Tiro al Pittelli

di Carlo e Giovanni Cannella

Di recente, come è noto, l'on. Pittelli ha predisposto un testo unificato dei vari disegni di legge della maggioranza in tema di riforma del processo penale.

A nostro avviso (ma anche di magistrati, studiosi, professori universitari) il testo è una costellazione di mine al funzionamento del processo.

Esamineremo in breve le mine più esplosive, le stelle più abbaglianti della costellazione, le migliori perle del paniere. Iniziamo quindi il tiro al Pittelli.

a) Incompatibilità (art. 1 e 2 che modificano gli artt. 34 e 35 c.p.p.)

Si inizia con l’estendere le ipotesi di incompatibilità di giudici e Pm, oltre che a qualsiasi tipo di provvedimento nei confronti dello stesso imputato, anche ai casi di procedimento connesso o collegato.

La disposizione è chiaramente ispirata all’ormai cronica sfiducia e "legittimo sospetto" verso giudici e Pm, che sono ormai per definizione prevenuti, basta che si siano occupati anche molto indirettamente del contendere.

L’aumento a dismisura delle ipotesi di incompatibilità creerebbe notevoli problemi organizzativi (alla ricerca del magistrato compatibile) e le conseguenze sarebbero pesanti, specie nelle aree di maggior presenza della criminalità organizzata (che ne ricaverebbe oggettivo giovamento) e in particolare nelle piccole e medie sedi del sud per il limitato numero di magistrati in servizio.

Ma non basta! Analoga incompatibilità, relativa ai procedimenti connessi e collegati, è estesa anche ai rapporti tra coniugi, parenti e affini.

Dal giudice predeterminato al giudice prevenuto per legge.

b) Astensione (art. 3, che modifica l’art. 36 c.p.p.)

La disposizione aggiunge alle attuali cause di astensione del giudice (ma pure del Pm ai sensi dell'art. 7 del testo unificato) anche il caso di interesse solo "indiretto" nel procedimento o di inimicizia anche "non grave" (è stato eliminato appunto l’aggettivo "grave"), compresa addirittura l’ipotesi di inimicizia, anche non grave, tra il giudice ed il difensore e, infine, il caso del giudice che ha manifestato opinioni discriminanti in materia, tra l’altro, di "orientamento politico". Il magistrato dovrà inoltre astenersi se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento anche nell'esercizio delle funzioni giudiziarie (essendo stato soppresso l'inciso "fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie" del testo attuale).

La nuova formulazione si presta alle più disparate interpretazioni: può essere considerato, ad esempio, "interesse indiretto" l’adozione di una certa interpretazione di una norma sostenuta dal giudice in una pubblicazione scientifica?

Il "consiglio" al querelante di trovare un accordo con l'imputato, ritirando la querela, per piccole beghe di condominio sfociate in conseguenze penali, obbliga il giudice all'astensione?

E per configurare l’"inimicizia non grave" sarebbe sufficiente una semplice antipatia? Il giudice dovrà badare a non indisporre parti, loro prossimi congiunti e difensori (ad essere simpatico, dotato di un bel sorriso e della battuta pronta!). Sarebbe sufficiente un'animata querelle, frequente nelle aule di giustizia, tra giudice e difensore per costringere il giudice all’astensione? Se così fosse, avvocati disinvolti potrebbero liberarsi, e non certo per un singolo procedimento, ma per tutte le vertenze seguite dal professionista, di giudici non graditi con studiate provocazioni.

Altrettanto inquietante è il riferimento alle opinioni "discriminanti" in materia di orientamento politico. Sarebbe sufficiente qualsiasi critica delle scelte legislative di un gruppo politico? Basterebbe qualsiasi critica, in convegni, articoli, interviste ad una proposta di legge governativa? Basterebbe questo articolo!?

La norma rischia di risolversi in un bavaglio posto ai giudici (e ai pubblici ministeri), a cui sarebbe sostanzialmente impedito, con seri dubbi di costituzionalità, di manifestare liberamente il proprio pensiero, anche su argomenti giuridici, che richiedono al contrario proprio il contributo tecnico dei magistrati.

