale. Il
demonio, geloso di così felici risultati, si provò a turbarne la
gioia. Un giorno, mentre i frati accompagnavano l'architetto sotto
una volta per sentire se era da restaurarsi o da abbattersi, la
volta cadde e seppellì l'architetto tra le macerie. Fu immensa la
desolazione dei frati radunati intorno alle macerie che
ricoprivano il corpo di quell'infelice, tutti timorosi per l'anima
di lui, forse colto in cattivo punto, e per le male voci che si
sarebbero levate nel volgo; né, cosi costernati, sapevano più
che fare. Ma ecco che arriva Domenico, e fatto trar fuori dai
sassi quel corpo frantumato, lo fa portare dinanzi a sé, rivolge
una preghiera a Colui che ha promesso di nulla negare alla fede; e
la vita obbediente alla di lui preghiera, rianima quelle membra
sanguinanti, che stavano lì dinanzi.
Un'altra volta Giacomo di Melle era malato
tanto gravemente che gli erano stati amministrati tutti i
Sacramenti. I frati raccolti intorno al suo letto cercavano colle
preghiere di aiutare quell'anima al gran passo, dolenti al sommo
di perdere un uomo, pel momento quasi necessario, non trovandosi
fra loro altri, che in Roma fosse come lui conosciuto. Domenico, a
tanta ambascia de' suoi figliuoli, ordinò che lo lasciassero solo
nella camera, e chiusa la porta, si mise a pregare così
fervorosamente che valse a trattenere la vita sulle labbra di quel
morente.
L'ufficio di procuratore di cui era rivestito
Giacomo di Melle, era ordinato a provvedere coll'aiuto della
Provvidenza ai bisogni temporali di S. Sisto, privo affatto di
rendite, e che si manteneva colle elemosine giornaliere raccolte
dai frati di porta in porta. Una mattina Giacomo di Melle fece
sapere a Domenico che non vi era pel desinare che due o tre pani.
Parve che Domenico godesse di tal notizia; ed ordinò al
procuratore che di quel poco di pane ne facesse quaranta pezzetti,
quanti erano i religiosi, suonando alla solita ora la mensa.
Entrati i frati in refettorio, ciascuno non si trovò davanti che
un piccolissimo boccone di pane; pure recitate le preghiere quasi
con maggior fervore del solito, si posero a mensa. Domenico,
seduto alla tavola priorale, stava col cuore rapito in Dio.
Quand'ecco che due giovani vestiti di bianco entrano nel
refettorio, ed avanzandosi fino alla tavola dov'era Domenico,
depositano i pani che avevano dentro i loro mantelli.
Lo stesso miracolo accadde ancora un'altra
volta; e fu accompagnato da tali circostanze, che merita sentirlo
raccontare dalla bocca stessa dell'antichità. «Quando i frati
abitavano ancora a S. Sisto, ed erano quasi in numero di cento, un
giorno il B. Domenico comandò a fra Giovanni di Calabria ed a fra
Alberto Romano di andare per la città a raccogliere elemosine.
Girarono, ma sempre indarno, dalla mattina fino all'ora di terza.
Ripresa perciò la via del convento, erano già presso la Chiesa
di S. Anastasia, quando una donna molto affezionata all'Ordine,
visto che non riportavano a casa niente, diede loro un pane,
dicendo: - Non voglio che ve ne torniate al convento del tutto a
mani vuote. - Poco però si erano da lei allontanati, che si
avvicinò loro un uomo, chiedendo istantemente un po' di carità.
Si scusarono sulle prime di non potergli dar nulla, non avendo
niente neppur per loro; ma quegli insisteva sempre più, ed essi
rivoltisi l'un l'altro: - A che ci serve, dissero, un pane?
diamolo a lui per amor di Dio. E glielo dettero; e subito lo
persero di vista. Al rientrare in convento, il pietoso Padre, a
cui lo Spirito Santo aveva tutto rivelato, si fece loro incontro
con volto tutto lieto e sereno, dicendo: - Figlioli, non avete
riportato nulla? - No, padre. - E gli raccontarono ciò che era
loro accaduto, e del pane donato al mendico. - Quel povero era un
angelo del Signore, riprese il Santo, e il Signore saprà ben e
come provvedere ai suoi figliuoli; andiamo a pregare. - Ed andò
in chiesa. Uscitone poco dopo, disse ai fratelli conversi di
chiamare la comunità a refettorio. Questi risposero: - Ma, padre
santo, come volete che chiamiamo i religiosi, se non c'è nulla da
mangiare? - Ed indugiavano a bella posta ad eseguir l'ordine
ricevuto. Allora il beato padre fece chiamare fra Ruggero, il
dispensiere, e gli comandò di riunire i frati pel desinare, ché
il Signore avrebbe provveduto ai loro bisogni. Si stesero adunque
le tovaglie, si apparecchiò, e, dato il segno, tutta la comunità
entrò in refettorio. Il beato padre benedì la mensa, e tutti si
sedettero. Fra Enrico Romano, cominciò la lettura. Il beato
Domenico intanto, con le mani giunte poggiate sopra la tavola,
pregava. Ed ecco comparire nel mezzo del refettorio, com'egli per
ispirazione dello Spirito Santo avea promesso, due bellissimi
giovani, ministri della divina Provvidenza, i quali portavano pani
in due candide tovaglie, che pendevano dalle loro spalle davanti e
di dietro. Cominciando dalle file inferiori, uno a destra e
l'altro a sinistra, posero davanti ad ogni frate un pane di
ammirabile bellezza. Giunti dinanzi al beato Domenico, dopo di
aver posto anche davanti a lui un pane intiero, chinarono la
testa e disparvero, senza che nessuno sino a
questo giorno abbia saputo donde fossero venuti e dove se ne
ritornassero. Il beato Domenico disse allora ai fratelli: - Miei
fratelli, mangiate il pane, che il Signore vi ha mandato. - Poi
rivolto a quelli che servivano, ordinò loro di portare un po' di
vino. Ma essi risposero: - Padre santo, non ce n'è. - Allora il
beato Domenico, ripieno dello spirito di profezia, replicò: -
Andate alla botte e attingete pei frati il vino che il Signore ha
mandato loro. - Andarono e trovarono la botte piena di vino
eccellente, che si affrettarono di portare in tavola. Ed il beato
Domenico disse: - Bevete, miei fratelli, il vino che il Signore vi
ha mandato. - Mangiarono adunque e bevvero a loro piacimento, sia
quel giorno, che il seguente ed il terzo ancora. Ma dopo la
refezione del terzo giorno Domenico ordinò che il rimanente del
pane e del vino fosse distribuito ai poveri, né permise che se ne
ritenesse punto in casa. Durante quei tre giorni nessuno andò a
cercare l'elemosina, avendo Dio mandato pane e vino in abbondanza.
Quindi il beato padre fece un bel discorso ai frati, esortandoli a
non diffidar mai della divina Provvidenza, neppure nelle
strettezze più estreme. Fra Tancredi, priore del convento, fra
Ottone e fra Enrico di Roma, fra Lorenzo d'Inghilterra. fra
Gaudione, fra Giovanni Romano, e molti altri si trovarono presenti
a questo miracolo, e lo riferirono a Suor Cecilia ed alle altre
Suore, che ancora abitavano sempre a S. Maria in Trastevere, e
portarono loro anche un po' di quel pane e di quel vino, che esse
conservarono per lungo tempo come preziose reliquie.
«Fra Alberto mandato dal beato Domenico con un
compagno a cercare l'elemosina, fu uno di quei due, di cui il
Santo predisse a Roma la morte. L'altro fu fra Gregorio, uomo di
bellissime sembianze e pieno di grazia, il quale per primo, se ne
volò al Signore, dopo ricevuti devotamente i santi Sacramenti.
Tre giorni dopo anche Alberto, ricevuti con egual pietà i
Sacramenti, passò da questo carcere tenebroso, alla splendida
magione dei cieli» .
Quest'ingenuo racconto ci fa penetrare
nell'intimo della famiglia di S. Sisto, e meglio di ogni altra
descrizione ci riporta ai primitivi tempi dell'Ordine. Si vede
come senza oro né argento sorgessero popolosi monasteri, come la
fede supplisse ai beni di fortuna, e quale squisita semplicità
fosse in quegli uomini, sebbene la maggior parte di essi avesser
abitato sontuosi palazzi. Il Tancredi, ad esempio, priore di S.
Sisto, era cavaliere di nascita, ed avea occupato onorifico
ufficio nella corte dell'imperatore Federico II. Si trovava egli a
Bologna sul principio dell'anno 1218, quando Domenico, come
vedremo a suo luogo, inviò colà alcuni suoi frati; ed un giorno,
senza sapere neppur lui il perché, si mise a considerare il
pericolo che correva la sua eterna salute. Turbato da questo
subito pensiero, rivolse una preghiera alla Santissima Vergine; e
la notte seguente apparsagli in sogno la Madonna, gli disse:
«Entra nel mio Ordine». Tancredi si svegliò in quel momento, e
poi riprese sonno. In questo secondo sonno vide due uomini
rivestiti dell'abito dei Frati Predicatori, uno dei quali vecchio,
che così gli disse: «Tu domandi alla Santissima Vergine che
t'indirizzi nella via della salute; vieni con noi e sarai salvo»
. Ma egli, che non conosceva affatto l'abito di quei religiosi,
credé tutto un'illusione. Al mattino alzatosi, pregò
l'albergatore che lo conducesse ad una chiesa per ascoltare la
Messa. L'albergatore lo condusse ad una piccola chiesa detta Santa
Maria di Mascarella, da poco tempo affidata ai Frati Predicatori.
Appena entrato, Tancredi s'imbatté in due frati, tra cui
riconobbe subito quel vecchio apparsogli in sogno. Assestati
allora i suoi affari, prese senz'altro l’abito dell'Ordine, ed
andò a Roma a raggiunger Domenico.
Fra Enrico, di cui è fatta menzione nel
racconto di Suor Cecilia, era un nobile giovane romano. I suoi
parenti, indignati di vederlo frate, aveano deliberato di
strapparlo via dal convento; ma saputolo Domenico, fece partir
subito dal convento, prendendo, per via Nomentana, il giovane con
alcuni compagni. I parenti lo inseguirono e lo raggiunsero alle
sponde dell'Aniene, quando aveva già passato il fiume. Vedendosi
sul punto di cadere nelle loro mani, Enrico alzò il cuore a Dio,
invocandone protezione pei meriti del suo servo Domenico; ed ecco
che le acque del fiume gonfiarono a vista d'occhio, rendendo così
impossibile ai cavalieri di raggiungere l'altra riva. Questi
allora si ritirarono, ed Enrico poté tornare tranquillamente a S.
Sisto.
Fra Lorenzo d'Inghilterra, testimonio anch'esso
del miracolo dei pani, era quel medesimo inviato da Domenico a
Parigi al momento della dispersione dei frati nelle varie regioni,
ritornato da poco insieme a Giovanni di Navarra. Anche due altri
frati, Domenico di Segovia e Michele di Uzero erano tornati dalla
Spagna senza aver riportato alcun frutto.
Frattanto Onorio III avea ripreso il progetto
del suo predecessore, di riunire cioè in un solo monastero e
sotto la medesima regola alcune religiose sparse in diverse case
di Roma; e ne fece parola a Domenico, siccome l'uomo più adatto
per una impresa così delicata. Domenico ben volentieri accettò
la proposta del Pontefice, tanto più che vedeva in ciò un mezzo
di riportare S. Sisto alla sua primitiva destinazione, fondandovi
un monastero di Religiose Domenicane sul modello di Notre-Dame di
Prouille. Solamente domandò al Papa la cooperazione di alcuni
Cardinali, i quali supplissero colla loro autorità alla sua
pochezza. Ed il Papa ne designò tre: Ugolino, vescovo di Ostia;
Stefano di Fossanova, del titolo dei Santi Apostoli; e Niccolò,
vescovo Tusculano. In cambio poi di S. Sisto, Onorio donò a
Domenico la chiesa di S. Sabina sul monte Aventino, ed una parte
del proprio palazzo, che si trovava a fianco della chiesa. Si
incominciarono adunque le necessarie modificazioni: a S. Sisto per
ricevervi le suore, a S. Sabina per trasferirvi i frati.
Per quanto Domenico fosse preoccupato da questo
duplice impegno, pur tuttavia continuava le sue predicazioni. Un
giorno che doveva predicare in San Marco, una donna abbandonò
tutto, anche il figlioletto malato, per andare ad ascoltarlo.
Tornata dopo predica a casa, trovò il bambino morto. La sua
speranza non fu allora meno viva del suo dolore; e dato in braccio
alla donna di casa il bambino, senza neppur prender tempo per
versare una lacrima, vaa San Sisto. Chi dalla via Appia entra nel
cortile di S. Sisto, trova a sinistra la chiesa ed il monastero, e
dinanzi a sé la porta di una stanza bassa ed isolata, chiamata il
Capitolo. Domenico era ritto sulla porta del Capitolo quando la
desolata madre entrò nel cortile. Corse essa difilato verso di
lui, gli pose ai piedi l'esanime corpicino e con sguardi e con
preghiere scongiurò il Santo a ridonargli il figliolo. Domenico
si ritirò per un momento dentro il Capitolo, poi ritornò sulla
porta, e fatto il segno della croce sul fanciullo si chinò, lo
prese per mano, lo alzò e lo rese sano e salvo alla madre,
ordinandolo di non dire nulla a nessuno dell'accaduto. Ma che?
subito se ne sparse la notizia per tutta Roma; il Papa avrebbe
anzi voluto che il miracolo fosse pubblicato dai pulpiti in tutte
le chiese, se Domenico non si fosse opposto, fino a minacciare di
lasciar Roma per sempre e recarsi fra gl'infedeli. Ciò nonostante
la cosa suscitò gran rumore, e la venerazione per Domenico giunse
al sommo. Dovunque egli compariva, e nobili e popolani si
affollavano intorno a lui siccome ad un angiolo di Dio; e chi
poteva giungere a toccarlo si credeva al sommo della felicità.
Tagliavano persino i lembi del suo mantello per farne reliquie;
tanto che lo ridussero in modo, che gli copriva appena le
ginocchia. Qualche volta i frati impedivano che gli tagliuzzassero
così le vesti; ed egli allora: «Lasciateli fare; lo fanno per
devozione» . Del miracolo or ora riferito furono testimoni fra
Tancredi, fra Oddone, fra Enrico, fra Gregorio, fra Alberto e
molti altri ancora.
Per quanto però la santità di Domenico fosse
manifesta, neppure lui riusciva a vincere tutte le difficoltà,
che insorgevano contro la riunione a S. Sisto delle religiose
sparse per Roma, non volendo affatto la maggior parte di esse
rinunziare alla libertà, fino allora goduta, di potere uscire dal
monastero e di visitare i parenti. Ma Dio venne in aiuto al suo
servo. Eravi allora in Roma un monastero di donzelle, chiamato,
dal luogo dove si trovava, S. Maria in Trastevere. In esso si
conservava un'immagine della Santissima Vergine, di quelle che la
tradizione attribuisce al pennello di S. Luca: immagine celebre
assai e venerata dal popolo, perché, portata in processione per
la città dal pontefice S. Gregorio, l'aveva liberata dal flagello
della peste, ed ancora perché si riteneva che, trasportata dal
papa Sergio III nella basilica di San Giovanni in Laterano, da se
stessa fosse tornata alla sua antica dimora. La badessa di detto
monastero adunque e tutte le altre monache, una sola eccettuata,
si offrirono volontariamente a Domenico, e nelle sue mani fecero
professione di ubbidienza ad un'unica condizione, che avessero
potuto portare con loro l'immagine della SS. Vergine; che se
l'immagine da se medesima avesse poi lasciato S. Sisto per tornare
alla sua chiesa primitiva, anche il loro voto di ubbidienza
sarebbe stato nullo. Domenico accettò la condizione, e con
l'autorità che gli era stata conferita, proibì loro di mai più
oltrepassare la soglia del monastero. Queste religiose
appartenevano alle prime famiglie della nobiltà romana. Onde
saputosi dai parenti che esse si erano obbligate a quella riforma,
furono subito a S. Maria per dissuaderle da quanto avevano
promesso, tacciando Domenico, acciecati com'erano dalla passione,
di uomo sconosciuto ed avventuriero. I loro discorsi intiepidirono
l'ardore delle religiose, talchè molte si pentirono del voto
emesso. Domenico internamente avvertito di ciò, si recò una
mattina a, visitarle, e dopo celebrata la Messa, alla fine di un
discorso, soggiunse: «Io so, mie figliole, che voi provate
rammarico della vostra risoluzione, e che volete camminare fuori
della via tracciatavi dal Signore. Solo quelle allora che sono
ancora fedeli, facciano di nuovo la professione nelle mie mani» .
Tutte, la badessa a capo, rinnovarono insieme l'atto che le
spogliava della loro libertà. Domenico prese allora le chiavi del
monastero, e vi pose a guardia alcuni fratelli conversi, i quali
giorno e notte invigilassero, con proibizione alle Suore di
parlare a chicchessia senza testimoni.
Giunte le cose a questo punto, i cardinali
Ugolino, Stefano di Fossanova. e Niccolò, si riunirono a San
Sisto il giorno delle Ceneri dell'anno 1228, cioè il 28 febbraio,
cadendo in quell'anno la Pasqua ai 15 di aprile. Anche la badessa
di S. Maria in Trastevere vi si era recata con le sue monache per
dimettersi solennemente dal suo ufficio, e cedere a Domenico ed ai
frati tutti i diritti del monastero. «Mentre adunque il beato
Domenico stava seduto coi cardinali, presenti la badessa e le sue
figlie, ecco che entra un uomo, strappandosi i capelli e gridando
disperatamente. - Che c'è, che c'è? gli fu domandato. - Il
nipote di Monsignore Stefano, rispose, è caduto da cavallo, ed è
morto! - Il giovane si chiamava Napoleone. A tal notizia lo zio,
venuto meno, si abbandonò sul petto del beato Domenico. Ne tu
tosto sollevato; ed il beato Domenico, alzatosi, lo spruzzò di
acqua benedetta: lasciatolo quindi fra le braccia degli altri,
egli corse sul luogo dove giaceva il corpo del giovane, tutto
calpestato e orribilmente malconcio. Ordinò il Santo che fosse
trasportato subito in una camera Separata; intanto fra Tancredi e
gli altri frati preparassero per la Messa. Il beato Domenico, i
cardinali, i frati, la badessa, le monache si portarono allora al
luogo dov'era l'altare, ed il beato Domenico celebrò la Messa,
commosso fino alle lacrime. Giunto all'elevazione del corpo del
Signore, tenendolo, come suol farsi, in alto, egli medesimo
apparve alzato da terra di un cubito, e tutti, lo videro e ne
rimasero dallo stupore. Terminata la Messa, i cardinali, la
badessa, le monache, tutti insomma i presenti, ritornarono dov'era
il corpo del morto, e Domenico, accostatosi al cadavere, colle sue
santissimo mani ne ricompose le membra, poi si prostrò a terra
pregando fervidamente e piangendo. Per tre volte mise le sue mani
su quel corpo esanime, e per tre volte si prostrò. Alzatosi la
terza volta, fece il segno della croce sul defunto, e stando ritto
dalla parte dove questi aveva la testa, con le mani levate al
cielo e col corpo alzato da terra più d'un cubito, gridò al alta
voce: - O giovane Napoleone, io ti dico nel Nome di Nostro Signor
Gesù Cristo: alzati. - E d'un tratto, alla vista di tutti gli
accorsi alla notizia di così grave disgrazia, il giovane si alzò
sano e salvo, dicendo al beato Domenico: Padre, datemi da
mangiare. - Il beato Domenico gli dié da mangiare e da bere, e lo
rese festante allo zio cardinale, senza che rimanesse traccia di
alcuna ferita» .
Quattro giorni dopo, cioè la prima domenica di
quaresima, le monache di S. Maria in Trastevere, quelle di S.
Bibiana e di altri monasteri, con alcune altre donne secolari, in
tutte quarantaquattro, entrarono in S. Sisto. Fra esse c'era anche
Suor Cecilia, di anni diciassette, monaca di S. Maria in
Trastevere; quella Suor Cecilia, alla quale siam debitori di
averci fatto conoscere i principali tratti della vita del santo
Patriarca nel tempo di cui ora parliamo. Ce li ha conservati in
una memoria fatta scrivere sotto sua dettatura, vero capolavoro di
narrazione per semplicità e verità .
La notte del giorno stesso in cui le monache
fecero l’ingresso in S. Sisto, vi fu trasferita anche l'immagine
di S. Maria in Trastevere. Si preferì la notte, perché i romani
si opponevano a questa traslazione. Domenico, accompagnato dai
cardinali Stefano e Niccolò, e da molta altra gente che lo
precedeva e seguiva con in mano fiaccole accese, portava
l'immagine sulle proprie spalle. Erano tutti scalzi. Le monache,
anch'esse a piedi nudi, aspettarono in orazione l'immagine a S.
Sisto, dove felicemente fu collocata.
Tutti questi fatti, compreso il viaggio dalla
Francia a Roma, avvennero nello spazio di soli cinque o sei mesi,
cioè dall'11 settembre 1217 al principio del marzo dell'anno
seguente. E nonostante tali e tante occupazioni, Domenico trovava
ancor tempo per altre particolari opere di carità.
Recavasi spesso a visitare le murate, donne che
volontariamente si chiudevano fra anguste mura per non uscirne mai
più. Ve n'erano in diverse parti della città, nelle deserte
pendici del monte Palatino, nel fondo delle vecchie torri da
guerra, fra gli archi degli acquedotti, sentinelle dell'eternità,
collocate fra le rovine. Domenico sul tramontar del giorno le
visitava, pensava sempre a mettere in serbo un po' di forza per
recarsi fino a loro; e dopo aver predicato in mezzo alla folla,
andava a predicare nella solitudine. Una di queste murate, di nome
Lucia, che abitava dietro la chiesa di S. Anastasia, sulla via di
S. Sisto, aveva un braccio corroso fino all'osso da un male
crudele. Domenico la sanò una sera con una semplice benedizione.
Un'altra, il cui petto era pasto ai vermi, stava chiusa in una
torre, vicino alla porta di S. Giovanni in Laterano. Domenico
l'andava a confessare, e di tanto in tanto le portava la Santa
Comunione. Una volta la richiese di fargli vedere uno di quei
vermi che la tormentavano, e che lei con grande amore custodiva
nel seno, quasi ospiti inviati dalla Provvidenza. Bona, così
chiamavasi, accondiscese al desiderio di Domenico. Ma nella mano
del Taumaturgo il verme si cangiò in una pietra preziosa, ed il
petto di Bona tornò mondo, siccome quello di un fanciullo.
Domenico era allora nella pienezza della
maturità. Il suo corpo, la sua anima avevano raggiunto quello
stadio della vita, in cui la vecchiezza non è ancora che
perfezione e grazia del vigore. Giusto di statura e magro nella
persona, aveva un bel viso leggermente colorito di sangue, begli
occhi, e capelli e barba di un biondo piuttosto acceso. Sulla
fronte e fra le sopracciglia appariva come un chiaro splendore,
che gli attirava rispetto ed ammirazione. Era sempre lieto e
piacevole, quando le afflizioni del prossimo non lo muovevano a
compassione. «Le mani aveva lunghe e belle; la voce maestosa e
sonora; mai fu calvo, e la religiosa corona dei suoi capelli
restò sempre intiera, seminata solo da qualche capello bianco» .
Così ce lo dipinge Suor Cecilia, che lo
conobbe nei più bei tempi di S. Sisto e di S. Sabina.
CAPITOLO XI
Soggiorno di S. Domenico a S. Sabina.
S. Gia cinto ed il B. Ceslao entrano
nell'Ordine
Miracolosa unzione fatta dalla Vergine
Santissima sul B. Reginaldo.
I frati, dopo lasciato S. Sisto, abitarono
presso la Chiesa di S. Sabina, sull'Aventino. Secondo una vecchia
epigrafe la fondazione di S. Sabina rimonterebbe al principio del
quinto secolo, sotto il pontificato di Celestino I, per cura di un
prete dell’Illiria chiamato Pietro. Le sue mura si elevano sulla
parte più alta e più scoscesa del monte, al di sopra di una
stretta riva, dove il Tevere, allontanandosi da Roma, mormora
frangendo le onde negli avanzi del ponte difeso da Orazio Coclite
contro Porsenna. Due ordini di colonne antiche sorreggenti il
tetto a travatura, dividono la chiesa in tre navate, terminata
ciascuna ,da un altare. E’la primitiva forma basilicale in tutto
lo splendore della sua semplicità. Le ossa di S. Sabina, morta
per Gesù Cristo ai tempi di Adriano, con le reliquie preziose di
altri martiri, riposano sotto l'altare maggiore, presso il luogo
del martirio della Santa, per quanto la tradizione ha potuto farlo
conoscere.
Il palazzo Sabelli, abitato da Onorio III, era
contiguo alla chiesa di S. Sabina; e di lassù fu spedita la bolla
di approvazione dell'Ordine dei Frati Predicatori. Dalle finestre
di questo palazzo, di cui una parte fu ceduta a Domenico, l’occhio
spaziava liberamente sul centro di Roma, fino a riposarsi sulla
colline del Vaticano.
Due vie scoscese e tortuose conducono alla
città; una che va a riuscire al Tevere, l'altra ad un angolo del
monte Palatino, presso la chiesa di S. Anastasia. Per quest'ultima
Domenico andava da S. Sabina a S. Sisto; e per più di sei mesi
quasi, ogni giorno discese e risalì quell'orta, per portare da un
convento all'altro l'ardore della sua carità; talché nessun
sentiero della terra conserva meglio l'impronta de' suoi passi.
Il viaggiatore che entri in S. Sabina, anche
oggi uno dei principali monumenti di Roma, e percorra con'attenzione
quelle religiose navate, troverà in una cappella laterale antichi
affreschi, uno de' quali rappresenta Domenico, che dona l'abito di
Frate Predicatore ad un giovane, il quale gli sta dinanzi
inginocchiato, mentre un altro è disteso per terra. Il volto di
ambedue questi giovani è nascosto allo spettatore, pure ei si
sente commosso. Sono due polacchi, Giacinto e Ceslao Odrowaz,
venuti a Roma in compagnia del loro zio Ivo Odrowaz, eletto
vescovo di Cracovia. Condotti a S. Sisto, probabilmente dal
cardinale Ugolino, antico condiscepolo di Ivo all'Università di
Parigi, si trovarono presenti alla resurrezione del giovane
Napoleone. Avendo il vescovo pregato Domenico di dargli alcuni
Frati Predicatori per la Polonia, il Santo gli rispose di non
averne neppure uno pratico della lingua e dei costumi polacchi;
soggiungendo che il miglior mezzo per propagare l'Ordine nella
Polonia e nelle regioni del Nord, sarebbe stato che qualcuno del
suo seguito si fosse sentito di prenderne l'abito. Giacinto e
Ceslao si offrirono allora spontaneamente a Domenico. Si dice che
fossero fratelli; certo appartenevano alla medesima famiglia,
somigliantissimi di cuore come di parentado. Consacratisi a Gesù
Cristo colla: vita sacerdotale, avevano fatto nella loro patria
molto onore al Maestro; la giovinezza stessa pareva in essi una
virtù. Giacinto era canonico della chiesa di Cracovia, Ceslao
prefetto o proposto della chiesa di Sandomir. Presero insieme
l'abito a S. Sabina con due. altri compagni di viaggio, ricordati
nella storia domenicana coi nomi di Enrico di Moravia ed Enrico di
Teutonia. Così anche la Polonia e la Germania, soli paesi
d'Europa che fino allora non avessero dati figlioli all'Ordine dei
Frati Predicatori, offrirono in quel giorno il loro tributo, su
quella misteriosa collina, che i romani non comprendevano nel loro
sacro recinto, ed il cui nome significa soggiorno d'uccelli .
Come son semplici e insieme meravigliose le vie
del Signore! Ugolino Conti, italiano, e Ivo Odrowaz, polacco,
s'incontrano all'Università di Parigi; là passano insieme
qualche giorno della loro gioventù; poi il tempo, che conferma o
dilegua le amicizie come ogni altra cosa, apre fra i loro cuori un
abisso di quaranta e più anni. Ivo, promosso all'episcopato, è
costretto a portarsi a Roma, e ritrova fra i porporati l'amico
della sua giovinezza. Un giorno il cardinale conduce il suo ospite
a S. Sisto per fargli conoscere un uomo, di cui neppure il nome
gli era giunto mai alle orecchie; ed in quel giorno stesso la
virtù di un tale uomo splendidamente si manifesta con un atto
della più grande possanza, con un comando imperioso sulla vita e
sulla morte. Ed Ivo ne rimane sorpreso, e chiede subito a Domenico
alcuni frati, senza neppure immaginare d'esser lui andato prima a
Parigi, e ora venuto a Roma, per condurre a Domenico quattro
nobili figli del Settentrione, predestinati da Dio a fondar
conventi di Frati Predicatori in Germania, in Polonia, in Prussia,
e perfino nel cuore della Russia.
Giacinto e i suoi compagni non rimasero a S.
Sabina che pochissimo tempo. Appena ebbero sufficiente cognizione
delle regole dell'Ordine, se ne ripartirono col vescovo di
Cracovia. Passando per Friesach, città degli antichi Norici, fra
la Drava ed il Murli, si sentirono mossi dallo Spirito Santo ad'annunziarvi
la divina parola. La loro predicazione scosse talmente quel paese
che, avvalorati da tale successo, deliberarono senz'altro di
fondarvi un convento. Fu eretto difatti in sei mesi e popolato da
gran numero di frati, sotto la direzione di Ermanno il Teutonico.
Giunti a Cracovia, il vescovo donò loro una
casa di legno, appartenente al vescovato, perché ne facessero un
convento. Queste le primizie dell'Ordine nelle regioni
settentrionali. Ceslao fondò poi i conventi di Praga e di
Breslavia; e Giacinto, prima di morire, giunse a piantar le tende
domenicane fino a Kiow, sotto gli occhi dei greci scismatici e in
mezzo allo strepito delle invasioni barbariche.
Sembrava che il Mezzogiorno ed il Settentrione
facessero a gara nell'inviare a Domenico numerosissimi operai.
C'era in Francia un celebre dottore per nome Reginaldo, che avea
insegnato per cinque anni diritto canonico a Parigi, ed ora decano
del capitolo di S. Agostino d'Orleans. Nell'anno 1218 si recò a
Roma per visitarvi la tomba dei Santi Apostoli, col proposito di
passar poi a Gerusalemme a venerarvi il santo sepolcro di Cristo.
Questo duplice pellegrinaggio doveva essere, secondo lui, il
preludio di un nuovo genere di vita, che aveva in animo di
abbracciare. « Dio gli avea ispirato di abbandonar tutto e darsi
a predicare il Vangelo; ed egli si preparava a questo nobile
ministero, senza però saper dire a se stesso come l'avrebbe
adempiuto. Ignorava che esistesse già un Ordine di Predicatori; e
parlando confidenzialmente con un cardinale, gli aprì il suo
cuore, manifestandogli di voler lasciar tutto, per predicare
dovunque Gesù Cristo, in uno stato di perfetta povertà. Allora
il cardinale gli disse: Ecco, vi è un Ordine sorto d'a poco tempo
che ha per scopo di unire insieme la pratica della povertà con
l'ufficio della predicazione ed il Maestro stesso di questo nuovo
Ordine si trova ora qui, a Roma, e predica anch'egli la parola di
Dio. Udito ciò, il maestro Reginaldo andò tutto sollecito in
cerca del Beato Domenico per aprirgli l'animo suo. La vista del
Santo e la grazia del suo parlare subito lo attrassero; risolvé
senz'altro di entrare nell'Ordine. L'avversità però, prova di
tutti i santi propositi, non tardò a contrastare anche questo.
Reginaldo cadde malato così gravemente, che i medici disperavano
ormai di salvarlo, e pareva destinato a soccombere sotto gli
assalti della morte. Il Beato Domenico, dolente di dover perdere
un figliuolo prima ancora di averlo potuto stringere al seno, si
rivolse alla divina misericordia, scongiurandola vivamente, come
egli stesso raccontò poi ai frati, di non strappargli un figliolo
concepito appena, anziché nato; e di concedergli che vedesse
almeno la luce, fosse pure per breve tempo. Mentre Domenico così,
pregava, la beata Vergine Maria, madre di Dio e Signora
dell'universo, accompagnata da due giovani donzelle
d'incomparabile bellezza, apparve a maestro Reginaldo. Era egli
desto, e giaceva in letto, arso da una febbre ardente, quando udì
la Regina del Cielo parlargli in questo modo: Domandami quel che
vuoi, ed io te lo concederò. Mentre Reginaldo stava deliberando
fra sé e sé, una delle donzelle, che accompagnavano la Beata
Vergine, gli suggerì di non chieder nulla, ma di rimettersi alla
volontà della Regina delle misericordie; ed egli ben volentieri
acconsentì. Allora Maria colla virginea sua mano gli fece
un'unzione sugli occhi, sulle orecchie, sul naso, sulla bocca,
sulle mani, sui reni e sui piedi, pronunziando insieme alcune
parole corrispondenti a ciascuna unzione. Io ho potuto risapere
soltanto le parole proferite nell'unzione dei reni e dei piedi.
Ungendo dunque i reni Essa disse: - Che i tuoi reni siano cinti
col cingolo della castità. - Ed ungendo i piedi: - Che i tuoi
piedi siano forti per la predicazione del Vangelo di pace. - Poi
gli mostrò l'abito dei Frati Predicatori, soggiungendo: - Ecco
l'abito del tuo Ordine - e disparve. Unto che fu dalla madre di
Colui, che ha il segreto di rendere a tutti la sanità, Reginaldo
si sentì subito guarito; e la mattina seguente quando Domenico
venne a visitarlo e gli domandò premurosamente come si trovasse,
gli rispose di non aver più male alcuno; e raccontò la visione.
Con animo pieno di gratitudine resero allora insieme e
devotamente, come io penso, grazie a quel Dio, che atterra e
suscita, che affanna e che consola; ed i medici restarono
meravigliati di una guarigione istantanea e tanto insperata, non
sapendo qual mano avesse apprestato il rimedio» .
Tre giorni dopo, mentre Reginaldo stava seduto
con Domenico e con un religioso dell'Ordine degli Ospitalieri, fu
ripetuta visibilmente su di lui la miracolosa unzione, come se
l'augusta Madre di Dio attribuisse a quell'atto un’importanza
speciale, e le premesse di eseguirlo dinanzi a testimoni. In
verità Reginaldo era in quel momento il rappresentante
dell'Ordine dei Frati Predicatori, e la Regina del cielo e della
terra stringeva alleanza per suo mezzo con l'Ordine intero. Il
Rosario era stata la prima manifestazione di tale alleanza, e come
un gioiello donato all'Ordine nel suo battesimo: l'unzione di
Reginaldo, indizio di virilità e di confermazione, doveva
anch'essa avere il suo segno durevole e commemorativo. Fu per
questo che la Beata Vergine, mostrando al nuovo frate l’abito
dell'Ordine, non glielo presentò quale allora si portava, ma con
un notevole cambiamento, di cui è d’uopo ora parlare.
Dicemmo già che Domenico, per lungo tempo
canonico di Osma, aveva continuato a portarne l'abito anche in
Francia, e l'avea anzi adottato per il suo Ordine. Consisteva tale
abito in una tonaca di lana bianca con sopra una cotta di lino, e
poi un mantello ed un cappuccio di lana nera. Nell'abito invece
che la Vergine SS. mostrò a Reginaldo, la cotta di lino era
surrogata da uno scapolare di lana bianca, semplice striscia o
telo di stoffa, che, scendendo davanti e di dietro fino alle
ginocchia, copre le spalle ed il petto. Di tale specie di
vestimento se ne parla anche nelle vite dei monaci d'Oriente, i
quali l'usarono, senza dubbio, a rifinimento della tonaca, quando
il lavoro od il caldo li costringeva a deporre il mantello. Nato
adunque nel deserto da un sentimento di pudore, e quasi velo sopra
il cuore dell'uomo, lo scapolare divenne nella tradizione
cristiana simbolo della purità, e per conseguenza l'abito di
Maria, regina de' Vergini. Nel tempo stesso adunque che Ella nella
persona di Reginaldo cingeva del cingolo della castità i reni
dell'Ordine e ne fortificava i piedi per la predicazione del
Vangelo di pace, gli additava ancora nello scapolare il simbolo
esteriore di quell'angelica virtù, senza la quale è impossibile
di sentire e di annunziare le cose del cielo.
Dopo questo grande avvenimento, uno dei più
celebri nella storia domenicana, Reginaldo partì per Terra Santa;
vedremo poi quando ne ritornasse. L'Ordine intanto, lasciata la
cotta di lino, prese lo scapolare di lana, divenuto d'allora in
poi la parte principale e caratteristica dell'abito domenicano.
Quando difatti il frate predicatore fa la sua professione, il
Priore, nel riceverne i voti, gli benedice solo lo scapolare; né
alcuno può uscir mai dalla cella senza averlo indosso, neppure
quando è portato alla tomba. La Vergine Santissima, manifestò
anche in altri modi la materna sua tenerezza verso l'Ordine. «Una
sera Domenico era rimasto in chiesa a pregare; ne uscì alla
mezzanotte, passando pel dormitorio dove i frati nelle rispettive
celle riposavano. Fatto ciò che doveva, si pose nuovamente a
pregare in un'estremità del corridoio; e, volti per caso gli
occhi all'altra estremità, vide tre donne che si avanzavano.
Quella di mezzo era la più bella e la più veneranda. Una delle
compagne portava un magnifico vaso, l'altra un'aspersorio che
presentava alla Signora. Questa aspergeva i frati, facendo sopra
di essi il segno della croce; giunta però alla porta di un certo
frate passò innanzi senza benedirlo. Domenico, notato chi fosse
quel frate, si diresse verso colei che benediceva, giunta ormai a
metà del corridoio ov'era sospesa una lampada; e prostrato ai
suoi piedi la supplicò, sebbene l'avesse già conosciuta, di
dirgli chi ella fosse. In quel tempo non si cantava ancora dai
frati e dalle suore di Roma la bella e devota antifona Salve
Regina, ma solamente si recitava in ginocchio dopo Compieta. La
donna adunque che benediceva, rispose al B. Domenico - Io sono
colei, che invocate tutte le sere; ed allorché ripetete eja ergo
advocata nostra, anch'io mi prostro a pregare mio figlio per la
conservazione di questo Ordine. - Poscia il beato Domenico le
richiese ancora chi fossero le due giovani donne, che
l'accompagnavano. E la Vergine benedetta: - Una, rispose, è
Cecilia, l'altra Caterina. - Il beato Domenico le domandò ancora
perché avesse lasciato un frate senza benedire; e gli fu
risposto: - perché non era in una conveniente positura. - E
terminato che fu il giro, e benedetti gli altri frati, disparve.
Il beato Domenico tornò allora a pregare nel luogo stesso di
prima; appena cominciata la preghiera fu rapito in spirito fino a
Dio. Vide allora il Signore che aveva alla destra la Vergine
benedetta, rivestita, sembravagli, di una cappa colore zaffiro; e
guardando ancor meglio vide innanzi a Dio religiosi di tutti gli
Ordini, meno che del suo, di cui non ce n'era neppur uno. Ciò gli
cagionò amaro pianto; né si sentì il coraggio di avvicinarsi di
più al Signore e alla sua santa Madre. La Madonna gli fece cenno
di accostarsi, ma non avea ardire di farlo; finché il Signore
stesso lo chiamò. Allora si fece innanzi, e piangendo amaramente,
si prostrò ai loro piedi. Il Signore gli ordinò di alzarsi, ed
alzato che fu, gli disse: - Perché piangi? - Piango, rispose,
perché vedo qui religiosi di tutti gli Ordini, e nessuno del mio.
- Ed il Signore a lui: - Vuoi tu vedere il tuo Ordine? - Sì, o
Signore, rispose tremando. - Il Signore pose allora la mano sulla
spalla della beata Vergine, e disse al beato Domenico- Io ho
affidato il tuo Ordine a mia Madre. - E poi soggiunse: - Vuoi
assolutamente vedere il tuo Ordine? - E Domenico: - Sì, o
Signore. - Allora la beata Vergine aprì il manto che aveva
indosso e stesolo dinanzi al beato Domenico in modo da ricoprire
colla sua immensità tutta la patria celeste, apparvero sotto di
esso una moltitudine di Frati Predicatori. Si prostrò allora il
beato Domenico per rendere grazie a Dio ed alla sua Madre, la
Vergine Maria; e la visione disparve. Suonava la campana del
Mattutino quando Domenico ritornò al sensi. Finito Mattutino,
egli convocò i frati in capitolo, e dopo un bel discorso
sull'amore e sulla devozione ch'essi dovevano avere verso la Beata
Vergine, narrò loro la visione. All'uscir poi dal Capitolo fermò
in disparte il frate, che la Beata Vergine non aveva benedetto, e
con dolcezza lo richiese se mai avesse taciuto qualche peccato
secreto; perocchè costui avea fatto al beato Domenico la
confessione generale. - Padre
santo, rispose, niente mi rimorde nella
coscienza, se non forse che questa notte, svegliatomi, mi son
trovato scoperto nel letto. - Il beato Domenico prese occasione da
ciò per ordinare che i frati, qualunque fosse il luogo dove
riposassero, si ponessero sempre in letto cinti ai reni e con le
calze. Il Santo stesso raccontò la visione a Suor Cecilia e alle
altre monache di S. Sisto, ma come avuta da un altro; i frati
però, che erano presenti, facevano segno alle suore che l'aveva
avuta lui medesimo» .
La seconda domenica di quaresima, cioè pochi
giorni dopo il trasferimento delle suore a S. Sisto, Domenico fece
in chiesa una solenne predica alla presenza di molto popolo, e
cacciò il demonio dal corpo d'una donna, che co' suoi gridi
disturbava gli astanti. Un'altra volta, presentatosi
inaspettatamente alla ruota del monastero, domandò alla rotaia
come stessero le suore Teodora, Tedrana e Ninfa; ed avutane
risposta che avevano la febbre, egli soggiunse: «Andate a dire da
parte mia che io do loro ordine di non aver più, febbre» . La
rotaia andò, e dal momento che intimò loro l'ordine del Santo,
esse si sentirono guarite.
«Era costume del venerabile Padre di spendere
tutto il giorno a guadagnare anime, sia con la predicazione, sia
confessando, sia praticando altre opere di carità. La sera poi
andava a trovare le suore, ed in presenza anche dei frati faceva
loro un discorso o una conferenza sui doveri dell'Ordine;
perocché da lui stesso furono in ciò istruite. Or avvenne che
una sera tardò più del solito ad arrivare, e le suore, persuase
che ormai non venisse più, terminate le preghiere, si ritirarono
nelle loro celle. Ma ecco che ad un tratto suona la campanella con
la quale i fratelli davano il segnale alle suore che il beato
Padre era venuto a trovarlo. Si affrettarono esse allora di andare
in chiesa, ed aperta la grata, trovarono ch'egli era già seduto
co' suoi frati ad aspettarle. Il beato Domenico disse loro: -
Figlie mie, io ritorno dalla pesca, e il Signore mi ha fatto
prendere un gran pesce. Ed intendeva parlare di fra Gaudione,
unico figlio di un certo signore Alessandro, cittadino romano ed
uomo munificentissimo da lui ricevuto nell’Ordine. Tenne poi un
lungo discorso, che fu a tutti di grande consolazione; e dopo
soggiunse: - Sarà bene, o figliole, che beviamo un poco. - E
chiamato fra Ruggero, che era il canovaio, gli disse di portare
del vino ed una tazza. Il fratello portò tutto, ed il beato
Domenico gli fece empir la tazza fino all'orlo; poi la benedì,
bevve per il primo, e dopo lui bevvero tutti gli altri frati che
erano presenti, fra chierici e laici in numero di venticinque. E
tutti bevvero finché loro piacque, senza che il vino diminuisse
nella tazza. Quando tutti i frati ebbero bevuto, il beato Domenico
soggiunse: - Voglio che bevano anche queste mie figlie. - E
chiamata suor Nubia: Andate, le disse, alla ruota, prendete la
tazza e date da bere a tutte le suore. - Andò essa con una
compagna, portò la tazza che era pienissima, senza versarne
nemmeno una goccia, e prima bevve la priora, poi tutte le altre
finché ne vollero; ed il beato Padre ripeteva sovente: - Bevete a
piacer vostro, o mie figliole. - Erano esse centoquattro, e tutte
bevvero a piacimento loro; nondimeno la tazza restò sempre piena,
come se non si fosse fatto altro che versarvi continuamente vino;
e quando fu riportata via, era piena ugualmente fino all’orlo.
Dopo tutto questo, Domenico disse: - Il Signore vuole ch'io vada a
S. Sabina. - Fra Tancredi priore dei frati, e fra Oddone, priore
delle monache, e gli altri frati, e la priora con le suore furono
tutti a scongiurarlo di non partire, soggiungendo: - Ma, Padre
santo, l'ora è tarda; siamo vicini alla mezzanotte, e non
conviene di mettersi in cammino. Ma egli, anziché arrendersi alle
loro preghiere, rispose: - Il Signore vuole assolutamente ch'io
parta; ci farà accompagnare da un angiolo. - E preso con sé
Tancredi, priore dei frati, e Oddone, priore delle monache, si
dispose a partire. Alla porta della chiesa, mentre tutti e tre
stavano per uscire, ecco che secondo la promessa del beato
Domenico un giovane di ammirabile bellezza, con in mano un
bastone, come chi debba porsi in viaggio, si offrì di unirsi a
loro. Il beato Domenico fece passare innanzi a sé i due compagni;
il giovane si trovò così alla testa ed egli dietro a tutti: e
con quest'ordine andarono fino alla porta della chiesa di S.
Sabina, che trovarono chiusa. Il giovane, che li avea preceduti,
si appoggiò allora ad una parte della porta, la quale subito si
aprì; vi entrò egli per primo; e dietro di lui entrarono i
frati, ultimo il beato Domenico. Di poi il giovane ne riuscì, e
la porta si richiuse. Fra Tancredi disse al beato Domenico: - chi
era quel giovane, che ci ha accompagnati? Figlio mio, rispose, era
un angiolo inviato dal Signore per nostra scorta. - Frattanto
suonò il mattutino, e i frati, scesi in coro, si meravigliarono
di trovarvi Domenico co' suoi compagni, curiosi di sapere come
fossero entrati, mentre le porte erano chiuse.
«C'era in convento un novizio, cittadino
romano, che si chiamava fra Giacomo, il quale vinto da una fiera
tentazione, avea risoluto di lasciar l'Ordine appena finito il
Mattutino; quando cioè si sarebbero aperte le porte della chiesa.
Domenico, avutane rivelazione, finito il Mattutino fece chiamare
il novizio, e dolcemente l'esortò a non cedere alle arti del
nemico, ma a perseverare con coraggio nel servizio di Cristo. Ma
il giovane sordo a quei consigli, ed a quelle preghiere, alzatosi
risolutamente, si levò l'abito, soggiungendo di essere ormai
irrevocabilmente deciso di andarsene. Il pietosissimo Padre, mosso
a compassione, soggiunse: - Figliuol mio, aspetta ancora un poco,
e poi farai quel che più ti piacerà. - E prostrato a terra si
pose a pregare. Si conobbe allora quali fossero i meriti del beato
Domenico al cospetto di Dio, e con quanta facilità ottenesse da
Lui quanto desiderava. Poiché non avea egli finita la sua
preghiera, che già il giovane, piangente ai suoi piedi, lo
scongiurava di rendergli l'abito, che, vinto da una tentazione,
avea dismesso, promettendo che mai più avrebbe abbandonato
l'Ordine. Il venerabile Padre gli restituì allora l'abito,
ammonendolo nuovamente di restar fermo nel servizio di Cristo. E
così fu; fra Giacomo visse lungamente nell'Ordine e in modo
edificantissimo. Il giorno appresso, Domenico in mattinata tornò
co' suoi frati a S. Sisto; questi raccontarono in sua presenza a
Suor Cecilia ed alle altre monache tutto l'accaduto; ed il beato
confermò allora la narrazione con queste parole: - Figlie mie, il
nemico di Dio voleva rapire una pecora dall'ovile del Signore, ma
il Signore l'ha liberata dalle sue granfie».
L’anno 1575, sotto il pontificato di Gregorio
XIII, le monache di S. Sisto, lasciato il loro antico monastero a
motivo della malaria della campagna romana, si ritirarono sul
Quirinale, nel nuovo monastero dei Santi Domenico e Sisto,
portando seco l'immagine della SS. Vergine. San Sisto allora,
spogliato di tutto, restò là nella solitudine, sotto il solo
usbergo delle sue memorie. Non marmi preziosi, non bronzi
cesellati, non colonne tolte dal cristianesimo alle antichità
profane, non tavole di pittori immortali, nulla insomma di ciò
che colpisce lo sguardo, invita a visitarlo. Il viaggiatore che,
dal sepolcro di Cecilia Metella e dal bosco della ninfa Egeria
tornando in Roma per la via Appia trova a destra un grande e
squallido edifizio, sormontato da un alto campanile - così rari
in Roma - passa innanzi senza neppure chiederne nome. Che importa
a lui di S. Sisto vecchio? E coloro stessi che rintracciano con
amore le vestigia dei Santi, non conoscono il tesoro che sta
nascosto fra quelle mura, rimaste sempre nella loro umiltà. Anche
essi tirano innanzi, senza che indizi o alcuno li avverta che in
quel luogo abitò uno dei più grandi uomini del cristianesimo, e
vi operò tanti miracoli. Il cortile esterno, la chiesa, la
fabbrica del monastero, il recinto, rimangono tuttora., e fino
agli ultimi tempi della Rivoluzione francese i generali
dell'Ordine vi conservarono un appartamento. Nel secolo passato,
in primavera ed in autunno, soleva passarvi alcuni giorni il Sommo
Pontefice Benedetto XIII, che ne restaurò la chiesa cadente.
Presentemente, il corpo del monastero è trasformato in pubbliche
officine, tranne la famosa sala del Capitolo, ove Domenico
risuscitò tre morti, ed ove ora è eretto un'altare nel luogo
stesso in cui Domenico offrì il santo Sacrifizio pel giovane
Napoleone. La chiesa è rimasta una delle stazioni del clero
romano, ed il mercoledì della terza settimana di Quaresima vi si
celebrano solennemente i divini uffici .
A S. Sabina è toccata miglior sorte. E’ vero
che fino dall'anno 1273, sotto il pontefice Gregorio X, cessò di
essere la residenza del generale dell'Ordine, passato al convento
di S. Maria sopra Minerva, nel centro di Roma; e solitario, come
la via Appia, è l'Aventino, dove neppur gli uccelli, suoi primi
ospiti, abitano più. Ma, una colonia di figli di S. Domenico è
rimasta sempre all’ombra delle mura di S. Sabina, alla cui,
conservazione influì molto anche la bellezza della sua,
architettura. Nella chiesa, su un tronco di colonna, vedesi una
grossa pietra nera, che la tradizione vuole sia stata gettata dal
demonio contro Domenico, per disturbargli le sue notturne
meditazioni; e nel convento si trova la piccola cella, dove egli
talvolta si ritirava, e la sala, dove diede l'abito a S. Giacinto
ed al B. Ceslao. In un angolo del giardino poi, un arancio
piantato da Domenico offre ancora i suoi pomi d'oro alla mano
pietosa del cittadino e del forestiere.
CAPITOLO XII
Fondazione dei conventi di S. Giacomo
di Parigi, e di S. Niccolò di Bologna.
I frati inviati da Domenico a Parigi dopo la
riunione di Prouille, si erano divisi in due gruppi: Mannes,
Michele di Fabra ed Oderico giunsero al loro oro destino il 12
settembre; Matteo di Francia, Bertrando di Garriga, Giovanni di
Navarra e Lorenzo d'Inghilterra arrivarono tre settimane più
tardi. Scelsero l'abitazione nel centro della città, in una casa
presa affitto, accanto all'ospedale di Notre-Dame, alle porte del
vescovato. Se ne eccettui Matteo di Francia, che aveva passata una
parte della sua gioventù alle scuole dell'Università, nessuno di
loro era conosciuto in Parigi. I primi dieci mesi quindi li
passarono nelle più grandi strettezze, confortati solo dal
pensiero di Domenico e da una rivelazione avuta da Lorenzo
d'Inghilterra sul futuro loro destino.
Giovanni di Barastre, decano in quel tempo di
San Quintino, cappellano del re e professore all'Università di
Parigi, avea fondato presso una porta della città, chiamata la
porta di Narbona o d'Orléans, un ospizio pei forestieri poveri.
La cappella dell'ospizio era stata dedicata a S. Giacomo Apostolo,
assai celebre nella Spagna, la cui tomba fu uno dei termini nei
grandi pellegrinaggi del mondo cristiano. Sia che i frati spagnoli
si recassero colà per devozione, sia per altre ragioni, Giovanni
di Barastre venne a sapere esservi a Parigi dei nuovi religiosi, i
quali predicavano il Vangelo alla maniera degli Apostoli. Cercò
subito di conoscerli, e conosciutili, li ammirò, li amò,
comprese l'importanza della loro missione, e senz'altro il 6
agosto li mise in possesso dell'ospizio di San Giacomo, da lui
fatto edificare per Gesù Cristo, personificato nei forestieri
poveri, il quale, in riconoscenza, gl’inviava ospiti più
illustri assai di quello che Giovanni si sarebbe aspettato, e
trasformava il modesto asilo della porta d'Orléans in abitazione
di apostoli, in scuola di dotti, in tomba di re. Il 3 maggio del
1221 Giovanni di Barastre confermò con atto autentico la
donazione fatta ai frati, e l'Università di Parigi, a richiesta
di Onorio III, rinunciò a tutti i diritti ch’essa aveva su quel
luogo, a condizione però che i suoi dottori, a titolo di
fratellanza, vi fossero onorati in morte coi medesimi suffragi
spirituali dei membri dell'Ordine.