Senza contare poi il rischio di paralisi delle piccole sedi, già richiamato nel punto precedente.

Dal giudice precostituito per legge al giudice "a la carte".

c) Termini a difesa (artt. 9 e 10, che modificano gli artt. 108 e 108 bis c.p.p.)

Apprezzabile in linea teorica la proposta di modifica in materia di nomina di nuovo difensore dell’imputato, che obbliga il giudice a concedergli un congruo termine per il tempo necessario a rendere effettiva la conoscenza degli atti del processo e lo svolgimento della conseguente attività difensiva. Sarebbe peraltro opportuno prevedere in questi casi la sospensione dei termini per la prescrizione e per la custodia cautelare, per evitare comportamenti dilatori da parte dell’imputato, che potrebbe tentare l’ultima carta, cambiando il difensore (come la squadra di calcio esonera l’allenatore quando sta per retrocedere), anche più volte proprio al fine di far maturare i termini suddetti.

Alla penultima casella si torna indietro come nel gioco dell’oca.

d) Onere della prova (art.13, che inserisce dopo l’art. 187 l’art. 187 bis c.p.p.)

Al Pm spetta ora l’onere di provare la colpevolezza dell’imputato "aldilà di ogni ragionevole dubbio". La previsione va collegata alle analoghe proposte di modifica degli artt. 192 (valutazione della prova), 530 (sentenza di assoluzione), 533 (sentenza di condanna) e 546 c.p.p. (requisiti della sentenza). È una previsione di difficile lettura quanto alle conseguenze pratiche. Sembrerebbe a prima vista una disposizione ultronea, dal momento che forse sfugge ai proponenti che già oggi ogni richiesta del Pm e ogni sentenza di condanna viene certamente emessa "aldilà di ogni ragionevole dubbio", poiché, in presenza di dubbi (ragionevoli), l'imputato verrebbe assolto.

L’impressione è che la disposizione in oggetto potrebbe avere un sapore meramente simbolico, ma non va escluso il rischio che possa comportare interpretazioni eccessivamente restrittive.

Dal libero convincimento del giudice alla verità rivelata.

e) Prove utilizzabili (art. 14, che modifica l’art. 190 bis)

Si prevede l’utilizzabilità delle dichiarazioni di testimoni e di imputati di reato connesso "in ogni caso…soltanto nei confronti dell’imputato il cui difensore ha partecipato alla loro assunzione". La disposizione va oltre la previsione del nuovo art. 111 Cost., che si limita a stabilire che "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore". La norma costituzionale, pertanto, fa salve le ipotesi di impossibilità di ripetere le dichiarazioni del testimone o imputato di reato connesso, non per libera scelta, ma per cause dipendenti da fatti o circostanze imprevedibili, come peraltro disposto dall’art. 513 c.p.p. che non risulta modificato dalla proposta, e che si pone perciò in conflitto con la nuova disposizione.

Probatio diabolica.

f) Valutazione della prova (art.15, che modifica l'art. 192 c.p.p.)

Viene eliminato il principio della sufficienza del riscontro di qualsiasi tipo, anche di carattere omogeneo, alla dichiarazione di un imputato di reato connesso, prevedendo che possano costituire valido riscontro alla dichiarazione di un collaborante solo ulteriori elementi di prova di diversa natura, documentale o testimoniale.

Scomparirebbero molti grandi processi contro la criminalità organizzata basati esclusivamente o prevalentemente sulle dichiarazioni di collaboranti. Non basterebbero, infatti, le dichiarazioni concordi, univoche e convincenti di numerosi collaboranti, che abbiano superato il vaglio dell’attendibilità generale, per fondare la penale responsabilità, in assenza di un riscontro di diversa natura. Trattasi oggettivamente di un grazioso omaggio alla criminalità organizzata: come sarà possibile provare l’appartenenza di un soggetto ad un sodalizio mafioso, dato che non sempre viene redatto un rogito notarile che ne attesti i partecipanti?

La prova scritta della mafia.

g) Sentenze irrevocabili (art. 16, che abroga l'art. 238 bis c.p.p.)

Si prevede l’abolizione del principio dell’acquisibilità delle sentenze definitive al fascicolo del dibattimento, ai fini della prova del fatto in esse accertato. Pertanto in ogni procedimento riguardante l’organizzazione "cosa nostra" sarà necessario iniziare dai "Beati Paoli" per dimostrare l’esistenza dell’associazione.

La mafia non esiste.

h) Informazione di garanzia (art. 17)

In base alla proposta l'indagato, non appena iscritto nell'apposito registro, dovrà essere avvisato dal Pm. Per i reati previsti dall’art. 407 c.p.p. sarà possibile un ritardo massimo di sei mesi, concesso dal Gip, prorogabile una sola volta.

La disposizione comporterà notevoli difficoltà per le grosse indagini contro la criminalità organizzata (rientranti nella deroga dell'art. 407), essendo in sostanza dimezzato il termine di un anno oggi previsto per la richiesta di rinvio a giudizio (prorogabile in caso di particolare complessità). Si pensi ad estese indagini basate su intercettazioni telefoniche ed ambientali, pedinamenti ecc., che richiedono tempi lunghi per individuare tutti i componenti e soprattutto i capi, che farebbero sparire le proprie tracce nel case di prematuro avviso ad uno dei componenti dell'organizzazione.

Ma ancora più gravi appaiono le conseguenze per alcuni reati non inclusi nella deroga, per i quali è prevista pertanto l'immediata comunicazione, come la concussione e la corruzione.

Sarà facile far sparire le prove del reato o condizionare i possibili testimoni. Sarà difficile trovare, in tali condizioni, ancora cittadini disposti a denunciare gli abusi dei funzionari pubblici.

Mai più "mani pulite".

i) Esigenze cautelari (art. 30, che modifica l'art. 274 c.p.p.)

La disposizione eleva da quattro a sei anni il limite minimo di pena, previsto per il delitto per cui si procede, per l'emissione della misura cautelare (custodia in carcere, ecc.) nell'ipotesi di pericolo di reiterazione delle condotte della stessa specie.

In sostanza non sarebbe più possibile, o sarebbe del tutto eccezionale, la misura della custodia in carcere per alcuni reati particolarmente riprovevoli: il pensiero corre in particolare alla corruzione ed ai maltrattamenti in famiglia. La "reiterazione", infatti, costituisce nella prassi l'ipotesi generalmente utilizzata, mentre le esigenze relative al pericolo di inquinamento probatorio ed al pericolo di fuga costituiscono ipotesi residuali e raramente ravvisabili.

Viene mantenuta, tuttavia, per tali reati la possibilità di ricorrere agli arresti domiciliari.

Arresti domiciliari per maltrattamenti in famiglia: a casa del maltrattato.

l) Criteri di scelta delle misure (art. 31, che modifica l'art. 275 c.p.p.)

Viene abolita la presunzione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari per i reati di mafia. Anche per tali reati, pertanto, occorrerà spiegare ogni volta perché "ogni altra misura risulti inadeguata".

La presunzione (salvo la sussistenza di elementi contrari) era stata prevista, ritenendosi implicito il pericolo di reiterazione criminosa nei confronti di un soggetto gravemente indiziato di operare all’interno di un sodalizio mafioso in assenza di elementi di dissociazione.

La riforma potrebbe non avere rilevanti effetti concreti, se sarà ritenuta sufficiente dalla Cassazione una motivazione standard, che richiami la gravità del fatto e il contesto associativo in cui è stato commesso.

Resta in ogni caso il segnale molto preoccupante e indicativo di un abbassamento della guardia nella lotta contro la criminalità organizzata, non più prioritaria.

Il problema non è la mafia ma l'antimafia.

m) Giudice competente (art. 32, che sostituisce l'art. 279 c.p.p.)