Provveduti così di stabile e pubblica dimora,
i Frati cominciarono ad esser sempre più conosciuti. Era un
accorrere ad ascoltarli; ed essi moltiplicavano le conquiste
specialmente fra quella moltitudine di studenti che da ogni parte
d'Europa conveniva a Parigi, portandovi, insieme al genio diverso
delle nazioni, il comune ardore della gioventù. Nell'estate del
1219 il convento di S. Giacomo contava già trenta religiosi. Fra
tutti quelli però che allora presero l'abito, il solo, di cui sia
rimasta memoria, è Enrico di Marbourg. Da più anni era stato
mandato a Parigi da un suo zio, cavaliere molto cristiano, che
abitava nella città di Marbourg. Lo zio, dopo morte, gli era
apparso in sogno, e gli aveva detto: «Prendi la croce in
espiazione delle mie colpe, e vai al di là dei mari. Tornato che
sarai da Gerusalemme, troverai a Parigi un nuovo Ordine di
Predicatori, ai quali ti unirai anche tu. Non ti spaventi la loro
povertà, né ti ritragga l'esiguo loro numero; perocché
diverranno un popolo, e saranno potenti per la salute delle
anime» . Andò Enrico oltremare, e tornato a Parigi quando i
Frati vi si erano già stabiliti, abbracciò senza esitazione la
loro regola, e fu uno dei primi e più celebri predicatori del
convento di S. Giacomo. Il re S. Luigi prese ad amarlo, e lo
condusse seco in Palestina l'anno 1254. Morì ritornando in
Francia in compagnia del re.
Ecco un tratto di storia riguardante i primordi
dei Frati a Parigi: «Accadde che due frati itineranti, non avendo
mangiato ancor nulla alle tre del dopo pranzo, si domandavano l’un
l'altro come soddisfare alla fame in un paese povero e sconosciuto
come quello che attraversavano. Or mentre tenevano tali discorsi,
un uomo, in abito da viaggio, si fece loro innanzi e disse: - Di
che andate voi ragionando, o uomini di poca fede? Cercate prima di
tutto il regno di Dio, ed il resto vi sarà dato in abbondanza.
Avete avuto tanta fede da sacrificare tutto per Iddio, ed ora
avete paura ch'Egli vi lasci senza pane? Traversate questo campo,
e giù nella valle sottostante troverete un villaggio. Entrato in
chiesa, e vedrete che il prete di quella chiesa v'inviterà;
sopraggiungerà poi anche un cavaliere, il quale vorrà che in
ogni modo andiate da lui; allora il patrono della chiesa per
sciogliere ogni litigio condurrà il prete, il cavaliere e voi a
casa sua, e sarete trattati magnificamente. Confidate adunque nel
Signore, ed eccitate questa fiducia anche nei vostri fratelli. -
Ciò detto, scomparve ed ogni cosa avvenne come era stato
annunziato. I frati tornati a Parigi raccontarono l'accaduto a fra
Enrico e agli altri frati, pochi di numero e poverissimi, che
allora si trovavano colà» .
L'estrema povertà del convento di Parigi fu
forse, la causa per cui due religiosi, cioè Giovanni di Navarra e
Lorenzo d'Inghilterra, fecero in modo dì riunirsi a Domenico in
Roma. Giunti che vi furono, e fu nel gennaio del 1219, il Santo
ordinò a Giovanni di Navarra di andare a Bologna, insieme ad un
altro religioso, chiamato dagli storici «un certo Bertrando» per
distinguerlo da Bertrando di Garriga. Poco dopo inviò colà anche
Michele di Uzero e Domenico di Segovia, tornati dalla Spagna, e
tre altri frati, Riccardo, Cristiano e Pietro, che era laico. il
piccolo drappello poté ottenere a Bologna, non si sa come, una
casa ed una chiesa detta S. Maria di Mascarella; però versavano
in grandi strettezze, impotenti, com'essi erano, a sostenere le
esigenze di una grande città, in cui la religione, gli affari, i
piaceri hanno il loro corso ordinario, ed in cui la novità stessa
non attira a sé l’ammirazione, che a difficili condizioni.
Tutto però cambiò aspetto all'arrivo di un uomo, Reginaldo, che
ritornato dalla Terra Santa, fu a Bologna il 21 dicembre 1218. La
città ne fu subito scossa. Niente è paragonabile ai successi
della divina eloquenza di lui; in otto giorni Reginaldo fu padrone
di Bologna. Ecclesiastici, giureconsulti, professori, studenti
d'Università, entrarono a gara in un Ordine poco prima affatto
sconosciuto, anzi disprezzato; ed alcuni fra i più spiritosi,
giunsero al punto di doversi astenere dall'ascoltarlo, per timore
di esser sedotti dalla sua parola. «Quando fra Reginaldo, di
santa memoria, predicava a Bologna, scrive uno storico, attirando
all'Ordine rinomati dottori ed ecclesiastici, maestro Moneta, uomo
celebre in tutta la Lombardia, e che allora insegnava le arti,
dietro la conversione di tanti uomini, cominciò a temere di se
medesimo; e procurava di star lontano da fra Reginaldo, cercando
di tenerne lontani i suoi scolari. Nondimeno il giorno della festa
di S. Stefano i suoi discepoli insisterono per andare con lui al
sermone; e sia che per riguardo a loro, sia che per altri motivi
non se ne potesse liberare, propose di andar prima ad ascoltar la
Messa a S. Procolo. Vi andarono ed ascoltarono non una, ma tre
Messe. Moneta cercava a bella posta di tirarla in lungo, per poi
non fare più in tempo alla predica. Ma i suoi scolari lo
sollecitavano; ond'egli finalmente: - E andiamo. - Quando giunsero
alla chiesa il sermone non era ancora terminato; però tanta era
la calca della gente, che Moneta fu costretto a rimanere sulla
porta. Ciò nonostante, tendere per un momento l'orecchio, ed
esser vinto fu tutt'una. L'oratore in quel momento esclamava: -
Ecco ch'io veggo i cieli aperti! Sì, i cieli sono aperti per chi
vuol vedere e per chi vuole entrare; le porte sono aperte per chi
vuol passare. Non chiudete il vostro cuore, e la bocca, e le mani,
affinché anche i cieli non si chiudano dinanzi a voi. Perché
indugiate? I cieli sono aperti. - Reginaldo era appena sceso del
pulpito, che Moneta fu subito a trovarlo; gli aprì il suo cuore,
gli espose le sue condizioni, e fece voto d'obbedienza nelle sue
mani. Legato com'era da molti impegni, di consenso con fra
Reginaldo, vestì ancora per un anno l'abito secolare; in questo
frattempo si studiò con ogni mezzo di condurre a Reginaldo sempre
più ascoltanti e discepoli. Vi conduceva ora l'uno, ora l'altro;
e ad ogni nuova conquista pareva che anche lui prendesse l'abito,
insieme a quelli che lo prendevano» .
Il convento di S. Maria della Mascarella non
bastando più a contenere i frati, Reginaldo per mezzo del
cardinale Ugolino, allora legato apostolico in quelle provincie,
ottenne dal vescovo di Bologna la chiesa di S. Nicolò delle
Vigne, vicino alle mura, in aperta campagna. Rodolfo cappellano
della chiesa, uomo dabbene e pieno di timor di Dio, non che
opporsi alla generosità del vescovo verso i Frati, prese l'abito
egli stesso. Raccontava che prima della venuta dei Frati a
Bologna, una povera donna., molto disprezzata dagli uomini, ma
prediletta da Dio, spesso si metteva a pregare vicino alla vigna
dove poi sorse il convento di S. Niccolò. E quando altri si
beffava di lei, come se adorasse la vigna: «O miseri ed
insensati, rispondeva; se sapeste quali uomini abiteranno questo
luogo, quali avvenimenti vi si succederanno, anche voi vi
prostrereste ad adorare il Signore. Il mondo intero sarà
illuminato da coloro che qui abiteranno».
Un altro frate, Giovanni di Bologna, narrava
che i coltivatori della vigna di S. Nicolò spesso vi avevano
veduto delle fiammelle ed altri splendori. Fra Chiarino si
ricordava che quando era ancor fanciullo, passando un giorno
vicino a quella vigna, suo padre gli aveva detto: «In questo
luogo spesse volte sono stati uditi angelici canti; e questo, o
figlio, è un grande presagio per l'avvenire». Ed opponendo il
fanciullo che, potevano essere canti di uomini, il padre avea
risposto: «ben altra è la voce degli uomini e quella degli
angeli, da non distinguerle» .
Nella primavera del 1219 i Frati passarono a S.
Nccolò, dove, e per le prediche di Reginaldo, e per la fama delle
loro virtù, nonché per una speciale protezione di Dio, che di
tanto in tanto si manifestava con fatti, meravigliosi,
continuarono a moltiplicarsi. Uno studente dell'Università fu
chiamato all'Ordine nel seguente modo. Una notte gli parve,
dormendo, di trovarsi solo in un campo assalito da una tempesta, e
di darsi a correre alla casa più vicina, per bussare e domandare
ospitalità. Ma sentì invece una voce che rispondeva: «Io sono.
la Giustizia; e poiché tu non sei giusto non entrerai nella mia
casa». Bussò allora ad un'altra porta, ed anche lì gli fu
risposto: «Io, sono la Verità, e non ti posso ricevere, perché
la Verità libera quelli soli, che l'amano». Si rivolse altrove,
e ne venne parimenti respinto con queste parole: «Io sono la
Pace, e non v'ha pace per l'empio, ma solamente per l'uomo di
buona volontà». Finalmente bussò ad una terza porta, ed una
persona aprendogli: «Io sono la Misericordia, gli disse; se vuoi
campare dalla tempesta, vai al convento di San Nicolò, dove sono
i Frati Predicatori. Là troverai la stalla della penitenza, la
greppia della continenza, l'erba della dottrina, l'asino della
semplicità, il bue della discrezione, Maria che t'illuminerà,
Giuseppe che t'aiuterà, Gesù che ti farà salvo». Lo studente,
svegliatosi, prese il sogno come un avvertimento, e ci si attenne.
Non erano già umane attrattive che cooperavano
alla conversione di questi giovani e di altri uomini omai avanti
nella carriera dei pubblici uffici; che niente era più duro della
vita dei Frati Predicatori. La povertà di un Ordine nascente si
faceva sentire con ogni genere di privazioni; pel corpo e per lo
spirito, affranti dalle fatiche apostoliche, il principale ristoro
erano l'astinenza ed il digiuno; brevi notti passate malamente su
duro letto, succedevano a lunghe giornate di lavoro; le più
piccole trasgressioni della regola erano punite severamente. Un
fratello converso, avendo accettato senza permesso del superiore
non so qual pezzo di ruvida stoffa, ebbe per penitenza da
Reginaldo di scoprirsi, come allora si costumava, le spalle, per
ricevere alla presenza di tutti gli altri la disciplina. Il
colpevole si ricusò; e Reginaldo fattolo spogliare fino alle
spalle dai fratelli, con gli occhi lacrimosi e levati al cielo:
«O Cristo Signor nostro, disse, che al vostro servo Benedetto
deste la possanza di cacciare il demonio dal corpo dei suoi monaci
con le verghe della disciplina, concedete anche a me la grazia di
vincere la tentazione di questo povero fratello col, medesimo
mezzo». Ciò detto lo batté con tanta forza, che i frati
presenti, se ne impietosirono fino alle lacrime. Cosi si domava la
natura in quegli uomini, capaci d'altronde di sottostare a simili
trattamenti: e di questa vittoria riportata su di loro stessi con
la repressione cruenta dell'orgoglio e dei sensi, se ne servivano
poi gloriosamente contro il mondo. Imperocché, e che poteva ormai
il mondo su cuori così fortificati contro gli assalti
dell'ignominia e del dolore? Cosa meravigliosa! La religione
adopra ad innalzamento dell'uomo quei mezzi stessi, di cui il
mondo si serve per avvilirlo; lo restituisce a libertà, facendolo
schiavo; lo fa re, quando appunto lo crocifigge.
Né le austerità del chiostro erano le prove
più dure pei giovani e per gli illustri novizi che si
presentavano alla porta di S. Niccolò di Bologna. Principal
pericolo per le istituzioni nascenti è la novità stessa in cui,
come in oscuro orizzonte, vanno vagando le cose, che non hanno
ancora storia. Quando un'istituzione, è provata dai secoli, emana
dalle sue pietre come un profumo di stabilità, che rassicura
l'uomo da tutte le dubbiezze del suo spirito. Ivi si adagia
tranquillamente, come un fanciullo sulle ginocchia del suo avo;
ivi è cullato, come il mozzo sopra un vascello, che cento volte
abbia traversato l'oceano. Le opere nuove invece hanno una triste
corrispondenza con le parti più deboli del cuore umano, ed a
vicenda si, turbano. Né S. Nicolò di Bologna fu immune dalle
cupe tempeste, che secondo le leggi della Provvidenza, debbono
provare e purificare tutte le opere divine, in cui, entri l'uomo
come strumento. «Quando ancora, dice uno storico, l'Ordine dei
Predicatori era come piccolo gregge o piantagione novella, i frati
del convento di Bologna furono presi da così fiera tentazione di
scoraggiamento, che molti di essi stavano già pensando a quale
altro Ordine sarebbe stato meglio passare, persuasi che il loro,
così recente e così debole, non avrebbe potuto durarla a lungo.
Due dei più ragguardevoli avevano anzi ottenuto licenza da un
legato apostolico di entrare fra i Cistercensi, e ne avevano
presentate le lettere a fra Reginaldo, una volta decano d'Orléans,
e allora vicario del beato Domenico. Fra Reginaldo, adunato il
capitolo, espose con gran dolore la cosa; tutti i frati furono
presi allora da incredibile turbamento di spirito, e proruppero in
pianto. Muto e con gli occhi levati al cielo, Reginaldo parlava in
cuor suo a Dio, in cui avea riposte tutte le sue speranze. Fra
Chiaro il Toscano, uomo di molta bontà e di grave autorità, il
quale era stato professore di arti e di diritto canonico, e fu poi
Priore della provincia romana, penitenziere e cappellano del Papa,
si alzò a parlare. Aveva appena terminato il suo discorso, che
entrò maestro Orlando di Cremona, famoso dottore e professore di
filosofia in Bologna, ed il primo dei Frati Predicatori, che
insegnasse teologia a Parigi. Era solo; ed ebbro anziché pieno
dello spirito del Signore, domandò senz'altro di prender l'abito.
Fra Reginaldo, quasi fuori di sé per la gioia, si tolse allora il
suo scapolare e glie lo mise. Il sacrestano cominciò allora a
suonar la campana, i frati intuonarono il Veni creator Spiritus,
proseguendo a cantar tutto l'inno con voci soffocate
dall'abbondanza delle lacrime di gioia, uomini, donne, studenti,
riempirono la chiesa; alla notizia, che poi si sparse, la città
tutta ne fu commossa; si ravvivò la devozione nei frati; ogni
tentazione, ogni timore scomparve, e i due che avevano deliberato
di mutar Ordine, corsero in mezzo al capitolo e rinunziando al
permesso apostolico già ottenuto, promisero di rimanere
perseveranti fino alla morte».
Ecco come sorsero i due conventi di S. Niccolò
di Bologna, e di S. Giacomo di Parigi, le due pietre angolari dell’edifizio
domenicano. Là, al caldo delle più celebri università d’Europa,
si vennero maturando elette schiere di dottori e di apostoli; là
si adunarono ogni anno, o nell'uno o nell'altro dei due conventi,
i rappresentanti di tutte le provincie dell'Ordine; là, di secolo
in secolo fiorirono uomini, non superati mai dai loro
contemporanei, i quali perpetuarono fra i popoli il rispetto
dovuto alla religione, che li aveva nutriti. S. Niccolò di
Bologna ebbe la gloria di aver fra le sue mura, Domenico negli
ultimi giorni della sua vita, e di esserne la tomba: S. Giacomo di
Parigi, divenne per altri rispetti, celebre sepoltura. Teneramente
prediletto dal re S. Luigi, custodì sotto i suoi marmi i precordi
di moltissimi reali di Francia. Roberto sesto figlio di quel santo
monarca, e stipite della casa Borbone, fu ivi levato al fonte
battesimale dal B. Umberto, quinto Generale dell'Ordine, e vi fu
poi sepolto: il figlio, il nipote ed il pronipote colà lo
raggiunsero, e i loro avanzi mortali non formarono che un solo
sepolcro, sul quale fu scolpita questa iscrizione: «Qui riposa la
stirpe de' Borboni - Qui il primo principe di tal casato è
racchiuso - In questo sepolcro è quasi il germe dei re» .
Singolare destino! Il convento di S. Giacomo dove la casa dei
Borboni nella persona del suo primo capo era stata battezzata, e
dove le prime quattro generazioni riposavano in pace, fu appunto
il luogo da cui partirono i primi colpi che dal trono di Francia.
I più implacabili nemici della monarchia tennero le loro
congreghe in quel chiostro desolato , ed il nome, che i Domenicani
francesi avevano tanto glorificato, non suonò più che sangue
nella bocca delle nazioni. Presentemente di S. Giacomo non
appariscono più neppur le rovine. Un ammasso di case e di
baracche ne copre con ignobile ombra gli avanzi, e tanta è la
noncuranza in cui è caduto, che forse la famiglia stessa dei
Borboni non sa più che là era la tomba dei suoi maggiori.
CAPITOLO XIII
Viaggio di S. Domenico in Spagna ed in
Francia.
Sue veglie nella grotta di Segovia
Modo di viaggiare e sistema di vita del
Santo
Dopo un anno di fatiche, fondati finalmente i
conventi di S. Sisto e di S. Sabina, Domenico rivolse il pensiero
ai suoi primi figlioli inviati in lontane regioni; e fu preso dal
desiderio di rivederli, per animarli sempre più, e ringraziare
con essi il Signore così dei mali come dei beni che loro aveva
mandati. Partì adunque da Roma nell'autunno del 1218, in
compagnia di alcuni religiosi del suo Ordine e di un Frate Minore,
chiamato Alberto, che si unì a loro nel viaggio. Arrivati non so
in qual parte della Lombardia, si fermarono in un albergo, e si
misero a tavola insieme agli altri viaggiatori, che ivi si
trovavano. Fu portata della carne, ma Domenico ed i suoi non ne
mangiarono. L'ostessa al vedere che questi si contentavano del
solo pane e di un po' di vino, s'indispettì contro il Santo e lo
ricolmò di ingiurie. Invano, Domenico con grande pazienza e con
buone procurò di calmarla; né lui, né gli altri commensali
valsero a frenare in nessun modo quel torrente di maledizioni.
Alla fine il Santo con tutta dolcezza le disse: «Figlia mia,
affinché impariate a ricevere con più carità i servi di Dio,
non fosse altro per rispetto al gran Signore a cui essi servono,
io pregherò Gesù Cristo che v'imponga silenzio». Appena dette
queste parole, l'ostessa addivenne muta. Otto mesi dopo, tornando
Domenico dalla Spagna e ripassando per il medesimo luogo, rivide
l'ostessa, la quale gettatasi, piangendo dirottamente, ai suoi
piedi, lo scongiurò dì perdonarle. Egli le fece il segno della
croce sulla bocca, e subito le ritornò la loquela. Fra Alberto,
il quale ci ha raccontato questo fatto, narra ancora come essendo
stata lacerata da un cane la tonaca di Domenico, questi ne
ricongiunse le parti con la mota, e riparò così lo strappo.
Valicate le Alpi, Domenico si trovò a
ripassare per le vie della Linguadoca a lui sì note; tutto però
in quelle contrade era cambiato. Egli non poté avere neppure la
consolazione di pregare sulla tomba del conte di Montfort, suo
magnifico amico; poiché le di lui spoglie mortali erano state
trasportate all'Abbazia di Fontevraud, lungi da quella terra della
quale egli era stato duca e conte, non valendo più la sua spada,
venuta meno con lui, a proteggerne colà neppure la tomba.
Domenico quindi, dato in fretta un bacio a S. Romano di Tolosa e a
Notre-Dame di Prouille, affrettò il passo verso la sua patria, da
cui mancava da quindici anni. Ne era partito semplice canonico di
Osma; ora vi ritorna apostolo, taumaturgo, fondatore di un Ordine,
legislatore, patriarca, martello delle eresie del suo tempo, uno
dei più strenui difensori della Chiesa e della verità. Queste
glorie erano il solo equipaggio, queste il solo bagaglio di
Domenico; e chi lo avesse incontrato nelle gole dei Pirenei coll'occhio
rivolto alla Spagna, l'avrebbe scambiato con un mendicante
qualunque, che da paesi stranieri andasse a rifugiarsi sotto il
bel solo d'Iberia. Verso qual parte diresse egli dapprima i suoi
passi? Forse verso la valle del Duero? O forse era atteso nel
palazzo, da cui la morte avea cacciato il padre e la madre sua? Si
recò forse a Gumiel d'Izan a pregare sulla loro tomba, o ad Osma
su quella di Azevedo? L’Abbazia di S. Domenico di Silos lo vide
forse su quel pavimento, dove la sua madre era stata consolata da
enimmatici presagi? La storia tace su tutto ciò; d’altronde non
era necessario raccontare quello che il cuore del Santo da se
stesso ci avrebbe fatto conoscere. Egli avea imparato da Gesù
Cristo a nobilitare tutti i naturali sentimenti, senza
distruggerne alcuno; ed il primo luogo in cui con certezza lo
ritroviamo in Spagna, è prova della tenerezza sempre nutrita pel
suo paese natale, La storia difatti lo rimette in vista a Segovia,
città vicina ad Osma e fra le prime della Castiglia, ricoverato
nella casa di una povera donna, la quale ben presto ebbe a
rallegrarsi del gran tesoro, che aveva accolto presso di sé. Fin
dal tempo che dimorava nella Linguadoca Domenico era stato solito
portare sul suo corpo un ruvido cilizio di lana o di crine.
Essendo adunque a Segovia presso la detta donna, si levò la
camicia di lana che aveva, per prenderne un’altra di tessuto
più ruvido. La buona donna se ne accorse, e per sentimento di
venerazione, chiuse in un forziere la camicia, che il Santo si era
levata. Dopo qualche tempo, mentre essa era fuori di casa, la
camera prese fuoco e tutti i mobili furono distrutti; solo il
forziere che conteneva le migliori sue robe e la reliquia, rimase
intatto.
Un altro miracolo eccitò la pubblica
riconoscenza degli abitanti di Segovia verso Domenico. Si era già
alle feste di Natale del 1218, ed un'ostinata siccità aveva
sempre impedito di poter seminare. Tutto il popolo, adunato fuori
della città, innalzava comuni preci al Signore per implorare la
fine di tale flagello. Domenico, levatosi di mezzo alla folla,
rivolse al popolo buone parole, che però non valsero a dissipare
la generale inquietezza, e finalmente esclamò: «Ma via, cessate,
o fratelli miei, da questi vostri timori, e confidate nella
misericordia del Signore; oggi stesso cadrà pioggia abbondante,
che muterà in gioia la vostra tristezza» . Il cielo infatti, che
non dava indizio alcuno di pioggia cominciò a poco a poco ad
oscurarsi, le nuvole si addensarono, finché una forte pioggia
interruppe il discorso del Santo, e sciolse la folla. I cittadini
di Segovia consacrarono la memoria di questo miracolo con una
cappella eretta nel luogo stesso dove il fatto avvenne.
Un'altra volta Domenico intervenne ad un
consiglio dei primati della città; e dopo che furono lette le
lettere del re, così egli prese a dire: «Voi avete inteso,
fratelli miei, quale sia la volontà del re terreno e mortale;
ascoltate ora i comandamenti del re immortale e celeste». Un
signore, inteso questo, si alzò e disse infuriato: «Che forse
questo parolaio avrebbe intenzione di tenerci qui tutto il giorno,
e d'impedirci perfino di pranzare?» E bardato il cavallo, se ne
andò. Il servo di Dio soggiunse: «Voi ora ve ne andate; ma non
terminerà l'anno, e in questo luogo medesimo dove ora siete, il
vostro cavallo resterà senza cavaliere; e per campare dai vostri
nemici, indarno cercherete rifugio nella torre, che avete
edificato nel vostro palazzo». La profezia si avverò appuntino;
avanti che l'anno terminasse quel signore fu ucciso insieme ad un
suo parente, nel luogo stesso ove Domenico gli aveva rivolta la
parola.
Segovia è posta fra due colline divise da un
fiume. Sulla collina di tramontana, fuori delle mura della città,
Domenico avea scoperta una rustica grotta, molto adatta per darsi
alla contemplazione e farvi penitenza. Là vicino gettò le
fondamenta di un convento, al quale diede il nome di S. Croce; e
mentre il convento si veniva costruendo secondo la consueta
semplice architettura, che al Santo piaceva tanto, egli fece della
vicina grotta i suo oratorio notturno passandovi buona parte della
notte in preghiere e in ogni sorta di spirituali esercizi.
Il giorno era tutto per gli altri, per la
predicazione, pei viaggi, per gli affari; ma giunta l'ora che il
sole, scomparendo dall'orizzonte, dispone tutto a riposo, anch’egli
si ritirava dal mondo in cerca di quel conforto di cui la sua
anima ed il suo corpo sentivano tanto bisogno. Dopo Compieta
Domenico restava sempre in coro; non permetteva però che alcuno
lo imitasse,
sia per non imporre un peso superiore alle loro
forze, sia per un santo timore che si venissero a scoprire i suoi
segreti commerci col Signore. Ma l'altrui curiosità più d'una
volta la vinse sulle sue precauzioni. Alcuni frati, per osservare
le sue veglie, nascondevansi; ed è così che noi abbiamo potuto
conoscerne i più toccanti particolari. Quando adunque credevasi
solo, protetto nel suoi slanci amorosi dal silenzio e dalle ombre
della notte, entrava con Dio in espansioni ineffabili. Il tempio,
simbolo della città eterna degli angeli e dei Santi, diventava
per lui come un essere vivo, che egli inteneriva colle sue
lacrime, coi suoi gemiti, colle sue grida. Ne faceva il giro,
fermandosi a pregare ad ogni altare, ora profondamente inchinato,
ora in ginocchio, ora prostrato. Ordinariamente cominciava dal
riverire Gesù Cristo con un'inclinazione profonda, come se
l'altare, simbolo e memoria del di lui sacrifizio, fosse lo stesso
Gesù. Poi prostravasi colla faccia per terra, e ripeteva a voce
spiccata queste parole del Vangelo: Signore, abbiate pietà dì me
peccatore; e queste altre di David: l'anima mia è umiliata fino a
terra; datemi voi la vita, secondo la vostra promessa; ed altre
simili. Alzatosi, riguardava fissamente il crocifisso, e faceva un
certo numero di genuflessioni, sempre guardando la croce e
pregando. A quando a quando la muta contemplazione veniva
interrotta da questa esclamazione: Signore, io grido a voi; deh!
non volgetevi dall'altra parte, non vi nascondete a me; o da altre
simili, prese dalla Scrittura. Alle volte genufletteva per molto
tempo; la sua parola non avea più forza di salire dal cuore fino
alle labbra; pareva che egli col suo spirito penetrasse i cieli;
rasciugavasi le lacrime che gli scorrevano sulle guance; il suo
cuore ora anelante, come quello del viaggiatore vicino alla
patria. Qualche altra volta stava ritto in piedi, con le mani
aperte avanti a sé a mo` di libro, sicché pareva che leggesse
attentamente, o alzate fino alle spalle, come uomo che ascolta, o
posate sugli occhi per raccogliersi in meditazioni più profonde.
Vedevasi anche ritto sulla punta de' piedi, colla faccia rivolta
al cielo, con le mani prima giunte al di sopra della testa a guisa
di freccia, e poi disgiunte in atteggiamento di supplicante, e poi
ricongiunte ancora, come fosso stato esaudito; e mentre si trovava
in tale stato, in cui non pareva più cittadino della terra, era
solito esclamare: Signore, esauditemi, mentre vi prego, mentre
innalzo le mie mani verso la vostra santa abitazione. Avea ancora
un altro modo di pregare, che però praticava raramente, quando
cioè voleva ottenere da Dio qualche grazia straordinaria, ed era
quello di star ritto, con le braccia distese in croce, ad
imitazione di Gesù Cristo morente ed invocante il Padre con
quelle onnipotenti parole, che salvarono il mondo. Con tono grave
e distinto Domenico allora ripeteva: Signore, ho gridato, ho tese
le mie mani a voi tutto il giorno, a voi ho tese le mie mani: e la
mia anima vi sta dinanzi siccome arida terra. Deh! esauditemi
prontamente. Di questo modo di preghiera si servì quando
richiamò a vita il giovane Napoleone; ma quelli che erano
presenti non intesero le parole da lui pronunziate, né ardirono
mai domandargliele.
Oltre i bisogni e gli avvenimenti giornalieri,
che ispiravano a Domenico queste speciali preghiere, egli teneva
sempre presente, allo spirito la causa della Chiesa, e pregava per
la dilatazione della fede nel cuore dei cristiani, per i popoli
ancora schiavi dell’errore, per le anime penanti del purgatorio.
«Tanto era il suo amore per le anime, riferisce un testimone nel
processo di canonizzazione, che non solamente si estendeva a tutti
i fedeli, ma anche agl'infedeli e per fino a quelli che soffrono
nell'inferno, pei quali versava lacrime in abbondanza» . E le
lacrime non gli bastavano. Tre volte per notte vi mescolava ancora
il suo sangue, per soddisfare così, quanto era da lui, quella
sete ardente del sacrifizio, che è la parte generosa dell'amore.
Si flagellava le spalle con catenelle annodate; e la grotta di
Segovia, testimone di tutti questi eccessi di penitenza, conservò
per più secoli tracce del sangue di lui. In cuor suo divideva
quel sangue in tre parti: la prima in isconto de' suoi peccati; la
seconda pei peccati dei vivi; e la terza per quelli dei morti.
Più d'una volta costrinse qualche fratello a flagellarlo,
affinché più grande fosse l'umiliazione e il dolore del suo
sacrifizio. Verrà giorno in cui al cospetto del cielo e della
terra gli angeli del Signore porteranno sopra l’altare del
giudizio due coppe piene; una mano giustissima le peserà, ed a
gloria eterna dei Santi sì farà manifesto, che ogni goccia di
sangue versato dall’amore ne risparmiò dei fiumi.
Dopo aver lungamente vegliato, pregato, pianto,
offerto insomma tutto se stesso in olocausto, se la campana del
Mattutino non gli annunziava ancora la levata de' suoi frati,
Domenico saliva a visitarli, quasi per troppo tempo ne fosse stato
lontano. Piano piano entrava nelle loro celle, faceva sopra, di
essi il segno della santa croce, e se durante il sonno qualcuno s’era
un po' scoperto, lo ricopriva; quindi tornava, in coro ad
aspettarli. Qualche volta durante questi pietosi misteri della
notte, lo sorprendeva il sonno; allora, o si appoggiava ad un
altare, o si distendeva sul pavimento. Suonata l'ora del
Mattutino, andava cogli altri frati, e salmeggiava con tutta
l'anima, giulivamente. Dopo l'Ufficio, ritiravasi a dormire in
qualche angolo della casa, perocchè egli non avea cella propria
come gli altri frati; e, vestito co m'era, si adagiava nel primo
canto che gli capitasse, sopra un banco, sulla paglia, sulla nuda
terra, e alle volte sulla bara stessa dei morti. Dormiva così
poco, che spesso si addormentava a tavola durante il pasto.
Domenico, da Segovia dove lasciò priore Fra
Corbalano, passò a Madrid. Anche là trovò un convento in
costruzione, per opera forse di Pietro di Madrid, uno di quelli
che al tempo della dispersione dei frati, Domenico aveva inviati
nella Spagna. Ma trovandosi l'edifizio fuori delle mura della
città, Domenico ne cambiò destinazione; ed in luogo dei frati ci
stabilì le suore, dedicando il monastero a S. Domenico di Silos.
Col tempo il nome di Silos cadde in dimenticanza, e per una
trasformazione inavvertita, di cui tutti e nessuno furono
complici, il convento restò dedicato al suo fondatore. E’ degno
di nota come il santo Patriarca nella Spagna, come in Francia ed
in Italia, mettesse lo stesso zelo nel fondare monasteri di
religiose e conventi di frati, tenendo sempre presente che
Notre-Dame di Prouille era stata la primizia del suo istituto. E
delle sollecite cure per le suore di Madrid, abbiamo un documento'
storico in una lettera, che egli scrisse loro dopo la fondazione
del monastero, così concepita: «Fra Domenico, maestro dei
Predicatori, alla madre Priora, e a tutte le
religiose del monastero di Madrid, saluto ed avanzamento di vita
per la grazia di Dio, Signor nostro. Ci rallegriamo assai e
rendiamo grazie a Dio pel vostro profitto spirituale e per avervi
egli liberate dal fango di questo mondo. Combattete, o figlie, il
vostro antico avversario con la preghiera e coi digiuni;
imperocchè quegli solamente sarà coronato, che da prode avrà
saputo combattere. Fino al presente non, avevate casa
corrispondente a tutte l'esigenze delle regole della religione; ma
ora non ci sarebbe più scusa di sorta, perché, grazie a Dio,
godete di abitazione perfettamente adatta pei vostri religiosi
doveri. Voglio adunque che da qui innanzi il silenzio sia
osservato in tutti i luoghi indicati dalle costituzioni
dell'Ordine, vale a dire, nel coro, nel refettorio, nei corridoi;
e che in tutto e dappertutto viviate secondo le, regole. Nessuna d
i voi esca fuori del monastero, né alcuno vi entri, ad eccezione
del vescovo o di qualche altro prelato, il quale venga per causa
di predicazione o di visita canonica. Non omettete le discipline e
le vigilie; siate obbedienti alla vostra superiora; non perdete il
tempo in conversazioni inutili. E perché, non potendo noi
sovvenire ai vostri bisogni temporali, non vogliamo neppure
aggravarli, proibiamo a qualsiasi frate di ricever novizie a
carico vostro; ciò apparterrà solamente alla Priora col
consiglio del monastero. Diamo poi autorità al carissimo nostro
fratello Mannes, che tanto si è adoperato per voi, fino a farvi
raggiungere il santo stato in cui vi trovate, di disporre,
regolare e ordinare le cose in quel modo che gli sembrerà più
opportuno, sicché voi viviate santamente e religiosamente. Egli
vi visiti, vi corregga, e possa anche deporre la priora, qualora
lo trovi necessario; sempre però col consenso della maggior parte
delle religiose. Rimettiamo inoltre alla di lui prudenza il
concedervi le opportune dispense. Addio in Cristo» .
Molti altri conventi di Spagna si attribuiscono
l'onore di essere stati fondati o almeno cominciati da Domenico;
gli storici primitivi però tacciono su ciò; ed anche noi ci
asterremo dal riferire tali pretese, non troppo conformi al breve
soggiorno del Santo nella Spagna. Ricorderemo solo Palenza, dove
Domenico passò dieci anni della sua giovinezza, e dove par certo
che istituisse una confraternita del Rosario e vi fondasse un
convento sotto il nome di S. Paolo.
Rifacendo il cammino verso la Francia, a
Guadalascara, non lontano da Madrid, Domenico fu abbandonato da
tutti i frati che aveva seco, eccettuato fra Adamo e due conversi,
che gli restarono fedeli. Egli allora, rivoltosi ad uno di questi
gli domandò, se anche lui volesse lasciarlo. «A Dio non piaccia,
rispose il frate, che io lasci il capo per seguire i piedi» . Di
tale abbandono Domenico era già stato avvisato in una visione.
Senza turbarsi si mise allora a pregare per le pecorelle smarrite,
e finì per aver la consolazione di vederle quasi tutte ritornate
all'ovile. Forse fu a loro riguardo che Domenico, trovandosi a
mensa nelle, vicinanze di Tolosa, e non essendovi che una tazza di
vino, per otto persone, miracolosamente lo accrebbe, «per
compassione, dicono gli storici, di alcuni frati, che nel secolo
erano stati delicatamente nutriti».
Domenico ritrovò a Tolosa Bertrando di Garriga,
uno de' suoi più antichi discepoli. Insieme s'incamminarono per
Parigi, e lungo la strada visitarono Roc-Amadour, antico santuario
della SS. Vergine, e celebre meta di pellegrinaggi posto in una
ripida e selvaggia solitudine di Querey.- «Consacrata una notte a
tal devozione, il giorno seguente, cammin facendo, furono
raggiunti da pellegrini alemanni, i quali, avendoli intesi
recitare devotamente salmi e litanie, s'unirono a loro. Al primo
villaggio che incontrarono, questi nuovi compagni invitarono i
nostri a pranzare insieme; e cosi fu per quattro giorni. Il quinto
giorno il beato Domenico disse, sospirando, a Bertrando di Garriga:
- Fra Bertrando, mi pesa sulla coscienza vedere che noi mietiamo
delle cose temporali da questi pellegrini, senza che seminiamo in
loro niente di spirituale. Perciò, se vi piace, mettiamoci in
ginocchio, e domandiamo a Dio la grazia d'intendere e di parlare
la loro lingua, affinché possiamo predicare loro il Signor nostro
Gesù Cristo. Così fecero, e con grande stupore dei pellegrini
cominciarono a parlare in tedesca. Per quattro giorni
che furono ancora, insieme ragionarono sempre
di Gesù; finché, giunti ad Orléans, dopo essersi accomiatati e
raccomandati scambievolmente alle particolari orazioni di
ciascuno, i pellegrini presero la via di Chartres, e Domenico e
Bertrando quella di Parigi. Il giorno seguente il beato Padre
disse a Bertrando: «Eccoci, o fratello, ormai giunti a Parigi; se
i nostri fratelli, venissero a sapere del miracolo che il Signore
ha fatto, ci riterrebbero come santi, mentre non siamo che
peccatori; se poi la cosa giungesse fino alle orecchie del
pubblico, l'umiltà nostra si troverebbe a gran cimento: per
questo vi proibisco di parlarne a qualsiasi prima della mia
morte».
Entrati in Parigi dalla porta d'Orléans, il
primo tra i fabbricati che attrasse lo sguardo di Domenico, fu il
convento di S. Giacomo, già abitato da trenta religiosi.
Quantunque il santo Patriarca vi si fermasse solo pochi giorni,
pure ebbe tempo di dar l'abito al giovane Guglielmo di Monferrato,
da lui conosciuto a Roma nella casa del cardinale Ugolino, e che
gli avea promesso di farsi frate predicatore, appena ultimato il
corso di due anni di teologia all'Università di Parigi. Fu allora
ch'egli sciolse il voto. Un altro felice incontro per Domenico
avvenne nella persona d'un baccelliere sassone, chiamato Giordano;
giovane d'ingegno, eloquente, amabile, vero servo di Dio, nato
nella diocesi di Paderborn dalla nobile famiglia dei conti di
Ebernstein, si era recato a Parigi per dissetarsi alle sorgenti
della scienza divina; e mosso da Dio, che l'avea predestinato a
primo successore di Domenico nel governo supremo dei Frati
Predicatori, si sentì come attratto verso il grande uomo, di cui
sarebbe rimasto l'erede, e gli rivelò le vive impressioni del
Cristo sul suo cuore. Avvicinarsi a Domenico e restarne avvinti
era tutt'uno; ma questa volta egli non volle affrettare i
movimenti dell'anima eletta che gli si era presentata, e si
limitò a consigliare al giovane sassone di assoggettarsi al giogo
di Dio col prender l'ordine del diaconato, lasciandolo ancora
esposto alle diverse influenze celesti, in attesa della mano che,
giunto a maturità, l'avrebbe colto.
Non v'ha cosa che dimostri cosi bene quanta
arditezza e forza d'animo fosse in Domenico, come l'azione da lui
esercitata durante la sua breve dimora nel Convento di S. Giacomo.
Dopo quasi un anno di assiduo lavoro praticato da eminenti
personaggi, i religiosi avevano raggiunto il numero di trenta; e
tutta la premura di questa comunità nascente era di crescere
ancora di forze e di numero, quando, giunto Domenico e gettato uno
sguardo su quel piccolo drappello di francesi, lo trova già
bastante a popolare la Francia di Frati Predicatori. Dietro suo
ordine, Pietro Cellani parte per Limoges, Filippo per Reims,
Guerrico per Metz, Guglielmo per Poitiers, alcuni altri per
Orléans, tutti colla missione di predicare nelle suddette città
e fondarvi conventi. A Pietro Cellani, che oppone la sua ignoranza
e la mancanza di libri, Domenico con intrepida fiducia in Dio
risponde: « Va pure e non aver paura, o mio figlio; due volte al
giorno mi ricorderò di te presso il Signore. Non dubitare, tu
farai acquisto di molte anime e riporterai gran frutto, che
crescerà e si moltiplicherà poiché il Signore sarà con te» .-
Pietro Cellani raccontò più tardi ai suoi più intimi, che in
tutte le sue tribolazioni interne ed esterne, sempre si era
ricordato della promessa fattagli; e che raccomandandosi a Dio ed
a Domenico, gli era riuscito sempre bene tutto. Domenico partì da
Parigi uscendo per la porta di Borgogna. A Chátillon-sur-Sein
richiamò a vita il nipote di un ecclesiastico da cui era stato
alloggiato. Il fanciullo era caduto dall'ultimo piano della casa,
ed era stato trovato morto. Lo zio fece un gran pranzo in onore
del Santo; ma Domenico, vedendo che la madre del bambino, presa
dalla febbre, non mangiava, benedisse un'anguilla e glie la
offrì, dicendole di mangiarne in: virtù di Dio; quel rimedio
subito la sanò.
«Dopo questi avvenimenti, il glorioso Padre,
in compagnia di un fratello converso, di nome Giovanni, ritornò
in Italia. Mentre valicavano le Alpi lombarde, fra Giovanni a un
tratto si sentì venir meno per la fame, tanto da non poter più
andare innanzi e nemmeno levarsi da terra. Il pietoso Padre gli
disse. Che avete, figliolo, che non potete più camminare? Ed
egli: - Padre santo, muoio di fame. Il Santo allora: - Fatevi
coraggio, figliolo; camminiamo ancora un poco, e troveremo qualche
luogo dove ristorare le nostre forze. - Ma il fratello a ripetere
che non gli era più possibile muovere un passo. Allora il Santo,
con quella bontà e commiserazione di cui era pieno, fece ricorso
al solito mezzo, alla preghiera. Pregò brevemente il Signore, e
poi rivolto al fratello: - Alzatevi, gli disse, o figlio andate
là in quel luogo, che ci sta dinnanzi, e prendete tutto quello
che ci troverete. - Si alzò il fratello, sebbene con grande
stento; si trascinò fino al luogo indicato, non più lontano di
un tiro di pietra, e vi trovò un pane di meravigliosa bianchezza,
involto in un pannolino parimenti bianchissimo. Portò il pane al
Santo, che gli ordinò di non mangiarne fino a che gli fossero
tornate le forze. Quando egli ebbe finito, l'uomo di Dio gli
domandò se ora, che aveva soddisfatta la fame, poteva camminare.
Rispose di sì. - Alzatevi allora, riprese il Santo, involgete il.
pane avanzato nel pannolino e riportatelo dove l'avete trovato. -
Il fratello obbedì e ripresero il viaggio. Allontanatisi un poco,
il fratello cominciò a dire fra sé e sé: - O mio Dio! e chi
può aver portato là quel pane, e da qual luogo? Non sono io
stupido a non «averlo domandato ancora? - E rivolto al Santo: -
Padre. santo, gli disse, ma da dove era egli venuto quel pane, o
chi l'aveva posato là? - Allora quel vero amante e custode
dell'umiltà gli rispose: - Non avete voi mangiato quanto vi
bisognava? - E Il fratello: - SI. - Adunque, soggiunse il Santo,
se avete mangiato quanto vi bisognava, rendetene grazie a Dio, e
non vi curate d'altro» . Fermiamoci per un momento col pensiero
su questi sentieri delle Alpi lombarde; e, viaggiatori noi stessi
dietro le loro orme pietose, gustiamo il piacere di seguirli più
da vicino.
Domenico viaggiava sempre a piedi, con un
bastone in mano ed un fagotto di panni sulle spalle. Fuori
dell'abitato si levava anche le scarpe, ed a piedi nudi proseguiva
il cammino. So qualche sasso lo feriva, diceva sorridendo: « Ecco
la nostra penitenza». Passando una volta in compagnia di fra
Bonvisi per un luogo, tutto seminato di ciottoli taglienti: « Oh,
me infelice! soggiunse, qui un giorno fui costretto a calzarmi. -
E perché? Gli domandò il compagno. - Perché aveva piovuto
assai». - Approssimandosi a qualche villaggio, Domenico rimetteva
le scarpe, per ritoglierle quando ne fosse uscito. Se poi
s'imbatteva a dover traversare qualche fiume o torrente, faceva il
segno della Croce sulle acque, e per dare esempio ai suoi
compagni, arditamente vi entrava per primo. Cominciava a piovere?
Ed egli intonava ad alta voce l'Ave Maris Stella, o il Veni
Creator Spiritus. Non portava seco né oro, né argento, né
moneta si rimetteva completamente alla mercé degli uonini e della
Provvidenza. Più volentieri di tutto alloggiava nei conventi; mai
però si fermava a piacer suo, ma sempre secondo le fatiche
sostenute o il desiderio de suoi compagni di viaggio. Mangiava
senza distinzione quello che gli ospiti offrivano, eccettuata la
carne. Perocchè anche in viaggio osservava rigorosamente
l'astinenza ed i digiuni dell'Ordine, sebbene dispensasse i
compagni. Più era trattato male, più ne rimaneva soddisfatto.
Anche da malato fu veduto mangiar radici e frutta, piuttosto che
cibi delicati. Se sapeva di doversi fermare in casa di secolari,
estingueva prima la sete ad una fontana, temendo che il bisogno di
bere facesse scapitare la modestia del religioso e fosse di
scandalo ai commensali. Alle volte andava mendicando il pane di
porta in porta, e ringraziava con tanta umiltà chi glie ne dava,
che si metteva perfino in ginocchio. Dormiva vestito sulla paglia
o sopra una panca. Anche in viaggio non tralasciava nessuna delle
sue pratiche di pietà.
Tutti i giorni, a meno che non gli mancasse la
chiesa, offriva a Dio con grande abbondanza di lacrime, il santo
sacrificio: celebrare i divini misteri, e non sentirsene
intenerito, gli sarebbe stato impossibile. Quando, seguendo
l'ordine delle cerimonie, era prossimo l'arrivo di, Colui, ch'egli
avea sommamente amato fin dai più teneri anni, ognuno si
accorgeva della viva emozione di tutto il suo essere. Una lacrima
chiamava l'altra su quel viso pallido e raggiante ad un tempo.
Recitava l'orazione domenicale con un accento così serafico, da
render quasi sensibile la presenza del Padre che sta ne' cieli. La
mattina stava e faceva stare in silenzio fino alle nove i suoi
compagni di viaggio; così pure la sera dopo Compieta. Nell'altro
tempo parlava sempre di Dio; ora in forma di conversazione, ora di
controversie teologiche o in ogni altro modo che gli fosse venuto
in mente. Talvolta, specialmente trovandosi in luoghi solitari,
pregava i suoi compagni a staccarsi un po' da lui, ripetendo loro
con molta grazia queste parole del profeta Osea: Io lo condurrò
nella solitudine e gli parlerò al cuore; e precedendoli o
seguendoli, si metteva a meditare qualche passo della Scrittura. I
compagni osservarono che durante queste meditazioni il Santo
faceva spesso un gesto intorno al viso, come per cacciare insetti
importuni; ed attribuirono a questa meditazione, per lui
famigliare, delle sacre pagine, la profonda cognizione ch'egli ne
aveva. Tanta era l'abitudine di star con Dio, che non gli veniva
quasi mai fatto di levar gli occhi da terra; né mai si ritirava
nelle case dove era ospitato, senza prima essere entrato in
qualche chiesa a pregare, purché ve ne fosse. Dopo pranzo era
solito ritirarsi in una camera a leggere l'Evangelo di S. Matteo e
l'Epistole di S. Paolo, che sempre portava con sé. Sedutosi,
apriva il libro, si faceva il segno della Croce e leggeva
attentamente. Ben presto però la parola divina lo rapiva;
incominciava a gesticolare come parlasse ad altri; ora sembrava
che ascoltasse, ora che disputasse, ora che lottasse; sorrideva. e
piangeva alternativamente; fissava lo sguardo in qualche parte,
poi chinava gli occhi, parlava sottovoce, battevasi il petto.
Dalla lettura passava alla meditazione alla contemplazione senza
mai posare. A quando a quando baciava con affetto il libro, come
per ringraziarlo della felicità che gli procurava; ed assorto
sempre più in questa santa voluttà, colle mani o col cappuccio
coprivasi la faccia. Sopraggiunta la notte portavasi alla chiesa
per le consuete veglie e penitenze; e quando non gli era dato di
avere una chiesa a sua disposizione, si ritirava in una camera
appartata; ciò nonostante i forti gemiti interrompevano, suo
malgrado, il sonno dei compagni. All'ora del Mattutino svegliava i
suoi compagni per dir l’ufficio in comune, e quando alloggiava
in qualche convento, anche di altro Ordine, batteva alle porte dei
religiosi, sollecitandoli ad alzarsi e discendere in coro.
Nei suoi viaggi, dovunque passasse, sempre
predicava nelle città, nei villaggi, nei castelli e perfino nei
monasteri; e la sua parola era di fuoco. Iniziato pei lunghi studi
fatti a Palenza e ad Osma a tutti i misteri della cristiana
teologia, le cose della fede uscivano dal suo cuore piene d'amore,
che rivelava anche ai più ostinati la verità. Un giovane rapito
da questa eloquenza gli domandò in quali libri l'avesse appresa.
«Figlio mio, rispose Domenico, più che in altri, nel libro della
carità; questo insegna tutto». Anche sul pulpito scoppiava
spesso in lacrime, ed era preso abitualmente da quella
soprannaturale melanconia, che dà il profondo sentimento delle
cose invisibili. Allorchè apparivano da lontano i tetti delle
case di una città o di una borgata, il pensiero delle serie e dei
peccati degli uomini subito lo immergeva in una triste
preoccupazione, che si rifletteva anche sul suo volto. Rapidamente
passava alle più diverse espressioni dell'amore; sulle rughe
della sua fronte era un continuo alternarsi di sentimenti di
gioia, di tristezza, di serenità; cosa che conferiva alla maestà
di un tant'uomo un fascino incredibile. «Sapeva essere amabile
con tutti, dice uno dei testimoni nel processo di canonizzazione,
coi ricchi, coi poveri, coi giudei ed infedeli, assai numerosi
nella Spagna; e da tutti era riamato, se ne eccettui gli eretici
ed i nemici della Chiesa, che dalle sue dispute e prediche
rimanevano conquisi».
CAPITOLO XIV
Quinto viaggio di S. Domenico a Roma
Morte del B. Reginaldo
Il B. Giordano di Sassonia entra nell’Ordine
L’anno 1219, Domenico, scendendo nel colmo
dell'estate la rapia china delle Alpi, rivedeva per l'ultima volta
la fertile e vasta pianura della Lombardia, destinata a possederlo
in uno dei momenti più solenni della sua vita. La Vecchia
Castiglia lo aveva nutrito nell’infanzia e nella giovinezza; la
Linguadoca se lo era goduto nel più bel periodo della virilità;
a Roma, come al suo centro, l'aveva sempre portato l'ardore della
sua fede; la Lombardia ne doveva essere la tomba. S'ignora per
quale strada vi entrasse; gli storici primitivi, senza tracciarne
l'itinerario, ad un tratto ce lo fanno trovare a Bologna. Con
immensa gioia fu ricevuto da tutti i frati del Convento di San
Niccolò, retto allora dal B. Reginaldo; ed il primo suo atto fu
la rinunzia dei possedimenti. Oderico Galliani, cittadino di
Bologna, aveva di recente donato ai Frati, con tutte le formalità
legali, alcune sue terre di un valore considerevole. Domenico
stracciò alla presenza del vescovo il contratto, e dichiarò
esser sua volontà che i religiosi giorno per giorno mendicassero
il pane, senza accumular mai ricchezze e possessioni. Nessuna
virtù di fatti egli avea più cara della povertà. Una sola e
rozza tonaca era la sua veste d'ogni stagione, senza vergognarsi
di presentarsi, così umilmente vestito, dinanzi ai più grandi
signori. Voleva quindi che anche i suoi frati lo imitassero; che
abitassero in case modeste, e che neppure all'altare usassero seta
o porpora, vasi d'oro o d'argento, tranne il calice. Con uguale
spirito di parsimonia e di penitenza regolava la tavola: due
pietanze ai frati, una sola per sé. Rodolfo di Faenza,
procuratore del convento di Bologna, raccontava che avendo egli
qualche volta fatto miglior trattamento ai religiosi mentre vi si
trovava Domenico, il Santo l'aveva chiamato e gli aveva detto
all'orecchio: «Ma voi uccidete i frati colle vostre pietanze!».
Quando nel Convento di S. Niccolò veniva a
mancare il pane o il vino, cosa che di tanto in tanto accadeva,
fra Rodolfo andava allora a trovar Domenico, il Santo gli dava
ordine di andare con lui in chiesa a pregare; e la Provvidenza
disponeva le cose in modo che sempre era dato di rimediare al
desinare. Un giorno di digiuno tutta; la comunità stava già a
refettorio, quando il fratello Bonvisi si accostò a Domenico per
dirgli che non c'era nulla da mangiare. Il Santo pieno di
contentezza, levò gli occhi e le mani al cielo, e rese grazie a
Dio d'essere così povero. Ben tosto però due giovani sconosciuti
entrarono in refettorio, uno con pani, l’altro con fichi secchi,
e ne fecero distribuzione ai religiosi. Un'altra volta non
essendoci in convento che due soli pani, Domenico ordinò che
fossero divisi in piccoli pezzi; quindi benedisse il paniere, e
disse al fratello, che serviva alla mensa, di fare il giro delle
tavole distribuendone due o tre pezzetti a ciascuno. Fatto il
primo giro, comandò il Santo che se ne facesse un secondo e più
ancora, finché tutti fossero sazi. Ordinariamente i frati non
bevevano che acqua; solo pei malati procuravasi un po' di vino. Un
giorno l'infermiere andò da Domenico a lamentarsi di non trovar
punto vino pel malati, e gli mostrò il vaso vuoto. Il servo di
Dio si, mise allora, secondo il suo solito, a pregare, esortando
per umiltà ancora gli altri a fare lo stesso; e quando
l'infermiere riprese il vaso dei vino, lo trovò pieno.