In base alla proposta non sarebbe più il Gip ad emettere la misura cautelare, ma un "collegio di tre giudici appartenenti al Tribunale del luogo in cui ha sede la Corte di appello, ovvero una sezione di essa territorialmente competente". Il nuovo organo collegiale non ha ancora un nome: potrebbe chiamarsi Gmc (giudici per le misure cautelari), o Gim (più aziendalista caseario) o Gimca (più efficientista ginnico).

La norma si applicherebbe anche ai reati di competenza monocratica. La conseguenza è paradossale. Per trarre in arresto una persona accusata in flagranza di reato per spaccio di cocaina saranno necessari: un giudice per l’interrogatorio e la convalida dell’arresto, tre giudici per decidere in ordine alla richiesta di misura cautelare (senza contare il riesame), un giudice per l’udienza preliminare. Per giudicarlo ne basta uno solo.

Immaginiamo la scena: nei casi di richiesta di convalida e contestuale richiesta di misura cautelare, il giudice per la convalida si reca in carcere per interrogare l’indagato, decide sulla convalida e poi fa ritorno in tribunale per ricongiungersi con altri due colleghi al fine di decidere sulla misura cautelare, il tutto entro 96 ore dall’arresto. I problemi organizzativi sarebbero enormi e non solo nelle sedi piccole, dove anzi sarebbero irrisolvibili con l'attuale organico.

Sarebbe certo possibile per i tribunali sede di Corte d'appello destinare alla decisione sulle richieste di misure cautelari gli attuali componenti della sezione per il riesame, poiché la relativa competenza, in base alla proposta, passerebbe alla Corte d'appello (riusciranno i giudici d'appello a trasformarsi in sprinters per decidere in tempi brevissimi?). Ma anche in questo caso difficoltà pratiche deriverebbero dalla scissione di competenza tra giudice della convalida e giudice per le misure cautelari, dovendo il primo trasmettere immediatamente gli atti dopo avere deciso sulla convalida ed entro termini ristrettissimi. Inoltre la soluzione non sarebbe applicabile ovviamente nei tribunali che non sono sedi di Corti d’appello.

Sarebbe infine inestricabile il problema dell'incompatibilità tra i giudici negli uffici Gip, già complicato dalle nuove disposizioni generali già commentate (lett. a), e già attualmente in equilibrio precario per l'incompatibilità tra Gip e Gup.

Schizofrenia: tra monocraticità e collegialità.

n) Ricorso immediato in cassazione per questioni preliminari e richieste di prova (art. 39 e 40, che modificano gli artt. 491 e 493 c.p.p.)

Viene riconosciuta la possibilità per le parti di ricorrere immediatamente per cassazione avverso le ordinanze del giudice del dibattimento sulle questioni preliminari e sulle richieste di prova, che attualmente possono solo essere riproposte nei successivi gradi di giudizio.

Il ricorso produce l’effetto di sospendere il dibattimento fino alla decisione della Corte di cassazione e comunque per un tempo non superiore a sei mesi. La proposta prevede in tale periodo la sospensione dei termini di prescrizione e custodia cautelare, ma solo per le questione relative alle prove, mentre la sospensione non è prevista, inspiegabilmente, per le questioni preliminari (è solo una dimenticanza?).

In ogni caso la disposizione produrrà l’inevitabile effetto di allungare i tempi della maggioranza dei processi, creando inoltre inestricabili problemi. Ad esempio nei maxi processi contro la mafia il ricorso in cassazione proposto da alcuni imputati comporta la sospensione dell'intero processo, come sembra dalla perentorietà della disposizione, o è possibile la separazione delle posizioni? Se non è possibile la separazione, la sospensione del processo e dei termini riguarderà solo gli imputati che hanno proposto il ricorso in cassazione, con conseguenti scarcerazioni a valanga? Se è possibile la separazione e il collegio decide la causa per alcuni imputati, diventerà poi incompatibile per gli altri, sulla base delle disposizioni già viste, con conseguente necessità di ricominciare il processo con altre collegio e magari con nuove questioni avanzate dalle parti, nuovo ricorso per cassazione, nuovo stralcio e così via?