Gli storici poco ci han detto dell’esultanza
dei frati di Bologna all'arrivo di Domenico fra loro; ma si può
argomentar facilmente l'effetto della di lui comparsa in mezzo ad
uomini che, pur senza conoscerlo, si eran fatti suoi figli. Ora
vedevano coi proprii occhi quello spagnolo, che per mezzo di un
francese li aveva convertiti a Dio, e che, risuscitando le
meraviglie dei primitivi tempi della Chiesa, aveva raccolto da
tutte le parti della cristianità una società di apostoli. Lo
vedevano! e le virtù, i miracoli, la parola, il sembiante di lui
presentavano tale spettacolo, che la loro fantasia mai avrebbe
immaginato. Nel breve tempo che Domenico stette fra loro, la santa
e già numerosa famiglia si accrebbe ancora, causa l'ascendente
ch'egli aveva, così dentro come fuori del monastero. Udiamo, fra
le altre cose, in qual modo singolare avvenne la vestizione di
Stefano di Spagna: «Mentre io studiava a Bologna, è Stefano
stesso che racconta, arrivò maestro Domenico e cominciò a
predicare agli studenti, come pure agli altri. Andai a confessarmi
da lui, e mi parve riconoscere in lui un grande amore per me. Una
sera mentre ero all'albergo, già seduto
a cena coi miei compagni, giunsero due frati e
mi dissero: - Fra Domenico vuol vedervi, e desidera che veniate
senza, indugio. - Risposi che sarei andato subito dopo la cena. Ma
essi: - No, no; vi vuole sull'istante. - Allora mi alzai, e
lasciato tutto, giunsi con loro a S. Niccolò, dove trovai Maestro
Domenico in mezzo a una moltitudine di frati, ai quali egli disse:
- Insegnategli come si fa la prostrazione. - E quando me l'ebbero
insegnato, io mi prostrai con tutta docilità, ed egli mi rivestì
senz'altro dell'abito dei Frati Predicatori, dicendomi: - Eccovi
le armi colle quali voi sconfiggerete il demonio per tutta la
vostra vita. - Restai allora meravigliato assai, né ripenso senza
stupore all'istinto pel quale Domenico così in fretta mi fece
chiamare e mi donò l'abito di Frate Predicatore. Imperocchè non
avendomi egli mai parlato di entrare in religione, senza dubbio fu
mossa, in far ciò, da ispirazione e rivelazione divina».
Come prima avea fatto a Parigi, così a Bologna
Domenico attuò il suo piano di mandar frati nelle principali
città dell'alta Italia per predicarvi e fondarvi conventi. Era
irremovibile dalla massima prediletta: Bisogna seminare il grano e
non ammucchiarlo; e Milano e Firenze accolsero alla loro volta
colonie di Frati Predicatori. Inoltre parve opportuno a Domenico
che fra Reginaldo lasciasse Bologna per recarsi a Parigi. Si
riprometteva assai dalla eloquenza e dalla rinomanza di lui per
dare l'ultima mano allo stabilimento dell'Ordine in Francia. I
frati di Bologna videro con amaro rincrescimento allontanarsi da
loro Reginaldo e piansero per essere così presto staccati dalle
mammelle della mamma, come si esprime il B. Giordano di Sassonia,
il quale però soggiunge subito: «ma tutte queste cose avvenivano
per volontà di Dio. C'era un non so che di meraviglioso nella
maniera con cui il beato servo di Dio, Domenico, inviava qua e là
i suoi frati per tutte le parti della cristianità, malgrado che
qualche volta altri facesse delle rimostranze; né lieve ombra di
esitazione indebolì mai la sua fiducia. Si diceva ch'egli sapeva
già del buon esito per rivelazione dello Spirito Santo. In
verità, chi oserebbe dubitarne? Non aveva seco da principio che
pochi frati, semplici, illetterati la maggior parte, eppure avea
osato spargerli a piccoli drappelli per tutta la Chiesa; di guisa
che non mancarono le accuse da parte dei figlioli del secolo, i
quali giudicano sempre secondo la loro prudenza, di voler
distruggere il già fatto, anzi che innalzare un grandioso
edifizio. Ma Domenico accompagnava i suoi figli colle sue
preghiere, e la virtù del Signore pensava a moltiplicarli».
Anche Domenico verso la fine del mese di
Ottobre partì da Bologna. Valicò l'Appennino dirigendosi verso
Firenze, e sostò per qualche tempo sulle rive dell’Arno, là,
dove in seguito sarebbero sorti i due celebri conventi di S. Maria
Novella e di S. Marco. I Frati uffiziavano allora una piccola
chiesa, accanto alla quale abitava una donna chiamata Bena,
conosciuta per le sregolatezze della vita, e che il Signore, per
giusto castigo, lasciava esposta agli assalti dello spirito
maligno. All'udir le prediche di Domenico ella si convertì, e le
preghiere del Santo la liberarono dai demoni che la tormentavano.
Ma la pace riacquistata fu per lei occasione di ricaduta; e un
anno appresso essa stessa confessò a Domenico, il quale di nuovo
si trovava a Firenze, qual cattivo uso avesse fatto della
liberazione ottenuta. Domenico la richiese allora se desiderasse
ritornare al primitivo stato; e dietro risposta che si rimetteva
in tutto a Dio ed a lui, il Santo pregò il Signore di fare il
meglio per la salute di cotal femmina. Trascorsi alcuni giorni, lo
spirito maligno nuovamente la invase, e tal castigo dei suoi
antichi falli fu per lei principio di meriti e di perfezione. Bena
prese in seguito il velo monacale col nome di Suor Benedetta. Di
lei ancora si legge che, essendo Domenico tornato a Firenze, mosse
a lui vive lagnanze perché un ecclesiastico la molestava, causa
l'ossequio ch'essa aveva per i Frati. Ed il motivo era perché
quel prete non poteva soffrire che fosse stata concessa a loro la
chiesa., di cui egli era Cappellano. Ma Domenico rispose a Suor
Benedetta: « Abbiate pazienza, o figlia. Costui che vi molesta,
sarà presto uno dei nostri, e si sobbarcherà nell'Ordine a
grandi e lunghe fatiche».
Domenico, trovò a Viterbo il Sommo Pontefice
Onorio III, dal quale, in data del 15 novembre 1219, ottenne
lettere di raccomandazione pei vescovi e prelati della Spagna;
raccomandazioni che, agli 8 di dicembre furono estese agli
arcivescovi, vescovi, abati e prelati di tutta la cristianità. Il
17 poi del medesimo mese il Papa da Civitacastellana fece
donazione a Domenico ed ai suoi frati del convento di S. Sisto,
posto al di là del monte Celio, tenuto fino a quel giorno
dall'Ordine in virtù di una semplice cessione orale. Nell'atto
non si fa affatto menzione delle monache di S. Sisto; e ciò,
senza dubbio, perché formavano coi Frati un solo e medesimo
Ordine, temporalmente e spiritualmente governato dal Maestro
Generale.
Non era questa la prima volta che il santo
Patriarca vedeva Viterbo. Già tre anni prima, di ritorno in
Francia dopo la conferma dell'Ordine, vi era stato col cardinale
Capocci, da cui aveva ricevuto in dono una cappella e un monastero
sotto il titolo di S. Croce, posti sopra un'altura, vicina alla
città, ed anche una chiesa, che si veniva costruendo lì accanto.
Il cardinale si era indotto a fare erigere tale chiesa in onore
della SS. Vergine, per un sogno avuto; e l'amicizia grande che
avea con Domenico, lo spinse a donarla a lui anche prima che fosse
ultimata, pel timore che il tempo tradisse la sua buona volontà.
Difatti non poté godere la, soddisfazione di vederla compiuta; ma
prima di morire ne assicurò all'Ordine il possesso, e sotto il
titolo di S. Maria di Gradi divenne uno dei più celebri conventi
della provincia Romana. Dell'antica cappella di S. Croce rimangono
tuttora alcuni ruderi; ivi Domenico passò intere notti, e fino al
secolo scorso ne furono ornamento le tracce del suo, sangue.
Il capo d'anno del 1220 Domenico lo passò a
Roma. Dalla frase di uno storico si rileva avere egli in tal
circostanza distribuito alle monache di S. Sisto dei cucchiai di
ebano, da lui stesso portati dalla Spagna. Santa semplicità di un
tant'uomol In mezzo agli affari, di un lungo viaggio, il gentile
pensiero di fare un dono a povere monache, gli aveva fatto portare
sulle proprie spalle, per tutto un cammino di sei o settecento
leghe, quel ricordo del suo paese! Sulle proprie spalle, perché
Domenico non avrebbe mai permesso che altri si caricasse del suo
bagaglio.
Frattanto Reginaldo giunto a Parigi, vi
annunziava il Vangelo con tutta l'autorità della sua eloquenza e
della sua fede. Dopo Domenico era egli l'astro più fulgido della
nuova religione. Tutti i frati tenevano gli occhi su di lui; e
senza prevedere la morte troppo imminente del loro fondatore, si
compiacevano nel pensiero che, ad ogni caso, non sarebbe stato lui
il solo capace di sostenere la sua opera. Ma Iddio mostrò ben
presto la vanità di questi sentimenti di amore e di ammirazione.
Reginaldo, nel momento, appunto che ispirava di sé la più grande
aspettazione cadde gravemente malato. Matteo di Francia, Priore di
S. Giacomo, gli fece allora capire che l'ultima battaglia era
vicina, e lo richiese se avesse desiderio di ricevere l'estrema
unzione. «Io non temo il combattimento, rispose Reginaldo,
l'aspetto anzi con gioia; ed aspetto ancora la Madre di
Misericordia, che mi unse a Roma di sua propria mano, nella quale
io confido assai. Ma perché non sembri che disprezzi l'unzione
della Chiesa, ho piacere di riceverla e ve la domando». I frati,
almeno la maggior parte, non sapevano nulla del modo misterioso
con cui Reginaldo era stato chiamato alla religione, avendo egli
pregato Domenico di non parlarne finch'ei vivesse. Ma nel punto
solenne della morte, tornandogli in mente tanto insigne favore,
non poté trattenersi dal farvi allusione; ed un sentimento di
riconoscenza svelò così un segreto, fino allora dall'umiltà
tenuto nascosto. Anche un'altra volta egli aveva detto a Matteo di
Francia parole allusive, conservateci dalla storia; quando cioè a
Matteo, il quale si meravigliava di veder Reginaldo entrato in un
Ordine così austero, sapendo invece quanto delicatamente prima
avesse vissuto ed in qual rinomanza l'avea conosciuto fin da
quando era nel secolo Reginaldo rispose: «Non c'è nessun merito
da parte mia; anche troppo me ne sono sempre compiaciuto».
Reginaldo cessò di vivere sulla fine di gennaio del 1220; il
giorno preciso non lo sappiamo. I frati lo trasportarono nella
chiesa di Notre-Dame-des-Champs, vicino a S. Giacomo, dove avevano
il diritto di sepoltura. Dal monumento in cui quelle reliquie
furon deposte operarono vari miracoli, e per ben quattrocento anni
furono onorato di un culto, di cui pareva dovesse eternarsene la
tradizione. Ma nel 1614 la chiesa di NotreDame-des-Champs fu data
alle Carmelitane della riforma di S. Teresa; e col trasferire
ch'esse fecero nell'interno del monastero il corpo di Reginaldo,
la sua memoria, malgrado l'ereditaria tradizione, cessò a poco a
poco di essere popolare, e divenne, come la sua tomba, il secreto
di coloro soltanto che conoscono ed abitano in ispirito
l'antichità. Presentemente neppure il monumento esiste più;
disparve insieme colla chiesa e col monastero di
Notre-Dame-des-Champs. Così il fondatore del convento di Bologna,
colui che i frati appellavano il loro bastone, che era stato
chiamato all'Ordine dalla Vergine medesima, che da Lei era stato
miracolosamente unto e risanato, che aveva dato la forma ultima e
sacra all'abito domenicano, il B. Reginaldo non ebbe più nessun
culto neppure nell'Ordine dei Frati Predicatori, di cui fu uno dei
più belli ornamenti per la santità della vita, per la potenza
della parola, e per il grande numero di figli che ad esso generò.
Tanta fecondità in lui non venne meno che alla morte; infatti
alla vigilia stessa della sua ultima e breve malattia emetteva
ancora dal suo ceppo rigogliosi rampolli.
Il lettore si ricorderà di quello studente
sassone conosciuto da Domenico a Parigi, e di cui volle ancora
provare la vocazione, tuttochè manifesta. A cogliere questo fiore
prezioso, che la mano di Domenico, quasi trattenuta da un delicato
presentimento, avea rispettato onde onorare e consolare la fine
prematura di uno de' suoi figli più illustri, era stato
predestinato Reginaldo. Ed ecco come Giordano di Sassonia racconta
il suo ingresso nell'Ordine e quello del suo amico, Enrico di
Colonia: «La notte medesima in cui l'anima del santo uomo
Reginaldo se ne volò al cielo, io, non ancora frate di abito, ma
che già avea fatto nelle sue mani voto di esserlo, vidi in sogno
i frati su di una nave. Ad un tratto la nave si affondò, ma i
frati erano salvi dal naufragio. Penso che quella nave fosse
Reginaldo, considerato dai frati come il loro bastone. Un altro
vide sognando una limpida fonte che improvvisamente cessò di
gettare acqua, ma che fu sorrogata da altre due sorgenti
zampillanti fuori. Io credo che anche questa visione si riferisse
a qualche cosa di reale; ma conosco troppo la sterilità del mio
spirito per osare di darne l'interpretazione. Questo so che nelle
mani di Reginaldo non furon fatte a Parigi che due professioni, la
mia e quella di fra Enrico, che fu poi Priore di Colonia: uomo ch’io
amava di tale affetto, che non ho sentito per altri mai; vaso di
onore e di perfezione, anima insomma così bella, che io non
ricordo di averne conosciuta l'eguale. Il Signore si affrettò a
chiamarlo a sé; è per questo che non sarà vano dir qualche cosa
delle sue virtù.
«Enrico, di nobili natali, era stato nominato,
ancor giovanissimo, canonico di Utrecht. Un canonico di quella
chiesa, persona rispettabile e molto religiosa, l'avea educato fin
dai più teneri anni nel timore di Dio. Gli aveva insegnato coll'esempio
a vincere il mondo, crocifiggendo la carne e facendo opere buone;
voleva che lavasse i piedi ai poverelli, che frequentasse la
chiesa, fuggisse il male, avesse in dispregio il lusso, amasse la
castità. Ed il giovane, di buonissima indole, piegavasi docile al
giogo della virtù; di guisa che i buoni costumi crebbero in lui
presto come gli anni, ed a vederlo l'avresti preso per un angiolo:
tanto e virtù e natura sembravano in lui una medesima cosa. Andò
poi a Parigi; e lo studio della teologia, a preferenza di ogni
altra scienza, non tardò ad innamorarlo, dotato come egli era
d'ingegno vivissimo e di mente perfettamente ordinata.
C'incontrammo nel medesimo albergo, e ben presto dall'esser
commensali di corpo, nacque una dolce e stretta amicizia, fra le
nostre anime. In quel tempo si trovava a Parigi anche fra
Reginaldo, di felice memoria, e vi predicava con tanto ardore che
io, mosso dalla grazia del Signore, feci voto dentro di me
d'entrare nel suo Ordine: sembrandomi d'aver ritrovata là quella
via sicura di salvezza, quale appunto, prima di conoscere i Frati,
me l'ero sovente rappresentata. Presa tale risoluzione, cominciai
a desiderare che anche il compagno e l'amico dell'anima mia
facesse lo stesso voto, riscontrando in lui tutte quelle
disposizioni di natura e di grazia richieste in un frate
Predicatore. Egli a ricusarsi, ed io a stringerlo con nuove
istanze, finché ottenni che andasse a confessarsi da fra
Reginaldo. Al suo ritorno aprimmo il profeta Isaia come per
trovarvi qualche consiglio, e ci cadde sott'occhio questo passo:
Il Signore mi ha dato lingua erudita, affinché io sappia
sostenere con la parola colui che cade; e la mattina mi sveglia,
affinché alla sua voce io porga attento le orecchie. Il Signore
Dio mi ha fatto ascoltar la sua voce, ed io non mi tiro indietro,
né contradico(Is 50, 4-5). Mentre che io gli interpretava queste
parole, così bene rispondenti alle disposizioni del suo cuore e
che eran per lui come un avviso del cielo, esortandolo a
sottomettere la sua gioventù al giogo dell'obbedienza, notammo
più sotto queste due altre parole: «stiamo insieme, che ci
avvertivano di non separarci l'un dall'altro, e di consacrare la
nostra vita al medesimo ideale. Fu alludendo a ciò che,
trovandosi egli in Germania ed io in Italia, mi scrisse un giorno:
Dov'è ora quello stiamo insieme? Voi a Bologna ed io a Colonia!
Io dunque gli diceva: - Qual merito più grande vi può essere,
qual più gloriosa corona che di partecipare della povertà del
Cristo e de' suoi apostoli, e dell'avere abbandonato il secolo per
amor suo? - Ma per quanto tali ragioni gli sembrassero
convincenti, pur la volontà rimaneva sempre ostinata a resistere.
«La notte stessa in cui tenevamo questi
discorsi, egli andò ad assistere al Mattutino nella chiesa della
B. Vergine, e si trattenne fino all'alba a pregare la gran Madre
di Dio di voler piegare in lui quello, che ancora vi era di
ribelle. E non sentendo per nulla addolcita dalla preghiera la
durezza del suo cuore, uscì in queste parole: - Ora sì che
conosco, o Vergine benedetta, che non c'è misericordia per me, e
che per me non c'è posto nella famiglia dei poveri di Cristo. -
Ciò disse con grande rincrescimento, pel desiderio ardente che
aveva di abbracciare la povertà volontaria, avendogli il Signore
una volta fatto conoscere quanto essa valesse nel giorno del
giudizio. La cosa avvenne così: Ei vide in sogno G. Cristo sopra
il suo tribunale, e due innumerabili schiere di persone, una delle
quali era giudicata, e l'altra giudicava insieme con Gesù. Mentre
che egli, sicuro in coscienza, contemplava tranquillamente un tale
spettacolo, uno di coloro che stavano accanto al giudice, stese ad
un tratto la mano verso di lui e gli gridò: - O tu, che sei
laggiù in basso, che hai tu mai lasciato per il Signore? - Si
trovò confuso, non sapendo che rispondere; e perciò desiderava
assai la povertà, quantunque gli mancasse il coraggio di
abbracciarla. Onde uscì di chiesa tutto costernato di non avere
ottenuta tutta quella forza che avea domandata. Ma Colui che
dall'alto ha cura degli umili, scosse finalmente dalle fondamenta
il suo cuore, rivi di lacrime sgorgarono in abbondanza dai suoi
occhi, la sua anima si aprì con grande espansione al Signore.
Tutta la durezza che l'opprimeva era stata vinta, e il giogo di G.
Cristo, prima così ripugnante alla sua immaginazione, gli
apparve, com'è veramente, il più soave e leggero. Pieno di
entusiasmo si levò tosto, corse da fra Reginaldo, nelle sue mani
emise i voti, poi venne da me; e mentre io considerava nel suo
angelico volto le tracce delle lacrime, richiestolo dove fosse
stato, così mi rispose: - Ho fatto un voto al Signore e
l'adempirò. - Ciò nonostante differimmo ambedue a prender
l'abito fino a quaresima; nel frattempo acquistammo un altro
compagno, che fu fra Leone, successore di fra Enrico nella carica
di Priore.
«Giunto il giorno in cui la Chiesa col
misterioso rito delle ceneri ricorda ai fedeli che ritorneranno in
quella polvere, donde trassero origine, ci preparammo ambedue ad
adempire i nostri voti. Gli altri compagni non sapevano niente
delle risoluzioni di Enrico, ed uno di loro, vistolo sortir di
casa gli disse: - Enrico, e dove vai? - A Betania, egli rispose; e
l'allusione cadeva appunto sulla parola ebraica, che significa
casa di ubbidienza. Ci recammo adunque tutti e tre a S. Giacomo,
ed entrammo appunto nel momento in cui i frati cantavano:
immutemur habitu. Essi non aspettavano una tal visita, ma
tuttochè inaspettata, giunse sempre gradita; e noi ci spogliammo
del vecchio uomo per rivestirci del nuovo, mentre i frati andavano
cantando a parole quella cosa stessa che noi facevamo».
Reginaldo non assisté alla vestizione di
Giordano di Sassonia e di Enrico di Colonia: prima ancora di aver
consumato quest'ultima opera, se n'era ritornato a Dio; simile
all'aloe, che fiorendo muore e mai non vede i suoi frutti.
CAPITOLO XV
Primo capitolo generale dell'Ordine
Dimora di S. Domenico in Lombardia
Istituzione del Terzo Ordine
Non erano ancora trascorsi tre anni dacché i
frati di Notre-Dame di Prouille si erano sparsi nel mondo, e già
possedevano conventi in Francia, in Italia, nella Spagna, nell'Alemagna
e perfino nella Polonia. La benedizione di Dio, discesa su di loro
abbondante, li aveva fatti crescere e moltiplicare dovunque. E
Domenico, che vedeva questi successi, che li aveva anzi affrettati
colla sua stessa presenza, credé ormai giunta l'ora di mostrare
ai frati quanto valessero, non a pascolo di vana soddisfazione, ma
ad incoraggiamento per fatiche ancora maggiori, ed a scopo di
riaffermare l'unità dell'Ordine e di dar l'ultima mano alla
legislazione con cui esso era governato. Quindi convocò il
capitolo generale in Bologna per la Pentecoste del 1220; e sulla
fine di febbraio, o ai primi di marzo, egli stesso lasciò Roma.
Passò alcuni giorni a Viterbo presso il Sommo Pontefice, dal
quale, in segno del suo costante affetto, ricevé altre tre
lettere, scritte una dietro l'altra, pei popoli di Madrid, di
Segovia.e di Bologna, affine di ringraziarli della carità usata
ai frati, e di esortarli a perseverare nei medesimi sentimenti. Di
queste lettere una porta la data del 20, un'altra del 23, e la
terza del 24 marzo; ma già ai 26 di febbraio il Sommo Pontefice
aveva scritto ai religiosi di Notre-Dame-des-Champs a Parigi per
rallegrarsi con loro di aver concessa ai Frati Predicatori la
sepoltura nella loro chiesa; ai 6 di marzo li aveva caldamente
raccomandati all'Arcivescovo di Tarragona, ed ai 12 del medesimo
mese aveva permesso ai frati di altri Ordini di unirsi a Domenico
per esercitare insieme a. lui il ministero della predicazione.
Nel giorno di Pentecoste adunque Domenico si
trovava a Bologna, circondato dai frati di S. Niccolò e dai
rappresentanti dell'Ordine intero. Si ignora chi fossero i
presenti, ad eccezione di Giordano di Sassonia, che sappiamo
esservi stato inviato da Parigi con altri tre frati, poche
settimane dopo la sua vestizione. Da quell'assemblea emerse la
figura di Domenico, non più semplice priore di pochi religiosi,
ma Maestro Generale di un Ordine sparso per tutta Europa; non più
raccolto in una piccola chiesuola di villaggio, come a Prouille,
ma nel seno di una grande ed illustre città, convegno della
gioventù studiosa di tutte le nazioni; non più agitato dai
timori degli stessi suoi amici, ma con dinanzi a sé un'opera
ormai stabilita, avendo pronti a difenderla uomini, che facevano
risuonare della loro voce le aule stesse delle Università. Egli
era allora sui cinquant'anni.
La prima proposta fatta da Domenico al capitolo
generale fu la rinunzia di tutti i beni che l'Ordine possedeva e
di vivere giorno per giorno di sole limosine. Questa risoluzione
era in lui di vecchia data; ed anche nelle deliberazioni prese a
Prouille l'anno 1216, in massima era stata dai frati accettata, ma
differitane l'attuazione. Domenico, lui in persona, dal celebre
abboccamento di Montpellier in poi, abboccamento che segnò i
principi del suo apostolato, ed in cui fu deciso la povertà
volontaria esser la sola arma capace di abbattere l'eresia, era
sempre vissuto della pubblica carità. Ma altra cosa era che pochi
missionari fossero vissuti limosinando, ed altra fondare un
Ordine, che tutto si affidasse alle quotidiane incertezze del
mendicare; opera ardita, alla quale, tutte le tradizioni
sembravano opporsi. La Chiesa stessa, venuta a godere il diritto
di proprietà, se ne era servita per esser più libera da' suoi
nemici, più liberale coi poveri, più magnifica con Dio. Anche i
solitari dell'Oriente vendevano e compravano, reputandosi a gloria
vivere del frutto delle proprie mani. Era forse espediente,
perché si era abusato delle ricchezze, abusare ora della
povertà? Se un estremo esempio era stato pel momento necessario,
era però sapiente estendere anche all'avvenire una risoluzione
praticata in tempi eccezionali? O queste, o altre ragioni avessero
pesato sullo spirito di Domenico, è certo ch'egli aveva accettato
pel suo Ordine possessioni di terre, quantunque coll'animo di
lasciarle in seguito. E’ stato detto che l'ispirazione di un
tale abbandono venisse a Domenico per la relazione avuta con S.
Francesco d'Assisi; ed è verissimo che S. Francesco ricevè da
Dio la speciale missione di ravvivare nella Chiesa lo spirito di
povertà. Ma prima ancora che questi avesse rinunziato a tutto per
seguir Gesù Cristo, Domenico percorreva già a piedi scalzi la
Linguadoca, coperto di cilizio e di tonaca rattoppata, affidato
alla sola Provvidenza per il giornaliero sostentamento. I due
Santi si conobbero la prima volta a Roma, al tempo del quarto
Concilio Lateranense, colà, convenuti per sollecitare presso
Innocenzo III l'approvazione dei loro Ordini, avendo già ambedue,
senza ancora conoscersi, offerto al mondo lo spettacolo delle
medesime virtù. S. Francesco ebbe la gloria di non avere esitato
mai a far patrimonio della sua religione la mendicità: Domenico,
non meno austero di lui con se stesso, fu però meno ardito
rispetto agli altri, aspettando che i suoi disegni riguardo alla
povertà, fossero confermati dall'esperienza, ed ebbe la gloria di
rinunziare a beni già acquistati. Con consenso del Capitolo
generale, ne fu fatta cessione alle monache di diversi Ordini, e
fu stabilito che, i frati in perpetuo non avrebbero posseduto
altro nel mondo che le loro virtù. Domenico, più spinto ancora,
avrebbe voluto che tutta l'amministrazione domestica fosse
lasciata ai fratelli conversi, per render gli altri più liberi
nel tendere alla preghiera, allo studio, alla predicazione. Ma
Padri del Capitolo gli opposero l'esempio assai recente dei
religiosi di Grandinont, i quali, messi con simile regolamento
alla mercé dei laici, erano ridotti ad uno stato degradante di
servitù; e Domenico accondiscese al loro parere.
In questo Capitolo generale furono decretate
altre leggi; ma la storia non ce ne dà chiare notizie, e gli atti
del Capitolo non sono pervenuti fino a noi. Fra le altre cose,
Domenico supplicò i Padri a volerlo liberare dal peso del supremo
governo: «Io merito, disse loro, di esser deposto, perché ormai
inutile e intiepidito». E lo diceva, oltreché per umiltà, pel
desiderio ancora sempre vivo di finir la vita fra gli infedeli, e
di conseguire, nel portar loro la verità, quella palma del
martirio di cui il suo cuore aveva avuto sempre sete ardente. Più
d'una volta aveva manifestata la brama d'esser battuto e tagliato
a pezzi per Gesù Cristo; ed aprendosi con Paolo di Venezia, gli
aveva detto: «Appena avremo dato assetto e forma al nostro
Ordine, andremo fra i Cumani, predicheremo loro la fede di Cristo
e li guadagneremo al Signore». Ora gli pareva giunto il momento.
Regolato e stabilito il suo Ordine, che vedeva coi propri occhi
come una pianta orinai matura, che stavagli a fare di meglio se
non offrire in sacrificio gli ultimi avanzi del suo corpo e della
sua anima? Ma i Padri non vollero sentir parlare di dimissioni; e
ben lontani dall'acconsentirvi, fecero a gara nel confermarlo al
posto di Maestro Generale, aggiungendo così l’onore di una
libera all'autorità della Sede Apostolica, che gli aveva
conferita tal carica. Domenico però ottenne che almeno il suo
potere venisse limitato da alcuni consiglieri, chiamati
definitori, i quali nei Capitoli generali avessero il diritto di
esaminare e regolare gli affari dell'Ordine, ed anche di deporre
il Maestro Generale, qualora non corrispondesse al suo ufficio: -
decisione importante, che fu poi approvata anche dal Sommo
Pontefice Innocenzo IV. Un'ultima decisione, avanti che il
Capitolo venisse sciolto, fu di riadunarsi ogni anno, una volta a
Bologna e l'altra a Parigi; quantunque si accettasse di far subito
un'eccezione, scegliendo nuovamente Bologna per la prossima
assemblea.
L'alta Italia era una delle parti d'Europa le
più infestate dall'eresia. Esposta ai contatti coll'Oriente ed
alle influenze scismatiche degli imperatori dell'Alemagna, aveva
molto cambiato nella sua fedeltà alla Chiesa. Per cui Domenico
stimò opportuno fermarvisi a predicare il Vangelo; e nell'estate
del 1220 la percorse tutta quanta. Gli storici contemporanei
però, che pure ce ne danno notizia, non aggiungono alcun
particolare. Quasi tutte le città della Lombardia reclamano
l'onore di avere accolto ed ascoltato il santo Patriarca, ed i
loro annali riferiscono vari aneddoti; ma non ne è
sufficientemente provata l'autenticità, essendo stati scritti
molto posteriormente. Una fra le cose certe è ch'egli visitò
Milano e che vi cadde malato. Fra Bonvisi, che lo accompagnava nel
viaggio, così parla della di lui costanza nel soffrire: «Quando
io mi trovava a Milano con fra Domenico, questi fu preso dalle
febbri. In tutto quel tempo che lo assistei, mai mi accadde di
sentirlo lamentarsi. Pregava e stava in contemplazione, come lo
argomentai da certi segni che gli apparivano in volto e che io ben
conosceva, avendoglieli veduti sempre sul volto tutte le volte che
pregava o contemplava. Passato l’accesso della febbre,
cominciava a parlare di Dio ai frati; leggeva, o faceva leggere;
lodava il Signore e si congratulava del suo male, come era solito
far sempre nelle tribolazioni e nella povertà».
A Cremona Domenico s'incontrò con S. Francesco
d’Assisi. Mentre essi stavano conversando insieme, si
accostarono loro alcuni frati di S. Francesco, i quali dissero:
«In convento non c'è più acqua buona. Vi preghiamo quindi,
nostri padri e servi di Dio, di intercedere dal Signore una
benedizione sui nostri pozzi, pieni d'acqua torba e corrotta». I
due Patriarchi si guardarono a vicenda, l'uno invitando a
rispondere qualche cosa. Finalmente Domenico disse ai frati:
«Attingete un po' d'acqua e portatela qui». Andarono e ne
portarono un vaso pieno. Allora Domenico disse a Francesco:
«Padre, benedite quest’acqua nel nome del Signore». E
Francesco: «Padre beneditela voi, che siete il più anziano».
Pietosa contesa che si protrasse alquanto, finché da ultimo
Domenico, vinto da Francesco, fece il segno della croce sopra il
vaso, ed ordinò che si versasse quell'acqua, nel pozzo: d'allora
il pozzo rimase sempre, purificato. A Modena un canonico francese,
diretto a Roma in seguito: ad una predica ascoltata si recò da
Domenico e gli confessò che, disperava assai di salvarsi causa
una tentazione contro la castità, che mai era riuscito a vincere.
«Abbiate coraggio, gli rispose il Santo, e confidate nella
misericordia di Dio. M'impegnerò io ad impetrarvi da Lui il dono
della continenza». Il canonico se ne partì liberato per sempre
da quella tentazione.
Domenico era solito visitare i conventi che
trovava per via. Si fermò, fra gli altri, a quello di Colombo,
nel Parmigiano, dove si congettura avvenisse quest'altro tratto di
delicatezza, che uno storico così racconta: «Una sera Domenico
giunse alla porta di un convento mentre i religiosi erano tutti a
riposare. Per non disturbarli, si adagiò col suo compagno davanti
alla porta, e si raccomandò al Signore, affinché si degnasse
provvedere Lui stesso ai loro bisogni, senza disturbo dei monaci.
Nell'istante ambedue si trovarono dentro». Colombo era un celebre
monastero di Cisterciensi, fondato da S. Bernardo medesimo. Fu
distrutto dall'imperatore Federico II nel 1248.
Nel giorno dell'Assunta Domenico, come rilevasi
dall'atto di vestizione di Corrado il Teutonico, si trovava
nuovamente a Bologna. Nei frati era vivo il desiderio di vedere
annoverato fra i ragguardevoli personaggi che avevano abbracciato
la loro religione anche Corrado, dottore dell'Università di
Bologna, uomo celebre in quel tempo per dottrina e virtù.
Domenico la vigilia dell'Assunzione della SS. Vergine,
intrattenendosi a parlare confidenzialmente con un religioso
dell'Ordine dei Cisterciensi, priore del monastero di Casamari e
poi vescovo di Alatri, che aveva
conosciuto a Roma e che amava con grande
affetto, gli aprì quella sera il suo cuore, e nell'intimo del
conversare gli disse: «Vi dirò, P. Priore, una cosa, che non ho
mai detto a nessuno e che vi prego quindi di tenere segreta fin
dopo la mia morte; cioè che mai in vita mia il Signore mi ha
negato cosa, che gli abbia chiesto». Il Priore a queste parole
restò meravigliato, e sapendo bene il desiderio dei frati
riguardo a maestro Corrado, il Teutonico, soggiunse: «Padre, se
è cosi, perché non chiedete al Signore che vi mandi maestro
Corrado, che i frati tanto ardentemente desiderano di avere fra
loro?». Domenico rispose: «Buon fratello, voi mi suggerite cosa
assai difficile ad ottenere; ma se questa notte pregherete anche
voi insieme con me, il Signore, spero, vorrà farci la grazia
desiderata». Dopo Compieta il servo di Dio restò, secondo il suo
solito in chiesa, ed il Priore di Casamari con lui. Assistettero
al Mattutino dell'Assunzione; e fattosi giorno, mentre il Cantore
intonava l'inno Iam lucis orto sidere di Prima, fu visto entrare
in coro maestro Corrado, prostrarsi ai piedi di Domenico, e
domandare istantemente l'abito. Il Priore di Casamari, fedele al
secreto, non raccontò questo fatto che dopo la morte di S.
Domenico, cui sopravvisse per più di vent'anni. Aveva egli timore
di morire prima del Santo; ma questi medesimo, quando glielo
disse, lo rassicurò che ciò non sarebbe avvenuto.
Tra quelli che Domenico ricevé allora
nell'Ordine, merita singolar menzione Tommaso di Prouille, giovine
d'illibata purezza e semplicità di costumi, teneramente amato dal
Santo, che lo chiamava il suo figliolo. Alcuni antichi compagni
del novello religioso, indignati di non averlo più fra loro,
riuscirono a trarlo a forza di convento ed a stracciargli l'abito
dell'Ordine. Si corse ad avvisarne Domenico, il quale subito
entrò in chiesa a pregare. I rapitori, tolta a fra Tommaso anche
la camicia di lana, facevano ogni sforzo per mettergliene una di
lino; ma la vittima cominciò a mandar grida dolorose, dicendo di
sentirsi bruciare; né ebbe pace finché, ricondotto all'ovile,
riprese le ruvide, ma, care vestimenta, di cui era stato
spogliato. - Qualche cosa di simile accadde pure ad un
giureconsulto di Bologna. I suoi amici entrarono a mano armata nel
chiostro di S. Niccolò per strappamelo via. I frati volevano
andare in cerca di alcuni cavalieri, amici dell'Ordine, per
opporre forza. Alla forza; Domenico invece soggiunse: «Io veggo
intorno alla chiesa più di cento angioli, mandati dal Signore a
difesa dei frati».
Il servo di Dio predicava a, Bologna assai di
frequente; e tanta era la venerazione del popolo per lui che,
senza aspettarlo alla chiesa dove era annunziato il discorso,
andavano a prenderlo a S. Niccolò e l'accompagnavano al luogo
destinato. Un giorno era andato a prenderlo gran folla, fra cui
due studenti, uno dei quali, fattosi animo, disse a Domenica.:
«Vi prego di chiedere a Dio la remissione dei miei peccati,
perché, se non m’inganno, ne sono pentito ,e li ho tutti
confessati». Il Santo che era ancora in chiesa, si accostò
allora ad un altare, fece breve orazione, e ritornato rispose al
giovane: «Sta di buon animo e persevera nell'amor di Dio; le tue
colpe, ti sono state rimesse». L'altro studente all'udir ciò, si
avvicinò anche lui al Santo e imitando il compagno soggiunse:
«Padre, pregate per me, che anch'io, ho confessato tutti i miei
peccati». E Domenico inginocchiatosi nuovamente dinanzi
all'altare si mise a pregare. Ma avvicinatosi poscia al giovane,
gli disse: «Figlio mio, non credere d'ingannare il Signoe, la tua
confessione non è stata intera; per vergogna hai taciuto con
tutta coscienza un peccato». E tiratolo in disparte, gli disse
ancora il peccato, che aveva avuto vergogna di confessare. Lo
studente rispose: «Padre, così è; perdonatemi». Domenico
aggiunse qualche altra parola, e poi andò via insieme a tutto il
Popolo che lo aspettava.
Lo Spirito di profezia era in lui abituale.
S'incontrò una volta con un fratello che andava in missione; lo
fermò, e scambiate appena poche parole, si accorse
misteriosamente che quel fratello era in colpa; lo richiese quindi
se mai avesse del danaro: confessò l'altro di averne; Domenico
gli ordinò allora di gettarlo via, e gl'impose una penitenza.
Nessun fallo lasciava egli impunito. «Ad osservare le regole
dell'Ordine, dice Teodoro d'Apolda, agli era il primo, né
trascurava mezzo, affinché da tutti fossero religiosamente ed
interamente osservate. Ma se qualche fratello per umana fragilità
mancava alle volte ai suoi doveri, Domenico non gli risparmiava la
correzione. Sapeva però così bene unire la severità colla
dolcezza, che il colpevole restava punito, senza che l'uomo ne
risentisse alcun turbamento. Non sempre riprendeva immediatamente
dopo la colpa, anzi lasciava correre del tempo, come se non si
fosse accorto di nulla; ma quando capitava l'occasione propizia,
diceva al colpevole: - fratello mio, la tal cosa voi
non l'avete fatta bene; date gloria a Dio, e
confessate la vostra mancanza. - E come, mostravasi padre con
quelli che correggeva, così avea le tenerezze di una madre con
quelli che fossero afflitti. Nessuna parola ora più dolce e
consolante della sua,; tutti, che andavano a lui per trovar
sollievo nelle loro afflizioni, ne ritornavano sempre consolati.
Avea cura dell'anima degli altri frati come della sua Propria,
premuroso di mantenere in tutti il vigore e la pratica della
virtù e della disciplina. E perché sta scritto che 1'andatura
stessa dell'uomo, il riso delle sue labbra, la veste che indossa
parlano di lui, non mancava un fratello riguardo alla forma
dell'abito o alla religiosa povertà, che Domenico non lo
riprendesse. Ogni giorno, a meno che non fosse impedito da gravi
cause, faceva ai frati un sermone od una conferenza, e con tanta
fede e con tante lacrime parlava loro, che eccitava in tutti la
grazia della compunzione. Non ci fu altri che penetrasse come lui
nel cuore dei frati...». Secondo il medesimo storico tre erano le
cose che Domenico raccomandava soprattutto ai suoi figli: parlare
sempre con Dio o di Dio; non portare mai denaro nei viaggi; non
accettare temporali possessioni. Li esortava ancora a studiare
incessantemente e ad annunziare la parola di Dio; conosceva subito
quelli adatti per il pulpito, e non permetteva che si applicassero
ad altro.
Come.è sempre stato di tutti i Santi, anche
Domenico avea un gran potere sullo spirito delle tenebre. Più
volte lo scacciò dal corpo dei suoi frati, più volte se lo vide
comparire innanzi sotto forme diverse, ora per distrarlo nelle sue
meditazioni, ora per disturbarlo mentre predicava. Riferisco da
Teodoro d'Apolda il fatto seguente: «Un giorno che il Santo,
vigile sentinella, faceva il giro della città di Dio, incontrò
il demonio che, quasi bestia feroce, faceva la ronda pel convento.
Lo fermò e gli domandò: - Perché vai girando in questo modo? -
Il demonio rispose: - Per guadagnare qualche cosa. - Riprese il
Santo: E che puoi guadagnare pei dormitori? E l'altro: - Caccio il
sonno ai frati, persuado loro di non levarsi all'ufficio, e quando
mi sia permesso, metto loro innanzi brutti sogni ed illusioni. -
Il Santo lo condusse poi in coro, e gli domandò: - E qui che
guadagno ci fai? - Rispose: Cerco di far arrivar tardi i frati e
sortirne presto, e li faccio star distratti. - Interrogato
riguardo al refettorio, rispose: - Faccio in modo che mangino più
o anche meno del bisogno. - Condotto al parlatorio soggiunse: -
Oh! questo sì che fa per me; qui le risa, qui i vani schiamazzi,
qui le parole inutili. - Ma quando fu al capitolo, diede segno di
volere andarsene, soggiungendo: - Io aborro questo luogo; perdo
qui tutto quello che ho guadagnato altrove; qui i frati vengono
ripresi delle loro colpe, qui se ne accusano, qui ne fanno
penitenza, qui ne ricevono l'assoluzione».
Domenico percorrendo la Lombardia avea scorti
ben tristi indizi dell'affievolimento della fede. In molti luoghi
i laici si erano impadroniti del patrimonio della Chiesa; sotto Il
pretesto che essa era troppo ricca, tutti la derubavano. Il clero
ridotto ad una degradante povertà, non bastava più a provvedere
alla magnificenza del culto, ed a praticare coi poveri i doveri
della carità; mentre l'eresia, che era stata causa di tante
ruberie, era quella appunto che serviva di mezzo per
giustificarle. Non può esservi per la Chiesa peggiori condizioni
di queste. I beni che essa ha perduto le creano implacabili nemici
in coloro stessi che li posseggono; l'errore si propaga come
condizione indispensabile per salvaguardarne il
possesso, ed il tempo che tutto distrugge, sembra impotente contro
una tale alleanza d'interessi terreni coll'accecamento dello
spirito. Domenico fondatore di un Ordine mendicante, aveva diritto
più di ogni altro di opporsi a questa spaventevole miscela di
mali; e per farvi argine, istituì una congregazione, alla quale
dette il nome di Milizia di Gesù Cristo. Era essa composta di
persone secolari d'ambo i sessi, che si obbligavano a difendere i
beni e la libertà della Chiesa a qualunque costo. L'abito era
quello stesso che portavano nel secolo, solamente si distingueva
pei colori domenicani, il bianco simbolo dell'innocenza, ed il
nero dì penitenza. Senza essere legati dai tre voti di povertà,
castità ed ubbidienza, praticavano, quanto era in loro, vita
religiosa, osservavano fedelmente le astinenze, i digiuni, le
vigilie, e in luogo dell'ufficio recitavano un certo numero di
Pater noster e di Ave Maria. Eleggevano un Priore il quale sotto
l'autorità dell'Ordine li governasse; in giorni determinati poi
si adunavano nelle chiese dei Frati Predicatori ad ascoltare la
Messa ed un sermone. Quando Domenico fu annoverato fra i Santi, i
fratelli e le sorelle di detta Congregazione, presero il nome di
Milizia di Gesù Cristo e del Beato Domenico. In seguito ciò che
in tale denominazione vi era di militante disparve insieme alle
cause pubbliche che n'avevano dato origine, e la Congregazione
restò tutta consacrata alla pratica della perfezione cristiana,
sotto il nome di Fratelli e sorelle della penitenza di S.
Domenico. Fu sotto questa nuova appellazione che Mugnone di Zamora,
settimo Maestro Generale dei Frati Predicatori, confermò tale
Congregazione, modificandone le costituzioni. I papi Gregorio IX,
Onorio IV, Giovanni XXII e Bonifacio IX le concessero in diverse
epoche vari privilegi, finché il papa Innocenzo VII ne approvò
anche la regola tale quale da Mugnone di Zamora era stata
compilata. La bolla è in data dell'anno 1405; ma non fu
promulgata che' nel 1439 sotto Eugenio IV.
La Milizia di Gesù Cristo fu il terzo Ordine
istituito da S. Domenico o meglio il terzo ramo di un solo Ordine,
che abbraccia nella sua ampiezza uomini, donne, ogni persona del
secolo. Con la istituzione dei Prati Predicatori Domenico avea
richiamato dal deserto le falangi monastiche, ponendo loro in mano
la spada dell'apostolato; con la istituzione del terz'Ordine
introdusse la vita religiosa anche fra le mura domestiche ed al
capezzale del letto nuziale. Fanciulle, vedove, maritate, persone
d'ogni stato si videro allora popolare il mondo, con indosso le
insegne di un Ordine religioso, praticandone ancora le regole nel
secreto della propria abitazione. Lo spirito di associazione che
aleggiava nel medio evo, e che è lo spirito del cristianesimo,
contribuì assai a questo movimento. Ed in quella guisa che uno
apparteneva alla tale famiglia per il sangue, alla tale
corporazione pei servizi ai quali era obbligato, al tal popolo per
la nascita, alla Chiesa per il battesimo, desiderava pure
consacrarsi con atto di libera elezione ad alcuna di quelle
gloriose milizie che servivano Gesù Cristo con la operosità
della parola e della penitenza. La scelta cadeva fra le divise di
S. Domenico o quelle di S. Francesco, innestati all'uno o
all'altro di questi due tronchi piaceva vivere del loro succo, pur
conservando la propria natura. Frequentavano le chiese dei
rispettivi Ordini, comunicavano con loro nelle preghiere, pronti
anche ad apprestare i soccorsi dell'amicizia, e studiosi di tener
dietro, secondo la propria possibilità, alle tracce delle loro
virtù. Svanì allora l'idea che per elevarsi alla imitazione dei
Santi fosse indispensabile fuggire dal mondo: ogni camera potè
cangiarsi in cella, ogni casa in una Tebaide. A misura che l'età
o gli avvenimenti della vita alleggerivano il cristiano del
fardello della carne, egli consacrava al chiostro una maggior
porzione di se medesimo. Se la morte della sposa o d'un figlio
rendeva tutto triste intorno a lui, se una rivoluzione da onorato
grado lo piombava nell'esilio o nell'abbandono, un'altra famiglia
era pronta a riceverlo nel suo seno, un altro paese gli ridonava i
diritti di cittadinanza. Egli passava dal terz'Ordine al primo
Ordine, come dalla giovinezza alla virilità. La storia di queste
istituzioni è una delle più belle cose che si possano leggere.
Di là uscirono Santi in tutte le condizioni della vita umana, dal
trono fino allo sgabello del povero, e con tanta abbondanza da
ingelosirne il deserto ed il chiostro. Le donne principalmente
arricchirono i terzi Ordini delle loro virtù. Troppo spesso
incatenate fin dall’infanzia ad un giogo punto da esse
desiderato, sottraevansi alla propria condizione prendendo l'abito
di S. Domenico o di S. Francesco. Il monastero andava a loro, non
potendo esse andare a cercare il monastero; ed un angolo oscuro
della casa paterna o coniugale si trasformava in misterioso
santuario, abitato dallo sposo invisibile, che esse unicamente
amavano. Chi non ha udito parlare di Santa Caterina da Siena e di
Santa Rosa da Lima, due stelle domenicane, che hanno illuminato
due mondi? Chi non ha letto la vita di S. Elisabetta di Ungheria,
che fu Francescana? Così lo spirito di Dio provvede all'opera sua
secondo i tempi, proporziona i miracoli alle miserie, e dopo aver
fiorito nella solitudine, olezza sulle pubbliche vie.
CAPITOLO XVI
Sesto ed ultimo viaggio di S. Domenico
a Roma
Secondo Capitolo Generale
Malattia e morte del S. Patriarca
Con la creazione del Terz'Ordine la missione di
Domenico era compiuta; altro non gli restava che dare addio a
tutto ciò che sulla terra avea amato di più. Roma teneva senza
dubbio il primo posto nel suo cuore: là era stato con Azovedo, il
suo più caro amico, quando ancora nella vita pubblica non avea
fatto alcun passo: là era tornato per ottenere l'approvazione e
la conferma del suo Ordine: là avea edificato S. Sisto e S.
Sabina: là fissato il centro dell’Ordine, goduta la confidenza
di due grandi pontefici, resuscitati tre morti, veduta crescere
fino all'entusiasmo la venerazione del popolo verso di sé: là
infine risiedeva nella sua infallibile maestà il vicario di
Colui, ch'egli avea amato e servito per tutta la vita. Poteva
quindi rassegnarsi a morire senza aver ricevuto dal Pontefice
un'ultima benedizione? Poteva chiuder gli occhi per sempre, senza
averli rivolti ancora una volta alle colline della città santa?
Poteva incrociare per sempre le mani, prima di avere offerto un
ultimo sacrificio sull'altare degli apostoli Pietro e Paolo? E
lasciare inaridire dalla morte i suoi piedi, prima di avere
nuovamente calcato, per non più ripassarci, le vie del Celio e
dell'Aventino? Roma adunque ricevé per la sesta volta fra le sue
braccia materne il grand’uomo, da essa nutrito nella sua
vecchiezza, e che le avrebbe generato figli e fedeli perfino in
mondi, di cui ignoravasi ancora il nome. Onorio III con varii
diplomi diede a Domenico nuove testimonianze della sua
sollecitudine e della sua sovrana benevolenza. Con uno, in data
dell'8 dicembre 1220, sanava certe irregolarità in cui alcuni
Frati erano incorsi per non aver ricevuto canonicamente gli Ordini
sacri; con tre altri, dei 18 gennaio, 4 febbraio e 29 marzo
dell'anno seguente, raccomandava i Frati Predicatori a tutti i
prelati della cristianità; e con quello del 6 maggio permetteva
loro di offrire il Santo Sacrificio, in caso di bisogno, sopra
'altare portatile. Questo diploma fu l'ultima pagina che Onorio
III sottoscrisse in favore dell'Ordine, vivente ancora il
fondatore: a lui toccò la gloria singolare di aver visto fiorire
sotto il suo pontificato S. Domenico e S. Francesco, e di non
essersi mostrato indegno nel suo governo di una grazia del cielo
così segnalata.
Mentre Domenico stava per dare l'ultimo addio a
Roma, la Provvidenza lo faceva incontrare nuovamente nel più
vecchio amico che gli fosse rimasto, in Folco vescovo di Tolosa.
Folco rappresentava. da solo tutta la storia, ormai lontana, della
Linguadoca; la storia delle fondazioni di Notre-Dame di Prouille e
di S. Romano di Tolosa, e i benefici immensi e tutti gli altri
ricordi, che avevano accompagnata l'infanzia dei Frati
Predicatori. Ohi come allora dové esser piena di dolcezze la
conversazione di questi due grandi! Dio avea coronati, con
successo inaudito, tutti quei, voti secreti insieme altre volte da
loro concepiti; ed essi che aveano parlato tanto della necessità
di rialzare, nella Chiesa l'apostolato, vedevano finalmente
ristabilito l'ufficio della predicazione mediante un Ordine
religioso, ormai diffuso da un capo all'altro dell'Europa. L'avere
avuto sì gran parte in cotale opera meravigliosa, non li
inorgogliva; ma giustamente più d'ogni altro gioivano della
gloria della Chiesa, avendo più d'ogni altro prima sofferto pe'
suoi dolori. Né rincresceva a Folco di non essere stato lui il
principale strumento in quell'opera divina. Superiore fin da
principio al pungolo segreto della gelosia, la sua anima
episcopale avea sempre disprezzate quelle apprensioni, tanto
facili in coloro che stanno al potere, riguardo alle cose che non
abbiano fatto essi. Folco invece ben volentieri avea lasciato che
altri facesse il bene, e glie ne avea somministrati anzi gli
aiuti: cosa più difficile assai che farlo da se medesimo. La sua
corona era immacolata, il suo cuore soddisfatto. E Domenico che
poteva desiderare di più? Ohi momenti felici, quelli in cui il
cristiano, giunto al termine della sua missione, può rendere a se
stesso testimonianza di avere adempiuto la volontà di Dio, ed ha
il bene di effondere nel cuore di un altro cristiano, suo compagno
ed amico, quella pace che nel servizio di Dio egli ha raggiunta!
Di questo abbraccio fraterno tra Folco e Domenico è rimasto un
documento storico, quasi testamento, la cui lettura ci consolerà
della privazione di non potere ascoltare più da vicino i loro
ultimi colloqui.
«Nel nome del Signore, sia noto a tutti i
quali leggeranno la presente lettera, che noi Folco, grazie a Dio,
vescovo di Tolosa, per la remissione dei nostri peccati, per la
difesa della fede cattolica e per il bene di tutta la diocesi di
Tolosa, in persona nostra e dei nostri successori, diamo a voi,
caro Domenico, Maestro della Predicazione, e al Frati del vostro
Ordine, la chiesa di Notre-Dame di Fanjeaux con tutte le decime e
tutti i diritti, che ne derivano; sia che appartengano alla nostra
persona, sia che siano inerenti alla fabbrica o al cappellano
della chiesa; riservandoci solamente, per noi e pei nostri
successori, il diritto cattedratico, quello della procura e della
cura delle anime, che noi affideremo al sacerdote che ci sarà
presentato dal Maestro, dell'Ordine o dal Priore di detta chiesa,
o dai Frati. - E noi Domenico, Maestro della Predicazione, per
noi, pei nostri successori e Frati dell'Ordine, rilasciamo a voi
Folco, vescovo, ed ai vostri successori la sesta parte delle
decime di tutte le chiese parrocchiali, della diocesi di Tolosa,
da voi altra volta a noi concessa, di comune accordo coi canonici
di S. Stefano: per sempre rinunziamo a questa donazione e al
diritto di reclamare in virtù delle leggi e dei canoni»).
Quest'atto porta la data di Roma, 17 aprile
1221. Vi sono tre sigilli, quello della Cattedrale di S. Stefano,
quello di Folco e quello di Domenico. Il sigillo di. Domenico
rappresenta il Santo in piedi, vestito da Frate Predicatore, con
un bastone in mano; e nel giro sono impresse queste parole:
Sigillo di Domenico, ministro delle predicazioni: la qual cosa
dimostra che il titolo di Maestro della predicazione nel corpo
dell'atto, non era stato messo ad arbitrio, ma quale omaggio di
Folco all'amico, non trovando miglior modo di esprimergli ciò che
sentiva nel cuore. Il Sommo Pontefice nelle sue bolle e lettere
non avea dato altro titolo a Domenico che quello di Priore di S.
Romano, ed in seguito Priore dell'Ordine dei Frati Predicatori.
Folco morì il Z5 dicembre 1231, dieci anni
dopo la morte di Domenico, e fu sepolto in una cappella
dell'abbazia di Gran-Selve, non lontana da Tolosa. La sua tomba è
scomparsa sotto le rovine, che ancora rimangono, dell'abbazia: ma
le rivoluzioni del tempo e degli imperi nulla hanno potuto contro
la sua memoria, strettamente legata ad un uomo e ad un'opera da
lui protetti sempre, e che ora lo ricoprono della loro
immortalità.
Dopo l'atto sopra riferito passarono pochi
giorni e Domenico lasciò Roma, riprendendo la via di Toscana.
Presso Bolsena, il padrone di una casa, che si trovava lungo la
strada, soleva sempre ospitare il Santo; e da lui avanti di morire
ne ebbe miracolosamente la ricompensa. Cadeva un giorno la
grandine sui vigneti dei dintorni di Bolsena, e Domenico apparve
nel cielo con la cappa spiegata sopra il vigneto del suo ospite,
preservandolo così dal flagello. Tutto il popolo fu testimone di
questa apparizione e, secondo che narra Teodoro d'Apolda, sulla
fine del secolo decimoterzo indicavasi ancora la piccola casa che
Domenico avea abitato passando per Bolsena. I discendenti
dell'antico proprietario la conservavano con cura affettuosa, e
come gli era stato raccomandato espressamente dal loro antenato,
sempre che ne avessero avuta occasione, vi davano cortese
ospitalità ai Frati Predicatori.
La Pentecoste del 1221, giorno fissato per la
celebrazione a Bologna del secondo capitolo generale, cadeva in
quell'anno il 30 di maggio. Domenico, rientrando in S. Niccolò,
trovò che si stava innalzando uno dei bracci del convento per
ingrandire le celle; della qual cosa si dolse assai, e disse a fra
Rodolfo, procuratore del convento, ed agli altri frati: «E che?
così presto volete abbandonare la povertà, e fabbricarvi dei
palazzi?». Ordinò quindi che si cessassero i lavori, che non
furono ripresi se non dopo la sua morte.
Neppure gli atti del secondo Capitolo generale
sono pervenuti fino a noi. Sappiamo solo che l'Ordine fii diviso
allora in otto provincie, cioè nelle provincie di Spagna, di
Provenza, di Francia, di Lombardia, di Roma, di Alemagna, di
Ungheria e d'Inghilterra. Il posto d'onore fu assegnato a quella
di Spagna, non già per diritto di antichità, ma per venerazione
verso il santo Patriarca, di cui era stata la culla. Suero Gomez
fu designato Priore Provinciale di tale provincia; Bertrando di
Garriga di quella di Provenza; Matteo di Francia di quella di
Francia; Giordano di Sassonia di quella di Lombardia; Giovanni di
Piacenza di quella di Roma; Corrado il Teutonico di quella di
Alemagna; Paolo d'Ungheria di quella di Ungheria,,e Gilberto di
Frassinet di quella d'Inghilterra. Le prime sei provincie in meno
di quattro anni contavano già da sole circa sessanta conventi; le
due ultime invece, cioè quelle d'Ungheria e d'Inghilterra, non
avevano ancora nessun Frate Predicatore. Domenico ne inviò allora
alcuni di quelli stessi che si trovavano al Capitolo generale.
Paolo, che fu destinato per l'Ungheria, era un
professore di diritto canonico nell'Università di Bologna, di
recente entrato nell'Ordine. Partì con quattro compagni, tra i
quali fra Sadoc, rinomato per l'eccellenza delle sue virtù. I
primi conventi li fondarono a Vesprim e ad Alba Reale. Poi si
avanzarono fin verso quei popoli Cumani, che tanta parte aveano
sempre avuto nelle sollecitudini di Domenico, e fra i quali egli
avrebbe voluto terminare i suoi giorni. Racconterò un solo fatto
circa lo stabilimento dei Frati Predicatori nell'Ungheria, fatto
che contribuirà a farci viemmeglio conoscere come si
effettuassero queste sante spedizioni. «In quel tempo, due frati
della provincia d'Ungheria giunsero in un villaggio. Era l'ora in
cui il popolo cristiano è solito di adunarsi per ascoltare la
Messa. Finita la Messa, gli abitanti se ne tornarono alle loro
case; Il sacrestano chiuse la chiesa, ed i frati rimasero fuori,
senza che alcuno avesse compassione di loro. Solo un povero
pescatore notò la cosa, e ne ebbe pietà; pur non osava invitarli
seco, perché non avea nulla da offrir loro. Ciononostante corse
difilato a casa, e disse alla moglie: Oh! se avessimo da dar da
mangiare a due poveri frati! Sto in pena per quei poveretti, che
son là, sulla porta della chiesa, senza che nessuno offra loro
ospitalità. - La moglie rispose: - Ecco qua, non ci abbiamo per
mangiare che un po' di miglio. - Il marito gli ordinò allora di
scuotere ben bene la borsa de' danari onde vedere se per caso vi
fosse qualche cosa; e con grande loro meraviglia ne uscirono fuori
due monete d'argento. Il pescatore fuori di sé per la
contentezza: - Va subito, disse alla moglie, a comprare del pane e
del vino; cuoci poi il miglio e dei pesci. Quindi corse alla
chiesa dove si trovavano ancora i frati ritti alla porta, e li
invitò umilmente ad andare a casa sua. I frati andarono, si
assisero a quella mensa povera, ma imbandita da infinita carità;
e soddisfatto che ebbero alla fame, se ne partirono, ringraziando
gli ospiti, e facendo voti perché Iddio li ricompensasse. Il
Signore esaudì i loro voti. Da quel giorno la borsa del pescatore
non fu mai vuota; ci si trovavano sempre due piastre A'argento.
Egli poté così comprare una casa, dei campi, e pecore, e buoi;
il Signore gli concesse anche un figlio; quando però fu
sufficientemente provvisto, la grazia delle due monete d'argento
cessò».
La spedizione per l'Inghilterra non sortì
esito meno felice di quella per l'Ungheria. Gilberto di Frassinet,
che ne era capo, si presentò con dodici compagni al vescovo di
Cantorbery; il quale sentendo ch'essi erano Frati Predicatori,
senz'altro ordinò a Gilberto di predicare, lui presente, nella
chiesa dove egli stesso avea stabilito di salire sul pulpito quel
giorno. Ne rimase talmente soddisfatto, che subito accordò ai
Frati tutta la sua benevolenza e protezione fino alla morte. Il
primo convento fu fondato ad Oxfòrd, dove eressero una cappella
alla Santissima Vergine ed aprirono delle scuole, che dal nome
della parrocchia furono dette scuole di S. Edoardo.
Colle fondazioni d'Ungheria e d'Inghilterra
Domenico avea finito di prender possesso di tutta Europa; né
tardò molto a ricevere dal cielo l'avviso che la sua fine era
prossima. Un giorno, mentre pregava e anelava ardentemente di
essere liberato da quel sue corpo mortale, gli apparve un giovane
di rara bellezza e: «Vieni, o diletto, gli disse, entra nel
gaudio, vieni!». Dové essere stata rivelata a Domenico anche
l'ora della morte. Difatti andato a trovare alcuni studenti
dell'Università di Bologna poi quali nutriva grande affetto, dopo
varii discorsi li esortò al disprezzo del mondo ed al pensiero
della morte; quindi soggiunse: «Miei cari amici, ora voi mi
vedete in buona saluto, ma prima dell'Assunzione della Madonna
anch'io lascierò questo corpo mortale».
Si trovava allora a Venezia il cardinale
Ugolino, in qualità di legato apostolico. Domenico desideroso,
prima di morire, di rivedere un tale amico e di raccomandargli per
l'ultima volta gli affari dell'Ordine, si recò colà, da dove
fece ritorno a S. Nicolò sul finire di luglio, in piena estate.
Appena tornato, sebbene stanchissimo del viaggio, tenne la sera
stessa un lungo discorso sulle cose dell'Ordine con fra Ventura e
fra Rodolfo: l'uno procuratore e l'altro priore del convento.
Verso la mezzanotte, fra Rodolfo che sentiva bisogno di riposo,
cercò di indurre anche Domenico ad andare a dormire, senza
alzarsi poi a Mattutino; ma il Santo non volle accondiscendere.
Andò invece in chiesa e si mise a pregare fino all'ora
dell'Ufficio, che recitò insieme coi frati. Dopo l'Ufficio disse
a fra Ventura che si sentiva un po' male alla testa: fu assalito
tosto da una forte dissenteria e da febbre. Malgrado tali
sofferenze non volle coricarsi in letto, ma si adagiò vestito
sopra un sacco di lana. Il male progrediva, senza però che il
malato desse segno d'impazienza: non lamenti, non gemiti; che anzi
conservava allora, come sempre, una giuliva tranquillità.
Sentendo che la malattia giorno per giorno si aggravava, chiamò
presso di sé i novizi, e con le più dolci parole del mondo, rese
ancor più penetranti dalla letizia del suo volto, li confortò e
li esortò al bene. Fatti quindi chiamare dodici dei frati più
anziani e più gravi, in loro presenza, fece a fra Ventura la
confessione generale di tutta la sua vita: alla fine aggiunse:
«Per la misericordia di Dio ho conservata intatta fino ad oggi la
verginità. Se anche voi bramate la stessa grazia, guardatevi
dalle occasioni pericolose. E’ il profumo di questa virtù che
rende il servo di Dio accetto al Cristo, e che gli acquista gloria
e rispetto anche in faccia ai popoli. Perseverate nel servire il
Signore con tutto il fervore dello spirito: date opera a mantenere
ed estendere l'Ordine ora fondato: siate fermi nell'osservanza
della regola, e crescete sempre in virtù». E pe eccitarli ad
essere sempre più vigilanti sopra loro stessi, aggiunse:
«Quantunque la divina bontà m'abbia preservato fino a questo
momento da ogni sozzura, pure vi confesso di non esser riuscito a
liberarmi dall'imperfezione di trovar più piacere nel conversare
con donne giovani, che con donne attempate». Ma fu preso tosto da
un po' di scrupolo per aver parlato con tanta amabile e santa
ingenuità, e disse sommessamente a fra Ventura: «Fratello, temo
di aver peccato parlando pubblicamente della mia verginità ai
frati; avrei dovuto tacerne». Quindi nuovamente rivolse a tutti
la, parola, e usando le solenni formule dei testamenti, soggiunse:
«Ecco, o amatissimi fratelli, l'eredità ch'io vi lascio come a'
miei figliuoli: abbiate la carità, praticate l'umiltà, e fate
vostro tesoro la povertà volontaria». E per dare un valore
maggior e a quella clausola del testamento, che riguardava la
povertà, minacciò la maledizione di Dio e la sua a chiunque
avesse osato corrompere l'Ordine coll'introdurvi il possesso di
beni temporali.
I frati non disperavano tuttavia della vita del
loro padre. Essi non potevano credere che Dio così presto avesse
voluto toglierlo alla chiesa ed a loro. Pensando che il cambiare
aria gli avrebbe giovato, per consiglio dei medici lo portarono
alla Madonna del Monte, chiesa dedicata alla SS. Vergine, sopra
un'altura nelle vicinanze di Bologna. La malattia però, ribelle a
tutti i rimedi ed a tutti i desideri, non fece che aggravarsi, e
Domenico sentendosi omai presso a morire, volle di nuovo i frati
presso di s. Vennero in numero di venti con il priore fra Ventura,
e si disposero intorno al malato. Domenico fece. loro un discorso;
del quale però non sappiamo altro, se non che parole più
commoventi di quelle non erano mai uscite dal suo labbro. Gli fu
poscia amministrato il sacramento dell'Estrema Unzione. Avendogli
detto fra Ventura che il buon proposto della chiesa della Madonna
dei Monti desiderava di avere il suo corpo e di seppellirlo in
chiesa: « A Dio non piaccia, rispose il Santo, ch'io sia sepolto
in altro luogo che non sia sotto i piedi dei miei fratelli.
Portatemi subito nella vigna qui vicina, affinché io muoia là, e
possa essere sepolto nella nostra chiesa». I frati allora lo
riportarono a Bologna, tutti pieni di timore di vederlo, a ciascun
passo spirare fra le braccia. Non avendo egli cella propria, fu
posto in quella di fra Moneta, il quale prestò ancora una sua
tonaca, affinché gli si potesse cambiare l'abito: poiché
Domenico non aveva altre vesti fuori di quelle che portava in
dosso. Fra Rodolfo reggeva la testa al Santo e gli asciugava il
sudore del volto con un pannolino, mentre gli altri assistevano,
piangenti, a sì pietoso spettacolo. Domenico per consolarli disse
loro: «Perché piangete? Dal luogo dove andrò potrò giovarvi
assai meglio che non l'abbia fatto quaggiù». Qualcuno dei
presenti lo richiese dove voleva che il suo corpo fosse
seppellito: ed egli: «Sotto i piedi dei miei fratelli». Era già
passata un'ora dacché avean fatto ritorno a Bologna: e vedendo il
Santo che i frati sopraffatti dal dolore non pensavano a
raccomandargli l'anima, egli stesso fece chiamare fra Ventura, e
disse: «State pronti». E tutti si schierarono con mesta gravità
intorno al morente. Domenico soggiunse: «Aspettate ancora un
poco». Fra Ventura profittando di questi ultimi momenti, disse al
Santo: «Padre, voi sapete in quale tristezza e desolazione ci
lasciate; ricordatevi di noi al cospetto di Dio». E Domenico
alzati gli occhi e le mani al cielo, fece questa preghiera:
«Padre Santo, io ho adempiuta la vostra volontà, e coloro che mi
avete affidati, ecco, li ho guidati e conservati sempre; ora li
raccomando a voi: proteggeteli, custoditeli». Un momento dopo
soggiunse: «Cominciate». E si cominciò solennemente la
raccomandazione dell'anima. Domenico pregava con loro, o almeno
mostrava balbettare qualche cosa fra le labbra. Giunti alle
parole: Venite in suo aiuto, o santi di Dio: venite incontro a
lui, o Angeli del Signore: prendete l'anima sua e portatela al
cospetto dell'Altissimo, le sue labbra fecero un'ultima mossa, le
sue mani si levarono al cielo, ed il suo spirito volò a Dio. Era
il 6 agosto, giorno di venerdì, dell'anno 1221, a mezzogiorno.
In quello stesso giorno ed alla medesima ora
fra Guala, Priore del Convento di Brescia e poi vescovo di quella
città, appoggiatosi per un momento alla torre del convento, dove
erano le campane, fu preso da leggero sonno. Vide allora come
aprirsi il cielo, e due scale da quell'apertura discendere fino a
terra. Alla sommità d'una di esse stava Gesù Cristo; alla
sommità dell'altra la Beata Vergine, sua Madre. In basso, fra le
due scale, una sedia su cui era seduto un tale, che pareva frate,
senza però che si potesse discernere chi egli fosse, avendo la
faccia ricoperta dal cappuccio, come si usa fare coi morti. Gli
angeli salivano e discendevano per le due scale cantando inni
sacri, mentre le scale tirate su da Gesù Cristo e dalla sua santa
Madre s'elevarono al cielo, e la sedia, con sopra colui che vi
sedeva, s'innalzava con esse. Giunte che furono a grande altezza
il cielo si chiuse, e la visione disparve. Fra Guala sebbene
debole assai per una malattia avuta di corto, si recò,
immediatamente a Bologna, dove apprese come in quello stesso
giorno ed alla medesima ora in cui egli aveva avuta la visione
Domenico era morto.
Sempre in quello stesso giorno due frati di
Roma, Tancredi e Raon, si recarono a Tivoli, dove giunti un po'
prima di mezzogiorno, Tancredi disse a Raon di andare a celebrare
la S. Messa. Raon, avanti di accostarsi all'altare, volle
confessarsi, e ne ebbe da Tancredi per penitenza di ricordarsi nel
Santo Sacrificio del loro padre Domenico, malato a Bologna. Raon,
giunto a quel punto della Messa in cui si fa la commemorazione dei
vivi, stava per raccogliersi nel pensiero che gli era stato
imposto, quando, rapito In estasi, vide Domenico che se ne Partiva
da Bologna, cinta la fronte di una corona d'oro e circonfuso da un
meraviglioso splendore, con a destra e a sinistra due uomini di
venerando aspetto, che lo accompagnavano. Un'interna voce subito
lo fece avvisato che il servo di Dio era morto ed entrato
gloriosamente nella celeste patria. Non è difficile intendere il
significato delle due scale del sogno di Guala, e dei due vecchi
veduti da Raon nell'estasi: significavano senza dubbio l'azione e
la contemplazione, da Domenico tanto mirabilmente congiunte nella
sua persona e nel suo Ordine.
Per disposizione della Provvidenza, poco dopo
che Domenico aveva esalato l'ultimo respiro, giunse a Bologna il
Cardinale Ugolino. Egli stesso volle celebrarne i funerali. Si
recò quindi a S. Nicolò, dove. erano anche il Patriarca d'Aquileia,
e vescovi, abati, signori, tutto un popolo intero. Alla presenza
di tanta moltitudine fu fatto il trasporto del corpo del Santo,
spogliato del solo tesoro che gli era rimasto, una catena di ferro
da lui portata sulla nuda carne, e che fra Rodolfo gli aveva tolta
nel rivestirlo degli abiti funerei. Tale catena fu poi consegnata
al B. Giordano di Sassonia. Tutti gli sguardi e tutti i cuori
erano rivolti a quel corpo esanime. Si principiò l'Ufficio; ma
anche i cantici risentivano dell'universale tristezza e pareva
uscissero da labbra grondanti lacrime. A poco a poco però lo
spirito dei frati cominciò ad elevarsi al di sopra di questo
mondo, ed il padre apparve loro non più come un vinto dalla morte
e di cui altro non restasse che le fredde spoglie; ma per la
certezza che ne avevano, sembrò loro di contemplarne la gloria;
ed un canto trionfale successe ai funerei lamenti, una gioia'indicibile
scese dal cielo in tutti gli spiriti. Il Priore di S. Caterina di
Bologna, di nome Alberto, che era molto amato da Domenico, entrò
in quel momento in chiesa; e tutta quella esultanza dei frati
giunta inaspettata al suo cuore trafitto, lo tolse fuori di sé.
Ed eccolo a gettarsi sul corpo del Santo, a coprirlo di baci, a
scuoterlo con prolungati abbracciamenti, quasi avesse voluto per
forza farlo rivivere e .rispondergli. Né le reliquie dell'amico
rimasero insensibili all'accesso di tanto affetto. Alberto
sollevatosi su, disse a fra Ventura: «Buone nuove, Padre Priore,
buone nuove! Maestro Domenico mi ha abbracciato e mi ha detto che
in questo stesso anno io andrò a raggiungerlo in Cristo». E
veramente in quel medesimo anno Alberto morì.
Terminata cotale ufficiatura senza nome né
nella lingua del dolore né in quella della gioia, i frati
deposero il corpo del loro Padre, tal quale si trovava
nell'istante della morte, in una cassa di legno, ben chiusa con
lunghi chiodi, senza altri aromi che l'odore delle suo virtù.
Sotto il pavimento della chiesa era stata scavata una fossa,
ridotta con pietre a forma di sepoltura; li fu calato il deposito,
e fu chiuso con una grossa pietra, diligentemente cementata, per
evitare che qualche mano temeraria non avesse ardito molestarlo.
Niente fu inciso sii quel masso, né vi fu innalzato alcun
monumento. Domenico si trovò in realtà, come aveva desiderato,
sotto i piedi de' suoi frati. La notte che seguì al giorno della
tumulazione, uno studente di Bologna, il quale non aveva potuto
assistere al funerali, vide in sogno Domenico nella chiesa di S.
Nicolò assiso in trono e coronato di gloria. Stupefatto della
visione, si fece a interrogarlo: «Non siete voi morto, o maestro
Dornenico?» E il Santo: «No, che non son morto, o figlio,
poiché ho un gran buon padrone col quale ora vivo». Al mattino
lo studente si recò subito alla chiesa di S. Niccolò ed in quel
medesimo luogo dove aveva visto Domenico assiso in trono trovò il
di lui sepolcro.
Questa la vita, questa la morte di Domenico di
Gusman, Fondatore dell'Ordine dei Frati Predicatori, uomo anche
umanamente il più ardito di spirito ed il più tenero di cuore
che sia mai esistito: due qualità difficili a trovarsi insieme
unite, ma che in lui furono invece congiunte in perfetta armonia.
Esplicò l'una in una vita esteriore di prodigiosa attività;
appari l'altra nella sua vita intima, di cui si può dire che
ciascun respiro fosse un atto di amore verso Dio e verso il
prossimo. Le memorie che il suo secolo ci ha lasciato di lui sono
numerose, ma molto frammentate. lo le ho lette con ammirazione e
con stupore per la sublime semplicità di cui sono adorne, e pel
carattere che attribuiscono al loro eroe. Imperocché quantunque
fossi certo che S. Domenico era stato calunniato dagli scrittori
moderni, non potevo persuadermi che la sua storia non ne
somministrasse alcun pretesto. Ma ho dovuto ricredermi e
constatare per esperienza quanto costi di lavoro e di virtù a Dio
ed agli uomini il conservare in questo mondo qualche vestigio di
verità. Quel che di vero mi fu dato scoprire l'ho riprodotto
fedelmente; non così l'amore, che sovrabbonda in quelle antiche
scritture verso la persona di S. Domenico, e le continue
ripetizioni, in cui gli uomini del secolo XIII non finiscono mai
di parlare della dolcezza, della bontà, della misericordia, della
compassione di lui, e di tutti gli atteggiamenti, che la carità
prendeva nel suo cuore: a ciò non valsi. La testimonianza di
costoro non può esser sospetta; nessuno di essi però si sognò
mai certamente di scrivere alla stregua dei criteri dei nostri
tempi. E se io stesso, nel ridipingere dietro loro la figura di S.
Domenico non ho potuto eguagliarli nella tenerezza dello stile,
sono stato peraltro tenuto da loro bene in guardia per non
trasformare la storia di lui in una apologia. L'apologia per un
uomo siffatto sarebbe un'ingiuria. Narrai la sua vita senza
fermarmi a difenderla, ad imitazione de'suoi figli che non posero
sulla sua tomba epitaffio alcuno, sicuri ch'essa avrebbe parlato
da sè e molto forte. Ma poiché i suoi primi storici, avanti di
separarsi da lui, hanno pietosamente tratteggiato i principali
lineamenti della sua persona, li imiterò; senonché
riconoscendomi incapace di uguagliare le tinte e la naturalezza
del loro pennello, prenderò ad imprestito dal più antico ed
illustre di essi il venerato ritratto del mio Padre.
«Tanta, dice il B. Giordano di Sassonia, era
in lui l'onestà di costumi, tanto lo slancio nel fervore divino,
che subito appariva essere egli un vaso di onore e di grazia,
adorno di ogni prezioso ornamento. Niente valeva a turbare la
tranquillità del suo spirito, se non forse la compassione e la
misericordia. E siccome la contentezza del cuore traspare anche al
di fuori, dagli stessi suoi modi pieni di grazia e di gioia
facilmente si argomentava la serenità interiore, mai turbata da
alcun moto di collera. Nel suoi divisamenti era fermo; di rado gli
accadeva di disdirsi, pensando sempre prima ogni cosa
ponderatamente al cospetto di Dio. Che se la sua figura brillava
di uno splendore dolce ed amabile, non per questo era meno
rispettato, anzi si cattivava assai facilmente il cuore di tutti,
e bastava guardarlo per sentirsi attratti verso di lui. Fosse in
viaggio co'suoi compagni o fosse in casa d'altri, fosse coi
grandi, coi principi, coi prelati, dappertutto dov'egli si trovava
abbondava in discorsi ed in esempi che inducessero le anime al
disprezzo del mondo ed all'amore di Dio; omo evangelico sempre
colla parola e coi fatti. Durante il giorno, si trovasse coi suoi
frati o con altri, era inarrivabile nella facilità e piacevolezza
di questo suo conversare; durante la notte nessuno lo uguagliava
nelle veglie e nella preghiera. Serbava le lacrime per la sera, la
gioia per la mattina. Il giorno lo dava tutto al prossimo, la
notte a Dio; sapendo che Dio ha consacrato il giorno alla
misericordia e la notte al devoto ringraziamento. Piangeva spesso
e abbondantemente; e sia di giorno quando egli offriva il santo
sacrificio, sia di notte quando vegliava, le lacrime erano quasi
il suo pane quotidiano. Soleva passare in chiesa tutto il tempo
del riposo; mai aveva un letto, o molto raramente, dove coricarsi.
Pregava e vegliava nelle tenebre fino a che la fragilità del
corpo gliel concedesse; e quando la stanchezza lo costringeva
finalmente al riposo, dormiva un poco dinnanzi a qualche altare o
in altra parte della chiesa, appoggiando la testa, come il
patriarca Giacobbe, sopra una pietra, per riprendere poi col
solito fervore la vita dello spirito. Nella sua universale carità
egli abbracciava tutti gli uomini; e come li amava tutti, così
era da tutti riamato. Niente gli era più naturale che,
rallegrarsi con chi era allegro, piangere con chi piangeva,
donarsi al prossimo ed agli amici. d'era ancora un'altra cosa che
lo rendeva amabile a tutti, la semplicità de' suoi modi, in cui
neppur l'ombra della finzione o della doppiezza mai appariva.
Amante della povertà, indossava sempre gli abiti più laceri;
padrone assoluto del suo corpo, sia nel mangiare che nel bere era
di una estrema sobrietà, contento di poco cibo usuale e di
pochissimo vino, tanto da soddisfare al puro bisogno, senza
nocumento del sottile e delicato acume del suo spirito. Chi
raggiungerà la virtù di un tant'uomo? Potremo ammirarlo ed
argomentare da'suoi esempi quanta sia l'inerzia del nostro tempo;
ma fare quel ch'egli fece s'appartiene ad una grazia singolare,
seppure Dio la donerà ancora una volta a qualche altro uomo,:che
Egli voglia innalzare all'apice della santità. Ciò nonostante,
imitiamo, fratelli miei, secondo le nostre deboli forze, gli
esempi del nostro Padre, e rendiamo grazie al Redentore per aver
dato a noi suoi servi, in questa via sulla quale camminiamo, un
tanto duce. Preghiamo il Padre delle. misericordie che ci avvalori
di quello spirito che governa i figli di Dio, affinché seguitando
le tracce dei nostri maggiori, arriviamo anche noi per diritto
cammino all'eterna patria, dove il beato Domenico ci ha
preceduti».
CAPITOLO XVII
Traslazione del corpo di S. Domenico
Canonizzazione del Santo
Per lo spazio di dodici anni trascorsi dalla
morte di Domenico, Dio manifestò luminosamente la santità del
suo servo con gran numero di miracoli avvenuti alla sua tomba o ad
invocazione del suo nome. Giorno e notte si vedevano continuamente
malati sopra la pietra che copriva le sacre reliquie, i quali se
ne ripartivano poi sanati, attribuendo al Santo la grazia della
guarigione. Alle pareti circostanti si appendevano quadri in
memoria dei benefizi ricevuti, né il tempo valse mai a cancellare
i segni di una popolare venerazione. Ciò nonostante una densa
nube faceva ombra agli occhi dei frati; e mentre il popolo
glorificava il loro fondatore, essi, i suoi figliuoli, nonché
aver cura di mantenerne sempre viva la memoria, sembravano
adoprarsi per oscurarne lo splendore. Imperocchè non solo
lasciavano senza alcun ornamento il di lui sepolcro, ma per timore
di essere accusati di approfittare a scopo di lucro del culto che
gli si prestava, staccavano dalle pareti quei quadri che i devoti
vi appendevano. E se pur vi era qualcuno a cui ciò dispiacesse,
nondimeno non aveva coraggio di contraddire. Avvenne per giunta
che, crescendo sempre più il numero dei frati, fu necessario
abbattere la vecchia chiesa di S. Nicolò per fabbricarne una
nuova: la tomba del S. Patriarca fu lasciata allora allo scoperto,
esposta alle piogge e a tutte le ingiurie delle stagioni.
Finalmente la cosa toccò il cuore di molti frati, i quali
deliberarono fra loro sul modo di trasportare quelle preziose
reliquie in un sepolcro più conveniente; erano però nella
persuasione di non poterlo fare senza l'autorizzazione del Romano
Pontefice. «Certo che era in diritto dei figli, dice il B.
Giordano di Sassonia, dar sepoltura al loro padre; ma permise
Iddio che a compiere tal pietoso ufficio essi cercassero il
concorso di un personaggio molto più illustre di loro, appunto
perché la traslazione del glorioso Domenico acquistasse anche il
carattere di canonicità».
I frati adunque prepararono un sepolcro più
degno pel loro padre e mandarono una deputazione al Pontefice per
sentire il da farsi. Sedeva allora sul trono pontificale il
vecchio Ugolino Conti, sotto il nome di Gregorio IX, il quale
ricevé i frati molto aspramente, e li rimproverò di aver
trascurato per tanto tempo di rendere l'onore dovuto al loro
patriarca. «Io ho conosciuto quell'uomo apostolico, aggiunse, e
non dubito affatto, che sia partecipe in cielo della gloria dei
santi apostoli». Gregorio avrebbe desiderato di trovarsi in
persona a quella traslazione, ma trattenuto dai doveri del suo
ufficio, scrisse all'arcivescovo di Ravenna di portarsi a Bologna
coi suoi suffraganei per assistere alla cerimonia.
Si arrivò così alla Pentecoste dell'anno
1233. Il Capitolo generale dell'Ordine era già convocato a
Bologna, sotto la presidenza di Giordano di Sassonia, immediato
successore di Domenico nel generalato. Ossequenti agli ordini del
Pontefice, erano colà convenuti anche l'Arcivescovo di Ravenna ed
i vescovi di Bologna, di Brescia, di Modena e di Tournay. I frati,
accorsi da ogni parte, erano più di trecento; gli alberghi
rigurgitavano di signori e nobili personaggi delle città vicine;
immensa l'aspettazione del popolo. «Ma intanto, dice il B.
Giordano di Sassonia, i Frati sono in preda all'angoscia: pregano,
impallidiscono, tremano pel timore che il corpo di S. Domenico,
esposto per tanto tempo alle intemperie di una vile sepoltura,
apparisca corroso dai vermi ed esali cattivo odore, diminuendo
cosi il concetto della di lui santità». Angustiati da questo
pensiero, stavano divisando di aprire segretamente la tomba del
Santo; ma Dio non lo permise. Il Potestà di Bologna, sia che glie
ne fosse nato sospetto, sia che volesse certificarsi meglio
sull'autenticità delle reliquie, fece custodire da cavalieri
armati notte e giorno il sepolcro. Tuttavia per fare con più
libertà la ricognizione del corpo, e per evitare in quel primo
momento la confusione di un popolo immenso, come era allora in,
Bologna, fu stabilito che l'apertura della tomba si facesse di
notte. Il martedì di Pentecoste adunque, 24 di maggio, avanti
l'aurora, l'Arcivescovo di Ravenna e gli altri Vescovi, il
Generale dell'Ordine coi Deffinitori del Capitolo, il Potestà di
Bologna, i principali signori e cittadini, così di Bologna come
delle città vicine, al chiarore di fiaccole si radunarono intorno
all'umile pietra che da dodici anni copriva i mortali avanzi di S.
Domenico. Alla presenza di tutti, fra Stefano, priore provinciale
di Lombardia, e fra Rodolfo si misero coll'aiuto di altri frati a
levare il cemento che fissava al suolo la pietra. Si era indurito
assai, e non cedé che a forza di grimaldello. Ciò fatto, e rese
visibili le pareti esterne della tomba, fra Rodolfo con un
martello ruppe un po',uno spigolo, e per mezzo di leve si poté
così sollevare, sebbene con fatica, la pietra superiore del
monumento. Non ancora si era potuta alzare del tutto, che un
profumo celestiale cominciò a spandersi dal sepolcro semiaperto;
profumo mai sentito, impossibile ad immaginare.
L'arcivescovo, i vescovi, tutti quanti insomma
erano presenti, pieni di stupore e di gioia caddero in ginocchio
piangendo e lodando il Signore. Tolta la pietra, apparve infondo
alla tomba la cassa di legno che racchiudeva le reliquie del
Santo. Nella tavola superiore c'era una piccola fessura, ed era
per essa che esalava abbondantemente quell'odore, che aveva
inebriato tutti gli astanti, e che si fece ancor più fragrante
quando la cassa fu tratta fuori della fossa. Tutti si chinarono
per vedere la preziosa custodia, e i baci e le lacrime vi caddero
sopra in abbondanza. Finalmente, estratti i chiodi, fu aperta dal
di sopra la cassa, e comparvero agli occhi di tutti i frati e
degli amici le reliquie del Santo. Non vi si ritrovarono che ossa,
ma ossa piene di gloria e di vita pel celeste profumo, che da loro
emanava. Dio solo sa qual gioia inondò allora il cuore di tutti,
e nessun pennello potrebbe ritrarre quella notte profumata, quel
silenzio emozionante, quei vescovi, quei cavalieri, quei frati,
tutti quei visi brillanti di lacrime e piegati sopra una cassa a
cercarvi, al chiarore di ceri, il grande e santo uomo che dal
trono di Dio certamente li rimirava, e rispondeva alla loro pietà
con quegli invisibili amplessi, che temprano la gioia, quando è
troppo forte nell'anima. I vescovi noli stimarono le loro mani
abbastanza filiali da toccare le ossa del Santo; ne lasciarono
quindi la consola-, zione e l'onore ai figli di Lui. Giordano di
Sassonia' si chinò con rispettosa devozione su quelle sacre
reliquie e le trasferì in una nuova cassa fatta di larice; legno,
come dice Plinio, che resiste all'azione del tempo. La cassa fu
chiusa con tre chiavi, una delle quali fu consegnata al Potestà
di Bologna, un'altra a Giordano di Sassonia, e la terza al Priore
Provinciale di Lombardia; fu quindi trasportata nella cappella
dove si stava innalzando il monumento destinato a custodire il,
sacro deposito. Il monumento era di marmo, ma senza alcuna
scultura.
Fattosi giorno, i vescovi, il clero, i frati, i
magistrati, i signori si recarono nuovamente alla chiesa di S.
Nicolò, già rigurgitante di popolo immenso e di gente d'ogni
nazione. L'arcivescovo di Ravenna cantò la Messa, che era in quel
giorno la Messa del martedì di Pentecoste, e per felice
combinazione le prime parole del coro furono: accipite
jucunditatem gloriae vestrae, rallegratevi della vostra gloria. La
cassa stava aperta e spandeva per la chiesa soavissimo odore, che
i profumi dell'incenso non valevano per nulla a coprire. Al canto
del clero e dei religiosi univasi ad intervalli il suono delle
trombe; una moltitudine infinita di fiaccole brillava nelle mani
del popolo. Non ci fu cuore, per quanto duro, che non si aprisse
alla dolce ebbrezza di quel trionfo di santità. Finita la
cerimonia e chiusa la cassa, i vescovi la riposero sotto il marmo,
affinché là, in pace ed in gloria, aspettasse il segnale della
resurrezione. Ma otto giorni dopo, per le pressanti preghiere di
molte rispettabili persone che non avevano potuto assistere alla
traslazione, fu riaperto il monumento. Giordano di Sassonia prese
in mano il venerabile capo del S. Patriarca e lo mostrò a più di
trecento frati, i quali ebbero così la consolazione di
appressarvi le loro labbra, rimaste per lungo tempo profumate da
quell'ineffabile bacio. Perocché quanto avesse toccato le ossa
del Santo rimaneva impregnato del profumo che da esse emanava.
«Anche noi abbiamo sentito, dice il B. Giordano di Sassonia,
questo prezioso odore; onde di ciò che abbiamo veduto e sentito
rendiamo testimonianza. Non potevamo saziarci dall'aprire i nostri
sensi alla dolce impressione che ne causava quel profumo, per
quanto fossimo rimasti lungo tempo'presso il corpo di S. Domenico.
Non cagionava fastidio; eccitava anzi il cuore alla pietà, ed
operava miracoli. Toccavi quel corpo con la ma-no, con una
cintura, con qualche altra cosa? Subito s'imbeveva di
quell'odore».
Teodoro d'Apolda fa notare a tal proposito, che
anche avanti la morte, Dio aveva privilegiato il Santo di questo
segno esteriore della purità dell'anima. Un giorno mentre a
Bologna celebrava la messa in occasione di una festa solenne,
giunto che fu all'offertorio, si accostò a lui uno studente e gli
baciò la mano. Quel giovane era dominato da una forte
incontinenza, di cui forse cercava la guarigione; baciando la mano
di S. Domenico sentì tale profumo, che gli rivelò in un tratto
l'onore e la gioia. dei cuori puri, e da quel momento, coll'aiuto
di Dio, fu sempre superiore alla corruzione delle sue
inclinazioni.
Gli strepitosi miracoli che accompagnarono la
traslazione del corpo di S. Domenico, indussero Gregorio IX a non
ritardarne più a lungo la canonizzazione. Con lettera adunque
degli 11 di Luglio 1233 dette commissione a tre insigni
ecclesiastici, Tancredi, arcidiacono di Bologna, Tommaso, Priore
di S. Maria del Reno, Palmieri, canonico di S. Trinità, di
procedere ad un'inchiesta sulla di lui vita. Dal 6 al 30 di Agosto
l'inchiesta fu ultimata. I commissari apostolici ascoltarono,
previo giuramento, la deposizione di nove Frati, scelti fra quelli
che avevano avuto relazioni più intime con S. Domenico; questi
furono Ventura di Verona, Guglielmo di Monferrato, Amizon di
Milano, Bonvisi di Piacenza, Giovanni di Navarra, Rodolfo di
Faenza, Stefano di Spagna, Paolo di Venezia e Frugero di Penna.
Tutti questi testimoni però, ad eccezione di Giovanni di Navarra,
non avevano conosciuto Domenico nei primi tempi del suo
apostolato: onde i commissari della S. Sede credettero necessario
fare una seconda inchiesta nella Linguadoca, e delegarono a questo
effetto l'abate di S. Saturnino di Tolosa, l'arcidiacono della
medesima chiesa, e quello di S. Stefano. Costoro ascoltarono
ventisei testimoni, e più di trecento rispettabilissime persone
sottoscrissero con giuramento alle deposizioni fatte dai ventisei
intorno alle virtù di S. Domenico ed al miracoli operati per sua
intercessione. Non conosciamo la data precisa di quest'atto, ma fu
certo verso la fine del 1233 o al principio del 1234.
Le deposizioni di Bologna e di Tolosa furono
esaminate a Roma dallo stesso Gregorio IX e dal S. Collegio; ed un
autore contemporaneo ci fa sapere che il Pontefice parlando, in
quell'occasione, di S. Domenico, disse: «Son certo della sua
santità, come son certo di quella dei SS. Apostoli Pietro e
Paolo». La Bolla di canonizzazione che tenne dietro a questi
processi, è del seguente tenore: «Gregorio, vescovo, servo dei
servi di Dio, ai venerabili fratelli arcivescovi e vescovi, ed ai
cari figli abati, priori, arcidiaconi, arcipreti, decani, proposti
ed altri prelati delle chiese, ai quali perverranno queste
lettere, salute ed apostolica benedizione.
«La sorgente della Sapienza, il Verbo del
Padre, la cui natura è bontà, la cui opera è misericordia, che
riscatta e rigenera quelli ch'egli ha creato, e veglia fino alla
consumazione dei secoli sulla vigna che ha tratto fuori
dall'Egitto, Gesù Cristo Signor nostro, in vista
dell'instabilità degli spiriti, sapientemente fa apparir nuovi
segni e fa miracoli di nuovo genere contro la diffidenza
dell'incredulità. Dopo la morte di Mosè, vale a dire dopo
l'abolizione della legge egli, adempiendo le promesse fatto ai
nostri padri, monta sulla quadriga dell'Evangelo, con in mano
l'arco della parola santa, tenuto teso durante tutto il regno
giudaico. Si avanza in mezzo alle onde del mare, cioè in mezzo
alle innumerevoli nazioni, la cui salute era figurata in Rahab,
calpesta la baldanza di Gerico, cioè la gloria del mondo, e con
stupore dei popoli, subito trionfa al primo fremito della
predicazione. Il profeta Zaccaria (Zac 6) vide questo carro a
quattro cavalli uscir fuori quattro volte da due montagne di
bronzo. La prima volta era tirato da cavalli rossi: in essi erano
figurati i maestri delle nazioni, i forti della terra, coloro che,
sottomessi per la fede al Dio d'Abramo, padre dei credenti, ad
esempio del loro duce e per assicurar meglio i fondamenti della
fede, tinsero i loro abiti in rosso, vale a dire nelle acque delle
tribolazioni, ed imporporarono del loro sangue tutti gli emblemi
della loro milizia, sprezzatori della spada temporale, in vista
della futura gloria; e che divenuti martiri, cioè testimoni,
sottoscrissero colla loro professione di fede il libro della nuova
legge; consacrarono col sangue d'ostie ragionevoli, sostituito al
sangue d'animali, il libro ed il tabernacolo, opera non dell'uomo,
ma di Dio e tutti i vasi del ministero evangelico, aggiungendo
alla loro confessione il peso dei miracoli; e gettando finalmente
la rete della predicazione sulla vasta estensione dei mari,
formarono di tutte le nazioni che sono sotto il cielo, la Chiesa
di Dio. Ma poiché la moltitudine ingenerò la presunzione, ed
alla libertà tenne dietro la licenza, il secondo carro fu visto
tirato da cavalli di color nero, colore di lutto e di penitenza:
in questi era raffigurata quella squadra condotta dallo spirito
nel deserto, sotto la direzione del santissimo Benedetto, altro
Eliseo del nuovo Israele; squadra che ristabilì tra i figli dei
profeti la vita comune, riannodò il filo rotto dell'unità, ed
estendendosi colle buone opere fino a quella terra dell'Aquilone,
donde procede ogni mal e, fece abitare in cuori contriti Colui che
non può stare in corpi sottoposti al peccato. Dopo di che, quasi
a rinfrescare le affaticate schiere e far succedere la gioia ai
lamenti, ecco il terzo carro con cavalli bianchi, cioè coi figli
degli Ordini di Citeaux e di Flore i quali, simili a pecore ben
pasciute, pieni del latte della carità, uscirono dal bagno della
penitenza con a capo S. Bernardo, quell'ariete rivestito dall'alto
dello spirito del Signore, che li condusse nell'abbondanza delle
convalli, acciocché i passeggeri liberati da loro, cantassero
inni, e fissassero sul flutti gli accampamenti del'Dio della
guerra. Mentre adunque il nuovo Israele con questi tre eserciti si
difendeva contro un egual numero di eserciti di Filistei,
sull'undecima ora, quando il giorno già piegava a sera, cioè
quando la carità si era raffreddata per l'iniquità, ed il sole
di giustizia stava anch'egli per tramontare, il padre di famiglia
ha voluto chiamare sotto le armi una milizia ancora più adatta a
proteggere la vigna piantata di sua mano, e coltivata sempre da
operai da lui mandati in diversi tempi; la quale invece era ora
.non solamente ingombra di rovi e di spine, ma pressoché
distrutta da una moltitudine ostile di piccole volpi. Ecco
perché, come ora vediamo, dopo i primi tre carri, diversi nei
loro simboli, sotto la figura del quarto carro tirato da cavalli
forti e di svariato colore, Dio ha suscitato le legioni dei Frati
Predicatori e del Frati Minori, coi loro due! prescelti pel
combattimento. Uno di questi duci fu S. Domenico, uomo a cui Dio
comunicò la forza e l'ardore della fede, ed al collo del quale
attaccò, come a cavallo di sua gloria, il carro della divina
predicazione. Fanciullo egli ebbe cuore da vecchio; nella
mortificazione della carne ricercò l'autore della vita.
Consacratosi a Dio sotto la regola del B. Agostino, imitò Samuele
nell'assiduo servizio del tempio, e fu un altro Daniele nel
fervore delle sue religiose aspirazioni. Coraggioso atleta,
camminò pei sentieri della giustizia e per le vie della santità;
non cessò mai dal far la guardia al tabernacolo e dall'esercitare
gli uffici della chiesa militante; tenne la carne sommessa alla
volontà, i sensi alla ragione, e addivenuto un solo spirito con
Dio, si studiò di trasformarsi tutto in lui negli ardori della
contemplazione, senza che nel suo cuore e nelle sue opere venisse
meno l'amore del prossimo. E feriva così a morte le concupiscenze
della carne, e sfolgorava con raggi così abbaglianti l'intelletto
cieco degli empi, che ogni setta di eretici tremò, e ne esultò
la Chiesa dei fedeli. La grazia crebbe in lui con l'età, e pieno
di zelo per la salute delle anime, si consacrò tutto alla
predicazione della parola di Dio, inducendo molti altri ancora al
ministero evangelico, tanto da meritarsi anche sulla terra nome e
realtà di grande. Divenuto pastore e principe in mezzo al popolo
di Dio, riuscì coi suoi' meriti ad istituire un nuovo Ordine di
Predicatori, lo regolò coi suoi esempi, e non cessò di
stabilirlo e confermarlo sempre più con autentici ed evidenti
miracoli. Imperocchè fra gli altri segni che nel corso della sua
vita mortale manifestarono la sua possanza e santità, ebbe il
potere di rendere la parola ai muti, la vista ai ciechi, l'udito
al sordi, le gambe ai paralitici, la salute ad una moltitudine di
infermi; onde a con siffatti prodigi si fa chiaramente manifesto
qual fosse lo spirito che animava la polvere di quel santissimo
corpo. Noi adunque, che trattammo familiarmente con lui i quando
occupavamo nella Chiesa un grado inferiore e che nel tenore di
vita ch'egli menava avemmo insigni prove della sua santità, ora
che testimoni degni di fede ci hanno comprovato la verità dei
suoi miracoli, noi, con l'ovile dei fedeli che al .Signore è
piaciuto di affidare alle nostre cure, crediamo che Domenico
potrà giovarci, per grazia di Dio, colla sua intercessione, e
dopo averci consolati in terra della sua dolce amicizia, ci vorrà
ora aiutare dal cielo col suo valevole patrocinio. Laonde, dietro
il consiglio e l'assenso dei nostri fratelli e prelati assistenti
alla sede apostolica, abbiamo deliberato di registrare il suo nome
nell'albo dei Santi. Adunque fermamente decretiamo, e colla
presente Bolla ordiniamo a tutti voi di celebrare e di far
celebrare solennemente la sua Festa alle none di Agosto, giorno
precedente a quello in cui egli depose il carico della sua carne e
ricco di meriti entrò nella città dei Santi, affinché Dio,
ch'egli tanto onorò in vita, conceda anche a noi, mosso dalle di
lui preci, la grazia nel presente secolo e la gloria nel futuro.
Volendo poi che il sepolcro di questo gran confessore, che
illustra la Chiesa con straordinari miracoli, sia degnamente
frequentato e venerato, a tutti i fedeli che confessati e
comunicati il giorno della Festa del Santo visiteranno con
devozione e riverenza il suo sepolcro, concediamo la remissione di
un anno di penitenza, confidando per questo nella misericordia
dell'Onnipotente Iddio e nell'autorità dei Beati Apostoli Pietro
e Paolo. Dato a Rieti, il giorno 11 di Luglio, anno ottavo del
nostro Pontificato».
Gregorio IX fu l'ultimo, eccettuatone S.
Giacinto, a sopravvivere fra tutti i grandi uomini, amici di S.
Domenico, che avevano contribuito al compimento dei di lui
disegni. Egli morì il 21 Agosto 1241, in età di novantasette
anni; trenta dei quali fu cardinale e quattordici Papa, senza che
mai la maestà degli anni o lo splendore delle dignità
sorpassassero in lui i meriti personali. Giureconsulto, uomo di
lettere, diplomatico, a tutti questi doni di corpo e di spirito,
aggiungeva un animo veramente magnanimo, dove poterono trovar
posto anche S. Domenico e S. Francesco, ambedue da esso
canonizzati. Forse mai più ci sarà dato di vedere intorno ad un
sol uomo, quale fu S. Domenico, tanti altri uomini della tempra di
un Azevedo, di un Montfort,. di un Folco, di un Reginaldo, di un
Giordano di Sassonia, di un S. Giacinto, di un Innocenzo III, di
un Onorio III, di un Gregorio IX; né tante virtù e nazioni ed
avvenimenti si vedranno concorrere ad opera si grande, in tempo
cotanto limitato.
In seguito alla Bolla di canonizzazione il
culto di san Domenico presto si diffuse per l'Europa, ed in
moltissimi luoghi gli furono eretti altari. Bologna però si
distinse sempre nel suo zelo verso il grande, concittadino
donatole dalla morte. Nel 1267 si trasferì nuovamente il corpo di
lui dalla tomba senza sculture in cui riposava, in una tomba più
ricca e più adorna. Questa seconda traslazione fu fatta dall’Arcivescovo
di Ravenna, alla presenza di molti altri Vescovi, del Capitolo
generale dei Frati Predicatori, del potestà e degli anziani di
Bologna. Fu aperta la cassa, e dall’alto di una tribuna
innalzata fuori della chiesa di S. Niccolò, fu mostrato a tutto
il Popolo il capo del Santo, fatto prima baciare al vescovi ed ai
frati. Nel 1383 fu riaperta la cassa per la terza volta, e toltone
il capo del Santo, fu riposto in un reliquiario di argento,
affinché i fedeli potessero più facilmente venerare il prezioso
deposito. Finalmente il 16 Luglio 1473 fu rinnovato il monumento
con nuovi marmi e bellissime sculture, opera di Niccolò Pisano,
secondo lo stile del cinquecento, rappresentanti diversi fatti
della vita di S. Domenico. Io non starò qui a descriverle; le
vidi due volte, e tutte e due le volte osservandole genuflesso,
sentii, fra la pace di quella tomba, che una mano divina doveva
aver guidato quella dell'artista, forzando il gelido marmo ad
esprimere sensibilmente l'incomparabile bontà di quel cuore di
cui ricopre la polvere. Dal 1473 il glorioso sepolcro non è stato
più toccato, e sono ormai trascorsi quattro secoli senza che
occhio umano abbia più vedute quelle sacre ossa e neppure la
cassa che le racchiude: il mondo non è stato più degno di tale
spettacolo. Domenico è stato vinto, in quanto può essere vinto
chi per trecento anni è rimasto invitto sul campo di battaglia.
Come gli uomini tutti e le grandi opere del medio evo, anch'egli
ha dovuto soffrire l'ingratitudine di una ingannata posterità, ed
aspettare tranquillamente nel suo muto e sigillato sepolcro, la
giustizia di una nuova comparsa, che non è in potere degli uomini
negare per sempre a coloro che li hanno serviti. Già molti fra i
contemporanei del Santo hanno veduto rialzate dalla storia le loro
statue. Io non credo di aver fatto altrettanto; ma il tempo
impugnerà la penna dopo di me; ed io senza tema, né gelosia,
lascio a lui la cura di dar l'ultima mano.
APPENDICE
L’ORDINE DI S. DOMENICO
SAGGIO APOLOGETICO - STORICO
CAPITOLO I
Della legittimità degli Ordini
Religiosi dinanzi allo Stato.
Se fossi vissuto in tempi anteriori ai nostri,
e la grazia divina mi avesse ispirato di servire il Signore in un
Ordine Religioso, scelto tra i più confacenti alla mia natura ed
alla mia vocazione, vi sarei entrato senza farne parola altro che
a Dio ed ai miei amici. Ma questa semplicità, possibile allora,
anzi doverosa, - niente convenendo meno a ciò che sa di cristiano
del fracasso e dell'ostentazione, - oggi non lo è più. Noi
viviamo in un secolo in cui chi voglia farsi povero e servo di
tutti, trova maggiore ostacolo a soddisfare questa sua volontà,
che non ne troverebbe a procurarsi o la fortuna, o la fama. Tutti
che in Europa comandano, re e giornalisti, aderenti alla monarchia
assoluta o fautori della libertà, hanno fatto lega contro il
sacrificio volontario che ognuno può fax di se stesso; e mai nel
mondo si ebbe tanta paura di un uomo che vada a pie' scalzi,
ricoperto di un ruvido saio. Se gli Ordini religiosi fossero, come
altre volte, possessori di pingui patrimoni, conservati ed
accresciuti dal favore stesso delle leggi civili, se i loro voti,
riconosciuti dalle pubbliche autorità, avessero altro valore
all'infuori di quello che loro proviene da un semplice consenso
rinnovato ogni dì, altro carattere che quello della libertà
assoluta, quest'allarme di tutti che comandano e di tutti i
partiti sarebbe spiegabile. Gli uni rigetterebbero il privilegio,
perciò stesso che privilegio; gli altri temerebbero per il fisco,
privato dei vantaggi che ritrae dal rapido passaggio della
proprietà in diverse mani; alcuni forse reclamerebbero la
libertà individuale e la libertà di coscienza, inceppata da
legami religiosi, non più fondati nella sola perseveranza
interiore dell'anima nelle medesime circostanze; ad altri
finalmente non andrebbero più a genio certi istituti ai quali la
società moderna non avesse tolto, con radicali modificazioni,
l'impronta del passato. Tutto questo, dico, si potrebbe spiegare.