Va segnalato anche l’improvviso sovraccarico di lavoro che la proposta produrrà in Cassazione, che certamente non sarà in grado con l'attuale organico di decidere tutti i ricorsi in sei mesi, con la conseguenza che i processi proseguiranno, con il rischio di svolgere un’inutile attività istruttoria in caso di accoglimento del ricorso. Ma la Cassazione, si sa, attende un'importante riforma della sua struttura e sarà potenziata.

Ci si può fidare solo della Cassazione.

o) Videoconferenza (art. 41)

Viene prevista l’audizione in videoconferenza non soltanto per i collaboratori di giustizia, ma anche per gli agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria che prestano servizio in sede diversa dal luogo ove si celebra il dibattimento.

La norma servirebbe ad evitare le continue trasferte degli appartenenti alle forze dell’ordine trasferiti ad altra sede, ma richiederebbe che tutte le aule di giustizia, anche quelle utilizzate per i reati minori dai giudici di pace e monocratici, siano attrezzate per il sistema della videoconferenza.

Nella situazione attuale, tenuto conto del limitato numero di aule dotate di tale sistema e considerati i frequenti trasferimenti di carabinieri e poliziotti, occorrerà prenotare anni prima le aule attrezzate (con allungamento dei tempi del processo) e si rischia di penalizzare i grandi processi contro la criminalità organizzata, che non potranno più tenersi a ritmi sostenuti (l'aula potrebbe essere impegnata per sentire un poliziotto trasferito in altra sede in un delicato processo per resistenza a pubblico ufficiale).

Riforma senza oneri per il bilancio dello Stato?

p) Ammissione di nuove prove (art. 43, che modifica l'art. 507 c.p.p.)

La disposizione abolisce la possibilità per il giudice di disporre d'ufficio, al termine dell’istruttoria dibattimentale, l’assunzione di nuove prove ogni qualvolta ne ravvisasse l’assoluta necessità ai fini della decisione, consentendolo soltanto su istanza di parte e in casi eccezionali (ma quali?).

Si tratta di una brusca virata da un sistema accusatorio attenuato, ad un sistema accusatorio puro, nel quale il giudice è vincolato alle allegazioni delle parti, con una mera funzione notarile di valutazione delle prove. Il giudice deve essere, oltre che puro e ingenuo all’inizio del dibattimento, dovendo ignorare tutto all’infuori del capo d’imputazione, anche apatico e ottuso al termine dell’istruttoria dibattimentale.

Eccola, alla fine, la terzietà del giudice.

q) Determinazione della pena (art. 45, che modifica l'art. 132 c.p.)

Viene introdotta la diminuente obbligatoria di un terzo della pena applicabile all’imputato incensurato. Si badi, non si tratta di applicazione automatica delle attenuanti generiche, ma di riduzione di un terzo, cui potrebbe accompagnarsi l’applicazione delle attenuanti generiche proprio per lo stesso motivo per cui è disposta la riduzione: lo status di incensurato.

La disposizione favorisce i cd. colletti bianchi, normalmente incensurati, ed integra forse un’eccessiva disparità di trattamento sanzionatorio tra soggetti incensurati e soggetti già colpiti da condanne definitive, anche di scarso rilievo (per una rapina in banca in concorso l'incensurato potrebbe vedersi ridurre la pena alla metà).

Ma soprattutto non appare giustificabile una così consistente riduzione di pena (obbligatoria) per quei soggetti, il cui status di incensurato non costituisce un elemento particolarmente significativo, ad esempio per la carica o funzione rivestita dall’imputato (merita una riduzione di pena, solo perché incensurato, il magistrato inserito in un’associazione mafiosa, il sacerdote che adesca un fanciullo, il padre che violenta la figlia, l'assessore che intasca tangenti?).

Meno pena per i potenti.

Settembre 2002

 

 

 

 

 

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