L'inesplicabile si è che uomini stanchi delle passioni, del
sangue, e dell'orgoglio, compresi da tanto amore di Dio e del
prossimo da renderli dimentichi di loro medesimi. non possano
riunirsi. in una casa di loro proprietà, e lì, senza privilegi,
senza voti riconosciuti dallo Stato, legati solo dalla propria
coscienza, non possano vivere con cinquecento franchi a testa,
occupati in servigi che l'umanità può bensì non comprendere, ma
che in ogni caso, non nuoceranno mai ad alcuno. Ciò è
inesplicabile veramente, ma è così. Quando noi, amici
appassionati del nostro secolo, venuti fuori dal più profondo
delle suo viscere, gli abbiamo domandato la libertà di non creder
più a nulla, ce lo ha permesso: quando gli abbiamo domandato la
libertà di aspirare alle cariche, agli onori, ce lo ha permesso:
quando gli abbiamo domandato la libertà dì influire sui suoi
destini, prendendo a trattare, ancora imberbi, le più gravi
questioni, ce lo ha permesso: quando gli abbiamo domandato di che
vivere con tutti i nostri agì, l'ha trovato buona cosa. Ma oggi,
che, compresi da ideali divini, i quali agitano pure questo
secolo, noi gli chiediamo la libertà di seguire le ispirazioni
della nostra fede, di rinunziare a tutto, di vivere poveramente
con qualche amico compreso dai medesimi desideri, oggi ci
sentiamo, d'un tratto inceppati, messi al bando di non so quante
leggi dinnanzi a quasi tutta l'Europa, pronta, se fosse duopo, ad
opprimerci.
Tuttavia, anche minacciati da tanti ostacoli
esterni, non'disperiamo ancora di noi medesimi: fidiamo in Dio che
ci chiama e nella patria nostra.
E' stato detto che le comunità religiose sono
interdette in Francia. dalle leggi; molti però lo hanno negato;
altri hanno sostenuto che, sebbene tali leggi esistessero prima,
vennero abrogate dalla Carta. lo non entrerò in tali questioni,
non presentandomi in questo momento né da una cattedra, né dalla
sbarra di un tribunale di giustizia. Invocherò invece
un'autorità che è la , regina del mondo, che da tempo
immemorabile ha prescritto delle leggi, ne ha stabilite delle
altre, da cui dipendono le Carte stesse, e le di cui sentenze, sia
pure non volute riconoscere per un momento, finiscono, presto o
tardi, per andare in vigore. E' alla pubblica opinione ch'io
domando protezione, e glie la domando, se è d'uopo, contro lei
medesima, disponendo essa d'infinite risorse e di straordinaria
potenza, appunto perché sa cambiarsi senza vendersi mai.
Adunque, qualunque siano le leggi vigenti, è
certo che le comunità religiose esistono in Francia. Nonostante
la incertezza e le contraddizioni delle leggi, nonostante le
passioni sempre vive, sotto ogni regime di governo, così della
Rivoluzione del 1830, come dell'impero della Restaurazione, esse
sorsero e si accrebbero. Senza ricevere altro appoggio dallo Stato
che di una semplice tolleranza, han vissuto del lavoro delle
proprie mani, confortato dalla cooperazione della carità; e
benché subdolamente sempre attaccate, mai da quarant'anni a
questa parte, un insulto è giunto fino alla loro porta, mai uno
scandalo ne ha varcato la soglia.
Stabilità così straordinaria in terreno il
più fragile deve aver le sue cause. Quali? E' evidente anzi tutto
che nel presente stato sociale, nessun costringimento o seduzione
di sorta hanno potuto indurre un si gran numero di persone a
preferire la vita comune a quella individuale. L'atto con cui oggi
uno si consacra a un tal genere di vita, è esclusivamente un atto
di elezione, un atto essenzialmente libero; e la moltitudine di
uomini e di donne che là ripongono ogni loro avvenire, senza
timore come senza rammarico, è la prova che la vita comune è la
vocazione di alcune anime. Così fu in ogni tempo; ma oggi
apparisce ancora più, ove si consideri lo stato precario delle
comunità religiose e le passioni d'individualismo, che divorano
il cuore degli uomini. Conviene oggi riconoscere che, malgrado sì
sfavorevoli condizioni, vi sono nella natura umana altri gusti
altre inclinazioni più forti dell'instintivo egoismo, sia pure
legittimo. E con che diritto si potrà impedire di soddisfarli,
quando non nuocciono a nessuno? E in che nuocciono? Qual male
fanno mai al mondo quelle povere fanciulle, che a forza di virtù
si sono create un asilo per la loro giovinezza e per l'età
caduca? Che male gli fanno quei laboriosi operai, i quali alla
loro patria non domandano altro che la libertà di poter mescolare
insieme i loro sudori? Che male gli fanno le suore o i frati negli
ospedali; che male quei sacerdoti che si uniscono insieme per
portare il cristianesimo e la civiltà a popoli ancora barbari,
per evangelizzare il proprio paese, o per educare la gioventù che
loro viene affidata dagli stessi padri di famiglia? C'è male in
tutto questo? Ma se non c'è merito, sono almeno gusti innocenti.
Ed è inconcepibile che un paese, nel quale da cinquant'anni si
proclama la libertà, vale a dire il diritto di fare tutto ciò
che non può nuocere agli altri, perseguiti invece ad oltranza un
genere di vita che piace a molti e che non nuoce ad alcuno! A che
pro versare tanto sangue per difendere i diritti dell'uomo? Che
forse la vita comune non'è un diritto dell'uomo, se pure non è
un bisogno dell'umanità? Una povera fanciulla, che non vuol
maritarsi, che non trova un amico sulla terra, non avrà il
diritto di consegnare la sua dote di mille scudi ad una famiglia,
che l'adotterà per figliola e per sorella, che l'alloggerà, la
nutrirà, la consolerà e le donerà ancora a maggiore è tutela
l'amore di Dio, che non inganna mai? Se tal genere di vita a
qualcuno non piace, nessuno lo forza
di abbracciarlo: se altri, ricchi e contenti,
non hanno sperimentato mai le miserie dell'anima e del corpo, buon
per loro. Ma perché arrogarsi il diritto di privare chiunque di
un asilo, che sarebbe sacro, quando pure non servisse che a
soddisfare un capriccio della natura?
Ciò che fa cadere in orrore su questo punto
anche persone di retta intenzione, è il ricordo, tutt'ora
presente, degli antichi conventi. I conventi facevan parte una
volta della stessa organizzazione sociale; e, oggetto d'invidia
per le loro ricchezze,. liberavano le famiglie nobili da ogni cura
dei loro figli minori e dalla necessità di dotare le figlie.
Vocazioni innumerevoli, eccitate dall'arte domestica, popolavano
di anime infastidite e mediocri i lunghi corridoi dei monasteri; e
quelli stessi del volgo erano allettati dall'apparente felicità
di vivere all'ombra di quelle alte mura, che nascondevano, secondo
loro, una molle esistenza, bene spesso diventata effettivamente
tale per la cupidigia appunto delle genti del secolo. Sia pur vero
ciò, quantunque forse esagerato. Ma non si dimentichi che
quest'ordine di cose, pel fatto stesso che lo stato non riconosce
più i voti religiosi, è totalmente cessato: cosa che costituisce
appunto il vero oggetto della presente legislazione, che s'invoca
contro le comunità. Esse non sono più affatto istituzioni
civili, esse non hanno più altri legami all'infuori della
coscienza; la coscienza! questa sola li protegge contro gli abusi,
che la forza cerca sempre introdurre nelle cose le più sante.
Difatti le comunità religiose da quarant'anni a questa parte
offrono in Francia uno spettacolo di virtù così pura e co sì
perfetta, che ci vuol dell’ingratitudine per rinfacciar loro le
colpe di un tempo che fu.
La gloria della Francia in questi quarant'anni
appunto nell'aver saputo riprodurre continuamente quelle cose che
non avrebbero dovuto mai essere distrutte, imitando in ciò la
natura che abbatte sì i vecchi alberi, all'ombra dei quali
riposarono intere generazioni, ma ne conserva sempre il germe,
donde ne trae nuovi polloni, ai quali la posterità verrà a
domandare ombra e frutti. Non deve dirsi adunque: la Francia ha
fallito; poiché tutto ch'essa voleva distruggere, rinasce. Devo
dirsi invece: la Francia è vittoriosa; poiché di tutte le cose
ha saputo conservare il germe, la distruzione del quale soltanto
avrebbe portato alla sterilità; mentre così esse tornano a
svilupparsi in condizioni migliori nel ringiovanito suo seno.
Aspirare alla distruzione del germe è volere la morte; e sarà
sempre aspirazione vana, poiché Dio che ha lasciato in balia
dell'uomo le esistenze individuali, non gli ha mai dato potere
sulle loro prime radici. La natura, come la società, si
befferanno sempre col loro inalterabile succo di quegli
speculatori che credono poter cambiare le essenze delle cose, e
far perire con una legge le quercia e i frati: le querce e i frati
sono immortali.
Osservata più da vicino l'attuale costituzione
delle comunità religiose, apparirà ancor meglio il principio da
cui esse traggono la forza per lottare così vantaggiosamente
contro tutti i pregiudizi. Una comunità religiosa consta di tre
parti: dell'elemento materiale, dell'elemento spirituale e
dell'elemento d'azione. Per elemento materiale lo intendo
l'assieme esteriore di vita, cioè le regole che determinano
l'abitazione, il vestito, il nutrimento, l'alzata, il riposo, gli
atti insomma che riguardano, il corpo. L'elemento spirituale
consiste, egli è chiaro, nel tre voti dì povertà, di castità e
di obbedienza, da cui scaturiscono e a cui si ricongiungono le
relazioni colla divinità. L'elemento d'azione infine h il mezzo
di cui una comunità si serve per influire nella società. E'
facile accorgersi che questi tre elementi si sottraggono ad ogni
attacco in un paese in cui la forza brutale non sia la ragione
unica delle cose.
Ed in vero, cominciando dall'elemento
materiale, che si ridurrebbe il diritto e la libertà, qualora
più cittadini non fosse permesso d'abitare insieme in una stessa
casa, di alzarsi e di coricarsi alla stessa ora, di cibarsi alla
stessa mensa, di vestire uguale uniforme? Che rimarrebbe della
proprietà, della libertà di domicilio, della libertà
individuale, se potessero cacciarsi di casa altri, solo perché
compiono in comune gli atti della vita domestica? Si dovrebbe
almeno determinare il numero di persone, oltre il quale
cominciasse il delitto; che allora restando sempre possibile, al
di sotto di cotesto numero, una comunità, la legge si troverebbe
impotente a procedere, almeno fino a che non avesse dichiarato,
che un cittadino francese non può abitare con un altro cittadino
francese senza il beneplacito del re e delle camere. Nelle altre
associazioni, il diritto di unirsi è molto meno evidente, le
guarantigie d'ordine molto meno sicure; ciò nonostante la legge
le permette, purché non si ecceda il numero di venti persone.
Perché negare il beneficio di questa disposizione, in fine non
troppo liberale, alle comunità religiose? Sarà rispettata la
libertà di venti individui che si riuniscono in giorni stabiliti
in luogo, che non è neppure proprietà loro e loro vero
domicilio, e si considererà un attentato alle leggi la riunione
di venti individui nella loro propria casa, dove vivono
tranquillamente? Perocchè, e ciò è da notarsi, nessuna
associazione può dare allo stato garanzie di ordine così sicure
come le comunità religiose. La vita comune esige tanta virtù,
che ove essa sia praticata senza l'appoggio delle leggi civili,
per solo dovere di coscienza, è una meraviglia degna
d'ammirazione. Si potrebbe anche aggiungere che una comunità
religiosa non è un'associazione, ma una famiglia, avendo della
famiglia tutti i diritti e tutti i caratteri; e per comprendere la
differenza enorme fra le associazioni e le comunità, basterebbe
osservare che, qualora le associazioni venissero costrette a
trasformarsi in comunità, all'istante si scioglierebbero, per
l'impotenza stessa di corrispondere a tale richiesta.
E' vero però che l'elemento spirituale, il
quale costituisce la famiglia religiosa, è un voto. Se non fosse
che un consenso rinnovato ogni giorno, converrebbe aver perduto il
ben dell'intelletto per opporvisi; ma un voto! un atto
irrevocabile! la tirannia di un momento sopra un avvenire! E' la
stessa obbiezione che i fautori del divorzio avanzano contro
l'indissolubilità del matrimonio: perché tu ami un giorno, quel
giorno ti ha da legare per sempre! Sicuro: la famiglia naturale,
come la famiglia religiosa, è soggetta alla legge della
perpetuità, al dominio del passato sull'avvenire, e l'obbiezione
avanzata non deve esser poi così formidabile so, ciò nonostante,
il matrimonio da Adamo in poi non ha ancora cessato generalmente
di essere indissolubile. D'altra parte qual è il passato che non
si rifletta sull'avvenire? Qual momento della vita umana è
revocabile veramente? Si crede possibile sottrarsi all'influenza
di ciò che ormai ci sta dietro; ma per quanto uno rimanga libero
dì pentirsi del passato, non rimane libero dai doveri che da esso
,derivano e che il pentimento stesso consacra. Basterebbe già
questa parità fra la famiglia naturale e la famiglia religiosa
per legittimare quest'ultima; tuttavia neppur questo mezzo di
difesa ci sembra opportuno: le promesse degli sposi sono sotto la
protezione del codice penale, mentre i voti del religioso sono
sotto la protezione della sola coscienza: la forza difende
l'indissolubilità del matrimonio; mentre la sola libertà
presiede all'indissolubilità dei legami del chiostro. Se un
religioso si annoia, se ne può andare; chi lo trattiene?
unicamente la sua volontà, un suo consenso rinnovato ogni giorno,
un atto perseverante di amore di Dio. Il voto è una legge, non
v'ha dubbio; ma è una legge che uno da sé impone a se stesso, e
vi obbedisce solo finché vuole. Fare la legge, ed obbedirvi
volontariamente, non è questa la più viva espressione della
libertà?
Che se il voto è sacrosanto, perché
costituito da un atto liberissimo nel suo principio e nella sua
attuazione, lo è molto più considerato nella sua essenza. Il
voto sotto questo aspetto, non è che una relazione intima
dell'anima con Dio un atto di religione. E qui è la coscienza che
reclama la sua inviolabilità; è essa che domanda chi mai abbia
il diritto di interdirle, sotto pena qualsiasi, una relazione
ch'essa vuole avere con Dio. Poiché il voto si risolve in un atto
di fede col quale l'anima, promettendo a Dio qualche cosa, crede
che la promessa sarà da Lui accettata. Togliete di mezzo la fede,
- e ciò si può sempre fare perché la fede è una virtù, - e il
voto non avrà più alcuna forza. La proscrizione del voto adunque
è la proscrizione di un atto di fede. Di guisa che un contratto
così conchiuso: «Noi sottoscritti mettiamo tutti i nostri beni
in comune e ci obblighiamo a vivere in comune finché a noi
piacerà, con la condizione di lasciare a quelli che restano la
parte di coloro che se ne volessero andare, ed a quelli che
sopravvivono la parte di quelli che muoiono;» questo contratto
sarebbe valido. Aggiungeteci questa sola parola: «Noi ci
obblighiamo davanti a Dio ecc.» e il contratto diventa nullo,
perché posto sotto la salvaguardia di un atto di fede, perché il
pensiero di Dio Interviene fra i contraenti, perché questo
contratto è un voto. Senza tale atto di fede voi avreste potuto
vivere tranquillamente nella vostra casa, coi vostri amici; con
quest'atto di fede tutto è cambiato. Verranno i gendarmi alla
vostra porta e nell'interno della vostra casa: avrete un
bell'invocare la proprietà, il domicilio, la libertà
individuale! vi sarà risposto che tutte queste cose sono
sacrosante, ma che la libertà di coscienza essendolo ancora di
più, corre l'obbligo, a costo di ogni sacrifizio, di svincolarvi,
sia pure vostra malgrado, dal peso insopportabile dei vostri voti,
i quali vi legheranno, è vero, anche dopo di esserne stati
prosciolti, ma ciò sarà unica mente affare vostro. Dio guardi
dal togliervi la fede che costituisce tutta la forza dei vostri
voti; sarete solo privati della consolazione di poterli adempire.
La libertà della servitù interiore vi è appieno lasciata: chi
potrebbe togliervela? Vi è tolta soltanto la servitù della
libertà esteriore: e di che vi lagnate?
Se la rivoluzione francese avesse detto ai
religiosi: «Forse ce ne son tra voi di quelli che non sono
entrati liberamente, nel chiostro; sappiano allora costoro che fin
da oggi le porte del convento sono per loro aperte; facciano pure
quello che la coscienza loro detta». Ciò non sarebbe almeno una
derisione; come non lo sarebbe anche quando si aggiungesse: «La
nazione s'impossessa oggi dei beni che i vostri antenati ed i
nostri vi hanno lasciato; imperocchè essa reputa tal sacrifizio
indispensabile per la salvezza della patria. Rilasciando a voi di
che vivere, essa vi esorta a sopportare la sciagura che vi
colpisce con la dignità di uomini, che hanno rinunziato alla
terra per amore di Dio e dell'umanità. Andate pure, ora che con
quest'atto straordinario e terribile l'antico vostro Ordine vien
distrutto, andate dove più vi aggrada; fabbricatevi colla potenza
delle vostre virtù nuove dimore secondo le disposizioni del
diritto comune, ed affidatevi anche voi, senza timore, al grande
avvenire che si prepara per tutti. La Provvidenza non permette le
rivoluzioni sulla terra per distruggere, ma per edificare». Un
tal linguaggio suonerebbe certo ingiustizia, ma almeno non
derisione. Derisione si è pretendere di sciogliere, in nome della
libertà, legami che non sono solubili, perché attingono i
sentimenti interni dell'uomo, dando per sanzione a questo strano
svincolo la privazione dei diritti stessi i più rispettabili. Che
forse i Trappisti cacciati dall'Abazia di Melleray non portarono
seco, insieme alla loro fede, i loro voti? E che fu tolto loro se
non la pace, la patria, il frutto delle loro fatiche e tutte le
libertà inaffiate dal sangue dei padri loro e dei loro
contemporanei?
Legittimo nella sua qualità di atto libero e
di atto di fede, il voto religioso non lo è meno nella sua
qualità di atto di abnegazione. Esso obbliga chi lo emette alla
povertà, alla castità, all'obbedienza; vale a dire a realizzare
sulla terra, quanto è da sé, gli ardenti desideri dei migliori
amici dell'umanità e le utopie dei più ardimentosi politici.
L'uomo il quale ama veramente il suo simile, che più desidera, se
non che tutti i suoi fratelli guadagnino con le loro fatiche un
pane sufficiente a sostentarli, che il matrimonio non apporti a
loro la miseria, il disonore ai figli, e che un saggio governo
procuri loro la pace, ma non a prezzo di duro servaggio? Che sogna
mai il più speculativo degli uomini politici, se non una
federazione universale che assicuri a tutti la più perfetta
eguaglianza morale nell'educazione e nella fortuna, che mantenga a
tale scopo le popolazioni in corrispondenza con la fecondità del
globo, che dia infine il comando a chi perfezione ne risulta
degno, e induca i meno degni all'ubbidienza per la via della,
persuasione? Questi desideri e questi sogni, il mero possibile e
l'improbabile, hanno avuto la loro attuazione nelle comunità
religiose.
Col voto di povertà tutti che vi si
assoggettano, divengono eguali, qualunque sia stata nel mondo la
loro nascita e il loro merito. La cella del principe è la stessa
che quella di un custode di armenti; né questa uguaglianza si
restringe fra le anguste mura del monastero, ma si estende a tutta
l'umanità: in quella guisa che Dio, facendosi uomo, divenne
uguale a tutti gli altri uomini, il religioso, sposandosi alla
povertà, diviene uguale a tutti i piccoli.
Col sacrificio della castità il religioso
rende possibile nel mondo un matrimonio in luogo del suo, e
conforta quelli, a cui il censo non permette un tal vincolo
seducente, ma insieme oneroso. Imperocchè il celibato e la
povertà non sono già creazioni del monaco: esistevano anche
avanti di lui, ed ei non ha fatto che elevarle alla dignità di
virtù. Il soldato, il domestico, l'operaio povero, la giovane
senza dote, sono tutti condannati al celibato. Ma che? noi
licenziamo i nostri servi quando si sposano, e poi cacciamo i
monaci perché non si sono ammogliati!
E che dire dell'obbedienza religiosa? Non sa il
mondo ch'esso stesso è tutto quanto un'obbedienza passiva? Mentre
io oserei affermare e sostenere non esistere nel mondo che una
sola obbedienza perfettamente liberale: l'obbedienza religiosa.
Nessuno infatti ha messo in dubbio fino ad oggi la necessità per
l'uomo di ubbidire; con ragione però si è sempre cercato di
preservare l'ubbidienza dalla servilità e dall'ingiustizia. Due
mezzi furono principalmente escogitati: l'elezione e la legge;
l'elezione ordinata a conferire il comando al più degno; la legge
a controbilanciare il comando medesimo. Ma causa l'infermità
delle cose umane, l'elezione è bene spesso in potere di pochi
mestatori, sicché la maggioranza viene sopraffatta dalla
minoranza; la legge, al contrario, risultando dal consenso dei
più, fa sì che la maggioranza possa opprimere la minoranza. E'
questo il fatal cerchio intorno a cui raggirasi ogni politica, che
non conosce altra legge all'infuori della volontà umana, altra
elezione, che la scelta dell'uomo. La maggioranza, privata del
diritto di elezione, invoca senza posa la riforma elettorale; la
minoranza, che non consente alla legge, reclama la riforma
legislativa; tutti cedono alla forza, ed ecco l'obbedienza
passiva, cioè la sottomissione involontaria ad un ordine di cose
che la ragione non approva. L'obbedienza è attiva, liberale,
gloriosa allora soltanto che è il risultato di una scambievole
accondiscendenza dell'intelletto e della volontà; e questo è
solo possibile in un governo in cui non ci sia né maggioranza né
minoranza, come avviene nelle comunità religiose, tali quali oggi
sono costituite. Tutti i religiosi eleggono direttamente il loro
superiore immediato, e indirettamente il superiore mediato; di
più essi ritengono l'elezione non come il risultato della propria
volontà, ma come una manifestazione dello Spirito Santo che ha
diretto i loro cuori. L'universalità del voto e la convinzione
profonda dell'intervento divino, elevano così l'obbedienza al
più alto grado di onore che sia possibile quaggiù: l'eletto
comanda agli elettori, perché Dio ed essi l'han voluto ad un
tempo; e perché ciò che potrebbe bastare per assicurare l'onore
, all'obbedienza, non basta per assicurarne la giustizia, al di
sopra di colui che governa e di coloro che obbediscono c'è una
legge eterna, immutabile, universale, riconosciuta da tutti,
identificantesi nel suo principio coll'essenza stessa di Dio,
legge promulgata fin dall'origine del mondo, rinnovellata e
spiegata sempre meglio dal Dio fatto uomo, legge d'amore, che si
riassume così: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutto il tuo spirito, con tutta l’anima tua, e il prossimo
come te stesso. E ancora: Colui che vuole essere il primo fra voi,
sia l'ultimo; colui che vuole essere il più grande, sia il servo
di tutti. Ed oltre a questa legge suprema che regola le relazioni
dei fratelli fra loro, ce n'è ancora tin'altra che sta ugualmente
al di sopra di tutti, la regola dell'Ordine, quale fu dettata dal
fon datore o dai primi suoi discepoli, ed in cui tutti gli uffici,
tutti i doveri sono così ben definiti, che tutto fu sottratto,
per quanto possibile, all'arbitrio altrui. Quei che parlano di
obbedienza passiva nei religiosi, è evidente che non sanno ciò
ch'essa sia. Poiché se intendono dire che i religiosi promettono
di obbedire a tutto ciò che può venire in capo al loro
superiore, è una supposizione la più ridicola: essi promettono
di obbedire al superiore da loro scelto in tutto ciò che è
conforme alla legge divina e alle regole del loro istituto. Se poi
intendono dire che i religiosi obbediscono colla più completa
sottomissione del loro intelletto e della loro volontà, ciò è
precisamente quello che libera la loro obbedienza da ogni
passività. Non esistono altre società più fortemente premunite
contro gli abusi del potere, e con garanzie migliori in favore dei
cittadini.
Quanto all'elemento d'azione, che è fl terzo
elemento costitutivo degli Ordini religiosi, essi rientrano da
questo lato, come del resto da ogni altro e più ancora che da
ogni altro, se fosse possibile, nel diritto comune. Dal momento
che il monaco varca le soglie del monastero per agire nel mondo,
trova alla porta la legge, i diritti, i doveri di tutti. Vuol
predicare? Ha, bisogno del consenso del vescovo. Vuole istruire
nelle scuole la gioventù? Deve prima dar prova della sua
capacità dinanzi all'autorità incaricata di sorvegliare
sull'insegnamento. Vuol lavorare colle proprie mani la terra? Ha
l'obbligo di attenersi ai regolamenti dell'agricoltura. La sola
differenza fra lui e gli operai ordinari sarà solo di lavorare di
più e di esiger di meno.
Chi mediterà spassionatamente questi caratteri
degli Ordini Religiosi, comprenderà come mai essi rinascano così
facilmente dalle loro ceneri, nonostante i gravi ostacoli che
incontrano all'esterno. Nell'autunno del t828 lo mi trovava sul
lago di Ginevra. Un ginevrino, dando di gomito al compagno, e
guardandomi, gli disse ad alta voce: «Cotesta razza rinasce dalle
sue ceneri!». Non sapeva egli che la resurrezione è il segno
più luminoso della divinità, e che Gesù Cristo stesso lo
indicò ai suoi discepoli come il suggello più autentico ed
ultimo della sua parola. Niente ha vissuto che non sia stato in
qualche modo vero, naturale, utile; ma niente torna a rivivere che
non sia necessario, e che non abbia in se stesso le condizioni
dell'immortalità. E noi eccoci ritornati, noi, i monaci, i
religiosi, i frati e le suore di ogni nome. Ecco che ricopriamo
nuovamente quel suolo donde, or sono quarant'anni, fummo cacciati
da una generazione che fu così potente in distruggere! da una
generazione che dopo aver dato alla luce i più grandi geni del
mondo per creare tante rovine, dié poi alla luce altrettanti
illustri capitani per difenderle. Ma tutto fu vano: niente ha
potuto prevalere contro la forza della necessità. Ecco quì che
noi siamo ritornati, come la messe in un campo già passato
dall'aratro, perché il vento del cielo vi ha nuovamente sparso la
sementa. Non diciamo questo per orgoglio: l'orgoglio non è il
sentimento dell'esule che ritorna in patria, e che batte alle
porte per domandare soccorso. Noi siamo ritornati, perché non
abbiamo potuto fare altrimenti, e siamo noi i primi ad esser vinti
dalla sovrabbondanza della vita che è in noi; noi siamo innocenti
della nostra immortalità, come la ghianda che cresce a piò d'una
quercia secca è innocente del vigore che la spinge al cielo. Non
è stato né l'oro, né l'argento che ci ha richiamati a vita, ma
una germinazione spirituale posta dal Creatore nel mondo,
indistruttibile al pari che la germinazione della natura. Se
viviamo, non viviamo perché protetti dal favore del governo o
della pubblica, opinione, ma perché una forza secreta conserva
tutto ciò ch'è verità.
Ed a quelli stessi che si meravigliano o
s'irritano della nostra presenza, noi domandiamo: è giusto, in un
paese dove la libertà individuale è elevata a principio,
proscrivere un genere di vita che non nuoce ad alcuno, ed è
talmente proprio dell'umanità, che le sorti le più dure non gli
impediscono di riprodursi? E' giusto, in un paese dove la
proprietà ed il domicilio sono sacri, cacciare a forza dalle loro
case individui che vi dimorano in tutta pace, senza offesa di
alcuno? E' giusto, in un paese dove la libertà di coscienza non
si ebbe che a prezzo di sangue, proscrivere un nucleo di uomini,
perché emettono un atto di fede, che si chiama voto? E' giusto,
in un paese dove tutti gli spiriti generosi sono compresi
dall'idea di una universale fraternità, riprovare quelle sante
repubbliche, dove un amore immenso d'uguaglianza coi piccoli
consacra la castità e la povertà? E' giusto, in un paese in cui
l'elezione e la legge sono la base del governo civile, condannare
alcune associazioni regolate da un diritto di elezione anche più
largo, e da leggi più tutelari di quelle civili? E' giusto, in un
paese in cui tutti sono ammessi alle funzioni sociali, privare di
questo diritto alcuni cittadini, per il solo torto di essere
animati, nella concorrenza generale, da un maggiore spirito di
sacrifizio? Noi lo domandiamo al cielo e alla terra: è giusto
tutto ciò, o non è invece creare fra noi una casta di Paria?
A queste domande, noi non troviamo che una sola
risposta: «Tutto ciò che voi ci rimproverate è veramente il
sommo dell'ingiustizia e la più manifesta delle contraddizioni.
Ma noi siamo i nemici dichiarati delle vostre credenze religiose,
le quali sono troppo potenti perché le possiamo combattere ad
armi eguali. Voi attingete dalla vostra fede un tale spirito di
abnegazione, che a noi, gente di 'mondo, maritati, ambiziosi,
incapaci di un avvenire, perché il presente ci assorbe tutti, è
impossibile disputarvi l'ascendente. pure è giocoforza
sopraffarvi, perché vi odiamo. Non ci serviremo del ferro e del
fuoco, ma vi metteremo colla legge fuori della legge medesima;
faremo apparire il vostro spirito di sacrifizio come un privilegio
dannoso, di cui è d’uopo purgare lo stato per mezzo
dell'ostracismo: voi insomma sarete posti fuori della libertà,
perché la vostra virtù vi pone fuori dell'uguaglianza».
Queste possono essere le idee di qualcuno; non
possiamo credere che siano le idee della Francia. Coloro stessi
che le propugnano, non ne devono capire la portata. Imperocchè
essi amano certamente il loro paese; ora il più gran male del
paese sarebbe appunto che tali sentimenti prevalessero e vi
esercitassero una vera influenza. Non è difficile comprendere che
un popolo, in cui i due principi fondamentali dell'esistenza
sociale fossero in guerra aperta fra loro, tutti e due appoggiati
da buona parte di cittadini, tutti e due radicalmente
indistruttibili per' la natura stessa della loro ragione di
essere, questo popolo sarebbe sommamente a compiangersi.
La religione cattolica è la religione del
popolo francese. Nato da un atto di fede in un campo di battaglia,
esso si è sempre ricordato della sua origine, e da ben
quattordici secoli non ha mai cessato di combattere per la Chiesa.
Fu il popolo francese che sulle pianure della Borgogna e dell'Aquitania
sterminò l'arianesimo, fatto quasi padrone del mondo; fu esso che
con la spada di Carlo Martello arrestò l'invasione dell'Islamismo
in Europa, e col genio di Carlo Magno dette al Papato l'ultima e
più solida sistemazione; fu esso che iniziò le crociate,
clamorose guerre di civilizzazione cristiana contro l'abbrutimento
orientale, e vi comparve sempre in prima fila; fu esso che nel
secolo XVI, quando l'unità della Chiesa era minacciata
dappertutto, s'interpose fra l'Inghilterra e la Germania, divenute
infedeli, e trattenne col suo gran numero di fedeli lo
straripamento dello scetticismo e del servaggio; fu esso infine
che anche in questi ultimi quarant'anni, non ostante le
innumerevoli violenze esercitate contro la Chiesa, pure contro
l'universale aspettazione ha mantenuto la sua fede. La Francia è
cattolica per la triplice forza della sua storia, del suo spirito
di generosità e `del suo genio. Nello stesso tempo però la
Francia è un paese libero, vale a dire un paese dove, secondo
l'espressione di Bossuot, sono sempre esistite alcune leggi
fondamentali, alle quali tutto che si opponga, è nullo per se
stesso. Nel petto di questo popolo, vedetelo in qualunque epoca,
palpita il cuore del Germano, nato e cresciuto nelle foreste.
Sperare di togliergli questo carattere primitivo, è sperarne la
morte. Finché scorrerà nelle vene una goccia di sangue francese,
la giustizia avrà sulla terra un soldato armato. Che conchiudere
adunque da questi due principi fondamentali della nazionalità
francese, se non che essi devono stare uniti e perfezionarsi, a
vicenda? Che conchiudere, se non che l'ostinazione nella lotta
intaccherebbe nella sua radice l'esistenza stessa della patria?
Il passato dovrebbe istruirci. Da cinquant'anni
la fede e la libertà han subito in Francia grandi rovesci; quale
delle due è rimasta sopraffatta? Né l'una né l'altra; eccole
là come il primo giorno. La Francia è alla testa delle nazioni
cattoliche, come è alla testa delle nazioni libere. Dichiarare
che uno di questi principi sia nemico dell'altro, è lo stesso che
annunziare una discordia eterna, è lo stesso che darsi
l'appuntamento per scavare una fossa in cui le ceneri delle
generazioni future sarebbero ancora in lotta. E come'accettare una
libertà che non giova nulla a chi l'accetta, ma solo ai suoi
nemici? Il dispotismo stesso non può fare a meno della giustizia.
come ne potrà fare a meno la libertà, essa che è la giustizia
medesima?
Certo che non siamo noi cattolici i colpevoli
di una inimicizia così cieca e funesta. Sempre, nelle tre grandi
epoche della formazione della società moderna, noi abbiamo teso
amichevolmente la mano. Nel 1789 la maggioranza che per prima si
riunì alla camera al terzo stato e che condusse al voto
individuale in sostituzione del voto per ordine, - cosa che dette
l'ultimo crollo all'istituzione feudale, - fu del clero. Malgrado
l'ingratitudine con cui la repubblica ne ripagò la Chiesa, appena
comparve un uomo capace di ridonare alla'Francia l'ordine e la
gloria,
il Sommo Pontefice appoggiò i di lui disegni
con atti inauditi. Si vide allora un concordato che distruggeva
tutta un' antica Chiesa; si vide la rovina di tutto un episcopato,
rappresentante della vecchia società; si vide il successore di S.
Pietro traversare tutta Europa per venire a porre la corona sulla
fronte di quest'uomo novello! Nel 1830 il prete più grande che
abbia mai dato la Chiesa di Francia dopo Bossuet, precorse nella
tempesta la nazione stessa, e se venne meno, fu più per essersi
spinto troppo avanti, che per non averne compresa tutta la
giustizia.
E che cosa abbiamo noi ricevuto in cambio di
tanti nostri buoni voleri? La repubblica ci ha risposto colla
spogliazione, coll'esilio, colla morte. Napoleone imprigionò la
Chiesa negli articoli organici del concordato, e il Sommo
Pontefice a Savona e a Fontainebleau; il solo 1830 segnò un
principio di giustizia. Ne ringraziamo il cielo e scongiuriamo i
nostri concittadini a non sdegnare i frutti di questo primo passo
nella via della riconciliazione. Il mondo è profondamente
sconvolto; ha bisogno di riaversi. E poiché anche in mezzo
all'egoismo che minaccia l'onore e la sicurezza della società
moderna si trovano ancora delle anime capaci di abnegazione
volontaria, si rispettino almeno le loro opere. Sia concesso
almeno alla virtù quel diritto di asilo, che altre volte era
concesso al vizio. Ci sono sempre sulla terra dei viaggiatori
stanchi del cammino, e nessuno può lusingarsi di non essere,
quando che sia, di un tal numero.
I Frati Predicatori hanno un diritto
particolare alla tolleranza del paese: essi hanno donato alla
Francia una delle sue più belle provincie, il Delfinato: Umberto,
l'ultimo principe, ne fece cessione a Filippo di Valois il giorno
avanti di prender l'abito di S. Domenico. Oggi non domandano in
cambio che pochi palmi di terra francese per vivere in pace!
CAPITOLO II
Idea generale dell'Ordine dei Prati
Predicatori.
Motivi per ristabilirlo in Francia.
La Chiesa cattolica, considerata, nella sua
gerarchia, in quanto governa la moltitudine dei cristiani, si
chiama Chiesa insegnante: denominazione confermatagli dalla
tradizione e che gli dié Gesù Cristo quando disse, agli apostoli
quelle celebri ed ultime parole: Andate, e ammaestrate tutte le
genti, battezzandole nel Nome del Padre del Figliuolo e dello
Spirito Santo, ed insegnate loro ad osservare tutto ciò che io vi
ho comandato. Basta questo titolo per ricordare alla Chiesa
gerarchica che il suo principale ministero è insegnare,
dall'insegnamento derivando la fede, sorgente di ogni altra virtù
cristiana: per cui i Sacramenti stessi sono ordinati ad illuminare
l'anima nell'atto che la riscaldano. L'insegnamento cattolico
però per essere al completo ha bisogno di apostoli, di pastori,
di dottori. L'apostolo porta la verità a chi non la conosce
ancora: è un viaggiatore che, ad imitazione di Gesù Cristo, va
per le città e per le borgate, annunziando che il regno di Dio è
Vicino, adattandosi nel suo linguaggio alla capacità dei popoli
ai quali egli parla. Il Pastore invece custodisce il gregge già
formato: eccolo là giorno e notte a disposizione delle sue
pecorelle: la sua parola è quella di un uomo totalmente sicuro
della comunanza di idee tra lui e tutti gli altri fedeli, non già
quella di Paolo nell'areopago, il quale invoca in suo favore le
tradizioni pagane e le testimonianze dei preti profani; per lui
Gesù Cristo solo è l'autore ed il consumatore della fede. Il
Dottore è l'uomo destinato all'istruzione dei sacerdoti ed alla
difesa della verità per mezzo della controversia scientifica: è
l’uomo di studio, che passa tutta la vita in mezzo al deposito
della tradizione, contemplando dal punto di vista più elevato a
cui lo spirito umano possa arrivare, il legame divino che unisce
tutti i fenomeni e tutte le idee nel grande movimento
dell'universo. Questi tre modi di insegnamento, diversi nei mezzi
e nel fine, sono come personificati nei tre
grandi apostoli S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni. San Pietro, il
principe degli apostoli, non è né un sapiente né uno scrittore.
Semplice pescatore sulle rive di un lago guadagna la vita colle
reti: Gesù Cristo lo chiama, gl'infonde, senza farne un genio,
una fede sovrabbondante, e, quantunque destinato a pietra
fondamentale della Chiesa, permette che rinneghi tre volte il
Maestro, per insegnargli colla sua propria esperienza ad aver
compassione della debolezza dei suoi fratelli: egli ha per simbolo
le chiavi. San Paolo, il principe dei predicatori, apprende alla
scuola dei sapienti del suo tempo la conoscenza della legge; non
giunge però a conoscere Gesù Cristo mentre
ancora era in vita, e lo perseguita dopo la morte, affinché
iniziato per propria esperienza ai misteri dell'errore, ne conosca
il lato forte e il debole, ed annunziando un giorno il Vangelo a
tutte le nazioni non disperi della salute di alcuno, per quanto
restio alla verità., il suo genio è ardito come i suoi viaggi:
conosce le idee dei popoli dove passa, cita agli Ateniesi i loro
poeti, interpreta le loro iscrizioni sacre, si fa tutto a tutti,
come dice egli medesimo: ha per simbolo la spada. San Giovanni, il
principe dei dottori, comparisce col capo appoggiato sopra il
petto del maestro, al quale solleva questioni che altri non
avrebbe ardito
sollevare; egli è vergine, perché i sensi
sono il primo impaccio al conseguimento della verità; egli è il
discepolo prediletto. Libero dagli impacci del governo generale
della Chiesa e dalle fatiche de'lunghi viaggi apostolici, non
muore sulla croce come S. Pietro, né come S. Paolo, sotto la
spada, ma nel proprio letto, in una divina vecchiezza, ridotto a
non avere altro fiato che per ripetere queste parole, le prime e
le ultime di ogni vero insegnamento: Figliolini miei, amatevi l'un
l'altro. Il suo simbolo è l'aquila.
Nei primi tempi della Chiesa queste tre solenni
funzioni dell'insegnamento apostolico, pastorale e scientifico non
erano d'ordinario separate. Un sacerdote inviato dai suoi
legittimi superiori in qualche regione non ancora rischiarata
dalla luce del Vangelo, la percorreva prima come apostolo, si
stabiliva quindi nella città principale del luogo, addivenendo ad
un tempo pastore e dottore di quella cristianità da lui formata
con la sua predicazione, felice se giungeva ad esserne anche il
martire, per rinforzarne così le fondamenta con le ultime gocce
di un sangue tutto consacrato al servizio di Dio. Così furon
fondate le Chiese d'Oriente, così quelle delle Gallie. Ma col
tempo il ministero pastorale divenne sempre più difficile: i
vescovi si trovarono sovraccarichi di una moltitudine di affari,
quali l'assistere ai concili generali e particolari, le relazioni
colle autorità civili, gli arbitrati, la cura del dominio
temporale della Chiesa; e parallela a questo immenso sviluppo di
azione esteriore, progrediva a grandi passi la scienza cattolica.
Non più ristretta al solo Vangelo ed alla tradizione, i suoi
libri, causa le controversie, si accumulavano ogni giorno più.
Quindi la necessità di conoscere ciò che avevano scritto i
dottori precedenti, le decisioni dei concill, la storia delle
eresie, le dottrine dei filosofi passati e presenti, le antichità
cristiane e profane, in una parola tutto quel cumulo immenso di
fatti e di controversie che costituiscono la scienza
ecclesiastica. Anche le difficoltà dell'apostolato erano
cresciute dietro I moltiplicati 1isogni del ministero pastorale,
che, limitato dapprima alle grandi città, doveva in seguito
occuparsi ancora di tutte le chiese regolarmente costituite e
sparse per le campagne. Così vasto governo assorbiva tutto le
energie del vescovo, il quale, più clíe pensare a mandare operai
evangelici in paesi lontani, doveva occuparsi di provvederne il
proprio gregge. Per ovviare a tutte le necessità
dell'insegnamento cattolico non rimaneva quindi che la divisione
di tanto lavoro.
Questa però non fu cosa, che venne fuori ad un
tratto, per una decisione a priori: la Chiesa non agisce mai in
questo modo; in lei tutto si svolge naturalmente. I provvedimenti
nascono accanto ai bisogni, con una gradazione lenta e quasi
insensibile; cosa che in questo knovimento generale delle cose e
dei tempi, fa scomparir sempre la mano dell'uomo e comparire
quella di Dio.
San Benedetto stabilì nel secolo VI la vita
monastica. in Occidente. Il suo scopo non fu né l'apostolato, né
la scienza divina; ma la santificazione delle anime per mezzo
della preghiera, del lavoro, della solitudine. Tuttavia i Papi In
diverse occasioni si servirono dei Benedettini per la
propagazione.: del Vangelo, come S. Gregorio Magno, che inviò
nell'Inghilterra il monaco Agostino per convertirla al
cristianesimo e fondarvi l'arcivescovato dì Cantorbèry.
In seguito poi alle Invasioni barbariche, i
monasteri rimasero il solo asilo delle lettere e delle scienze,
essendo stati gli unici a salvarne gli avanzi. Ma anche questi due
grandi fatti mon valsero a creare l'idea di applicare gli Ordini
religiosi, dietro una nuova organizzazione, all'in segnamento
apostolico e scientifico: si lasciarono quali erano, salvo a
servirsene per eccezione a scopo diverso dal proprio.
Al principio del secolo XIII però la Chiesa
d'Occidente si vide per la prima volta minacciata da serie eresie.
Non si trattava più delle eresie opposte alla fede cattolica
dall'immaginazione leggera e sottile dei Greci, tutti errori
speculativi, i quali non si risolvevano altro che in una specie di
smarrimento o di epilessia in presenza dell'infinito. Il carattere
pratico degli Occidentali si manifestò fin dai primi passi verso
il male: essi andarono diritti allo scopo, attaccando la Chiesa,
cioè la società religiosa. E da seicento anni in qua abbiano
avuto per loro organo Valdo o Viclefo, Giovanni Huss o Lutero, non
hanno cambiato affatto da una rotta così bene indovinata, e la
questione del secolo XIII è ancora la nostra. Centro di tali
agitazioni sociali era allora il mezzogiorno della Francia, sia
che i nemici della Chiesa si fossero trovati colà per caso, sia
che di proposito avessero eletto quel luogo. Occu ava la cattedra
di S. Pietro Innocenzo III, il quale, da pastore vigilante, aveva
inviato contro gli eretici tre legati apo stolici, tratti da quel
famoso Ordine,dei Cisterciensi, che S. Bernardo illustrava ancora
dalla sua tomba. L'ambasciata o la missione, come piaccia
ebiamarla, era composta di bravissima gente, ma circondata da
tutti gli splendori di una religione vittoriosa: non era questo il
disegno della Provvidenza, che conosceva l'avvenire.
Al principio del 1205 i legati apostoliel si
trovavano a Montpellier stanchi e scoraggiati pei loro scarsi
successi, quando venne a passare di là un vescovo spagnolo, di
ritorno in patria dopo lungo viaggio. Il vescovo andò a far
visita ai legati. Il discorso cadde subito sugli eretici e sulle
difficoltà della missione; ed il vescovo disse allora ai legati
che, ove si desiderasse riuscire, conveniva metter da parte il
lusso, andare a piedi, ed unire alla predica, zione l'esempio di
una vita austera e povera. Per quanto inaspettato, tal consiglio
penetrò diritto nel cuore dei presenti, cristiani di vera tempra.
Quando un'anima è cristiana ogni parola magnanima la scuote.
D'altronde era troppo manifesto che per far colpo su quelle
popolazioni profondamente guaste e che mai cessavano di
rinfacciare alla Chiesa le sue ricchezze e la sua potenza, non
restava miglior mezzo di un apostolato che offrisse lo spettacolo
di un'abnegazione senza misura. I legati seguirono il consiglio
del vescovo spagnolo, Don Diego d'Azevedo, il quale, rimandato il
suo seguito in Spagna, si unì loro, come fecero pure alcuni Abati
di Citeaux, arrivati poco dopo. Percorsero allora a piedi le
città e i villaggi, chiedendo l'elemosina, predicando,
conversando, disputando, sostenuti nelle loro predicazioni e nelle
loro sofferenze dalla sola verità, sorgente di ogni forza e di
ogni consolazione.
Tuttavia i successi, sebbene maggiori che pel
passato, non corrisposero al loro zelo; per cui in capo a due
anni, stanchi o richiamati dai loro doveri, abbandonarono quel
suolo invano bagnato da tanti sudori. Un solo uomo vi restò, nato
in Spagna da illustre famiglia, condotto in Francia dal vescovo
Diego di cui era l'amico, e dal quale era stato creato canonico
della cattedrale di Osma: si chiamava Domenico di Gusman.
E' degno di nota come i fondatori dei grandi
Ordini religiosi, quantunque non Francesi, sempre siano capitati
in Francia a gettare le fondamenta dei loro istituti. San
Colombano difatti, autore di una celeberrima regola monastica,
passò dall'Irlanda in Francia e si stabilì a Luxeuil; San
Brunone lasciò le sponde del Reno per domandare alle montagne del
Delfinato un luogo solitario che dette poi il nome ai Certosini,
dei quali egli fu padre. S. Norberto, un altro alemanno, ottiene
del vescovo di Laonuna palude, dove stabilire l'abbazia e l'ordine
dei Premonstratensi. Più tardi la collina di Montmartre in alto
di Parigi, vede uno stuolo di studenti spagnoli cominciarvi con un
voto quella compagnia di Gesù, che di là si è diffusa per tutta
la terra.
Anche Domenico fu spinto in Francia da quella
stessa forza che vi trasse i suoi antecessori e successori, senza
sapere neppur lui perché vi fosse venuto. Ben presto il rumor
delle armi turbò le sue pacifiche predicazioni; imperocchè,
pubblicata che fu la crociata contro gli Albigesi, fu un accorrere
in folla di baroni cristiani intorno alla bandiera del loro
generale, Simone di Montfort, «i quali, sotto il di lui comando,
commisiro nella Linguadoca tante crudeltà ed ingiustizie, dice
Godescard, da non potersi giustificare giammai. Non si puniscono i
delitti con altri delittil Uno zelo apparente per la fede,
nascondeva nei più un fondo secreto di avarizia, di ambizione et
di vendetta». Ma qualunque sia il giudizio da formarsi intorno a
questa guerra, Domenico ebbe la gloria di far contrappeso, al
cospetto di Dio e degli uomini, al sangue che fu versato. Mai la
religione accanto al cavaliere armato per la difesa della fede e
che insieme all'unzione del cristiano porta in petto l'asprezza
dell'uomo, ebbe un rappresentante. più puro di Domenico. La
storia contemporanea lo mostra così alieno da questa guerra,
così estraneo alle deliberazioni dei duci, ai trattati delle
parti, ai concili dei vescovi, che il lettore, prevenuto com'è da
ciò che ha sentito dire, ne rimane fortemente meravigliato.
Mentre i legati ed il conte di Montfort, lontani dalla
sorveglianza d'Innocenzo III, ed oltrepassando i loro poteri
obbligano più tardi il pontefice a protestare contro di essi
davanti a tutta la cristianità nella chiesa di S. Giovanni in
Laterano, Domenico, assai più felice, obbliga nel 1812 le Cortes
Spagnole, riunite nell'isola di Leon, a dichiarare che egli non
oppose mai all'eresia altre armi fuorchè la preghiera, la
pazienza e l'istruzione. Gloriosa testimonianza, resa a Domenico
dalla sua patria, seicento anni dopo la morte!
Uno scrittore protestante, M. Hurter,
presidente del concistoro di Schaffhausen, nella vita di Innocenzo
III ha, consacrato quasi un intero volume al racconto della
crociata contro gli Albigesi; il nome di Domenico però vi
comparisce appena. Così, in questo secolo destinato a rettificare
tanti accreditati errori, dal seno della scienza protestante, come
dal seno delle Cortes Spagnole si sono levate voci imparziali per
render giustizia all'uomo inviato dalla Provvidenza in mezzo a
sanguinosi conflitti, appunto perché fosse l'esemplare dello
spirito cristiano.
E la preghiera, la pazienza, l'istituzione
furono le sole armi che Domenico continuò ad usare anche dopo la
guerra. Predicava e teneva conferenze senza posa; insensibile agli
oltraggi di cui era fatto oggetto perfino nelle pubbliche vie, non
curante della sua vita, minacciata assai spesso. Un giorno che
aveva scampato il pericolo, uno degli eretici gli domandò per
millanteria che cosa avrebbe mai fatto, se fosse caduto nelle loro
mani: «Vi avrei pregato, rispose, di non uccidermi di un sol
colpo, ma di tagliarmi pezzo a pezzo le membra e dopo avermi
lasciato per qualche tempo nuotare nel mio sangue, troncarmi per
ultimo il capo». - I suoi viaggi apostolici non gli impedirono di
aver cura anche di un monastero di donzelle, da lui fondato a
Prouille, non lontano da Carcassona. Aveva egli notato che causa,
in buona parte, della distruzione della fede cattolica in quelle
regioni erano i matrimoni contratti tra eretici e giovani povere;
e per non lasciare queste ultime nell'alternativa della miseria o
dell'apostasia, aveva loro aperto un asilo a Prouille. A quando a
quando si portava colà a prendere qualche ora,di riposo, e
riguardava con amore quella casa sorta in mezzo agli orrori della
guerra, come nido di colombe in luoghi dominati da formidabili
aquile.
Passarono così altri sette anni della vita di
Domenico, senza che il servo labotioso, nonostante tanti sudori,
si stancasse. In questo frattempo qualche zelante sacerdote si era
unito volontariamente a lui; ed egli vedendosi omai giunto a
quello stadio della vita in cui la giovinezza è già trascorsa e
sta per cominciare la rapida china verso il sepolcro, cominciò
allora a pensare di proposito alla fondazione di un Ordine
apostolico, che avesse per fine la difesa della Chiesà colla
predicazione e colla scienza. Si racconta che la sua madre, quando
ancora lo portava nel seno, sognò che avrebbe dato alla luce un
cane con in bocca una fiaccola accesa; vero simbolo di un Ordine,
mai da altri sorpassato in eloquenza e in dottrina.
Domenico, affermatosi in questo suo proposito.
nel 1217 partì a piedi per Roma, affine di comunicarlo al Sommo
Pontefice: tanto il grande uomo, benchè al colmo della maturità,
diffidava di sè, tanto riteneva necesgaria la benedizione della
S. Sede, per la solidità di ogni buon progetto! Occupava tuttora
la cattedra di S. Pietro Innocenzo III. Questi non accolse con
grande favore il pensiero dell'uomo apostolico e negò la sua
approvazione; ma la notte, divina consigliera degli uomini, lo
indusse a miglior partito. Mentre era immerso nel sonno, gli
sembrò di vedere la chiesa di S. Giovanni in Laterano che stava
per rovinare, e Domenico li colle spalle a sorreggerne le mura
cadenti. Innocenzo fece allora richianiare l'uomo di Dio, e gli
ordinò di tornare in Francia dai suoi compagni, di scegliere
insieme con loro la regola, che poi gli avrebbe dato ogni
soddisfazione.
Fino allora, come abbiamo già detto, gli
Ordini religiosi non avevano avuto per fine né l'apostolato né
la scienza divina. Erano sante repubbliche, dove le anime che
avevano fame e sete della giustizia, di qualunque condizione
fossero, andavano a cercare nella solitudine il lavoro, la
preghiera, l'obbedienza, virtù troppo pure per il mondo. Il mondo
li osservava da lontano, come si fa di quei castelli che,
viaggiando in pianura, si vedono sulla cima delle montagne. Molto
di rado il cenobita prendeva in mano il bastone per recarsi fra
gli uomini. Sant'Antonio non lasciò che una sola volta il deserto
di Kolsim per difendere in Alessandria la fede cattolica,
combattuta dagli imperatori. San Bernardo, regolati appena e
gemendo, gli affari d'Europa, non vedeva il momento di rientrare a
Clairvaux. Fu il primo Domenico, eletto da Dio a dare alla Chiesa
una nuova milizia, a concepire l'idea di unire insieme la vita del
chiostro e la vita del secolo, il monaco e il prete: disegno
chimerico a prima vista; maiper quante virtù si richiedono dagli
uomini, non bisogna mai disperare di essi. La natura umana non è
come il Nilo: non si è scoperto ancora il punto più alto della
stia elevazione. E S. Vincenzo de Paoli fece certo cosa più
ardita di S. Domenico, quando, sotto il nome di Suore di Carità,
destino liberamente alcune giovani donzelle alla ricerca della
miseria, alla cura dei malati di ogni età e di ogni sesso negli
ospedali. rispondendo a chi si meravigliava che non avesse dato
loro neppure il velo, queste semplici e divine parole:
«Serviranno da velo le loro virtù».
L'Ordine creato da S. Domenico non è adunque
un Ordine monastico, ma un'associazione di Fratelli, i quali
uniscono la forza della vita comune alla libertà dell'azione
esteriore, l'apostolato alla personale santificazione. La salvezza
delle anime, ecco il loro scopo principale, l'insegnamento vero,
il principale mezzo! Andate e insegnate aveva detto Gesù Cristo
ai suoi apostoli; andate e insegnate ripetè Domenico. Dopo un
anno di noviziato tutto spi-i rituale, otto anni continui di studi
filosofici e teologici preparano i discepoli di S. Domenico a
salire degnamente il pulpito nelle chiese, o la cattedra nelle
università. Per quanto però la predicazione e la scienza siano
le, loro armi favorite, niente che possa tornare utile al
prossimo, è alieno dalla loro vocazione. Nell'Ordine di S.
Domenico, come nella repubblica romana, la salute del prossimo è
la legge suprema. Ed è appunto per questo che, salvo i tre voti
di povertà, castità ed obbedienza, legami indispensabili in ogni
associazione religiosa, tutte le altre regole non obbligano sotto
pena di peccato, ed è sempre in facoltà del superiore poterle
dispensare, affinché il giogo della vita comune non sia mai
d'impedimento alla libertà del bene.
Un Superiore unico, chiamato Maestro
Generale,governa tutto l'Ordine, che è diviso in Provincie.
Ciascuna Provincia, composta di più conventi, ha a capo un Priore
Provinciale, e ciascun convento un Priore Conventuale. Il Priore
conventuale viene eletto dai membri stessi del convento, e
confermato poi dal, Priore Provinciale; il Priore Provinciale
viene eletto dai Priori conventuali «della Provincia e dai
Compagni dei Priori che manda ciascun convento; spetta poi al
Maestro Generale darne la conferma. Il Maestro Generale è eletto
dai Priori Provinciali e da due altri deputati da ciascuna
.Provincia. L'elezione viene temperata così dalla necessità di
aspettare la conferma, e l'autorità della gerarchia è temperata
a sua volta dalla libertà del voto. Analoga conciliazione esiste
pure fra il principio dell'unità, tanto necessaria al comando, e
l'elemento della moltiplicità, necessario anch'esso per un'altra
ragione. Imperocchè il Capitolo Generale, che si raduna ogni tre
anni, fa da controllo al Maestro Generale, come il Capitolo
Provinciale, che si raccoglie ogni due anni fa da controllo al
Priore Provinciale. Ed il comando stesso, oltrechè temperato
dall'elezione e dalle assemblee, è commesso per tempo assai
limitato, fatta eccezione pel Maestro Generale che una volta era a
vita, e presentemente dura in ufficio sei anni. Queste le
Costituzioni che un credente del secolo XIII dava ad altri
eredenti; le Carte moderne comparate con quelle apparirebbero
senza dubbio stranamente dispotiche! Migliaia e migliaia di
uomini, disseminati per tutta la terra, hanno vissuto per più di
seicento anni sotto questo regime di unione e di pace, come i più
laboriosi, i più obbedienti, i più liberi degli uomini.
Restava a sapersi come questi nuovi fratelli
avrebbero provveduto al loro sostentamento; ed anche qui si
manifestò tutto il genio di San Domenico. Gli Ordini religiosi
allora esistenti erano padroni di ricchi possedimenti, per esser
liberi cosi dalle molteplicí cure, che richiamano continuamente
verso la terra il provvido padre di famiglia. E veramente per un
Ordine monastico, non destinato affatto all'azione, è difficile
trovare modo migliore di sostenlamento all'infuori della
proprietà. Ma Domenico creava apostoli e non contemplativi; e gli
pareva sentirsi ripetere internamente quelle parole dette dal
Signore quando inviava alle nazioni i suoi primi d iscepoli: Né
oro, né argento, né moneta sia nelle vostre cinture; non portate
bisaccie per via, né due tonache, né calzari, né bastone,
imperocchè l'operaio è degno del suo nutrimento; e quelle altre
parole: Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia,
e tutto il resto vi sarà dato per soprappiù; e queste ancora: Le
volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi; solo
il Figliuolo dell'Uomo non ha dove riposare il suo capo; e
finalmente le parole dell'apostolo S. Paolo: Voi sapete che queste
mani mi hanno bastato. Per il cristiano, e diciamo ancora per
l'uomo non accecato dall'orgoglio, il principal dovere è
guadagnarsi la vita, vale a dire dare per ricevere. Chiunque
riceve senza dare è fuori della legge di amore e di sacrifizio,
per la quale gli esseri si generano, si conservano, e; perpetuano:
al contrario, chi dà molto e riceve poco, come fa il soldato,
rende il più bell'onorei all'umanità, ravvicinandosi sempre più
a Dio, il quale dà tutto e non riceve nulla. Guadagnarsi la vita
e guadagnarsela giornalmente, dare in cambio dei pane quotidiano
la parola e l'esempio evangelico costantemente ripetuto, ecco il
pensiero che seduceva Domenico, il quale in questa privazione del
diritto di possedere, sia pure in comune, scopriva anche altri
vantaggi. Imperocchè quando un Ordine religioso non ha rendite
fisse, dipende necessariamente dalla pubblica opinione, e non vive
che in ragione di essere utile; è al soldo del popolo, il quale
non paga mai volontariamente se non chi lo serve bene. Un convento
perde di stima? All'istante, senza chiasso, senza rivoluzioni
sarà assalito dalla morte. Domeuico adunque nel primo Capitolo
generale tenutosi a Bologna nel 1220 si dichiarò mendicante per
sè e pe' suoi; ebbe fede nella virtù dei suoi successori non
meno che nell'equità del popolo cristiano, e legò senza timore
alle generazioni future questo perpetuo scambio di reciproco
aiuto. Per ben duecentocinquanta anni da amb:LAe, parti si rimase
fedeli, finchè sulla fine del secolo XV il Papa Sisto IV permise,
sia di chi si vuole la colpa, di potere acquistare e ritenere
possessioni.
Domenico non era ancora tornato a Roma per
portarvi le sue costituzioni affinché fossero approvate, come il
Sommo Pontefice gli aveva detto, che questi, cioè Innocenzo III,
ebbe occasione di scrivergli. Chiamato un segretario, gli disse:
« Sedetevi, e scrivete le tali e tali cose a Fra Domenico e ai
suoi compagni ». Sloffermatosi un poco, soggiunse: « No, non
scrivete in tal modo, ma così: A Fra Domenico ed a coloro che
predicano con lui nella provincia di Tolosa». Riflettendoci
ancora sopra, disse: «Scrivete in questa maniera: Al Maestro
Domenico e ai Frati Predicatori». Fu così che lo Spirito Santo
rivelò il nome da darsi al nuovo Ordine; a Roma infatti e
dovunque, si principiò a chiamarlo Ordine dei Frati Predicatori.
Il 22 dicembre 1216, l'indomani della Festa
dell'Apostolo S. Tommaso, l'Ordine dei Frati Predicatori potè
ottenere finalmente l'approvazione da Roma, sotto il Papa Onorio
III, con due bolle datate dal palazzo di S. Sabina, la più breve
delle quali è di quosto tenore: «Onorio, vescovo, servo dei
servi di Dio, al nostro caro figlio fra Domenico, priore di S.
Romano di Tolosa, e ai suoi fratelli che hanno fatto e faranno
professione di vita regolare, salute ed Apostolica benedizione.
Considerando che i fratelli del vostro Ordine saranno i campioni
della fede e la luce del mondo, noi confermiamo il vostro Ordine
con tutte le sue terre e possessioni presenti e future, e
prendiamo sotto la nostra cura e sotto la nostra protezione
l'Ordine stesso, coi suoi possedini enti e i suoi diritti. Data a
Roma, presso S. Sabina, ai 22 dicembre, anno primo del nostro
Pontificato».
Cinque anni dopo, cioè nel 1221, ai 6 del mese
di Agosto, Domenico morì, lasciando il suo Ordine diviso in otto
provincie, costituite da sessanta conventi. Aveva cinquantun'anno.
Così avvenne nella Chiesa cattolica la
divisione dei tre grandi rami dell'insegnamento. Ai vescovi ed al
clero rimase l'insegnamento pastorale con tutti gli uffici che vi
sono annessi: ai religiosi fu affidato, sotto la giurisdizione dei
vescovi, il ministero della predicazione e della scienza divina.
Ai Frati Predicatori si unirono i Frati Minori di S. Francesco e
più tardi altre congregazioni, secondo i tempi e i bisogni. La
storia racconta le loro fatiche. Sorsero formidabili eresie, nuovi
mondi furono scoperti; ma nelle regioni del pensiero come sul
flutti del mare nessun esploratore potè andare più avanti
dell'abnegazione e della scienza degli Ordinl religiosi. Ogni
plaga della terra, ha conservato le traccie del loro sangue, ed
ogni eco il suono della loro voce. L'indiano, inseguito prima come
una bestia feroce, trovò un asilo sotto il loro mantello;
l'africano conserva ancora sul suo collo il segno dei loro
amplessi; il giapponese, il cinese, separati dal resto della terra
poi loro differenti costumi e pel loro orgoglio, più ancora che
per la lontananza, si sono avvicinati ad ascoltare questi
meravigliosi stranieri. Il Gange li ha visti comunicare ai paria
la sapienza divina; le rovine di Babilonia hanno loro offerto una
pietra per riposarsi e ripensare, mentre si asciugavano la fronte,
ai giorni antichi. Quali deserti o quali foreste non li hanno
conosciuti? E c'è lingua che essi non abbiano parlato? Qual piaga
dell'anima o del corpo la loro mano non ha curato? E mentre essi
facevano e rifacevano il giro del mondofsotto ogni tenda, i loro
fratelli parlavano nei Concili e nelle pubbliche piazze d'Europa;
scrivevano di Dio, avvicinando fra loro il genio dei Padri della
Chiesa a quello di Aristotile e di Platone, il pennello alla
penna, lo scalpello dello scultore al compasso dell'architetto,
dando alla luce in ogni ramo quelle famose Somme teologiche,
diverso fra loro nella materia, identiche nel pensiero, che il
nostro secolo è tornato a leggere e ad amare. Da qualunque lato
si guardino, gli Ordini religiosi hanno riempito della loro azione
gli ultimi sei secoli della Chiesa e ne hanno salvata la sua
potenza, fatta bersaglio a continui assalti, a cui i vescovi da
soli non avrebbero potuto resistere.
Ma non è la storia sola a proclamare la
necessità degli Ordini religiosi; basta, per convincersene, dare
uno sguardo intorno a noi stessi. Quali mezzi ha la Chiasa in
Francia oggidì per formare i predicatori e I dottori di cui
abbisogna? Per quanto raro sia il talento che un giovane prete ha
ricevuto da Dio, non c'è vescovo in Francia che gli possa dare il
tempo per farlo sviluppare, quel tempo necessario in ogni genere
di progresso. Appena sortito dal seminario, il bisogno di
provvedere al suo sostentamento costringe il giovane prete a
ritirarsi in una parrocchia, dove fa quel che può, tormentato
sempre dal secreto istinto della sua vera vocazione, ince rto fra
quello. che fa e quello che vorrebbe fare, finchè sopraggiunta
l'età matura si rassegna alla volontà di Dio, e non pensa più
che a quelle opere buone che sono in suo potere. So al contrario
si abbandona al suo slancio, per giunta non sempre sicuro, e si
allontana dalla via comune, comincia per lui una carriera tutta
irta di difficoltà. Il bisogno l'obbliga a mostrarsi, quando
sarebbe ancora troppo presto; non ha maestri che lo formino e
l'incoraggino; basta un'avversità per abbatterlo, un successo gli
crea dei nemici. E' in balla continuamente della malinconia e
della presunzione, simile a un povero fanciullo senza famiglia, il
quale ora corre di bottega in bottega, ora si ferma all'angolo di
una strada per ascoltare se alcuno pronunzi il suo nome.
Quanto è diversa la condizione di un giovane,
il quale ha sinceramente consacrato a Dio il suo cuore e il suo
talento in un Ordine religioso! Egli è povero, ma la povertà
stessa lo mette al sicuro dalla miseria; la miseria è
un'infelicità, la povertà una benedizione. Egli sottoniette il
corpo a dura disciplina, ma tutto con vantaggio immenso della
libertà dello spirito. Egli ha dei maestri che lo hanno preceduto
nella carriera senza esser suoi rivali, egli si manifesterà a
tempo, quando il suo pensiero, senza aver perduto ancora lo
slancio della giovinezza, pure è, più maturo. Nelle contrarietà
avrà chi lo consoli; nei trionfi chi ne attutisca l'orgoglio; la
stia vita scorrerà come un fiume tranquillo fra le sue sponde e
che punto s'inquieta del suo corso. Quante volte nei duri anni che
ormai sono scorsi noi abbiamo abitato col desiderio quei
tranquilli recinti che hanno calmate tante passioni e protette
tante vite! L'età delle tempeste è per noi ormai passata;
adunque è più per gli altri che per noi stessi, che vogliamo
preparare un asilo. La nostra esistenza è ormai definita; abbiamo
pressochè raggiunta la riva; coloro, che noi lasciamo in alto
mare in balia dei venti, essi comprenderanno i nostri voti, e
forse vi aderiranno.
Che se ci venisse domandato perché noi abbiamo
data la preferenza all'Ordine dei Frati Predicatori, risponderemmo
esserci sembrato il più confacente alla nostra natura, al nostro
spirito, al nostro fine: alla nostra natura, pel suo governo; al
nostro spirito, per la sua dottrina; al nostro fine, per i suoi
mezzi d'azione, che sono principalmente la predicazione e la
scienza divina. Del resto non intendiamo con questa scelta fare
alcun rimprovero a qualsiasi altro Ordine; abbiamo di tutti somma
stima, e ricordiamo quella lettera scritta da Clemente IV ad un
cavaliere che l'aveva consultato per sapere se sarebbe, stato
meglio che vestisse l'abito dei Frati Predicatori o quello dei
Frati Minori: «Clemente, vescovo, servo dei servi di Dio, al
nostro caro figlio e cavaliere, salute ed apostolica benedizione.
Il consiglio che richiedete da noi, potevate ugualmente
richiederlo a voi stesso. Imperocchè se il Signore vi ha ispirato
di lasciare il mondo per abbracciare vita migliore, non vorremmo
noi, né potremmo mettere ostacolo alcuno allo spirito di Dio,
considerando ancora che voi avete un figlio già grande, il quale,
come crediamo, potrà benissimo pensare alla vostra famiglia. Che
se, perseverando sempre in questa vostra risoluzione, volete
sapere quale dei due Ordini, o dei Frati Predicatori, o dei Frati
Minori voi dobbiate abbracciare, lasciamo la scelta alla vostra
Coscienza. Da voi stesso potrete conoscere le regol e dei due
Ordini, non in tutto eguali, e che scambievolmente In diversi
punti si sorpassano. Di fatti, in uno dei detti Ordini, il letto
è più duro, la nudità' più incomoda, e, secondo pensano
alcuni, la povertà più rigorosa; nell'altro il nutrimento è
più frugale, i digiuni più lunghi, e come molti credono, la
disciplina più santa. Noi non abbiamo adunque preferenza né per
l'uno né per l'altro, persuasi come siamo che ambedue, stabiliti
sopra una stretta povertà, tendano al medesimo fine, che è la
salute delle anime. Quindi sia che entriate nell'uno o nell'altro,
sempre vi incamminerete per quella via stretta e valicherete la
piccola porta che introduce nella terra delle dolcezze e dello
spazio. Ponderate adunque attentamente, esaminate con cura quale
convenga meglio alivostro spirito, e dove crederete di profittare
d i più, in quello entrate, e rimanetevi costante, senza ritrarre
il vostro amore dall'altro. Imperocchè il Frate Predicatore che
non amasse i Minori sarebbe esecrabile, ed il Frate Minore, che
odiasse o disprezzasse l'Ordine dei Predicatori sarebbe parimenti
esecrabile e degno di condanna. Data in Perugia, i giorno 13
Aprile, l'anno secondo del nostro Ponti ficato».
Questi sentimenti del Papa Clemente IV sono
anche i nostri. Noi abbiamo scelto l'Ordine che maggiormente si
confà al nostro spirito e nel quale speriamo fare maggior bene,
senza menomare ad alcun altr'Ordine l'amore e il rispetto che a
tutti è dovuto.
Forse ci verrà ancor domandato per qual
ragione abbiamo preferito di ristabilire un Ordine antico,
piuttosto che crearne uno nuovo. Noteremo due cose: in primo
luogo, che la grazia di essere fondatore di u n Ordine è la più
sublime e la più rara che Iddio conceda ai suoi Santi, e noi non
l'abbiamo ricevuta. In secondo luogo, anche dato che fosse
piaciuto al Signore di accordarci la forza di creare un Ordine
religioso, siamo sicuri che, dopo avere! pensato e ripensato
sopra, non avremmo scoperto niente di più nuovo, niente di più
adatto ai nostri tempi ed ai nostri bisogni, della regola di S.
Domenico. D'antico essa non ha che la storia; e non vediamo la
necessità di arrovellarsi il cervello pel solo piacere di datare
da ieri. San Domenico, S. Francesco d'Assisi e S Ignazio
applicando i loro istituti alla propagazione del Vangelo per mezzo
dell'insegnamento, hanno esaurite tutte le combinazioni
fondamentali di questa, trasformazione. Si potrà cambiare l'abito
e il nome, non già la reale natura di queste tre famose società.
Se la storia dei Frati Predicatori va soggetta ad obbiezioni nello
spirito dei nostri contemporanei, avviene lo stesso anche della
storia della Chiesa. Basta avere attraversate due epoche per
addivenir bersaglio a tal sorta di attacchi; poichè ciò che non
dura dopianderà sempre conto a ciò che dura di una infinità di
cose, per le quali la miglior risposta sarà continuare ad
esistere. Non si continua infatti ad esistere, se non a condizione
di tacite modificazioni, che lasciano il passato nel passato, e si
protendono verso l'avvenire in virtù della loro armonia col
presente. Succede della Chiesa e degli Ordini religiosi come di
ogni corpo vivente, che conserva una immutabile identità,
nonostante sia soggetto, pel progresso stesso della vita, ad un
moto che incessantemente lo rinnovella. La Chiesa di oggi è
identica nella sua gerarchia, nei suoi domini, nel suo culto,
nella sua morale alla Chiesa del medio evo; eppure quanti
cambiamenti! Lo stesso dicasi degli Ordini religiosi, e, nel
nostro caso, dell'Ordine dei Frati Predicatori: rinfacciare a
chiunque si sia il passato è rinfacciare all'uomo la culla, la
vita alla vita.
CAPITOLO III
Azione dei Frati Predicatori come
Apostoli.
Loro Missioni nell'autico e nel nuovo
mondo.
Essendo l'eloquenza la più difficile di tutte
le arti, e la predicazione il genere più sublime di eloquenza,
non è piccolo fatto che un solo uomo riuscisse a suscitare in un
momento un'armata di predicatori, i quali dalla Spagna alla
Moscovia, dalla Svezia alla Persia commossero intere popolazioni.
Ciò non si spiega, se non riflettendo che l'eloquenza è figlia
della passione. Create una passione nell'anima, e ne avrete fiumi
di eloquenza; l'eloquenza è il linguaggio di un'anima
appassionata. Difatti nei tempi di pubbliche agitazioni, quando le
popolazioni sono sossopra per grandi rivolgimenti, gli oratori
abbondano; e chiunque ha amato in vita sua qualche cosa, sarà
stato immancabilmente eloquente, fosse pure una'volta sola. San
Domenico adunque per dare al mondo una legione di predicatori non
ebbe bisogno di fondare scuole di rettorica; gli bastò di avere
colto dritto al cuore del suo secolo, e d'avervi trovato o fatto
nascere una passione.
Nel secolo decimoterzo la fede era profonda, e
la Chiesa imperava su tutta la società che essa aveva
conquistata. Ciò nonostante il pensiero europeo, in cui il tempo
ed il cristianesimo lentamente avevano operato, era giunto ormai
alla crisi dell'adolescenza. San Domenico svelò allora al mondo
intero ciò che Innocenzo III aveva visto dal suo letto sognando,
vale a dire la Chiesa cadente: e quando tutti la credevano padrona
e regina, egli dichiarò invece che per salvarla da irreparabile
rovina non c'era che risuscitare l'apostolato primitivo. Fu
risposto a San Domenico, come era stato risposto a Pietro
l'Eremita; e gli uomini si fecero Frati Predicatori, come prima si
erano fatti crociati.
Ogni università di Europa dette il suo
contingente di maestri e di discepoli, ed il solo fra Giordano di
Sassonia, secondo Generale dell'Ordine, dette l'abito a più di
mille attratti da lui medesimo a questo nuovo genere di vita.
Soleva ripetersi a tal proposito: Non andate alle prediche di Fra
Giordano, perché vi affascina come una cortigiana. In un momento,
o, per parlare senza metafora, (la verità è in questo caso è
più eloquente delle figure) in soli cinque anni S. Domenico, il
quale prima della Bolla di Onorio non aveva che sedici compagni,
otto francesi, sette spagnuoli ed un inglese, fondò sessanta
conventi, popolati da sceltissimi uomini e da una fiorente
gioventù.
E come riuscir fredda la parola di uomini
compresi fino al fondo dell'anima dall'idea dell'apostolato
primitivo, e per questo appunto insieme raccolti? Sapienti che
abbandonavano le cattedre per farsi novizi in un Ordine senza
fortuna e senza gloria, come è possibile non avessero accenti
uguali all'intensità della loro abnegazione? E la gioventù delle
università, lanciatasi senza quasi riflettere, nelle rischiose
vicende di questa cavalleria del Vangelo, poteva forse perdere
sotto il cappuccio l'ardore dell'età e lo slancio delle sue
convinzioni? Le anime generose, disperse e nascoste nelle
profondità di un secolo, una volta incontratesi, fanno apparire
nella loro stessa effusione la forza che le ha tolte al riposo. Di
tali anime se ne trovano in ogni tempo, in ogni luogo, l'umanità
le nasconde profondamente nel suo seno, glorioso contrappeso alla
degradazione che sempre l'agita; e secondo chi prevale nel mondo,
vien deciso il destino di un'epoca, illustre o indecoroso. San
Domenico riuscì a far pendere la bilancia dai lato magnanimo; i
suoi discepoli non erano che la parte buona della natura umana che
trionfava d’un tratto. Tutti al pari del loro maestro, in un
momento in cui la Chiesa era ricca, volevano esser poveri, e
poveri sino a farsi mendichi; tutti, al pari di lui, in un momento
in cui la Chiesa imperava sovrana, volevano che la loro influenza
scaturisse solo dalle loro virtù. Non dicevano già come gli
eretici: bisogna spogliare la Chiesa; ma spogliandola nelle loro
stesse persone, la mostravano così ai popoli nella sua originale
nudità. In una parola, essi amavano Dio, e lo amavano veramente,
lo amavano sopra ogni altra cosa; amavano poi il prossimo come
loro stessi e più di loro stessi: essi avevano nel petto la larga
ferita che ha reso eloquenti tutti i Santi.
Oltre un'anima appassionata, senza la quale
nessuno fu mai oratore, i Frati Predicatori ebbero di più la rara
abilità di usare un genere di predicazione il più confacente al
loro tempo.
La verità è una certamente, e nel cielo il
suo linguaggio non può essere che uno come lei medesima; ma
quaggiù essa parla lingue diverse, a seconda degli spiriti che
vuol conquistare. Al fanciullo non può parlare come all'uomo
adulto, al barbari come agli uomini civili, a un secolo
razionalista come ad un secolo pieno di fede. E per comprenderne
meglio la ragione, bisogna notare che si danno in, ogni
intelligenza due tendenze, una di allontanamento della verità,
un'altra di attrazione verso la verità, sia pure debolmente.
Queste due tendenze variano secondo gli individui; tuttavia in
ogni epoca caratteristica della vita degli uomini, come di quella
dei popoli, è presso a poco per le stesse vie che le intelligenze
si scostano o si accostano alla verità, mosse da un moto comune
che fa loro subire tali evoluzioni. Simile adunque al marinaio, il
quale deve conoscere la vera posizione della terra rispetto al
cielo, chiunque ha la missione di diffondere la verità, deve
sapere qual è il polo per cui lo spirito umano inclina verso Dio,
quale quello per cui se ne allontana, e quale, ancora in questa
comune situazione è l'inclinazione propria di ciascuna
intelligenza; altrimenti la verità vi scenderà invano, senza
produrvi nulla.
Esposte le due principali causo del grande
successo dei Frati Predicatori nel loro apostolato, vorremmo dare
una qualche idea dell'immensità delle loro apostoliche fatiche;
ma un memoriale non è una storia; farle quindi conoscere ad una
ad una è impossibile; ci limiteremo perciò a delinearne i
confini, come il viaggiatore che volendo giudicare a colpo
d'occhio l'estensione di un paese, procura d'abbracciare dall'alto
il più vasto orizzonte.
L'apostolato dei Frati Predicatori ha due
orizzonti: uno finisce ai limiti del mondo antico, l'altro si
estende, con la scoperta delle Indie e delle Americhe, fino
all'estremità del nuovo mondo. Il punto in cui uno di questi
orizzonti finisce e l'altro comincia, distingue ancora la loro
durata in due periodi uguali, di tre secoli interi ciascuno.
Durante il primo periodo, che va dal principio
del secolo XIII al principio del XVI, le grandi linee che
circoscrissero l'azione dei Frati Predicatori furono queste: a
mezzogiorno, le missioni presso i Mori e gli Arabi, padroni
dell'Africa, imperanti in una gran parte della Spagna e
minaccianti colle loro armi l'Europa intera, traendola pian piano
al maomettismo. In Oriente, le missioni presso i'Greci, separati
dalla Chiesa da uno scisma che si sperava poter ancora comporre, e
presso i Tartari, che durante il tredicesimo, e il quattordicesimo
secolo tennero l'Europa in allarme col fragore delle loro
scorrerle; e, sempre in Oriente, le missioni della Persia,
dell'Armenia, delle rive del Mar Nero e del Danubio. A
settentrione, le missioni d'Irlanda, di Scozia, di Danimarca, di
Svezia, di Prussia, di Polonia, di Russia; nazioni a cui era già
stata annunziata la vera fede, ma che, convertito più o meno
recentemente al cattolicismo, conservavano in mezzo a loro una
moltitudine d'infedeli e di confusi rimasugli delle loro antiche
superstizioni. La Groenlandia stessa, sui primi vascelli che -i
venti vi fecero approdare, trovò i Frati Predicatori; e al
principio del secolo XVII gli Olandesi furono pieni di meraviglia
scoprendovi un convento domenicano che rimontava al medio evo. e
di cui il capitano Niccolò Zani ne aveva già fatta menzione fin
dal 1380. Il numero poi dei missionari che i Frati Predicatori
inviarono per ben tre secoli in queste diverse contrade sorpassa
ogni credere. Innocenzo IV fin dal 23 Luglio 1253 scriveva loro in
questi termini: «Ai nostri cari figli, i Frati Predicatori, i
quali predicano nei, paesi dei Saraceni, dei Greci, dei Bulgari,
dei Cumani, degli Africani, dei Siri, dei Goti, dei Giacobiti,
degli Armeni, degli Indiani, dei Tartari, degli Ungari e di tutte
le altre nazioni dell'Oriente, salute ed apostolica benedizione;
ecc.».
Si giunse perfino a costituire nell' Ordine una
particolare congregazione detta dei « Religiosi viaggiatori per
Gesù Cristo presso gli infedeli »; ed avendo il Papa Giovanni
XXII dato il permesso in generale a tutti i frati di poterne far'parte,
fu tanta la moltitudine di coloro che si presentarono, che lo
stesso Sommo Pontefice ne rimase meravigliato, e pel timore di
vedere poi spopolati i conventi d'Europa, restrinse la facoltà
concessa prima senza alcun limite. Simile spettacolo si era visto
anche al capitolo .generale di Parigi, quando il P. Giordano di
Sassonia avendo richiesto chi volesse partire per le missioni
all'estero, tutti, tranne alcuni vecchi cadenti, si gettarono in
ginocchio ed esclamarono piangendo: «Padre, inviate me!».
Basta scorrere le cronache dell'Ordine per
trovare ad ogni passo simili fatti, prove autentiche di una
attività e di uno spirito di abnegazione, che hanno del
prodigioso. Né siffatti apostoli inviati in tutte le terre allora
conosciute erano uomini di fede viva soltanto, ma erano ancora
uomini dotti, pratici delle lingue degli usi, delle religioni
stesse dei popoli, che si proponevano di evangelizzare. San
Raimondo di Pennafort uno dei primi Maestri Generali dell'Ordine,
d'accordo coi re di Aragona e di Castiglia, fondò appositamente a
Murcie ed a Tunisi due collegi per lo studio delle lingue
orientali; S. Tommaso d'Aquino, dietro invito del medesimo Maestro
Generale, scrisse la sua celebre Summa contra Gentes; Fra Accoldo
da Firenze pubblicò contro gli errori degli Arabi un trattato
nella loro lingua; e Fra Raimondo Martin una: Summa contro il
Corano.
Il continuo passaggio dal chiostro ai viaggi,
dai viaggi al chiostro dava ai Frati Predicatori un carattere
speciale, meraviglioso. Sapienti, solitari uomini di ogni
condizione, lasciavano trasparire da tutta la loro persona l'uomo
che tutto conosce, e le cose di Dio e quelle della terra. Il
frate, che incontravate a piedi per qualche via della città,
forse era stato prima presso i Tartari o lungo i fiumi dell'Asia
superiore, aveva abitato i conventi d'Armenia alle falde del monte
Ararat, aveva predicato nella capitale del regno di Fez o del
Marocco, per finire poi in Scandinavia, e può essere ancora nella
Russia-Rossa: ne aveva di Rosari da dire prima di arrivarvi! E se
come l'eunuco degli Atti degli Apostoli, gli aveste dato occasione
di parlarvi di Dio, avreste veduto aprirsi un altro abisso, il
tesoro cioè delle cose antiche e nuove di cui parla la Scrittura,
il cuore formato nella solitudine; ed una eloquenza inimitabile
passando da quell'anima nella vostra, vi avrebbe fatto comprendere
come la più grande felicità per l'uomo quaggiù sia quella di
incontrarsi, una volta almeno nella vita, in un vero servo di Dio.
Era raro il caso che questi Frati
Pellegrinanti, come venivan chiamati, morissero nel convento che
aveva ricevuto le loro prime lacrime d'amore. 1 più, sfiniti
dalle fatiche, passavano da questa vita lontani dai loro fratelli;
molti fi~ivano col martirio. Poiché non eran poi discepoli troppo
ossequenti gli Arabi, i Tartari, gli uomini del settentrione! Per
cui mettersi in viaggio equivaleva per ogni frate a fare il
sacrifizio della vita. Anzi spesso toccò loro in sorte una morte
sanguinosa nel seno stesso della cristianità: tanto era il rigore
delle eresie e delle passioni che essi combattevano ad ogni costo!
Che se ci venissero richiesti i nomi di quei
predicatori che riempirono tre secoli colla poter)za della loro
parola, non ci sentiremmo di poterli ripetere; essi esistono
sepolti fra le antiche cronache; ma pro-' nunziarli non sarebbe lo
stesso che farli rivivere. E la sorte di ogni oratore! Colui che
ha entusiasmato intere moltitudini, sparisce con esse in un
medesimo silenzio. Invano la posterità farà sforzi per ascoltare
nuovamente la di lui voce e quella del popolo che lo applaudiva;
sono voci ormai perse nei secoli, come il suono si perde nello
spazio. L'oratore ed i suoi uditori sono due fratelli gemelli, che
nascono e muoiono insieme; e può ben dirsi di loro ciò che
Cicero, quantunque in altro senso, sapientemente diceva: «Non si
dà grande oratore, senza la moltitudine che lo ascolti...».
Nondimeno citerò alcuni del' nomi che sono stati meglio
preservati dall'oblio.
Uno di questi è S. Giacinto, l'apostolo del
Settentrione nel secolo XIII, il quale predicò G. Cristo nella
Polonia, nella Boemia, nella grande e piccola Russia, nella
Livonia, nella Svezia, nella Danimarca, nelle rive del Mar Nero,
nelle isole dell'Arcipelago Greco, lungo le coste dell'Asia
Minore, lasciando a traccia dei suoi viaggi i conventi che qua e
là veniva edificando.
Un altro è S. Pietro di Verona, caduto, dopo
una lunga carriera apostolica, sotto il ferro degli assassini, e
che col sangue delle sue ferite scrisse in terra le prime parole
del simbolo degli Apostoli: Io credo in Dio.
Un terzo è Enrico Susone, quell'amabile
giovane svevo, la di cui predicazione ebbe nel secolo XIV tale
successo, che la sua vita fu sottoposta ad una taglia. Trattato da
novatore, da eretico, da visionario, da uomo di cattivo nome, si
contentava di rispondere a chi lo pressava di domandar giustizia
ai magistrati: «Seguirei il vostro consiglio, se i maltrattamenti
usati verso il predicatore, impedissero il frutto della
predicazione».
Nello stesso tempo fra Giovanni Taulero
riscuoteva applausi a Colonia e in tutta la Germania. Questi, dopo
aver figurato sul pergamo per molti anni, si ritirò
all'improvviso, lasciando il popolo meravigliato di tale
scomparsa, e rimase per sempre nascosto nella sua cella. Uno
sconosciuto avvicinatosi a lui dopo una sua predica, gli aveva
chiesto il permesso di dirgli francamente ciò che pensasse del
predicatore. Taulero accondiscese, e lo sconosciuto allora
soggiunse: «C'è ancora nella vostra natura un segreto orgoglio;
voi confidate nella vostra grande scienza, nel titolo di dottore e
nei vostri studi; non cercate già Dio con purità d'intenzione,
né la sua gloria, ma cercate voi stesso nel momentaneo favore
delle moltitudini. E' per questo che il vino della celeste
sapienza e della parola divina, per quanto puro in sé ed
eccellente, perdo la sua forza passando attraverso il vostro
cuore, e giunge senza sapore e senza grazia nell'anima che ama
Dio», Taulero era grande abbastanza per comprendere simile
linguaggio. e nessuno glie lo avrebbe certo tenuto, se non fosse
stato capace d'intenderlo. Egli tacque; la vanità della vita
trascorsa tutta gli comparve dinanzi; e abbandonato per due anni
ogni commercio col mondo, si astenne dal predicare e dal
confessare, tutto intento notte e giorno ai doveri ,del convento,
a piangere in cella, nell'altro tempo che gli restava, i suoi
peccati e a studiare Gesù Cristo. Trascorsi due anni si sparse in
Colonia la voce che il dottore Taulero avrebbe nuovamente
predicato. Tutti accorsero alla chiesa, curiosi di conoscere Al
mistero di un silenzio tanto diversamente interpretato. Ma Taulero
comparso che fu sul pulpito, inutilmente si sforzò di parlare,
dal suo cuore non potè trar fuori che lacrime. Non era più un
oratore soltanto, era un Santo.
Ricorderò ancora S. Vincenzo Ferreri, che nel
secolo XV evangelizzò la Spagna, la Francia, l'Italia, la
Germania. l'Inghilterra, la Scozia, l'Irlanda, che giunse a tanta
fama da essere annoverato fra gli arbitri che dovean decidere
della successione al trono d'Aragona, ed al quale il Concilio di
Costanza inviava appositamente legati per supplicarlo di volere
intervenire al Concilio.
Ricorderò in fine Fra Girolamo Savonarola,
l'amico fedele dei Francesi in Italia, l'idolo di Firenze, di cui
difese sempre la libertà e riformò i costumi, inutilmente
bruciato vivo in mezzo ad un popolo ingrato, poiché la sua virtù
e la sua gloria si elevarono più in alto che le fiamme dei rogo.
Il Papa Paolo III dichiarò che avrebbe ritenuto come sospetto di
eresia chiunque avesse osato di accusare il Savonarola; e S.
Filippo Neri conservò sempre nella sua camera il ritratto di un
tant’uomo.
Verso la fine del secolo XV, si apri, colla
scoperta delle due Indie, un nuovo teatro all'azione dei Frati
Predicatori; senza poi dire che tale scoperta, almeno per metà,
è dovuta a loro. Imperocchè dopo il rifiuto delle corti di
Portogallo, d'Inghilterra, di Castiglia, fu Fra Diego Deza,
precettore dell'infante Don Giovanni di Castiglia e confessore di
Ferdinando il Cattolico, che raffermò nel suo disegno l'illustre
genovese Cristoforo Colombo e glie ne promise la riuscita. Di
fatti, mentre Ferdinando finiva nel 1492 di conquistare il regno
di Granata, Diego poté da lui ottenere che venissero allestiti
tre vascelli sotto il comando di Cristoforo Colombo; e dall'alto
di una di queste tre navi il felice navigatore vide per la prima
volta quelle terre che il suo genio gli aveva rivelate.
La notizia dell'esistenza di questi nuovi mondi
era appena giunta in Europa, che una moltitudine di apostoli
riprendeva coraggiosamente le tracce dei conquistatori. Sin dal
1503 dodici Frati Predicatori partirono per le Indie Orientali;
altri approdarono nel 1510 all'isola di S. Domingo; Fra Tommaso
Ortiz fondò nel Messico, l'anno 1513, il primo convento
domenicano; nel 1526 altri dodici Frati Predicatori si
disseminarono per la nuova Spagna e vi fabbricarono case e
conventi in numero di cento; quattordici Frati Predicatori, con a
capo il celebre Fra Bartolomeo di Las Casas, che aveva rivestito
le lane di S. Domenico, scesero nel Perù l'anno 1529; nel 1540 si
contavano già nella Nuova Granata tre conventi e quaranta case
con chiese annesse, e nel 1541 il Chilì possedeva case e conventi
in numero di quaranta. Nel 1542 Fra Luigi Canceri annunziò il
Vanielo nelle Floride; nella penisola di Malaca e nelle isole
vicine esistevano nel 1549 diciotto conventi e sessantamila
cristiani; a Lima i Domenicani fondarono nel 1550 un'università;
nel 1556 essi giunsero a penetrare nel regno del Siam, ed a Fra
Gaspero della Croce spetta la gloria di essere stato il primo
missionario che, abbia posto piede in Cina. Nel 1575 Fra Michele
Bénavidès penetrò anch'esso nella Cina con due compagni e vi
eresse la prima chiesa cattolica sotto il titolo dell'Arcangelo
Gabriele; scrisse inoltre un'opera in lingua cinese, ed edificò
un collegio per educare i fanciulli nella religione cristiana.
Venticinque Frati Predicatori l'anno 1576 si diressero verso le
isole Filippine, ed uno di essi, Fra Domenico Salazar, ne fu il
primo vescovq. Nel 1584 i Domenicani evangelizzarono l'isola di
Mozambico e la costa orientale dell'Africa; nel 1602 fondarono una
casa nel Giappone; e nel 1616 fondarono un’Università a Manila.
Tutte queste missioni, più molte altre che
sarebbe troppo lungo enumerare, furono irrorate dal sangue il più
puro ed il più generoso. I due mondi sembrava facessero a gara
nel far versare sangue domenicano: i protestanti lo fecero correre
a fiumi in Europa, e l'America, l'Asia, l'Africa l'offrivano in
olocausto ad altri errori. Mai fino allora l'Ordine di S. Domenico
aveva dato di sè così grande spettacolo. Chi l'avesse potuto
osservare dall'alto e comprenderlo con un solo sguardo, come fa
Iddio, non si sarebbe potuto persuadere come un numero così
piccolo di uomini avesse potuto parlare tante lingue, occupare
tanti luoghi, dirigere tante opere, versare tanto sangue. Quello
poi che più d'ogni altra cosa portò al colmo la loro gloria, fu
la coraggiosa resistenza opposta contro gli oppressori degli
indigeni americani. Quella terra pacifica che con tanta ingenuità
aveva ricevuto i primi vascelli europei, fu inondata -da una razza
di gente che si diceva spagnola e cristiana, ma nessuno l'avrebbe
potuto credere. Usarono con l'America e con gli americani come una
tigre, che ha la preda fra gli artigli. Quattro linee tracciate su
di una carta geografica davano diritto al primo accorrente ad un
pezzo di terra americana con gli abitanti che ne erano in
possesso; i quali, appunto perché padroni, divenivano i loro
schiavi, se pure poteva chiamarsi schiavitù una vita in cui lo
schiavo era trattato peggio di una cosa qualunque; sì poco era
considerato! I famosi conquistatori credevano di avere scoperto
miniere inesauribili di oro e di uomini: uccidevano un Indiano
senza nemmeno pensarci; e quando si accorsero che il loro numero
diminuiva, ne andarono in caccia con mute di cani. L'indiano
ancora in libertà era considerato come cacciagione; ridotto in
schiavitù, non era da più di un animale domestico. Ben tosto il
sangue versato cosi alla semplice venne loro a noia; ne fecero
allora oggetto di trastullo. Aprivano il ventre alle donne'incinte,
facevano a gara nel vedere chi più destramente avesse diviso un
Indiano in due parti, strappavano i bambini lattanti dalle
mammelle della madre, e fracassavan loro la testa lanciandoli
contro il muro, ovvero li gettavano nel fiume, dicendo: «nuota, o
piccolo bambino, nuota». E quando presi da una specie di rimorso,
venne loro in mento che forse avrebbero avuto bisogno un giorno di
giustificarsi, esposero in iscritto la teoria delle loro azioni.
Secondo essi, Iddio onnipotente, padrone del cielo e della terra,
vista la superiorità di loro Spagnoli, sopra gli Indiani, aveva
loro concessa l'America; e Gesù Cristo stesso aveva confermata
tale cessione in forza del Battesimo ch'essi avevano ricevuto. E
siccome si sarebbe potuto obbiettare che anche agli Indiani non
mancava altro che il battesimo, essi sostenevano che gl'Indiani
erano incapaci di battesimo, perché per esser cristiano è d'uopo
esser prima uomo!
La questione era di sapere se si sarebbe
presentato alcuno in quelle sciagurate regioni il quale in nome
della giustizia avesse rivendicati i diritti dell'umanità, della
religione, dell'Europa. Questa gloria fu riservata all'Ordine di
S. Domenico. I suoi missionari tutti quanti, niuno eccettuato,
furono gli intrepidi ed eroici difensori degli Indiani; e
dall'alto del pergamo, o con gli scritti presso il Consiglio di
Castiglia e presso la S. Sede accusarono gli oppressori, e fecero
di tutto per creare un'opinione contraria ed opprimere la
tirannia. Nel 1537 Fra Giuliano, vescovo di Tlascala e Fra
Domenico Bétanzos, priore provinciale, rivendicarono in un'opera
il diritto degli Indiani alla libertà, alla proprietà, al
cristianesimo, e la inviarono per mezzo di deputati al Papa Paolo
III, supplicandolo di emanare un decreto conforme a quello che
essi avevano esposto. Paolo III non fece aspettare tal decreto, e
dichiarò solennemente che gli Indiani erano uomini capaci della
fede cristiana, degni dei Sacramenti della Chiesa, e che non
potevano, senza ingiustizia, esser privati dei loro beni e delle
loro libertà. Furono molti i Frati Predicatori che si
acquistarono allora gloriosa fama; uno però più d'ogni altro si
distinse, e raccolse nella sua memoria immortale la gloria di
tutti.
Fu questi Bartolomeo de Las Casas, di nobili
natali, originario di Siviglia, che s'imbarcò per l'America nel
1502, in età di 28 anni. Mettervi piede e sentirsi tutto compreso
da compassione e da orrore al triste spettacolo fu tutt'una. Egli
allora, invece di pensare a far fortuna, risolvé di consacrar la
sua vita a difesa dell'America. Vi si preparò iniziandosi, col
ricevere il sacerdozio, ai segreti più intimi della redenzione
del mondo; e fino all'età di settantasette anni, fino cioè che
una goccia di sangue gli corse pelle vene, non cessò di lavorare
in pro di una causa così santa. Fu veduto traversare otto volte
l'Oceano per recarsi dall'America alla Corte di Spagna e dalla
Corte di Spagna all'America, portando lacrime e, riportandone solo
inutili decreti. In un consiglio, in cui si meditava una Monarchia
universale fu inteso esclamare: ma tutte le nazioni sono
ugualmente libere, e non è permesso ad alcuno attentare alla
libertà degli altri; ed ebbe anche il coraggio di presentare a
Carlo V un memoriale dal titolo «La distruzione degli Indiani per
opera degli Spagnoli», in cui tutti i delitti de'suoi
compatriotti vi erano numerati a caratteri di sangue, a costo di
sacrificare alla giustizia la personale sicurezza e l'onore stesso
della propria nazione.
Carlo V fu assai magnanimo nel nominarlo
Protettore Generale delle Indie; ma questa magnifica nomina,
nonostante i pieni poteri che vi erano annessi, non servi che a
convincere il Las Casas del pochissimo bene che posson fare i re
quando l'ambizione è il loro pensiero principale e la giustizia
un mero ripiego della loro coscienza. Las Casas in mezzo alla sua
carriera rivolse tristamente lo sguardo sopra se stesso e sopra il
suo secolo; e sentitosi incapace di continuare a portare da solo
tutto il peso del suo cuore, rivestì a quarantott'anni le lane di
S. Domenico, l'abito che ricopriva allora tutto ciò che di più
generoso era rimasto sulla terra. Parve ne attingesse novelle
forze e nuove virtù; ed il settantesimo anno di età lo raggiunse
alla Corte di Spagna a far premure in favore'degli Indiani. Questo
vecchio incanutito nell' apostolato, che da giovane aveva
rifiutato il vescovato di Cusco, credé che l'episcopato ora gli
gioverebbe, come un bastone al viaggiatore ormai affranto dal
cammino e dagli anni, ed accettò il vescovato di Chiapa,
riattraversando, e fu per l'ultima volta, l'Oceano per tornare in
soccorso dell'America. Fosse tenerezza di un uomo di settanta
sette anni, cui torna in mente il paese della sua infanzia, o
fosse per non sentire dal suo letto di morte gli ultimi gemiti
delle popolazioni indiane distrutte da un mezzo secolo di
barbarie, egli volle morire in Spagna. E mentre la sua patria lo
custodiva con venerazione, come una fiamma venuta dall'alto che è
per estinguersi e come una reliquia che la morte non ha ancora
interamente consacrata, egli rianimando la sua vita nella carità,
vi spigolò ancora quindici anni di ammirabile decrepitezza. La
sua voce quasi secolare si fece udire ancora una volta nel
consiglio di Castiglia in favore degli Indiani, e la sua mano che
si credeva ormai inaridita scrisse i famosi trattati della
Tirannia degli Spagnoli nelle Indie. Finalmente, carico di anni,
colmo di meriti e di glorie, trionfante di tutti i suoi
detrattori, Las Casas morì a novantadue anni nel convento dei
Frati Predicatori di Valladolid, lasciando alla posterità fama di
grande uomo di Dio e del popolo.
L'America Spagnuola si è ricordata di tutte
queste premure; essa non ha dimenticato coloro' che furono i suoi
apostoli, i suoi amici, i suoi padri, i suoi tutori, i martiri dei
suoi diritti. Venti rivoluzioni l'hanno messa sossopra dallo
stretto di Magellano al golfo di California; i suoi antichi
sovrani, che. si chiamavano fastosamente re della Spagna e delle
Indie, sono stati cacciati da tutti i loro domini transatlantici;
ma l'umile Frate di S. Domenico e di S. Francesco prega sempre
indisturbato su quella terra riconoscente, nulla temendo né dal
passato, né dall'avvenire..La Chiesa cattolica che rimase fedele
a quelle regioni sventurate nel tempo della loro oppressione, è
rimasta fedele anche nel tempo della loro libertà, e malgrado le
proposte della corte di Spagna, ha continuato- a provvedere alla
successione dei loro vescovi. Questo è uno degli atti più
illustri del sommo Pontefice Gregorio XVI, felicemente regnante,
di quest'augusto vecchio che in pochi anni ha saputo acquistarsi
nel cuore dei cristiani una gloria antica, una memoria che ha già
tutto il peso dei secoli.
E l'America dal canto suo ha dato alla Chiesa
ed agli Ordini religiosi nuove prove del suo invincibile
attaccamento: essa ha proclamato nei suoi statuti i diritti eterni
della religione; e quando, or non è molto, la Spagna atterrò le
porte dei suoi chiostri, antichi quanto la sua nazionalità, il
governo del Messico dette ordine ai suoi consoli di offrire un
asilo ai religiosi dispersi, dando ad ognuno trecento scudi per le
spese di viaggio, il transito gratuito sul vascelli dello stato,
ed una pensione vitalizia a carico del pubblico erario, all'unica
condizione, nobilissima e piena di spirito cristiano, che si
fossero occupati delle missioni. E difatti molti han profittato di
queste generose offerte, e riuniti da diversi punti nel porto di
Genova, si sono imbarcati per andare in cerca nel Messico delle
tracce dei loro maggiori. Così mentre la maggior parte delle
monarchie d'Europa perseguita gli Ordini religiosi, o disputa loro
con somma avarizia l'acqua ed il fuoco, le repubbliche del Nuovo
Mondo li trasportano seco a prezzo d'oro. Vanità delle vanità; e
tutto è vanità, fuorché l'amar Dio e servir Lui solo.
CAPITOLO IV
Azione dei Prati Predicatori come
Dottori
Tommaso d'Aquino
All'estremità occidentale di Bologna, da
quella parte dove finiscono gli ultimi pendii degli Appennini, in
una piazza solitaria il viaggiatore trova una chiesa. Io vi entrai
come chi ansiosamente vada in cerca di qualche cosa; ed
accostumato alle tombe gigantesche dell'arte moderna, rimasi
commosso alla vista del dolce monumento che mi apparve dinnanzi.
Là, sotto puro alabastro, riposa il corpo di S. Domenico, presso
quella famosa università di Bologna, che non aveva uguale se non
l'università di Parigi, ambedue grandemente amate dal Santo,
ambedue scelte dal medesimo per essere il principale centro dei
suoi frati. L'università di Parigi gli dié, riconoscente, una
parte del convento di S. Giacomo, Bologna 1a tomba. Fu conveniente
infatti che una dotta città fosse l'ultima e suprema dimora sulla
terra del. l'uomo meraviglioso che aveva saputo riunire insieme in
uno stesso pensiero l'apostolato e la scienza divina, confidando
ad un solo Ordine tale duplice missione. I fatti giustificarono
l'arditezza dell' impresa e provarono, senza dubbio, che non
poteva essere stata ispirata altro che da Dio. Abbiamo visto ,con
quanta fedeltà i Frati Predicatori realizzassero ,nell'apostolato
le speranze del loro santo Patriarca: ~resta a vedere il loro
successo in fatto di scienza, il quale fu ancor più meraviglioso.
Imperocchè l'abnegazione di sé basta, in fin dei conti, a
formare un missionario; ma la scienza, oltre l'abnegazione, esige
l'intelligenza, sempre-rara in ogni tempo.
La scienza è la conoscenza delle relazioni che
costituiscono e collegano tutti gli esseri, da Dio fino all'atomo,
dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande Ogni grado di
questa vasta scala serve a chiarificare quello che precede e
quello che segue, perché ogni relazione che si scopre, in
qualunque modo si scopra, o dall'alto in basso, o dal basso in
alto, è sempre una rivelazione dell'essere. In altre parole,
l'effetto indica la causa, perché ne è l'immagine; la causa
spiega l'effetto, perché ne è il principio; quantunque questa
reciprocità non sia uguale, imperocchè la luce vera scende
sempre dall'alto; Il basso non può darne che un semplice
riflesso.
Ora, dice S. Paolo, noi vediamo per riflesso ed
in enigma; un giorno noi vedremo faccia a faccia. La scienza
adunque nel presente stato è necessariamente imperfetta, non
potendo noi riuscire a vedere faccia a faccia né il punto di
partenza, né quello di arrivo, che è Dio. Ma per velato, che
egli sia, possiamo però fin da quaggiù conoscerlo per altre vie
che non siano il riflesso delle cose create. Prima di mostrarsi,
Dio si è affermato; prima di comparire, ha rivelato il suo nome.
L'accettazione volontaria di questa parola divina è ciò che si
chiama fede. La fede fa il cristiano; e quando il cristiano è in
possesso di questo nuovo mezzo di conoscenza, di questa visuale
elevata, può egli ridiscendere fino all'estremità dell'universo,
scoprire per mezzo delle relazioni che costituiscono l'essenza
divina, quelle che costituiscono l'uomo e la natura, e riscontrare
poi, con movimento opposto, le leggi dell'essere infinito con le
leggi degli esseri finiti.
Questo raffronto dei due mondi, l'illustrazione
del secondo, che è effetto, per opera del primo, che ne è causa,
la controprova del primo, che è causa, per mezzo del secondo, che
ne è effetto, questo flusso e riflusso di luce, questa marea che
va dall'oceano alla riva per ritornare dalla riva all'oceano, la
fede nella scienza e la scienza nella fede è ciò appunto che fa
del cristiano un teologo. Ed è questa la ragione per cui il
dottore cattolico è un essere quasi impossibile, dovendo egli
conoscere da un lato tutto il deposito della fede, la Scrittura,
la tradizione scritta e non scritta, i concili, gli atti dei
Pontefici; e dall'altro lato ciò che S. Paolo chiama gli elementi
del mondo, vale a dire tutto e tutti.
Si apra il primo Padre della Chiesa che capita
fra mano, la Preparazione Evangelica di S.. Eusebio, la
Spiegazione dell'opera dei sei giorni di S. Basilio, gli Stromata
di Clemente Alessandrino, la Città di Dio di S. Agostino, subito
apparirà come tutti passano continuamente dal cielo alla terra,
dalle scoperte della natura alla rivelazione, mettendo sempre
innanzi e congiungendo Dio con l'universo, per giungere alla
conoscenza dell'uno e dell'altro. Ciò nondimeno nessuno dei Padri
giunse ad ultimare l'edifizia della cristiana teologia, ed i loro
scritti dispersi qua e là, non rappresentavano dopo dodici secoli
di lavoro, che parti, per quanto sublimi, di un tempio non ancora
edificato, aspettanti, con la pazienza dell'immortalità, la mano
dell'architetto. L'architetto doveva sorgere dalle ceneri di S.
Domenico; e l'uomo eletto dalla Provvidenza a quest'opera
incomparabile nacque, ciò che nessuno avrebbe mai pensato,
illustre signore.
Nell'anno 1245 viveva in Colonia un licenziato
domenicano, dotato d'ingegno così straordinario che i
contemporanei lo chiamarono per antonomasia il Grande. Sebbene
versato in modo speciale nelle ma. tematiche, nella fisica e nella
medicina, insegnava allora la teologia; ed elevato in seguito alle
più alte dignità, rinunziò a tutte per ritornare alla scuola,
dalla quale si ritirò al fine in modo singolare. Un giorno,
mentre teneva pubblica lezione, ad un tratto si fermò, come chi
abbia perduto il filo del ragionamento; e dopo breve silenzio, che
meravigliò e turbò tutti, cosi riprese: « Da giovane tanta era
per me la difficoltà di apprendere, che disperava ormai di
imparare alcunché; onde, per risparmiarmi la vergogna di trovarmi
continuamente a confronto con altri di me più istruiti, risolvei
di lasciar l'Ordine di S. Domenico. Mentre giorno e notte stavo
rimescolando meco medesimo tale divisamento, mi parve di vedere in
sogno la Madre di Dio, e mi parve ancora che mi interrogasse in
quale scienza avessi voluto divenir capace, nella teologia o nelle
scienze naturali; e che io rispondessi: nelle scienze naturali. Ed
Ella allora: Tu sarai, come desideri, il più grande dei filosofi;
ma perché non hai preferito la scienza del mio Figlio, verrà un
giorno in cui, perdendo anche la scienza della natura, ritornerai
quale sei oggi. Miei figliuoli, il giorno preannunciatomi è
giunto. D'ora innanzi non vi insegnerò più; confesso però
ancora un'ultima volta dinnanzi a tutti voi di credere tutti gli
articoli del Simbolo, e supplico che, giunta l'ora, mi siano
amministrati i Santi Sacramenti della Chiesa. Se mai avessi detto
alcuna cosa contraria alla fede, la ritratto, e sottopongo ogni
mia dottrina alla mia santa Madre, la Chiesa romana». Ciò detto,
scese di cattedra; i discepoli lo abbracciarono, e piangenti lo
accompagnarono fino al convento, dove visse ancora per tre anni
nella più grande semplicità, egli che era stato chiamato il
miracolo della natura, lo stupore del suo secolo, e che la
posterità conosce sotto il nome di Alberto Magno.
Non fu però Alberto Magno il prescelto ad
innalzare l'edifizio della cristiana teologia: egli preferì la
scienza della natura alla scienza del Figliuolo di Dio.
Verso la fine del 1244 o al principio del 12452
Giovanni Teutonico, quarto Maestro Generale dell'Ordine dei Frati
Predicatori, giunse a Colonia accompagnato da un giovanetto
napoletano che consegnò ,a Fra Alberto in qualità di discepolo.
L'Europa era in quei tempi un paese di libertà; ciascuno andava
ad istruirsi dove più gli piaceva, e le nazioni tutte si davan la
mano nelle università. Il giovane portato da Giovanni Teutonico
alla scuola di Alberto Magno, era in linea paterna, pronipote
dell'imperatore Federico I, cugino dell'imperatore Arrigo VI,
biscugino dell'imperatore Federico Il allora regnante; in linea
materna poi discendeva da quei principi di Normandia, che,
cacciati gli Arabi ed i Greci dall'Italia,' erano rimasti padroni
del regno delle due Sicilie. Aveva soli diciassette anni.
Raccontavasi di lui che i parenti, per distoglierlo dalla sua
vocazione, l'avevano preso e chiuso in un castello, senza però
riuscire nell'intento; che introdottasi nella sua prigione una
femmina, l'aveva cacciata, armato di un tizzone ardente; che due
sue sorelle messesegli intorno a bella posta per distoglierlo dal
suo proposito, erano invece attratte da lui medesimo alla vita
religiosa; che Il Papa Innocenzo IV, supplicato di rompere i
vincoli che legavano il giovane all'Ordine di S. Domenico, gli
aveva offerto, dopo averlo ascoltato con ammirazione, l'abbazia di
Montecassino. -Prevenuto da tale fama, fl giovane conte di Aquino,
ora Fra Tommaso, fu subito tenuto d'occhio dai compagni, i quali
però nulla vi riscontrarono che corrispondesse alla loro
aspettativa: un sempliciotto dallo sguardo insignificante, che non
parlava quasi mai, e nulla più. Si finì anzi per credere che di
nobile non ci fossero che i natali, tanto che i compagni giunsero
a chiamarlo per ischerzo, il bue muto delle due Sicilie.
Il suo maestro Fra Alberto, non sapendo lui
stesso che pensarne, colse l’occasione di una grande adunanza
per interrogarlo sopra una serie di questioni spinosissime; il
discepolo vi rispose con tanta saggezza, che Alberto fu come
invaso da quella gioia rara e divina che provano i veri grandi
uomini nel riscontrare un altro uomo che dovrà eguagliarli ed
anche sorpassarli; e rivolto a tutta la scolaresca, disse
commosso: « Noi chiamiamo fra Tommaso il bue muto; ma un giorno i
muggiti della sua dottrina si ripercuoteranno nel mondo intero».
La profezia non tardò ad avverarsi. Tommaso d'Aquino addivenne in
brevissimo tempo il dottore più celebre della Chiesa cattolica;
ed i suoi natali, per quanto regali, rimasero eclissati dalla
magnificenza della sua gloria personale.
A quarantun'anno, e non glie ne restavano che
altri nove di vita, S. Tommaso ideò il monumento, per il quale,
senza che lo sapesse, era stato destinato. Si propose cioè di
riunire in un sol corpo i materiali sparsi della teologia; e ciò
che poteva sembrare una semplice compilazione, riuscì invece
sotto le sue mani un capolavoro, di cui tutti ne parlano, anche
quelli che non l'hanno mai letta, come il mondo intero parla delle
piramidi d'Egitto, che quasi nessuno ha vedute. Questa popolarità
che la può sopra l'ignoranza stessa, è il più alto grado di
gloria quaggiù a Dio solo è dato elevarsi ancora al di sopra,
perché egli solo è alla portata di tutti che lo adorano.
La teologia, come abbiamo già detto, è la
scienza delle affermazioni divine. Quando l'uomo accetta
semplicemente queste affermazioni è allo stato di pura fede;
quando invece stabilisce le relazioni di queste affermazioni fra
loro e con tutti i fatti interni ed esterni dell'universo, la sua
fede passa allo stato teologico o scientifico. In conseguenza la
teologia risulta da un assieme di umano e di divino; e se è vero
che pio serve a rischiarare la fede, non è men vero che espone
spesso a gravi pericoli. Imperocchè per poco che un uomo si
permetta d'indagare l'ordine delle cose visibili, giunge ben
presto al limite estremo della certezza che può aversi in tale
ordine; e qualora si spinga più oltre, lo spirito da quelle
regioni male esplorate non riporta che opinioni, capaci talvolta
di alterare la purezza e la solidità della fede. Una delle prime
doti del dottore cattolico adunque è lo spirito di discernimento
nell'uso dell'elemento umano; e S. Tommaso possedé questo spirito
al più alto grado.
La scienza del suo tempo, era tutta compendiata
negli scritti di Aristotile: logica, metafisica, morale, politica,
fisica, storia naturale. Aristotile insegnava tutto, e si riteneva
da tutti che sulle cose della natura avesse detto l'ultima parola.
Eppure sarebbe bastata una semplice scorsa su qualcuna delle sue
opere per persuadersi quanto poco un tal filosofo avesse di genio
cristiano; lo studio assiduo difatti che di lui si faceva, aveva
già apportati i suoi funesti effetti. Era cosa la più ordinaria,
per esempio, sentire difendere anche dai maestri che una
proposizione può esser vera secondo il Vangelo e falsa secondo la
filosofia: e Stefano II, vescovo di Parigi, fu costretto a
condannare nel 1277 duecento ventidue proposizioni, fondate, nei
loro errori, sui libri di Aristotile. Questi gli elementi
scientifici di cui disponeva anche S. Tommaso. Conveniva inoltre
creare una psicologia, un'antologia, una morale ed una politica
degna di armonizzare coi dommi della fede. San Tommaso vi riuscì.
Lasciando da parte le chi. mere e le aberrazioni dello Stagirita,
raccolse dal suoi scritti ciò che poté spigolare di vero, e
trasformando e nobilitando questo materiale, senza abbattere né
adorare l'idolo del suo secolo, compilò una filosofia,.che aveva
ancora nelle vene alcunché del sangue di Aristotile, ma
purificato dal suo e da quello se' suoi predecessori
nell'insegnamento cattolico.
Allo spirito di discernimento nell'impiego
dell'elemento umano o finito, S. Tommaso accoppiò il gusto e
quasi la penetrazione dell'elemento divino. Egli considerò i
misteri di Dio con quello sguardo intuitivo simboleggiato
dall'aquila di S. Giovanni, sguardo difficile a definirsi, ma che
si comprende molto bene quando, dopo aver meditato da sè sopra
una verità del cristianesimo, se ne domanda spiegazione ad un
altro che sia penetrato più addentro in tali abissi, o abbia
percepito meglio il suono dell'infinito. Avviene d'un grande
teologo come d'un grande artista, l'uno e l'altro vedono ciò che
l'occhio volgare non vede; sentono ciò che l'orecchio della
moltitudine neppure sospetta; e quando coi deboli mezzi di cui
l'uomo dispone riescono a riprodurre negli altri un riflesso o
un'eco di ciò che hanno visto o sentito, il pastore stesso si
sveglia e crede di essere un genio. Questa potenza di intuire
nell'infinito meraviglierà coloro che tengono il mistero in conto
di un'affermazione qualsiasi, di cui anche i termini siano affatto
sconosciuti. Ma coloro i quali sanno che l'incomprensibile non è
altro che una luce senza limiti, la quale farà sì che anche
quando vedremo Iddio faccia a faccia, pure non arriveremo a
comprenderlo, costoro si persuaderanno facilmente che più
l'orizzonte è vasto, più la vivacità dello sguardo trova dove
spaziare. E la teologia ha proprio questo vantaggio: le
affermazioni divine che le aprono l'infinito da un lato all'altro,
sono ad un tempo per lei una bussola ed un mare. La parola di Dio
traccia nell'infinito alcune linee che determinano il pensiero
senza restringerlo, e che, pur trasportandolo con loro, rifuggono
di stargli dinanzi,
L'uomo che è trattenuto dai lacci e dalle
tenebre del finito non potrà avere mai neppure l'idea della
felicità del teologo, che nuota nello spazio illimitato che nuota
nello spazio illimitato del vero, e trova nella causa stessa che
lo rattiene l'estensione che lo rapisce. Questa unione di una
sicurezza la più grande unita al volo il più ardito cagiona
nell'anima un contento ineffabile, che fa disprezzare, una volta
gustato, ogni altra cosa. Ora niente altro fa provare e gustare un
tal contento, più della lettura di S. Tommaso. Dopo studiata una
questione negli scritti dei grandi uomini, se si passa poi a
questo sommo, provasi un senso come se si fossero trasvolati ad un
tratto più mondi e come se il pensiero non pesasse più.
Converrebbe ancora parlare della forza di
collega, mento con cui S. Tommaso congiunge l'elemento naturale
coll'elemento divino, subordinando sempre il primo al secondo.
Converrebbe esporre quell'unità, mirabile, che in un'opera
poderosissima raccoglie, senza mai smentirsi, a diritta e a manca
tutte le acque del cielo e della terra, e le spinge innanzi con
quello stesso movimento che hanno dalla loro sorgente, accresciuto
sì, ma non alterato. Converrebbe infine dare un'idea del suo
stile che fa penetrare fino ai più profondi abissi della verità,
come si v4-, dono i pesci in profondi ma limpidi laghi, come si
vedono le stelle attraverso un aere puro; stile così calmo che
traspare, in cui l'immaginazione non è più forte della passione,
e che nondimeno rapisce l'intelligenza. Ma il tempo stringe; S.
Tommaso d'altronde non ha più bisogno di lodi. I Sommi Pontefici,
i Concili, gli Ordini religiosi, le università, mille scrittori
lo hanno elevato a tale altezza, che la nostra lode non potrebbe
raggiungerlo. Quando gli ambasciatori del regno di Napoli si
presentarono a Giovanni XXII per supplicare il Pontefice di
canonizzarlo, il papa in pieno concistoro disse loro: «Ha più
illustrato la Chiesa S. Tommaso che tutti gli altri dottori presi
insieme; e fa più profitto studiare Per un anno i suoi libri, che
per tutta la vita i libri degli altri». Ed avendo opposto
qualcheduno durante il processo di canonizzazione, che Tommaso non
aveva operato miracoli, il Sommo Pontefice rispose: «Tanti sono i
miracoli, quanti sono gli articoli che ha scritto». Nel Concilio
di Trento sulla medesima tavola posta in mezzo alla sala dove
convenivano i Padri furono posto i libri delle S. Scritture, i
decreti dei Pontefici, e la Somma di S. Tommaso. Dopo tutto
questo, Dio solo potrà onorare ancora di più questo grande uomo
nel concilio eterno dei Santi.
San Tommaso morì nel convento dei Cistercensi
di Fossanova, quasi a metà di strada fra Napoli e Roma, fra la
sua patria naturale e quella spirituale, non lontano dal castello
di Roccasecca, dove pare che sia nato, e vicino a Montecassino,
dove aveva passato parte della sua infanzia. Lo sorprese la morte
mentre, ossequente agli ordini del Papa Gregorio X, era in
viaggio, per recarsi al secondo concilio generale di Lione, In cui
doveva trattarsi della riunione della Chiesa greca con la latina.
I religiosi, raccolti intorno al suo letto,, lo pregarono di fare
loro una breve esposizione della Cantica, l'idillio dell'amore
divino, e fu quella l'ultima lezione. Di ricambio egli chiese al
religiosi di esser posto sopra la cenere, per ricevere il santo
viatico; e quando vide l'ostia fra le ffiani del sacerdote, disse
piangendo: « Io credo fermamente che Gesù Cristo, vero Dio e
vero uomo, figlio unico dell'eterno Padre e d'una madre Vergine,
è realmente in questo augusto Sacramento. lo ti ricevo, o prezzo
della mia redenzione; io ti ricevo, viatico del pellegrinaggio
dell'anima mia; per te ho studiato, vegliato, lavorato, predicato,
insegnato. Niente credo di aver detto mai contro di te, ma se
anche senza saperlo avessi detto qualche cosa contro, io mi
ritratto; sottometto tutto al giudizio della santa romana Chiesa,
nell'obbedienza della quale lo me ne parto da questa vita ». S.
Tommaso d'Aquino, in età di cin. quantun'anno, il giorno 7 Marzo
1274, alcuno ore dopo la mezzanotte, verso lo spuntare
dell'aurora.
L'Ordine che fin dal suo nascere aveva dato
così illustre luminare alla Chiesa, non cessò di coltivare
sempre sapienti scrittori di merito. Enumerarli qui sarebbe
fastidioso; se ne contano da quattro a cinquemila. Basterà
ricordare che avanti ancora che passasse un secolo dalla morte di
San Domenico, il suo istituto fu onorato dai contemporanei dello
specialissimo titolo di Ordine della Verità. I due grandi
pensieri che avevano presieduto alla sua fondazione, apparvero
così realizzati in tutta la loro estensione. Intere generazioni
di apostoli e di sapienti, sorti da uno stesso germe, hanno
portata la verità anche in mondi sconosciuti da S. Domenico; e
dopo seicento anni finiti , i loro rampolli rifioriscono ancora da
Manila a Roma, da Pietroburgo a Lima. Quando il giovane Gusmano in
compagnia del vescovo Don Diego valicava a piedi i Pirenei, niente
esisteva di tutto questo, né era previsto, né si sarebbe creduto
possibile: ma il pensiero che- scopre un bisogno, la virtù che vi
si consacra, il bisogno che viene in aiuto al pensiero ed alla
virtù, queste tre cose possono tutto. Felice il secolo in cui
esse vengono ad incontrarsi!
CAPITOLO V
Artisti, Vescovi, Cardinali, Papi,
Santi e Sante, dati alla Chiesa dall'Ordine dei Frati
Predicatori.
Benché l'apostolato e la scienza divina siano
lo scopo principale dell'Ordine dei Frati Predicatori, tuttavia S.
Domenico non escluse dalla sua opera niente che potesse riuscire a
salvezza delle anime. Non c'è adunque da meravigliarsi se
troviamo i suoi discepoli annoverati fra gli artisti, o destinati
al ministero pastorale, o proposti al governo generale della
Chiesa, o consacrati a mille altri impieghi tra di loro connessi
solo per mezzo dell'abnegazione.
Chi si meravigliasse di trovare artisti, e
grandi artisti, fra i Frati Predicatori, mostrerebbe di non aver
dell' arte religiosa che pallida idea. L'arte, come la parola e le
lettere, non essendo che l'espressione del bello, ha diritto di
esser coltivata da tutti, che attendono all'elevazione delle anime
dei loro simili verso l'invisibile: e Dio stesso, nel medesimo
tempo che donò a Mosè le tavole della legge, gli mostrò sul
Sinai anche la forma del tempio e del tabernacolo, quasi ad
insegnare! che l'architetto del mondo è artista per eccellenza, e
che l'uomo quanto più riceve del suo spirito, tanto più diventa
capace e degno di aspirare anche lui alle sante elevazioni
dell'arte. I religiosi del medio evo ben sapevano questa verità;
ed i chiostri Insieme a scrittori ed oratori che venivano
formandosi là dentro, racchiudevano' architetti, scultori,
pittori, musici. Il cristiano rifugiandosi alla dolce ombra di
quelle volte, offriva a Dio, insieme con la sua anima ed il suo
corpo, anche il talento che da Lui aveva ricevuto; e qualunque ne
fosse la tendenza, non mancava
colà né di predecessori, né di maestri.
Intorno all'altare la preghiera rendeva tutti i frati uguali:
rientrati nelle loro celle, il prisma
decomponeva la luce, e ciascuno esprimeva a suo modo qualche
raggio della bellezza divina. O tempi felici! O paradisi
terrestri, distrutti dal dispotismo e dalle barbarie! Tutta la
civiltà moderna non riesce a fabbricare una chiesa cristiana, e
poveri frati del secolo XIII, fra Sisto, fra Ristoro e fra
Giovanni elevarono in Firenze quella chiesa di S. Maria Novella.
che Michelangelo andava sempre a vedere, e che là diceva bella,
pura, semplice come una fidanzata; da cui ebbe anche origine il
dolce nome di Sposa, tuttora in bocca del popolo fiorentino! Ad
ogni istante il cittadino o il forestiero, traversando la piazza
della Sposa, ne ripetono le lodi; ma nessuno parla degli artisti:
la gloria li rispetta perfino nella tomba, timorosa di turbare i
loro casti cuori, dove l'umiltà la vinse sul genio!
Nondimeno essa ha fatto talvolta violenza ad
altri loro fratelli di arte e di religione. Qual nome è infatti
più celebre nella pittura di quello del domenicano Fra Angelico
da Fiesole? «Fra Angelico, dice il Vasari, avrebbe potuto menar
vita comoda nel mondo; ma perché prima di ogni altra cosa gli
stava a cuore la salute dell'anima, abbracciò, senza abbandonar
la pittura, la vita religiosa nell'Ordine di S. Domenico, unendo
così alla cura della felicità eterna, l'acquisto di un'eterna
gloria fra gli uomini».
Fra Angelico dipingeva, sempre in ginocchio le
immagini di Gesù Cristo e della Santa sua Madre, e le lacrime gli
scendevano spesso per le guance espressione viva della
sensibilità dell'artista e della Pietà del cristiano. Quando
Michelangelo vide a S. Domenico di Fiesole la tavola dell'Annunziazione
dipinta dal nostro Frate Predicatore, a testimoniare la sua
ammirazione esclamò: «Un uomo non può ritrarre simili figure
senza averle prima viste nel cielo». Chiamato a Roma dal Papa
Eugenio IV, Fra Angelico dipinse negli appartamenti vaticani i
celebri affreschi della vita di S. Lorenzo e di San Stefano; ed il
Papa rapito dalla di lui anima, più ancora che dal suo pennello,
gli offrì l'arcivescovato di Firenze, sua patria: ricompensa, che
in quei tempi e nei precedenti ancora si dava alle volte per
simili benemerenze; non ritenendosi allora che un pittore
cristiano od un cristiano architetto fossero meno degni
dell'episcopato di un predicatore, ripetendo gli uni e gli altri
con arti differenti, ma con la stessa fede, le medesime cose. Fra
Angelico però ricusò ostinatamente il pastorale del Vescovo, e
propose al Sommo Pontefice, come più degno, Fra Antonino, elevato
in realtà alla sede di Firenze, e che divenne Sant'Antonino.
Gli annali della pittura ricordano ancora con
orgoglio Fra Bartolomeo, nel secolo Baccio della Porta. Non aveva
ancora raggiunto i vent'anni quando, già celebre per il suo
talento, attratto dalle prediche di Fra Girolamo Savonarola, prese
parte alla riforma che il grande oratore si sforzava d'introdurre
a Firenze. E nel momento in cui il suo maestro fu arrestato, egli
era nel chiostro di S. Marco, fra I cinquecento cittadini venuti
apposta per difendere il Savonarola. Rimase tanto desolato per la
di lui morte, che, preso l'abito di S. Domenico nel convento di
Prato, risolvé di rimanere per sempre nascosto, e di non toccare
mai più i pennelli. Con lui molti altri uomini Illustri furono
assaliti da simile scoraggiamento. Morto il Savonarola, essi
stimarono che non valesse più la pena di scrivere, di parlare, di
dipingere, né di fare altro nel mondo, fuorché meditarne la sua
eterna vanità. Il paganesimo redivivo portava a questo; Lutero
era già alle porte, e Savonarola, dopo avere predetto le tante
volte la catastrofe che minacciava, era comparso sul rogo, ultima
scintilla di una fiamma che i suoi contemporanei non avrebbero
visto mai più. Fra Bartolomeo portò aperta nel cuore per tutta
la vita la ferita cagionatavi da quella morte, e l'amicizia stessa
ch'egli ebbe con Raffaello non valse a fargli dimenticare la
triste rimembranza del suo primo amico. Tuttavia trascorsi quattro
anni, vinto dalle istanz6 dei suoi fratelli, riprese il pennello;
con tanto rammarico però, che il successo stesso dei suoi
capolavori non giunse punto a lenire.
Non va dimenticato neppure Fra Benedetto,
pittore e miniatore del convento di S. Marco, sconosciuto forse
pel talento, ma conosciuto eternamente pel fatto che, nel giorno
in cui il Savonarola fu arrestato, egli si era armato da capo a
piedi per difenderlo, e non rimise la spada iìel fodero se non
dietro le, rimostranze del maestro, il quale gli fece comprendere,
che un religioso non deve usare altre armi che le spirituali. Ciò
nonostante avrebbe voluto accompagnarlo al supplizio per soffrire
insieme a lui; ed il Savonarola dové trattenerlo a forza,
dicendogli: «In nome dell'ubbidienza vi comando, o fra Benedetto,
di non venire, perché io devo oggi morire per Gesù Cristo ». Io
non cesserei mai di rievocare queste memorie, mentre noi non siamo
più che ombre, ed essendo la consolazione dei morti poter tornare
fra i vivi.
L'Ordine dei Frati Predicatori ha dato alla
Chiesa anche un buon numero di vescovi, molti dei quali compirono
missioni considerevoli. Non entrerò in dettagli biografici né
riguardo a loro, né riguardo a quelli che furono elevati al
cardinalato, la prima dignità della terra, dopo la suprema, come
scriveva il cardinale Bouillon a Luigi XIV. Mi limiterò a dire
che fino al 1825, seicento anni dopo la morte di San Domenico, i
cardinali domenicani furono settanta,, gli arcivescovi
quattrocentosessanta, i vescovi duemilacentotrentasei, quattro i
presidenti di Concili Generali, venticinque i legati a latere,
ottanta i nunzi apostolici, più un principe elettore del sacro
romano impero. E la maggior parte di questi Frati Predicatori
elevati a così alte dignità, non erano che semplici religiosi,
senza nobiltà e senza fortuna; quindi la scelta fatta dai Sommi
Pontefici e dai Principi civili dovevasi unicamente alle loro
virtù. Quanto alla Chiesa del resto, lo ha fatto, sempre di
trarre dalla polvere del chiostro poveri monaci per porli
indistintamente alla testa dei Popoli, come fa con altri uomini di
eminenti condizioni. La Chiesa, madre e maestra, non fa
dell'ostracismo per nessuna dignità; essa vi eleva ugualmente il
nobile come il popolano; ed assistendo alle sue cerimonie
sacrosante, sotto lo stesso saio o sotto la Stessa porpora è
possibile trovarci tutte le condizioni della vita, confuse
nell'uguaglianza del merito e dell'abnegazione. Il papato è, il
primo ad avere ornata, la fronte di questa aureola; la tiara
passa, senza arrossirne, dal principe al pastore di gregge, ed il
Sommo Pontefice che oggi lotta e contro la casa di Brandeburgo non
è che il figlio di un semplice cittadino di Belluno. La tonaca
bianca che ora lo ricopre, era prima la sua tonaca da camaldolese;
talché passando dal chiostro al Vaticano non ebbe nemmeno a
cambiar vestimento, come non cambiò il cuore.
Più di un Frate Predicatore ricevé ed onorò
la suprema tiara. Il primo fu Pietro di Tarantasia, arcivescovo di
Lione, trasferito poscia alla sede di Tarantasia, quindi Cardinale
e vescovo di Ostia e Velletri, penitenziere maggiore, e in fine
papa, nel 1276, sotto il nome di Innocenzo V. Quantunque il suo
pontificato non durasse che cinque mesi, pure ebbe il tempo di
riconciliare le repubbliche di Lucca e di Pisa, e di ridonare la
pace alla Francia .
Il pontificato di fra Nicolò Boccasini, eletto
nel 1303, e che prese il nome di Benedetto XI, fu parimente
brevissimo, ma celebre assai per le circostanze dei tempi,
superiori alle forze di ognuno, non alle sue: fu infatti il
successore di Bonifacio VIII. Il conclave lo elesse quasi a
ricompensa della sua coraggiosa condotta nella famosa giornata di
Anagni, quando avendo tutti abbandonato il Pontefice, lui solo con
un altro Cardinale, restò al suo fianco, e sostenne la maestà
della Santa Sede contro lo schiaffo di Nogaret. Appena eletto si
affaticò a render la pace alla Chiesa con altrettanta dolcezza,
quanta costanza aveva prima mostrato nel pericolo, e la Francia
deve a lui di essere stata liberata da una criticissima posizione
senza aver versato neppure una goccia di sangue.
Nel 1566 fu eletto Papa fra Miche le Ghislieri,
chiamato il Cardinale Alessandrino, perché nato vicino ad
Alessandria ín Piemonte, che prese il nome di Pio V. Sotto i
precedenti pontificati egli aveva dato prova di tanta indipendenza
e fermezza, che il popolo romano fu in allarme per la sua
elezione. Il nuovo Papa lo seppe, ed a quelli che glie lo
riferirono, rispose: «Farò in modo che il popolo romano abbia a
provare maggior dolore per la mia morte che per la mia elezione».
Come difatti avvenne. Il suo regno di sei anni fu cosi pieno di
nobili azioni, che un pianto universale lo accompagnò nel
sepolcro. Nessuno ignora che nel 1571 egli riuscì a conchiudere,
tra Venezia e la Spagna quella lega contro il Turco, ebbe per
risultato la celebre battaglia navale di Lepanto, in cui le armi
cristiane ottennero uno dei più memorandi successi e dei più
necessari, che le abbiano segnalate alla riconoscenza dell'Europa.
Da S. Pio V a Benedetto XIII, ultimo papa
domenicano, passarono centocinquanta anni. Le condizioni del
pontificato erano assai cambiate: escluso dagli affari generali
dell'Europa in forza del trattato di Westfalia e del dispostismo
che prevaleva in tutti i troni cristiani, non restava al Pontefice
che offrire al mondo lo spettacolo della virtù disarmata, in
attesa della rivoluzione e del martirio.
E' questo il destino della verità sulla terra:
attingere da qualunque situazione in cui si trovi uno splendore
tutto proprio. Se gli uomini le accordano gran potere, essa
comunica loro gran movimento, trasforma le guerriglie di ambizione
in crociate civilizzatrici, s'interpone fra l'ingiustizia dei
grandi e la violenza dei piccoli, fonda università, abolisce la
schiavitù, apre alla miseria ed all'infelicità innumerevoli
asili, costringe la terra a portare il peso di eterni capolavori,
eleva, estende, consolida l'umanità. Se poi gli uomini le
ritirano questo potere, da se stessa si tira indietro fin sulla
sua porta, come un vegliardo accasciato dagli anni e deposto dai
suoi uffici, che si asside al cadere dei giorno davanti alla casa,
offrendo ai cittadini che passano e lo salutano una veneranda
immagine di tutto ciò che è bello e buono. Che se gli uomini
vanno ancora più avanti fino a perseguitare la verità, allora
per quanto creduta ormai sfinita, dalla sua stessa antichità
attinge invece forze capaci di vincere tutti i mondi. Apre suoi
tesori; vi prende la, spada, che uccise i suoi, apostoli, e le
catene colle quali furono flagellati i reni delle vergini morte
per Iddio; orna il suo collo, delle ossa di quei giovanetti, che
lacerati sull'eculeo risero in faccia ai proconsoli ed agli
imperatori; prende le mazze che trucidarono a migliaia i suoi
fedeli; e così preparata, aspetta a pié fermo sulla pubblica
piazza, sapendo che Dio le sta alle spalle, e che tutto è in
salvo, quando tutto è perduto. Checché adunque facciano gli
uomini, la verità non fa altro che mutare di gloria; depone una
corona per prenderne un'altra; e sia d'oro o di ferro, cotesta
corona regna sempre.
Ora, quale è la sorte della verità, tale è
la sorte del pontificato, che ne è l'organo. Non dipende già da
un Papa la scelta del suo modo di governare, come non dipende da
lui scegliere l'ora sua, ma dispone sempre di un potere degno di
lui. Benedetto XIII eletto nel 1724 non poteva assumere, come
Innocenzo V, le parti di mediatore tra le repubbliche italiane;
né come Benedetto XI dar la pace alla 1?rancia; né come S. Pio
V, guadagnare la battaglia di Lepanto; neppure gli era possibile
soffrire la prigione e l'esilio come toccò ai suoi futuri
successorie Pio VI e Pio VII: l'ora sua sonò fra queste due
epoche, ed egli fu ciò che un Papa doveva esser nel secolo XVIII,
un uomo virtuoso, un santo. Nato dalla illustre famiglia dei
Gravina-Orsini, fin dalla prima giovinezza lasciò il mondo, dando
per tutta la vita bell'esempio di semplicità, che nascondeva con
delicato velo le altre virtù. Ed anche quando la tiara, senza
affatto cercarla, venne a posarglisi sulla fronte, si compiacque
di sottrarla sovente agli sguardi altrui, andando a piedi a
visitare le chiese e gli ospedali di Roma, e preferendo alla
tradizioni solenni della corte apostolica, le ispirazioni, d'un
cuore perfettamente degno di avere altra volta scambiato il
palazzo dei suoi maggiori con la cella di Frate Predicatore.
In questi quattro papi domenicani si riflette
il carattere dell'Ordine intero. Ciascuno fece il possibile per
adattarsi ai suoi tempi, senza però che il contatto col proprio
secolo togliesse nulla di quel coraggio militante, che fu sempre
parte della natura domenicana, e che ha reso la sua lunga storia
una linea retta. Niente si affà di più allo spirito francese
dello spirito domenicano. Ed è per questo che nella lista dei
Maestri Generali, che ora ho sott'occhio, e che va fino al 1720,
di sessanta Maestri Generali, diciassette sono francesi cioè
quasi un terzo. In nessuno altro Ordine, che abbia il suo centro a
Roma, si riscontra una cosa simile.
Tutti gli Ordini religiosi però, qualunque sia
il loro carattere, la loro origine, il loro scopo e i loro mezzi,
devono incontrarsi in un punto comune, che è la santità, Là è
il termine di tutti coloro che sono animati dal soffio di Dio; là
si raggiungono tutti quelli che hanno consacrato, la loro vita a
Dio ed agli uomini, qualunque sia stata la forma di tale
consacrazione: le vergini Immacolate, le madri cristiane, gli
apostoli, i dottori, I martiri della verità; l'operaio, che
guadagna Il suo pane con un lavoro volgare in sé, nobile
nell'intenzione; il soldato caduto combattendo col sentimento
della giustizia; il colpevole, che per mezzo della penitenza
trasforma I suo supplizio in immolazione volontaria; il religioso
cinto dalla corda di S. Francesco o dal cilizio di S. Brunone che
porta sopra una carne sommessa; finalmente ogni corpo ed ogni
anima che non siano vissuti per sé soli, ma per Iddio negli
uomini e per gli uomini in Dio. La santità, vincolo di tutti gli
esseri morali, non è altro che l'abnegazione attinta alla sua
più alta sorgente. E' per questo che il sacrifizio è l'atto
religioso per eccellenza, e la croce, simbolo presente e futuro
del cristianesimo, comparirà nell'ultimo giorno a giudicare i
vivi e i morti. Chiunque potrà essere misurato alla stregua della
croce, sarà salvo; chiunque non avrà nulla nelle sue membra e
nel suo cuore che possa essere commensurato alla croce, sarà
perduto; gli uni passeranno al regno dell'amore, gli altri a
quello dell'egoismo. La Chiesa, centro dell'amore, e il mondo,
centro dell'egoismo, si scontrano e si respingono incessantemente;
ed in questa interminabile lotta gli Ordini religiosi
rappresentano il maggiore sforzo della Chiesa per vincere il mondo
a forza di abnegazione, e in conseguenza a forza di santità.
Quanto abbiamo già detto basta a dimostrare so
anche in- ciò l'Ordine di S. Domenico abbia raggiunto il suo
compito. Di secolo in secolo esso ha accresciuto immensamente la
lista dei nomi di quei venerabili uomini, che la voce dei popoli e
quella della chiesa hanno proclamato fin da quaggiù cittadini del
cielo. Ogni giorno, ed in mille luoghi, il povero incrocia le
stanche braccia sopra la balaustra di marmo che circonda le
reliquie o l'immagine di un Frate Predicatore, e riposa il suo
spirito alla rimembranza di una creatura che preferì la povertà
ad ogni altro bene. Lasciamo in custodia a coloro. che li sanno e
che l'invocano questi santi nomi, e terminiamo questo leggero
abbozzo di un Ordine immenso coll'elogio che fin dal decimoquarto
secolo ne faceva uno dei più grandi poeti cristiani,
l'indipendente cantore della Divina Commedia:
In quella parte ove surge ad aprire
Zeffiro dolce le novelle fronde,
Di che si vede Europa rivestire,
Non molto lungi al percuoter dell'onde,
Dietro alle quali, per la lunga foga,
Lo sol talvolta ad ogni uom si nasconde,
Siede la fortunata Callaroga,
Sotto la protezion del grande scudo,
In che soggiace il leone e soggioga.
Dentro vi nacque l'amoroso drudo
Della fede cristiana, il santo atleta,
Benigno a' suoi ed a’ nemici crudo;
E come fu creata, fu repleta
Sì la sua mento di viva virtute,
Che nella madre lei fece profeta.
Poi che le sponsalizie fur compiute
Al sacro fonte intra lui e la fede,
U' si dotar di mutua salute;
La donna, che per lui l'assenso diede,
Vide nel sogno il mirabile frutto
Ch'uscir dovea di lui e delle rede;
E Perché fosse, quale era, in costrutto,
Quinci si mosse spirito a nomarlo
Del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; ed io ne parlo
Sì come dell'agricola che Cristo
Elesse all'orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo a familiar di Cristo;
Ché il primo amor che in lui fu manifesto
Fu al primo consiglio che dié Cristo.
Spesse fiate fu tacito e desto
Trovato in terra dalla sua nutrice,
Come dicesse: Io son venuto a questo.
Oh padre suo veramente Felice!
Oh madre sua veramente Giovanna,
Se interpretata val come si dice!
Non per lo mondo, per cui mo, s'affanna
Di retro ad Ostiense ed a Taddeo,
Ma per amor della verace manna,
In picciol tempo gran dottor si feo,
Tal che si mise a circuir la vigna,
Che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo;
Ed alla sedia, che fu già benigna
Più a' poveri giusti, non per lei,
Ma per colui che siede e che traligna,
Non dispensare o due o tre per sei;
Non la fortuna di primo vacante,
Non decimas quae sunt pauperum Dei
Addomandò; ma contra ‘l mondo errante,
Licenzia di combatter per lo seme
Del qual si fascian ventiquattro piante.
(Paradiso, canto XII)
Tale l'ammirazione che all'anima melanconica e
forte di Dante ispirava l'Ordine di S. Domenico. Il proscritto, la
cui penna non l'ha risparmiata a nessuna grandezza colpevole,
trattò sempre i Frati Predicatori ed i Frati Minori come gli eroi
del suo secolo; e il suo pensiero dopo di aver tristamente fatto
il giro del mondo nei lunghi giorni dell'esilio, tornava a loro
col raro piacere di poter rispettare. Gli stessi furono i
sentimenti dei più grandi uomini del medio evo. L'apparizione
simultanea di S. Domenico e di S. Francesco in tutti che tenevan
dietro al governo del mondo produsse l'effetto di' un miracolo
della Provvidenza, e l'unanime contento che ne provarono è tale
elogio che i secoli posteriori non potranno dileguare mai. Tocca
ai contemporanei giudicare gli uomini e le cose d'ci loro tempi;
coloro soltanto che hanno mangiato lo stesso pane possono
apprezzare quanto valeva; e come l'avvenire non comprenderà le
idee più generose dei nostri giorni, così noi dobbiamo accordare
al passato d'aver conosciuto chi gli fece del bene, chi del male.
Il malato che è stato volto a sinistra, domanda in seguito di
esser riportato a destra; ma benedicendo la seconda mano che lo
muove a suo piacere non deve maledire la prima: sono sacre tutte e
due.
CAPITOLO VI
L’Inquisizione.
L’inquisizione è un tribunale che fu
stabilito nei tempi andati in alcuni paesi della. cristianità dal
mutuo concorso delle autorità, ecclesiastica e civile, per la
ricerca e la repressione di tutto ciò che avesse attentato al
sovvertimento della religione.
Si attribuisce a S. Domenico d'essere
stato l'inventore dell'Inquisizione;
si attribuisce ai Domenicani d'esserne
stati i promotori ed i principali strumenti;
si vogliono essi particolarmente
responsabili degli eccessi dell'inquisizione spagnola.
Ora, S. Domenico non è stato l’inventore
dell'inquisizione, né mai ha esercitato l'ufficio d’inquisitore;
i domenicani non ne sono stati affatto i promotori, né i
principali strumenti; e riguardo all'inquisizione, spagnola, lungi
dall'esserne essi i responsabili, furono invece allontanati, dagli
stessi re di Spagna, quando i re di Spagna, sul finire del secolo
decimo quinto e sul cominciare del decimosesto, trasformarono il
tribunale dell'inquisizione in una nuova istituzione politica del
tutto, la quale esigeva servi più dipendenti che non fossero i
religiosi.
Queste asserzioni meraviglieranno quanti
credono alla, storia tal quale è stata fabbricata dai protestanti
e dai razionalisti; ma non sorprenderanno chi sa che la storia in
questi ultimi tre secoli è stata una menzogna continua.
manifesta, che gli scienziati di Francia, di Germania,,
d'Inghilterra hanno già in gran parte sfatato. Del resto eccone
le prove,.
Nel 1862 le Cortes spagnole riunite nell' isola
di Leone elessero una commissione incaricata, fra le altre cose,
di presentare una relazione e un progetto di decreto sul tribunale
dell'inquisizione. La commissione nella sua relazione fece
l'esposizione dell'origine e dello sviluppo di questo tribunale, e
conchiuse che dovesse essere abolito nella Spagna. Da questa
relazione di fabbrica razionalistica, liberale e spagnola, quindi
non sospetta di parzialità in favore dell'inquisizione, trarremo
la prima ragione di giustificazione.
Un altro documento non meno prezioso è la
Storia dell'Inquisizione pubblicata ad Amsterdam nel 1692 da
Filippo di Lymborch, professore di teologia nella setta calvinista
dei Rimostranti. Questa storia ostile, per quanto è possibile,
alla Chiesa cattolica, all'inquisizione ed ai Domenicani, ci
somministrerà il secondo mezzo di giustificazione. Nulla dirò
che non sia fondato su l'uno o l'altro di questi documenti
fornitici dai nostri nemici, e talvolta sopra ambedue insieme.
Essi faranno da testo, le mie prove solo da commentario.
Per cominciare, ecco come la commissione delle
Cortes si esprime riguardo a S. Domenico: «I primi inquisitori, e
S. Domenico in modo speciale, non usarono mai contro l'eresia
altre armi all'infuori della preghiera, della pazienza e
dell'istruzione, come lo assicurano i Bollandisti, il P. Echard ed
il P. Touron». E appresso: «Filippo II, il più assurdo dei
principi, fu il vero fondatore dell'inquisizione; fu la sua astuta
politica che portò l'inquisizione a quell'eccesso, dove giunse. I
re rigettarono sempre i consigli e i ricorsi che venivano avanzati
contro questo tribunale, essendo essi gli assoluti padroni di
nominare, sospendere o rinviare gli inquisitori, e non avendo
d'altronde a temer nulla dall'Inquisizione, terribile soltanto pel
loro sudditi». La Commissione delle Cortes viene così a
distinguere due termini estremi nell'inquisizione: San Domenico e
Filippo II. Il primo che non ha altre armi che la preghiera, la
pazienza e l'istruzione; il secondo, vero fondatore
dell'inquisizione, che la trasforma in un tribunale terribile, di
cui i re sono i padroni assoluti. Potremmo fermarci qui; poiché
quale argomento più decisivo per chi sa leggere? Che importa se
la Commissione colloca S. Domenico fra i primi inquisitori, quando
questi primi inquisitori non usarono altro che la preghiera, la
pazienza e l'istruzione? E che rimane di comune fra l'opera di S.
Domenico e quella di Filippo II, separate fra loro da un
intervallo di tre secoli, l'una religiosa e l'altra politica,
l'una affidata a uomini che pregano ed istruiscono con pazienza, e
l'altra a dei re che rigettano i consigli e i ricorsi contro un
tribunale di cui essi sono i padroni assoluti? Ma in materia così
grave non si può perdonare alla Commissione un tale errore, per
quanto innocuo. Sebbene essa non imputi a S. Domenico di essere
stato lui l'inventore dell'inquisizione, né d'averla esercitata
con durezza, tuttavia lo enumera fra i primi inquisitori; e ciò
è assolutamente falso, come ora vedremo. Prima di tutto però
cerchiamo di farei un'idea esatta dell'inquisizione.
Chi facesse consistere l'inquisizione nelle
leggi penali stabilite contro la professione pubblica delle
eresie, e generalmente contro ogni atto esterno, lesivo della
religione sbaglierebbe di certo. Simili leggi erano in vigore già
da mille anni nella società cristiana. Costantino ed i suoi
successori fondati sopra la massima che, essendo la religione il
primo bene dei popoli, questi hanno il diritto di vederla riposta
sotto la medesima tutela che difende i beni, la vita, l'onore dei
cittadini, ne promulgarono gran numero, come può leggersi nel
codice Teodosiano. Non intendiamo ora di entrare in esame di tale
massima; la enunziamo semplicemente. Prima dei tempi moderni
passava per incontestabile, ogni nazione l'avea messa in pratica
............................
.......................................
Si credeva allora essere un dovere della
società civile impedire atti esterni contrari alla religione da
essa professata, e non essere ragionevole abbandonarla agli
attacchi del primo imprudente, che mostri sufficiente ingegno per
sostenere un nuovo domma. Appunto in questo senso giudicò, anche
dopo il 1830, la Corte di Cassazione, quando decise che la Carta
non dava diritto di aprire una chiesa e di fondare una cattedra
religiosa a chiunque lo volesse. L'antico principio, sussiste
adunque nella giurisprudenza, interprete delle nostre leggi; la
magistratura francese giudica anche oggi su tali materie, come
giudicava la magistratura del Basso Impero e del medio evo, come
giudicano i Mandarini Cinesi, che fanno strangolare i nostri
missionari; e poco importa che le pene sieno più blande, poiché
è avvenuto lo stesso per tutti gli altri delitti. Mitigare una
pena, non vuol dire dichiarare innocente il delitto per cui è
applicata, e soprattutto non vuol dire dichiararlo libero. Anche
la Francia adunque è solidale nel principio che dette origine
all'inquisizione.
Fino a tutto il secolo duodecimo gli attentati
contro la religione erano processati e giudicati dai magistrati
ordinari. La Chiesa condannava coll'anatema una dottrina? Chiunque
dopo ciò l'avesse propagata ostinatamente nelle assemblee
pubbliche o private, colla parola o con gli scritti, veniva
ricercato e condannato dal tribunali secondo il diritto comune.
L'autorità ecclesiastica tutto al più interveniva qualche volta
nel processo per via di querela. A lato però dì questo fatto
sociale di repressione degli eretici, se ne sviluppava un altro
tutto cristiano, la dolcezza cioè riguardo ai colpevoli, e
specialmente riguardo ai colpevoli di idee. Tutti i cristiani
erano convinti che, la fede è un atto libero, causato , dalla
sola persuasione, e dalla grazia; tutti ripetevano con S.
Atanasio: «La caratteristica di una religione di amore è di ;
persuadere, non di costringere»; quantunque non fossero poi
d'accordo nel determinare il grado di libertà che conveniva
lasciare agli eretici., Questa seconda questione sembrava loro del
tutto distinta, dalla prima, altra cosa essendo non violentare le
coscienze, ed altra lasciarle in balia di una forza intellettuale
di cattiva lega. Chi stava per la libertà assoluta ripeteva con
S. Ilario, vescovo di Poitiers: «Oh! che ci, sia permesso di
deplorare la miseria: dell'età nostra e le folli opinioni di un
secolo in cui si crede proteggere Dio coll'aiuto dell'uomo, e le,
Chiesa di Gesù Cristo colla potenza del secolo! Ditemi di grazia,
o vescovi che così pensate, a quali sostegni si appoggiarono gli
apostoli per annunziare il Vangelo? Quali armi invocarono in loro
aiuto per predicar Gesù Cristo? Come fecero a convertire dal
nazioni dal culto degli idoli al culto del vero Dio? Che forse ne
avevano ricevuto incarico dalla reggia. coloro che cantavano le
lodi a Dio, dopo essere stati legati con catene e battuti? Che
forse Paolo, dato a spettacolo come un malfattore, si servì degli
editti imperiali per stabilire sempre meglio la Chiesa di Gesù
Cristo? O non fu invece l’odio di Nerone, di Vespasiano, di
Decio, di tutti i nemici del cristianesimo, che fece fiorire la
parola divina? Quelli che vivevano del lavoro delle proprie mani,
che tenevano adunanze secrete, che percorrevano le borgate, le
città, le nazioni, la terra, il mare, malgrado i senatus-consulti
e gli editti dei principi, non erano essi che avevano le chiavi
del regno dei cieli? E non fu conosciuto sempre più Gesù Cristo
stesso, quanto più si proibiva di predicarlo? Ma ora, oh dolore!
i suffragi terrestri servono di raccomandazione alla fede divina,
ed il Cristo è accusato come bisognoso di intrighi in suo favore!
Ora par che debba la Chiesa diffondere il terrore coll'esilio e
colla prigione, essa che è stata data a salvaguardia della
prigione e dell'esilio! Par che debba affidare le sue sorti a
coloro soltanto che accettano la sua comunione, essa che è stata
consacrata dalle mani dei persecutori»!.
Sant'Agostino, un tempo della medesima scuola,
si rivolgeva parimente ai Manichei con queste parole: «Che usin
rigore contro di voi coloro, che non sanno con quanta fatica si
venga a conoscenza della verità, e quanto penosamente ci si
liberi dall'errore! Che usino rigore contro di voi coloro, che non
sanno quanto sia raro e difficile vincere i fantasmi del corpo con
la serenità di una devota intelligenza! Che usino contro di voi
coloro che non sanno con quanto stento si arrivi a guarire
l'occhio interiore dell'uomo, fino a renderlo capace di vedere il
sole, il suo sole, non quello che voi adorate e che brilla agli
occhi carnali dell'uomo e delle bestie, ma quello di cui il
profeta scrive: Il sole della giustizia si è levato per me; e di
cui il Vangelo dice che è la luce che illumina ogni uomo, che
viene in questo mondo! Che usino rigore contro di voi coloro, che
non sanno con quanti sospiri e con quali, gemiti si arrivi a
comprendere Iddio, per quanto alla lontana! Finalmente che usino
rigore contro di voi coloro, che non vennero mai, sedotti
dall'errore che vi seduce!». Causa però il furore dei Donatisti
dell'Africa contro la Chiesa, S. Agostino passò più tardi alla
scuola opposta. Confessò dovere all'esperienza due verità, che
la meditazione del Vangelo non gli aveva insegnato, cioè: che
l'errore è essenzialmente persecutore e nega quanto più può
alla verità di esser libera; inoltre che ha luogo una oppressione
sulle intelligenze deboli esercitata dalle intelligenze più
forti, come i corpi più deboli sono sopraffatti dai più robusti.
Per 'cui anch'egli conchiuso che la repressione dell'errore è una
difesa legittima contro due tirannie, quella della persecuzione e
quella della seduzione. Non faccio che richiamare la storia.
Tuttavia anche questa seconda scuola era
agitata come la prima, benché in minor grado, dal bisogno
inestinguibile della cristiana mansuetudine. E S. Agostino a
proposito degli eretici più atroci che giammai siano esistiti,
scriveva a Donato, proconsole dell'Africa, queste parole degne di
nota: «Noi desideriamo che siano corretti, ma non messi a morte;
che non si trascuri, riguardo a loro, una repressione
disciplinare, non però che sian sottoposti ai supplizi, che si
sarebbero meritati... Se voi toglieste a cotesti uomini la vita in
pena dei loro delitti, voi ci distogliereste dal tradurre innanzi
al vostro tribunale simili cause; l'audacia dei nostri nemici
giunta così al 'sommo, compirebbe la nostra rovina, stante
la" necessità in cui ci porreste di preferire ricever da
loro la morte, piuttosto che tradurli dinanzi al vostro
giudizio». Ed in forza di questi principi San Martino di Tours
rifiutò costantemente di comunicare con quei vescovi, che avevano
preso parte alla sanguinosa condanna dei Priscillianisti della
Spagna.
La Chiesa adunque, su tale questione, era posta
fra due estremi: o libertà assoluta dell'errore, o persecuzione
ad oltranza per mezzo della inesorabile spada della legge civile.
Alcuni dei suoi dottori inclinavano pel primo partito, altri per
il secondo; alcuni per una dolcezza senza limiti, altri per un
rigore impassibile e illimitato; ed essa trovavasi come crocifissa
fra due timori ugualmente terribili. Lasciando all'errore ogni
larghezza, c'era da temere per l'oppressione dei suoi figlioli;
facendo che l'errore fosse represso, sia pure con la spada del
Vescovo esterno, c'era da temere di divenire oppressore:
dappertutto sangue. Il corso degli avvenimenti poi aumentava ancor
più tali angusti e; perocché le leggi fatte contro gli eretici
ricadevano invece incessantemente contro i cattolici, e da Ario
agli Iconoclasti fu un succedersi di vescovi e preti Imprigionati,
esiliati, maltrattati, respinti fino nelle catacombe da quegli
Imperatori, che non stancavansi mai di offrire alla Chiesa la
scelta fra le loro idee o i loro carnefici.
Quindi, appena che le fu possibile, la Chiesa
pensò seriamente a sortire da questa situazione. La sentenza di
S. Agostino: «desideriamo che vengan corretti , ma non messi a
morte; non si ha da trascurare riguardo a loro una repressione
disciplinare, ma neanche condannarli al supplizio che si
meriterebbero», giunse a maturità. Il Pontificato concepì
allora un disegno, di cui molto si gloria lo stesso secolo
decimonono, senza pensare che i Papi se ne occupavano già da sei
secoli: il disegno di un sistema penitenziario. Fino allora erano
solo in vigore, per punire le colpe degli uomini, due specie di
tribunali: i tribunali civili, e i tribunali della penitenza
cristiana., L'inconveniente dei secondi era di non poter colpire
che quei peccatori, i quali confessavano volontariamente i loro
falli; l'inconveniente dei primi che avevano in mano la forza, era
di non possedere influenza alcuna sul cuore dei colpevoli, di
punirli con una vendetta priva affatto di misericordia, incapaci
di guarire con una piaga esterna la piaga interna dell'anima. Fra
queste due specie di tribunali i Papi vollero stabilire un
tribunale intermedio, un giusto mezzo, un tribunale che potesse
perdonare, che potesse modificare la pena anche dopo fulminata,
che prima suscitasse il rimorso del delitto, ed a poco a poco al
rimorso facesse seguire la bontà; un tribunale insomma che
cambiasse il supplizio in penitenza. il patibolo in educatorio,
non rilasciando i rei al braccio fatale della giustizia umana che
dopo esaurito ogni mezzo di ravvedimento. Questo tribunale
esecrabile fu appunto l'inquisizione! Non già l'inquisizione
spagnola, corrotta dal dispostismo dei re di Spagna e dal
carattere proprio, di quella nazione; ma l'inquisizione tal quale
i Papi la concepirono, tal quale riuscirono al fine a realizzare
nel 1542 coll'istituzione della Romana Congregazione del S.
Uffizio, tribunale il più mite che esista, il solo forse che in
trecento anni di esistenza non abbia fatto versare un sola goccia
di sangue. Né sono io il primo ad essermi accorto della natura
penitenziaria e progressiva dell'inquisizione. Il Journal des
Débats l'ha notato molto prima di me: «Qual è insomma, così vi
fu scritto, qual è in Europa il Tribunale, all'infuori
dell'inquisizione, che assolve il reo, purché si penta e confessi
il suo pentimento? Qual è l'individuo che faccia propaganda o
tenga condotta irreligiosa, che professi principi contrari a
quelli stabiliti dalle leggi pel mantenimento dell'ordine sociale,
e non venga prima ammonito per ben due volte dai membri di questo
tribunale? Se recidivo, se malgrado gli avvisi che ha ricevuto,
persiste nella sua condotta, viene arrestato; ma se poi si pente,
viene rimesso in libertà. Bourgoing, scrittore certo non sospetto
nel suo Tableau de l'Espagne moderne, parlando del S. Uffizio,
dice: - In -omaggio alla verità debbo confessare, che
l'inquisizione potrebbe essere citata come modello di equità. -
Quale confessione! Sarebbe essa accettata se la facessimo noi? Il
Bourgoing adunque giunse a vedere il tribunale dell'inquisizione
tal quale è di fatto, un istrumento cioè di alta polizia».
Così si esprimeva il Journal des Débats a proposito
dell'inquisizione spagnola: che avrebbe mai detto, se invece di
fermarsi ad esaminare una inquisizione snaturata, fosse andato a
rintracciare l'origine primitiva di questo tribunale e la sua
completa attuazione nella Congregazione Romana del S. Uffizio? So
adunque noi sosteniamo che S. Domenico non è stato l'inventore
dell'inquisizione, né il primo inquisitore, non è già per
liberare i suoi omeri gloriosi da un peso troppo gravoso, ma
soltanto perché la cosa non è vera. L'inquisizione, esisteva
già nel suo germe, prima di San Domenico; questi non fece nulla
affatto perché si sviluppasse, e soltanto molti anni dopo la sua
morte tale tribunale acquistò forma determinata e potenza reale.
Certo che le difficoltà da superare sia per
formulare un bel progetto, sia per attuarlo, erano enormi.
Imperocchè conveniva applicare alla società il sistema stesso
penitenziario dei chiostri per mezzo di un tribunale, il quale non
poteva esser laico, pure abbisognando del braccio secolare, non
poteva essere episcopale, pure abbisognando del concorso dei
Vescovi. Non poteva essere laico, perocché la riforma dei
colpevoli e la proporzione della misericordia da usarsi secondo la
riforma ottenuta, esigeva necessariamente l'intervento del
sacerdote e una coscienza consacrata per ascoltare le confessioni;
nondimeno il concorso dei laici era necessario, non avendo la
Chiesa alcun mezzo di coazione. Non poteva essere episcopale,
perché i vescovi, oppressi dal peso delle loro diocesi, non
avrebbero potuto sostenere questo nuovo carico; d'altra parte la
direzione nel processi criminali avrebbe loro tolto agli occhi dei
popoli quella dolce maestà a cui non devono mai rinunziare:
tuttavia il loro concorso era necessario, essendo essi i giudici
nati in ogni controversia dommatica. Insomma trattavasi di cosa
così nuova da introdursi nel governo generale degli affari umani,
che mai alcun'altra riforma ha impensierito di più.
Il Papa Lucio III, cacciato da Roma dagli
insulti ripetuti dei romani, nel 1184 si trovava a Verona, quando
andò a trovarlo l'Imperatore Federico I, accompagnato da un gran
numero di vescovi e di signori. Fu tenuto allora un gran concilio;
ed il Fleury nella sua Histoire de l'Eglise fa a nostro proposito
la seguente riflessione: «Io credo, egli dice, di trovar là
l'origine dell'inquisizione contro gli eretici, essendosi allora
ordinato ai vescovi d'informarsi da loro stessi, o per mezzo di
commissari delle persone sospette d'eresia, secondo che dice la,
voce del pubblico o le denunzie particolari; ed essendosi
stabilite differenti pene pei sospetti, pei convinti, pei
penitenti, pei recidivi, non rilasciando al braccio secolare i
colpevoli, se non dopo aver loro applicato tutte le pene
spirituali». E non v'ha dubbio che le prime tracce
dell'inquisizione, quantunque a uno stato ancora informe, siano da
ritrovarsi là: là la ricerca degli eretici per mezzo di
commissari; là l'applicazione graduata delle pene spirituali,
l'abbandono al braccio secolare in caso di manifesta ribellione,
il concorso simultaneo dei laici, e dei vescovi. Non manca che
l'ultima forma, cioè l'elezione del tribunale a cui spetti
esercitare questo, nuovo genere di giustizia: cosa alla quale si
pensò, non molto dopo.
Difatti nel 1198, dieci anni appena dal
Concilio di Verona, comparvero i primi commissari inquisitori, di
cui la storia abbia conservato il nome. Furono due monaci
dell'ordine Cisterciense, Ranieri e Guido, inviati dal Papa
Innocenzo III nella Linguadoca per la ricerca e la conversione
degli eretici albigesi. Il Fleury nella sua Histoire de l'Eglise e
D. Valssette nella Histoire du Languedoc danno loro senza
distinzione il titolo di inquisitori. Parimente i tre legati
dell'Ordine Cisterciense, che S. Domenico e il vescovo di Osma
trovarono a Montpellier verso la fine del 1205, erano commissari
inquisitori.
Così abbiamo che già da ventun'anno nel
Concilio di Verona erano state poste le prime basi
dell'inquisizione, quando Domenico comparve in scena; e chiamati
ad esercitare tal nuovo ufficio nella sua forma primitiva ed
incompleta furono i Cisterciensi.
D'altronde, in qual modo Domenico si presenta
ai Legati?. «Lasciate, dice loro, ogni equipaggio, i valletti, le
insegne, il lusso, che ad altro non servono se non a render gli
eretici sempre più ostinati; ed andiamo a piedi a cercarli, a
parlar loro, a soffrire e morire per loro». Cosa inaudita! Il
razionalismo ha preso la storia tutta al rovescio. Nella terribile
guerra contro gli Albigesi che sta a capo di tutto, chi presiede
alle assemblee dei vescovi e dei cavalieri, chi raccoglie tutte le
forze spirituali e temporali contro gli eretici sono gli abati di
Citeaux e non S, Domenico. Questi in tali frangenti apparisce
invece ciò che noi oggi chiameremmo un uomo novello. Mai prende
parte ai consigli, molto meno ai combattimenti: prega, digiuna,
predica, libera un giovane dall'ultimo supplizio col profetizzare
che sarà un giorno un gran santo. Una povera donna gli manifesta
che non le è possibile lasciare l'eresia, altrimenti non avrebbe
di che vivere, e S. Domenico è pronto a vendersi come schiavo per
procurarle il pane. Egli raccoglie insieme tenere giovanette per
liberarlo dalla tentazione della miseria: fonda un ordine
religioso, non già per affrontare gli eretici colla forza, ma con
la predicazione e la scienza divina. E fra tutti i contemporanei
che hanno scritto di lui, Teodoro d'Apolda, Costantino d'Orvieto,
Bartolomeo vescovo di Trento, il B. Umberto, Niccolò Trevet,
nessuno gli attribuisce un solo atto relativo all'inquisizione.
Tutti lo rappresentano come le Cortes spagnole del 1812, senza
altre armi alla mano che la preghiera, la pazienza e l'istruzione,
salvo che non vi aggiungano qualche miracolo, cosa che non fece
certo male ad alcuno. Nel 1215 Domenico assisté al quarto
Concilio ecumenico Lateranense: propizia occasione per mettere
innanzi gli affari dell'inquisizione, s'egli avesse voluto
immischiarvisi; invece neppur se ne tratta. Durante i cinque anni
che ancora sopravvisse, ricevé dalla Santa Sede vari Brevi e
Diplomi, ma nessuno gli dà il titolo d'inquisitore. Otto anni
dopo la di lui morte fu ordinato a Tolosa un concilio sotto la
presidenza di un delegato apostolico, e furono rinnovati in forma
più completa i decreti del concilio di Verona relativi
all'inquisizione. Ebbene! in questa stessa città di Tolosa, dove
S. Domenico era tanto conosciuto, dove aveva avuto origine il suo
Ordine e vi aveva preso ormai piede, il concilio non affida
l'ufficio d'inquisitore ai Frati Predicatori, ma dice: «I vescovi
sceglieranno in ciascuna parrocchia un prete e due o tre secolari
di buon nome, e li faranno giurare di ricercare diligentemente gli
eretici etc.». Sarebbe stato possibile un simile decreto, se S.
Domenico fosso stato veramente il fondatore ed il promotore
dell'inquisizione, se l'avesse lasciata ai suoi come parte della
sua eredità? D'altra parte il nome stesso di Frati Predicatori è
un'immortale conferma dello scopo propostosi da S. Domenico, come
il nome di Frati Minori è una conferma immortale dello scopo
propostosi da S. Francesco d'Assisi: ambedue gli uomini nuovi dei
loro tempi. Essi per salvare la Chiesa inalberarono altro
vessillo, che non' quello dell'umana potenza; ed è appunto per
questo che gli spiriti i più indipendenti di quel tempi hanno
esaltato sempre la, loro memoria. Quando S. Domenico e S.
Francesco si incontrarono a Roma, si riconobbero senza, essersi
mai veduti, e si gettarono l'uno al collo dell'altro. Erano le due
forze eterne della Chiesa che si abbracciavano: la povertà e la
parola.
Dopo le prove da noi addotte, prenderemo ad
esame le ragioni dei nostri avversari, inserite nell'Histoire de
l'Inquisition da Filippo di Lymborch, al capitolo decimo del primo
libro. Il Lymborch aveva un mezzo facilissimo per stabilire la sua
tesi contro S. Domenico: citare gli autori contemporanei. Ma
siccome neppure uno degli autori contemporanei attribuisce a S.
Domenico i fatti che ili si imputano dai protestanti e dal
razionalisti, il Lymborch credé meglio limitarsi alle strane
prove che ora addurremo.
La prima eccola: - il palazzo dell'inquisizione
in Tolosa è un palazzo che era stato donato a San Domenico;
dunque S. Domenico fu il primo inquisitore. - Ora, la casa di cui
parla il Lymborch, fu donata a S. Domenico da Pietro Cellani
l'anno 1215, e non divenne palazzo dell'inquisizione che nel 1233,
vale a dire dodici anni dopo la morte di San Domenico, allorché
Pietro Cellani, antico proprietario della casa, e che era allora
Frate Predicatore, dal Papa Gregorio IX fu nominato inquisitore di
Tolosa. Questi fatti sono riportati nella cronaca contemporanea di
Guglielmo di Puy Laurens, cappellano del conte di Tolosa Raimondo
VII.
Il secondo argomento è questo: - Luigi di
Param, che scrisse sull'origine ed i progressi dell'inquisizione,
dice che S. Domenico manifestò ad un legato del Papa in Francia
il suo pensiero d'introdurre l'inquisizione, e che egli, dopo il
concilio di Laterano, con lettere pontificie che alcuni autori
attestano di aver lette, venne difatto nominato inquisitore. Ma
Luigi di Param scriveva il suo trattato alla fine del secolo
decimosesto, quasi quattrocento anni dopo la morte di S. Domenico,
e non cita in suo favore neppure uno degli autori contemporanei;
ed il Lymborch stesso ha così poca fede nella di lui
testimonianza, che immediatamente soggiunge: «comunque sia, egli
è certo che S. Domenico fu uomo crudele e sanguinario». In prova
poi di questa crudeltà cita l'atto di una penitenza pubblica
imposta da S. Domenico ad un certo Ponzio Roger per riconciliarlo
con la Chiesa; penitenza allora in uso, e per quei tempi la più
leggera fra le penitenze canoniche della Chiesa primitiva.
Chiunque vorrà prendersi la pena di aprire
l'opera del Lymborch, potrà coi propri occhi accertarsi ch'egli
non adduce altre prove a conferma della qualità di primo
inquisitore, da lui attribuita a S. Domenico.
Né i Frati Predicatori furono i promotori
dell'inquisizione più che il loro Patriarca ne sia stato
l'inventore. I papi, i vescovi, i re, ecco i veri promotori
dell'inquisizione. «Il Papa, dice il Lymborch, faceva ogni sforzo
perché venisse conferito maggior potere .agli inquisitori, ed
avessero un tribunale in cui sedere quali giudici delegati dal
sommo Pontefice, rappresentando la sua persona in ogni causa di
eresia». Quanto ai vescovi abbiamo già visto come si
comportassero al concilio di Tolosa nel 1229, e furono sempre essi
che in due altri Concili, uno, tenuto a Narbona nel 1235 ed un
altro a Reziers nel 1246, di comune accordo coi legati della S.
Sede formularono i primi regolamenti dell'inquisizione. Anche i
principi vi presero parte e, forse più di ogni, altro.
«L'imperatore Federico II, dice il Lymborch, promulgò a Padova
alcune leggi contro gli eretici, i loro complici ed i loro
fautori, che molto avvantaggiarono la causa dell'inquisizione» .
Nel 1255 San Luigi pregava il papa Alessandro IV di stabilire nel
regno di Francia gli inquisitori della fede; e quasi nella stessa
epoca il Senato di Venezia, di motu proprio e colla propria
autorità nominava alcuni laici inquisitori della fede,
incaricando il Patriarca e gli altri vescovi del veneto di
giudicare la questione di dottrina, e riserbando a sé di
pronunziare la pena di morte contro coloro che fossero convinti di
eresia. Alfonso, re di Aragona, nel 1419 domandò al papa Martino
V di estendere l'inquisizione anche al regno di Valenza. E verso
la fine del secolo decimoquinto «i re cattolici, Isabella e
Ferdinando, sollecitarono istantemente il Pontefice romano di dar
facoltà dì poter creare inquisitori nei regni di Castiglia e di
Lione; ed affinché nessuna nazione li sorpassasse nello zelo
contro gli eretici della fede romana, anzi per essere a tutte
superiori, autorizzati dal Papa Sisto IV, introdussero nei loro
regni l'inquisizione con grande pompa, con più solenne apparato,
con poteri più ampli». Le Cortes del 1812 sono consenzienti col
Lymborch su questo punto: «L'inquisizione, dicono, nella sua
origine fu un'istituzione dimandata e stabilita dai re di Spagna
in circostanze difficili e straordinarie». E nel 1519 avendo
ottenuto gli Aragonesi dal Papa Leone X un modo di procedere più
blando che non portavano i regolamenti sull'inquisizione di
Isabella e di Ferdinando, Carlo V si oppose all'esecuzione delle
bolle, ed a forza d'insistere, ottenne che le cose restassero
quali erano. Essendo poi andata in dissuetudine nella Sicilia
l'inquisizione, «Carlo V con un decreto del suo consiglio la
ristabilì e volle che godesse di tutti i'privilegi di prima». Il
re di Portogallo, Giovanni III, nel 1521 ( supplicava vivamente il
Sommo Pontefice Clemente VII d'accordare Poi suoi regni il
tribunale dell'inquisizione. E per quanto il Pontefice avesse
resistito spesso e lungamente, a causa degli Ebrei che si
opponevano ai desideri del re, finì, suo malgrado, col dare in
forma legale il suo assenso il 16 delle calende di Gennaio 1531.
Vedendo poi lo stesso signore e re Giovanni III che la causa della
fede andava di male in peggio, e che il Sommo Pontefice mostrava
di non curarsene troppo, usò del rimedio dell'inquisizione sotto
una forma più conveniente allo stato delle cose, e ne scrisse al
Sommo Pontefice lettera degna del suo zelo, dove faceva notare
come sia presso di lui, sia presso il suo predecessore Clemente
VII per quindici anni aveva pregato di riparare con sollecitudine
alla cosa. Il Papa, mosso da questo lettere e dalle ragioni che vi
si contenevano, finì per cedere l'anno del Signore 1536». E dopo
tutti questi principi, venne per ultimo Filippo II, il vero
fondatore dell'inquisizione nella Spagna, come si espressero le
Cortes del 1812.
Tali fatti non lasciano dubbio alcuno sui veri
promotori dell'Inquisizione: essi furono i papi, i Vescovi di
Francia, gl'Imperatori d'Alemagna, il Senato di Venezia, i re di
Spagna e di Portogallo. Il lettore avrà inoltre notato l'ardore
progressivo dei principi e la notevole ripugnanza dei Sommi
Pontefici nel prender parte a quello sviluppo che la politica
aveva voluto dare all'inquisizione, come risulterà ancora da
altre prove.
I Frati Predicatori adunque non furono i
principali strumenti dell'inquisizione, ma solo vi presero parte
come ogni altro. Non c'è una bolla, né altro atto pontificio,
vescovile o regio che abbia mai attribuito in modo esclusivo e
generale ai Domenicani l'officio dell'inquisizione. Il primo ad
esserne incaricato fu l'Ordine Cisterciense; e nel concilio di
Tolosa del 1229 non si pensò di investirne i Frati Predicatori
neppure nel luogo stesso della loro origine. Fu solo nel 1232 che
Gregorio IX con un diploma indirizzato all'arcivescovo di
Tarragona, gli raccomanda di scegliere per l'officio d'inquisitori
i Frati Predicatori, ed altri ch'egli giudichi capaci. Nel 1233 lo
stesso Papa nominò inquisitori di Tolosa due domenicani; e nel
1238 dette facoltà al Provinciale della Lombardia di creare
inquisitori nel suo distretto. Peraltro anche i Frati Minori sono
chiamati ad esercitare tale ufficio, e fin dal 1238 la storia
segnala un Frate Minore come inquisitore di Tolosa. Nel 1239 poi
il Papa scrisse in comune al Ministro dei Frati Minori ed al
Maestro dei Frati Predicatori per affidar loro l'ufficio
dell'inquisizione. Innocenzo IV difatti nel 1254 sparti l'Italia h
tal riguardo fra i Frati Minori ed i Frati Predicatori; ai primi
assegnò la città di Roma, il patrimonio di S. Pietro, il ducato
di Spoleto, il rimanente dello stato romano fino a Bologna, e la
Toscana; ai secondi la Lombardia, il Bolognese, le Marche di
Treviso e Genova. Come si vede Roma e lo stato romano non furono
assegnati ai Frati Predicatori; il che prova come il papa su ciò,
non avesse per loro preferenza alcuna. Parimente nel 1255, dietro
preghiera di S. Luigi, Alessandro V distribuì l'inquisizione di
Francia tra i Frati Predicatori ed i Frati Minori; nel 1285 da
Onorio IV fu affidata l'inquisizione di Sardegna a Frati Minori;
ed alla fine dello stesso secolo questi esercitavano ancora un tal
ministero nella Siria e nella Palestina.
Inoltre sarà bene ricordare che per molto
tempo gli inquisitori non ebbero affatto il potere di giudicare.
Soltanto sotto Innocenzo IV, settanta anni circa dopo il concilio
di Verona, fu devoluto loro simile potere, col diritto di avere un
tribunale proprio. Fino allora i vescovi erano i soli giudici
competenti negli affari loro deferiti dagli inquisitori; ed anche
dopo costituito definitivamente il tribunale dell'Inquisizione,
nessun giudizio poteva farsi senza l'intervento dei vescovi. «E
se il vescovo e l'inquisitore, dice Lymborch, non erano d'accordo,
non poteva prendersi, alcuna decisione definitiva; ma c'era
obbligo d'inviare l'istruttoria al Papa, o, trattandosi della
Spagna, alla Corte suprema dell'inquisizione».
Ne segue quindi che i principali ed ordinari
giudici dell'inquisizione furono sempre i vescovi, non essendone
stato mai esclusivamente incaricato alcun Ordine religioso; e ciò
è vero in modo speciale riguardo all'inquisizione Spagnola.
Nell'Inquisizione di Spagna vanno distinti due
momenti solenni: uno alla fine del secolo decimoquinto, sotto
Isabella e Ferdinando, avanti la cacciata dei Mori da Granata e il
loro ultimo esilio; un altro verso la metà del secolo decimosesto,
sotto Filippo II, quando il Protestantesimo minacciò di
propagarsi nella Spagna. La Commissione delle Cortes distingue
perfettamente queste due epoche, e come stimmatizza l'inquisizione
di Filippo II, altrettanto è piena di moderazione riguardo
all'inquisizione di Isabella e di Ferdinando.
Della prima dice: «Filippo II, il più assurdo
dei principi, fu il vero fondatore dell'inquisizione; e fu la sua
raffinata, politica che la portò agli eccessi dov'essa giunse».
Dell'altra invece: «L'inquisizione fu da principio una
istituzione chiesta e stabilita dai re di Spagna in circostanze
difficili ed eccezionali». E per verità la presa di Granata non
aveva ancora deciso la grave questione fra gli Spagnoli ed i Mori
riguardo a sapere chi resterebbe padrone del territorio spagnolo;
questione. che si agitava già da otto secoli. I Mori, unitisi
agli ebrei, e sotto false apparenze di conversione passati al
cristianesimo, riempivano la Spagna. «Le ricchezze dei
Giudaizzanti, la loro influenza, le relazioni ch'essi avevano con
le più illustri famiglie della monarchia li rendevano sommamente
temibili, erano in verità una nazione dentro un'altra». Le
Cortes invocarono severe misure contro nemici così aborriti, e
Ferdinando credé che l'Inquisizione, ma un'inquisizione nuova e
terribile, sarebbe stato l'unico mezzo di finirla con loro. Tutta
l'Europa la intese a questo modo; quando infatti Filippo II tentò
più tardi di introdurre anche a Milano l'inquisizione di Spagna,
tutto il popolo sollevatosi, andava gridando per le strade: «E'
una tirannia volere imporre ad una città cristiana una forma
d'inquisizione immaginata contro i Mori ed i Giudei».
Isabella e Ferdinando, presa simile
risoluzione, «Affidarono la causa della fede all'arcivescovo di
Siviglia, Gonsalvo , de Mendoza, dandogli per aiuto il domenicano
Tommaso Torquemada ». Dopo molte trattative durante diversi anni,
nel 1584 «fu tenuta a Siviglia una celebre adunanza di uomini
dotti nell'uno e nell'altro diritto, nonchè nella teologia, e
furono redatte le regole da seguirsi nei processi contro gli
eretici; regole osservate tuttora dagli inquisitori, quantunque
corredate di nuove istruzioni». Carlo V nel testamento stesso
pose una clausola, in cui raccomandando al figlio Filippo II
l'inquisizione, dice così: «più di ogni altra cosa gli
raccomando di colmare di favori e di onori l'officio della santa
inquisizione divinamente stabilito contro gli eretici». Ed in un
codicillo aggiunge: « Gli domando quanto più posso instantemente,
e come padre affezionato gli ordino, in nome dell'amore rispettoso
che mi porta, di ricordarsi sempre di una cosa da cui dipende la
salvezza della Spagna, cioè: di non lasciar mai impuniti gli
eretici, e di colmare di grazie e favori l'Ufficio della santa
inquisizione, per la cui vigilanza cresce in questi regni la fede
cattolica ed è conservata la religione cristiana».
Filippo II non fece il sordo né al testamento,
né al codicillo di suo padre. Come lui applicò ai protestanti
l'inquisizione che Isabella e Ferdinando avevano stabilito contro
i Giudei ed i Mori; la rese anzi più terribile, col metter fuori,
a spavento dell'eresia, il famoso auto-da-fé, col quale il
supplizio divenne una specie di festa, sia per gli spettatori che
per i pazienti. Il primo auto-da-fé ebbe luogo a Siviglia l'anno
1559. Da quel momento l'inquisizione spagnola, divenuta cosa tutta
politica, nazionale e regia, attirò sopra il fine principale e la
storia dell'inquisizione una facile calunnia. L'immaginazione
gonfiò questo strano modo di far processi, e lo stesso popolo
spagnuolo che vedeva e tollerava tutto ciò apparve al mondo sotto
i colori più foschi. Né noi c'incaricheremo di giustificarlo. Il
conte Giuseppe do Maistre tentò già di farlo nelle sue Lettres
sur l'inquisition Espagnole; a noi spetta altro compito.
Quale fu adunque la parte dei Domenicani
nell'inquisizione di Spagna? Ce lo dice il giureconsulto Pegna nei
suoi commentari sul Direttorio degli inquisitori. «Nella Spagna,
Ferdinando re di Aragona e di Castiglia, quinto di questo nome,
verso l'anno di grazia 1476, come attestano i nostri storici,
tolse ai Frati Domenicani l'ufficio dell'inquisizione, e lo
affidò a chierici secolari, incaricando al tempo stesso, dietro
l'assenso del Pontefice, l'illustrissimo signor Cardinale Mendoza
di ricostituire tale Ufficio. Questi, di concerto con gran numero
di uomini dotti, formulò le leggi e prescrisse l'ordine da
seguirsi dagli inquisitori nella Spagna». Lymborch ripete le
medesime cose: «Un tale ufficio non è più, come altre volte,
affidato ai Frati Predicatori o Domenicani; ma cominciatosi col
darne incarico a chierici secolari versati nei canoni e nelle
leggi, a poco a poco fu loro devoluto interamente; di modo che i
Domenicani non vi ebbero più parte alcuna; solamente furono
spesso chiamati in qualità di consultori, per qualificare le
proposizioni che dovevano essere giudicate».
Fu solo nel 1618 che Filippo III accordò un
posto ai Domenicani nel consiglio della suprema inquisizione,
composto di undici o tredici membri. Un fatto, quasi incredibile,
farà meglio conoscere quanto contassero i Frati Predicatori
nell'inquisizione spagnola. Uno di essi, Bartolomeo Caranza,
arcivescovo di Toledo, uomo venerando, onorato della confidenza
dei sovrani, e che, elevato, alla prima cattedra episcopale della
monarchia godeva stima universale, all'improvviso fu incarcerato
per ordine dell'inquisizione. Invano il Papa Pio IV lo rivendicò
a sé; invano il concilio di Trento, allora riunito, s'interpose
in suo favore; invano la congregazione incaricata dal concilio per
l'esame dei libri, dichiarò il catechismo dei Caranza, che aveva
servito di pretesto per l'incarcerazione, pienamente ortodosso:
l'inquisizione fu inesorabile. Per bene otto anni lo ritenne nelle
sue prigioni, e non lo mandò a Roma per esservi giudicato, che
dietro l'ordine di Filippo II. Ecco la potenza dei Domenicani
sull'inquisizione! ecco la potenza del papa e di uno stesso
concilio ecumenico! e per giunta in una occasione in cui
l'ingiustizia era più che manifesta, assommandosi tutto ad una
spiritosa sentenza Pronunziata dal Caranza entrando in Castel S.
Angelo: «Io mi trovo continuamente fra il mio più grande amico e
il mio più grande nemico; fra la mia coscienza e il mio
arcivescovato di Toledo».
Insomma, I'inquisizione spagnola era un
tribunale del governo, «e nessuna sentenza poteva essere emanata
senza il previo consenso del re»: tribunale che si era purtroppo
cercato di stabilire, sotto il nome' dei sovrani pontefici, ma che
in realtà non dipendeva affatto da loro. Quindi i Papi si op
posero sempre perché non fosse introdotto nel Napoletano, stato
limitrofo a quello pontificio; né tutte le pratiche della Corte
di Spagna a tal riguardo valsero a superare la loro insormontabile
ripugnanza . Ben lontani poi dall'accrescere i rigori
dell'inquisizione, pel grande abuso che sé ne faceva, i Papi si
accorsero che era venuto il momento propizio di mettere al sicuro
davanti a Dio e davanti agli uomini la loro augusta
responsabilità.
Paolo III fondò quindi nel 1542 la
Congregazione romana del S. Uffizio, composta in principio di soli
sei cardinali; e rievocò tutti i poteri inquisitoriali
precedentemente concessi. Di questa congregazione romana mai si è
potuto dir nulla; tanto si è mostrata sempre mite! Ed anche
quando Galileo voleva appoggiare il suo nuovo sistema di
astronomia sul libri santi, per ben due volte fu trattato colla
più grande dolcezza; talché Bergier poté dire, senza timore di
essere smentito, in faccia allo stesso secolo decimottavo, così
meticoloso riguardo a ciò, che essa non sottoscrisse mai una
condanna capitale.
Mentre adunque la Spagna ed il Portogallo fa
cevano ricorso agli auto-da-fé, mentre la Francia creava le
camere ardenti contro l'eresia, mentre Enrico VIII durante il suo
regno mandava al supplizio settantamila uomini, e la buona regina
Elisabetta dava la biada al cavalli inglesi nel ventre squarciato
dei cattolici, in giorni di tanto sangue Roma soltanto non ne
versava una goccia! Roma, sotto la cui protezione erano fioriti i
più bei tre secoli dell'Italia! Roma, che aveva visto intorno a
sé Dante, l'Ariosto, il Tasso, il Macchiavelli, il Bembo,
Galileo, il Guicciardini, e tanti e tanti il nome de'quali non
v'ha bisogno di pronunziare! Superando se stessa in uno dei
momenti più critici, Roma conferiva al Vicario di Dio il titolo
inalienabile di inquisitore universale, è con una magia, di cui
essa sola ha il secreto, rendeva cotal titolo invisibile sulla
fronte del Pontefice come la spada che sta nel fodero. Si dirà,
forse non esser ciò cosa molto singolare, non essendovi eretici a
Roma: ma il fine dell'inquisizione era appunto di far sì che non,
vi fossero eretici da punire, e Dio non permise che questo
nobilissimo scopo rimanesse, insoddisfatto per sempre. Roma è
apparsa sempre la città dell'ortodossia e insieme della dolcezza,
pura e delicata come una vergine.
Dopo tutto ciò che abbiamo detto crediamo aver
provato a sufficienza come i Domenicani non siano stati né gli
inventori, né i promotori, né i principali strumenti
dell'inquisizione; e nessuno è responsabile meno ai loro, degli
eccessi a cui trascorse la Spagna. Essi, senza dubbio, presero
parte all’inquisizione; ma chi in Europa non vi prese parte?
L'inquisizione messa a confronto dei tempi che erano preceduti, fu
allora un vero progresso. Invece di un tribunale senza potere
alcuno di graziare, costretto ad attenersi inesorabilmente alla
lettera della legge, si passò ad un tribunale flessibile, dal
quale poteva esigersi col pentimento il perdono, e che non rinviò
al, braccio secolare che minuscola parte degli accusati.
L'inquisizione ha salvato migliaia di uomini, che sarebbero invece
periti se fossero comparsi dinanzi ai tribunali ordinari; ed i
Templari invocavano il suo giudizio sapendo bene, dicono gli
storici, che se riuscivano ad ottenere tali giudici, sarebbero
certo scampati dal pericolo di morte. Conviene d'altronde al
nostro secolo lamentarsi dell'inquisizione? a lui che ha fondata
la libertà dei culti, di cui tanto si vanta, e ci fa poi vivere,
in pieno governo d'inquisizione, con una menzogna di più? Si va
in cerca di povere fanciulle che dormono su nudo terreno; vengono
prese, tormentate perché vivono sostenute da un pensiero di fede,
perché invece di stringersi in associazione per qualche affare
industriale, esse si raccolgono insieme per pregare lavorando;
sono condotte davanti ai tribunali; si fa di tutto perché siano
espulse dalle loro proprie case, e forse ci si riuscirà. E
l'inquisizione che ha mai fatto di più? Il più piccolo movimento
religioso è subito denunziato dalla tribuna, e si crederebbe
quasi che vi siano uomini i quali passino tutta la loro vita ad
ascoltare 'se vi sia un petto francese che palpiti di fronte ad un
altro petto. Ha mai fatto di più l'inquisizione? Uomini così
acri nel perseguitare, dovrebbero almeno comprendere come il
genere umano ha avuto sempre bisogno di prender precauzioni contro
l'errore; dovrebbero sapere per l’esperienza delle proprie
passioni come l'errore e la tirannia sono inseparabili. Ma
lasciamo il passato, sul quale è facile sbagliare, e veniamo al
presente.
Chi, è che perseguita ora in Europa? Chi è
che perseguita, dopo aver declamato per cento anni in prosa, è in
versi contro la persecuzione? C'è bisogno di dirlo? Il mondo
intero ascolta i gemiti dell'Irlanda cattolica, oppressa dalla
Chiesa anglicana; il mondo intero ha visto l'Olanda calvinista
ridurre agli estremi i belgi cattolici, senza che neppure l’interesse
della conservazione sia prevalso contro l'istinto della tirannia
riformista; ed ora vede la Prussia protestante, con alla testa un
re, che la sventura e, la prosperità hanno, vanamente istruito,
gettare nelle sue prigioni un arcivescovo, rifiutandosi perfino di
fare il giudizio, trattare un affare di coscienza, come un delitto
di stato, violare per una questione del tutto spirituale, la fede
promessa a metà di un popolo, svelare infine, con un continuo
accozzamento di violenza e di ipocrisia, il carattere di un potere
il quale niente riconosce più per sacro, ad eccezione di quello
che la paura gli fa dichiarar tale. Il mondo intero conosce il
martirio della Chiesa in Polonia, martirio atroce, che dura già
da sette anni e che pare non voglia cessare, se non dopo la totale
ostili, dono della nazione polacca e della sua fede. Ed all’estremità
opposta dell'Europa si offre un altro spettacolo non meno barbaro:
e questa volta non sono i re i carnefici, ma quel liberalismo
razionalista, che cerca bugiardamente il secreto della libertà di
coscienza nelle viscere dei monaci spagnoli o portoghesi. In mezzo
a scene di oppressione così selvagge, dov'è mai in Europa la
libertà di coscienza? Un sol popolo l'ha veramente, ed è un
popolo cattolico. I Belgi vittoriosi, coll'aiuto di Dio, degli
Olandesi liberi di scegliersi a piacimento la costituzione, hanno
dichiarato nella loro Carta una verità che di giorno in giorno si
fa sempre più chiara, cioè che la Chiesa cattolica non ha
bisogno per esser sovrana che della sua libera azione sulle
intelligenze e sulle volontà, e che essa non ha mai fatto ricorso
al braccio secolare, se non in caso di difesa contro I
persecutori. Ecco la verità; quella verità che giustificherà la
Chiesa al tribunale di Dio ed a quello del genere umano stabiliti
un giorno uno di fronte all'altro.
Sì, sì: o re, o popoli, o maestà della
terra, la Chiesa cattolica non domanda da voi che il passaggio,
come diceva Bossuet, ma un passaggio libero. Non ha bisogno, dì
altro per essere la più forte di tutti, non già di una forza
dominatrice, che attenti ai vostri interessi temporali, ma di una
forza persuasiva, che vi, attragga, anima e corpo, all'eternità.
E voi lo sapete bene; ma perché non volete subire questa
attrazione spirituale tentate, per quanto è possibile, di
indebolirne la sorgente. Fatelo pure, ne siete liberi; ma almeno
confessate di farlo. E se un giorno un popolo intero, divenuto
cattolico, prenderà unanime le misure opportune affinché la
vostra iniquità non si ripeta, non l'accusato di essere
persecutore, a meno che non debba dirsi persecutore lo schiavo che
rinserra in prigione il suo aguzzino, o che la vittima, la quale
riesce a mettere in fuga l'assassino, non debba dirsi un
carnefice.
Siamo generosi: concediamo pure, se vi piace,
che la verità e l'errore furono ugualmente intolleranti. Ebbene!
Che cosa ha guadagnato il mondo da questa lotta funesta? La
verità non ha distrutto l'errore, né l'errore la verità;
vittoriosi in un punto, sono poi rimasti al disotto in un altro.
Non è ormai tempo di abbandonare vie così infelici? Non ci
bastano sessanta secoli di avvenimenti i più sanguinosi? Mettiamo
finalmente un limite ai mali del passato: e questa pietra
pacifica, posta di comune accordo fra ciò che fu e ciò che
sarà, presagisca ai nostri posteri riguardo ai problemi umani una
soluzione migliore di quella che si sperava dalla spada, ma che la
spada non ha dato ancora!.
CAPITOLO VII
Conclusione
Ho detto, senza timore, alla mia patria ciò
che penso e mi son proposto di fare; spero che essa mi avrà
compreso; non aggiungerò quindi che una sola parola.
Una delle basi fondamentali della società
moderna è la divisione illimitata della proprietà in parti
uguali fra, gli uomini e l'ammissione di tutti i cittadini agli
impieghi sociali per via di concorso: due principi che non
potrebbero essere impugnati senza che la moderna società venisse
attaccata nella sua essenza. Ma per quanto essi siano giusti e
necessari, hanno degli inconvenienti, nessuna cosa andando esente
quaggiù da una qualche infermità, che poi è il germe della
morte misto alla vita. Dalla divisione infatti della proprietà
risulta una diminuzione dei beni di famiglia ed un accrescimento
di popolazione. Per questa ragione quasi nessuno in Francia ha
un'esistenza assicurata; d'altra parte lo Stato non è ricco
abbastanza da potere stanziare parte considerevole del pubblico
erario per provvedere a tutte le ambizioni generate da nuove
esigenze e dalla libera concorrenza. Un tale stato di cose è
impossibile che non porti poi a grandi sofferenze morali. Niente
di più sublime del testamento di Alessandro: Al più degno; ma
niente ancora di più triste nel fatto della spartizione della sua
eredità fra i suoi capitani. Noi assistiamo a simile spettacolo.
Basta aver vissuto e un poco fra la nostra gioventù per sapere
quante angosce agitano quei cuori, a cui tutte le vie sono aperte,
e tuttavia sono moltissimi a rimanere a piedi. La pace universale
destinata ad essere un giorno più solida, aumenta le cause di
questo malessere. Stando le cose a questo punto, perché si dovrà
chiudere alla gioventù il rifugio della vita comune? Abbiamo
patrimoni troppo esigui? uniamoli. Soffriamo in mezzo a questa
lotta sociale? usciamone. Nessuno ha mostrato, almeno finora, di
opporsi alle associazioni del lavoro; perché ci si dovrà opporre
a tali associazioni, se al lavoro sarà ancora unita la religione?
Ma è dunque vero che le cose più naturali divengono illegittime,
dal momento che vi entra come elemento anche il cristianesimo?
E' inutile dissimularlo: le associazioni
religiose, industriali, agricole sono la sola speranza
dell'avvenire contro il continuo succedersi delle rivoluzioni. Il
genere umano non ritornerà mai al passato; mai, qualunque sia la
gravezza de' suoi mali, farà ricorso alle vecchio costituzioni
aristocratiche; solo nelle libere associazioni, fondate sulla
religione o sul lavoro, cercherà il rimedio alla piaga
dell'individualismo. Me ne appello alle tendenze, che si
manifestano dovunque. E se il governo permetterà, a coteste
generose tendenze, pure sorvegliandole, lo sfogo ch'esse invocano,
preverrà gravi catastrofi. Ammirabile è la natura umana, che in
se stessa colla malattia porta anche il rimedio. Lasciamola un po’
fare, e non rigettiamo quelle parole della; Scrittura: Iddio ha
fatte sanabili le nazioni della terra.
Sono adunque convinto di operare da buon
cittadino come da buon cattolico, ristabilendo in Francia i Frati
Predicatori. Se la mia patria lo vorrà, non passeranno dieci anni
che avrà assai da rallegrarsene; ove poi nol volesse, noi andremo
a stabilirci presso le sue frontiere, in terre più avanzate verso
il polo dell'avvenire, e lì aspetteremo pazientemente il giorno
di Dio e della Francia.
L'importante è che vi siano Frati Predicatori
francesi, e che un poco di questo sangue generoso scorra sotto il
vecchio abito di S. Domenico. Quanto al suolo, verrà il tempo
anche per esso, perché la Francia presto o tardi arriverà allo
svolto di strada, ove la Provvidenza l'attende. Ciò che ha
predetto il signor de Maistre si verificherà: la Francia sarà
cristiana, l’Inghilterra cattolica e l'Europa canterà la Messa
a S. Sofia. Io lo spero, e non ho fretta.
Qualunque sia d'altronde il trattamento che mi
riserba la mia patria, io non me ne lamenterò; spererò in lei
fino all'ultimo respiro. Comprendo le sue ingiustizie, rispetto
perfino i suoi errori; non già come il cortigiano che adora il
suo padrone, ma come l'amico, che sa con quali nodi il male si
accoppi al bene nel più profondo del cuore dell'amico.
Questi sentimenti sono in me troppo antichi
perché possano dileguarsi, e dovessi anche non raccoglierne il
frutto essi saranno sempre i miei ospiti ed i miei consolatori.
DOCUMENTI
PRIMITIVI
riguardanti la Vita di S. Domenico.
.
Primi tempi dell'Ordine dei Frati
Predicatori. Opera del Beato Giordano di Sassonia, secondo
Generale dell'Ordine.
E’ questa la prima fra le leggende di S.
Domenico; e fu scritta avanti la translazione e canonizzazione del
Santo, come chiaramente risulta dal silenzio dell'autore sopra
ambedue questi fatti. Perciò è anteriore all'anno 1233. Il Padre
Giacomo Echard, domenicano, ne pubblicò il testo con note,
nell'opera intitolata: Scrittori dell'Ordine dei Frati
Predicatori, Parigi 1719; fu ripubblicata nel 1733 dai Bollandisti
negli Atti dei Santi, primo volume del mese di Agosto.
Quest'ultima è l'edizione da noi citata nel corso dell'opera.
II Lettera Enciclica ai Frati sulla
translazione del Beato Domenico, scritta dal Beato Giordano di
Sassonia.
Di questa lettera s'ignora la data precisa, ma
certamente fu scritta fra la translazione e la canonizzazione di
S. Domenico, cioè, fra il 24 maggio 1233 e il 3 luglio del 1234;
ed è il compimento della precedente leggenda. Fu pubblicata dai
Bollandisti nel Commentario preliminare agli atti di S. Domenico.
II Atti di Bologna.
Questi atti contengono le testimonianze di nova
discepoli. di S. Domenico sulle virtù ed i miracoli del Santo
Patriarca. La loro data è dal 6 al 30 agosto 1233, nel qual,
tempo fu fatta l'inchiesta. Furono pubblicati da Giacomo Echard
nell'opera sopra citata; dai Bollandisti negli Atti dei Santi, e
dal domenicano Mamachi nell'Appendice al primo volume degli Annali
dell'Ordine dei Frati Predicatori, stampato nel 1756. Questa
ultima edizione è quella che noi abbiamo citato.
IV Atti di Tolosa.
Questi atti, di cui s'ignora la data precisa,
ma che sono necessariamente anteriori alla canonizzazione di S.
Domenico, racchiudono le testimonianze di 26 persone,
ecclesiastiche e laiche, sulle virtù ed i miracoli del Santo
durane i dodici anni del suo apostolato nella Linguadoca. Sono
stati pubblicati uniti a quei di Bologna nelle tre opere suddette.
Le nostre citazioni sono prese dal Mamachi.
. Vita del Beato Domenico, primo fondatore
dell'Ordine dei Frati Predicatori, scritta da Costantino
Medici, vescovo d'Orvieto, del medesimo Ordine.
Questa seconda leggenda, che fu pubblicata fra
il 1242 ed il 1247, serve di compimento a quella del B. Giordano
di Sassonia. Essa infatti contiene nuove particolarità; ma è
molto inferiore alla prima per lo stile, e meno importante. Fu
pubblicata da Giacomo Echard.
VI. Vita del Beato Domenico, composta dal
Beato Umberto, quinto Maestro Generale dell'Ordine dei Frati
Predicatori.
Fu pubblicata prima della sua elevazione al
Generalato, avvenuta nel 1254, e fu chiamata la terza leggenda.
Molto più completa delle altre due, superiore assai or l'ordine e
per lo stile a quella di Costantino Medici. contemporanei di S.
Domenico cominciavano ad invecchiare e a diminuire; in questa vita
si sente che il orto ha voluto raccogliere quanto aveva da loro
saputo, affinché nessuna di tali memorie andasse perduta. Il suo
lavoro è stato pubblicato dal Mamachi
VII. Cronaca dell'Ordine dei Frati
Predicatori del B. Umberto.
Questa cronaca breve, ma molto notevole per la
distribuzione dei fatti, va dal 1202 al 1254. Può vedersi nel
Mamachi.
VIII. Vita di S. Domenico di Bartolomeo di
Trento, dell'Ordine dei Frati Predicatori.
E’ una relazione brevissima, la cui data può
stabilirsi fra il 1234 e il 1251; ma non fu annoverata fra le tre
grandi leggende scritte fra il 1233 e il 1254. I Bollandisti
l'hanno pubblicata nel primo tomo d'agosto della loro collezione.
IX. Vite dei Frati dell' Ordine dei
Predicatori di Gerardo di Frachet, dello stesso Ordine.
A questa opera fu dato mano per ordine del
Capitolo generale riunito a Parigi nel 1256, coll'intendimento di
salvar dall'oblio buon numero di fatti eroici che avevano
illustrato i primi tempi dell'Ordine, e che erano tuttavia nella
memoria dei vecchi. Il Beato Umberto, allora. Generale, incaricò
di questo lavoro Fra Gerardo di Frachet, francese di nascita, e
celebre predicatore. Egli corrispose ai voti del suo Ordine con
un'opera di squisita semplicità, sulla quale non potresti por
mano senza guastarla. La intitolò: Vite dei Frati, e la divise in
quattro parti, la seconda delle quali si riferisce a S. Domenico,
ma non contiene che alcuni fatti, sfuggiti alle leggendo
anteriori. L'opera intiera è stata stampata a Donai nel 1619.
X. Relazione di Suor Cecilia.
Suor Cecilia della famiglia Cesarini, fu una
delle religiose che S. Domenico trasferì dal monastero di Santa
Maria in Trastevere a quello di S. Sisto. Ella aveva allora 17
anni. Di 22 anni fu mandata priora nel monastero di Sant'Agnese di
Bologna, dove visse fino al 1290 in concetto di santità. Fra le
religiose dello stesso monastero di Sant'Agnese ve n'era una
chiamata Suor Angelica, a cui Suor Cecilia confidò
particolarmente tutto ciò che ella aveva veduto di S. Domenico,
nel tempo che il Santo dimorò a S. Sisto e a Santa Sabina. Suor
Angelica ne scrisse la relazione sotto gli occhi stessi di Suor
Cecilia; relazione ammirabile per la semplicità della narrazione,
e che meglio d'ogni altra storia ci introduce nella vita intima
del Santo.
Questa relazione finisce così: «Quanto è
stato qui riferito intorno al Beato Domenico, lo ha raccontato
Suor Cecilia la quale afferma che tutto è così vero, che ella è
pronta, ove fosse necessario, a confermarlo con giuramento. Ma
questa precauzione è inutile; tanta è la santità e la devozione
di questa religiosa, che non si dura fatica a credere ai suoi
detti. Onde Suor Angelica, del monastero di Sant'Agnese, ha
scritto ciò che da Cecilia ha sentito dire sul nostro Beato Padre
Domenico, a gloria del nostro Signor Gesù Cristo, ed a
consolazione dei Frati. Voi che leggete, perdonate allo stile,
poiché essa non sa di grammatica».
Questa relazione e le leggende del Beato
Giordano di Sassonia, di Costantino Medici, e del Beato Umberto,
sono i quattro principali e primitivi documenti intorno alla vita
di S. Domenico. La sua data è da fissarsi al tempo in cui Suor
Angelica viveva in Bologna, nel monastero di Sant'Agnese, cioè
verso il 1240; ma non fa conosciuta che più tardi, cioè negli
ultimi 30 anni del secolo tredicesimo. Il Mamachi ne, ha
pubblicato il testo.
XI. Cronaca Vaticana.
Questa cronaca è anonima, e dal tempo di S.
Domenico va fino al 1263. Si trova anche questa nel Mamachi.
XII. Dei sette doni dello Spirito Santo, di
Stefano di Borbone, dell'Ordine dei Frati Predicatori.
Stefano di Borbone entrò nell'Ordine nel 1219,
e morì nel 1261. Il suo libro dei Sette doni dello Spirito Santo
contiene molte cose relative alla vita di S. Domenico, raccolte
dalle leggende che correvano in quel tempo.
XIII. Il bene universale delle Api di
Tomaso da Catimprè, dell’Ordine dei Frati Predicatori.
Questo libro pubblicato verso l'anno 1261,
tratta in vari luoghi di S. Domenico e del suo Ordine.
XIV. Specchio istorico di Vincenzo Beauvais,
dell'Ordine dei Frati Predicatori.
Molti capitoli di questa opera sono consacrati
a S. Domenico, e fu scritta quasi contemporaneamente alla
precedente.
XV. Vita del Beato Domenico di Rodrigo di
Cerrat, dell'Ordine dei Frati Predicatori.
Rodrigo di Cerrat, nato in Ispagna nella valle
di Cerrat, presso Palenza, fiorì negli ultimi trent'anni del
tredicesimo secolo. La sua leggenda è una imperfetta compilazione
tratta dalle precedenti. Non se ne sa la data precisa, ma
certamente è posteriore all'anno 1265, perocchè vi si parla del
convento fatto edificare da Alfonso il Savio a Calaruega nella
casa ove nacque S. Domenico. Si trova anche questa nel Mamachi.
XVI. Vita di S. Domenico di Teodoro d’Apolda,
dell’Ordine dei Frati Predicatori.
Il tredicesimo secolo era prossimo a finire.
Munione di Zamora, settimo Generale dell'Ordine dei Frati
Predicatori, stimò opportuno riunire come in un grande quadro
tutto ciò che precedentemente era stato scritto sulla vita di S.
Domenico, e di inserirvi anche quei minimi frammenti sfuggiti alle
pie cure degli agiografi. Ne diede l'incarico a Teodoro d'Apolda,
Domenicano tedesco, della borgata d'Apolda, tra Iena e Weimar.
Questi, conforme agli ordini del suo Generale, pubblicò verso il
1288 una nuova vita di S. Domenico, molto più ampia di tutte le
altre, nella compilazione della quale ,fu adoperata per la prima
volta la relazione di Suor Cecilia, rimasta fino allora nell'ombra
del monastero di Sant'Agnese a Bologna. Questa Vita è fatta con
amore, ma con poco ordine, ed in uno stile che troppo si dilunga
dalla semplicità dei primi storici, quantunque non manchi di
forza, né di unzione. Teodoro d'Apolda chiude, la serie degli
scrittori che avevano comunicato coll'istesso S Domenico, e coi
discepoli che gli sopravvissero. Tutto ciò che si poteva sapere
intorno al suo eroe, ei lo seppe; raggranellò anche gli ultimi
avanzi della messe; e malgrado il volger dei tempi, malgrado
l'enorme differenza che corre fra il suo stile e quello del B.
Giordano di Sassonia, trovasi nel suo libro il carattere di S.
Domenico senz'alcuna alterazione. Siamo debitori ai Bollandisti
della pubblicazione di questa lunga, ed ultima leggenda.
XVII. Cronaca dell'Ordine dei Frati
Predicatori, di Galvano Fiamma.
Galvano Fiamma, nato nel 12831 entrò
nell'Ordine nel 1298. La sua cronaca utile per alcune
particolarità, non è stata stampata. Ne esiste una copia
manoscritta nella Biblioteca Casanatense, nel convento della
Minerva a Roma.
XVIII. Delle quattro cose, di cui Dio ha
onorato l'Ordine dei Frati Predicatori, di Stefano di Salanhac
del medesimo Ordine.
Stando al tempo in cui visse, e nel quale
scrisse Stefano di Salanhac, dovremmo riporlo fra gli agiografi
del tredicesimo secolo, immediatamente avanti a Teodoro d'Apolda.
Imperocchè egli nacque nell'anno 1210, ricevè l'abito di Frate
Predicatore nel 1230 dalle mani di Pietro Cellani, e finì Il suo
trattato verso il 1278. Disgraziatamente non abbiamo questo
trattato, quale usci dalla sua pen na: ecco come ci è pervenuto.
Nel 1304 il Padre Almerico di Piacenza essendo stato eletto
Maestro Generale dell'Ordine nel Capitolo Generale riunito a
Tolosa, comandò a Bernardo Guidonis, domenicano già noto pel suo
zelo e la sua scienza, di riunire insieme quanto potesse'trovar
d'inedito sulla storia dell'Ordine. Bernardo Guidonia gli rese
conto delle sue ricerche in una lettera del, medesimo anno 1304,
nella, quale prima di tutto fa menzione del trattato di Salanhac
ch'egli dice di avere scoperto, e di avervi aggiunte diverse cose
tralasciate dall'Autore; come avverte premurosamente al principio
e alla fine del trattato; facendo anche sapere che per lo più le
sue giunte le aveva poste in margine, ma non sempre. Perciò
quando anche avessimo oggi il trattato di Salanhac quale lo
pubblicò Bernardo Guidonis, non avremmo che un'opera mista, nella
quale sarebbe impossibile discernere la prima mano dalla seconda.
Ma la negligenza dei copisti ha grandemente cresciuta questa
confusione; imperocchè nei manoscritti di Salanhac, che tuttavia
esistono, le note marginali destinate ad indicare la maggior parte
delle aggiunte, sono al tutto disparse. Il trattato di Salanhac
non ha dunque la sua originaria importanza, e non ha altra
autorità se non quella del tempo in cui il Guidonis lo mise in
ordine, facendone un'opera. Così è che vi sono parecchie cose
che non concordano coi documenti del secolo decimoterzo. Questo
trattato non è stato mai stampato. So ne conserva il manoscritto
nella Biblioteca Casanatense del convento della Minerva in Roma.
XIX. Vita di S. Domenico, di Pietro Cali.
Questa leggenda è una specie di raccolta. I
suoi dodici primi numeri o paragrafi son presi dal trattato di
Stefano di Salanhac, ed il resto non è che un'accozzaglia di
aneddoti senza ordine. Nella parte copiata da Stefano di Salanhac,
l'autore ha anche accresciute le aggiunto che avevano di già,
corrotto l'opera di Stefano. Pietro Cali scrisse nel 1324, più di
un secolo dopo la morte di S. Domenico, come risulta dal paragrafo
dodicesimo della sua leggenda, in cui parla della promozione di
Bornardo Guidonis al vescovato di Lodève; promozione che ebbe
luogo nel 1324 sotto il papa Giovanni XXII.
Sino alla fine del XV secolo S. Domenico non
ebbe più storici se non in piccolissimo numero; e questi si
restrinsero a copiare le leggende del secolo decimoterzo, se ne
eccettui il domenicano Bretone Alano de la Roche, che corruppe
tutte le tradizioni scrupolosamente rispettate fin allora, e
pretese scrivere la Vita di S. Domenico per mezzo di rivelazioni
particolari, fondandosi su autori, di cui nessuno aveva mai
sentito parlare, né trovasi traccia in alcun luogo. Sant'Antonino
Arcivescovo di Firenze, morto nel 1459 è il contrapposto di Alano
de la Roche pel suo esemplare rispetto ai monumenti primitivi.