I nuovi squilibri nel rapporto di lavoro*

di Giovanni Cannella

Se volessimo esaminare le attuali condizioni dei lavoratori in Italia attraverso le lenti del disegno di legge sul mercato di lavoro, e ancor di più del libro bianco del ministro Maroni, dovremmo rallegrarci: sembra che i lavoratori abbiano realizzato una vecchia utopia, traguardo di una battaglia plurisecolare.

Non sono più diseguali, si sono completamente emancipati, sono ormai così forti da poter tranquillamente navigare nel mare agitato del mercato, senza particolari tutele, in posizione finalmente paritaria con i datori di lavoro.

La filosofia di fondo delle proposte in discussione è proprio questa: le tutele predisposte a favore dei lavoratori sono ormai inutili, anzi dannose, non solo per i datori di lavoro, eccessivamente onerati da troppe regole vincolanti (si auspicano "meno regole obbligatorie" nel documento comune Berlusconi-Blair sul mercato del lavoro del 15 febbraio scorso), ma anche per gli stessi lavoratori, che ormai sono maggiorenni e sanno aiutarsi da soli.

Si dà per scontato che l'eccessiva tutela nel rapporto di lavoro ostacoli l'occupazione (chissà perché in Irlanda, come scriveva qualche giorno fa Massimo Giannini su "Repubblica", che ha un indice bassissimo di protezione, la disoccupazione è così alta?) e si propone lo spostamento delle tutele dal rapporto al mercato.

Non mi occuperò in questa sede delle tutele nel mercato (collocamento, disoccupazione, cassa integrazione, mobilità, ecc.), limitandomi a dire che nella proposta all'esame del parlamento si ridisegna la disciplina esistente, ma non si prefigurano certamente maggiori tutele, sia per la ricorrente condizione che non vi debbano essere "oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato", sia per l'accentuazione del carattere privatistico della disciplina (ad esempio per il collocamento) con l'esposizione del lavoratore a maggiori arbitrii.

Mi occuperò essenzialmente, e in sintesi, delle tutele nel rapporto, per verificare in che modo le proposte governative squilibrano ulteriormente la bilancia del rapporto a danno dei lavoratori e se davvero questi ultimi siano diventati così forti da potersi difendere da soli.

Con tali proposte, come vedremo, viene messa in discussione (non sembrava fosse possibile) la stessa ragion d'essere del diritto del lavoro, nato dalla constatazione, che fino ad oggi sembrava ovvia, che il rapporto di lavoro non è equiparabile ad un normale rapporto commerciale, a causa dello squilibrio di partenza esistente tra le parti, sia sul piano economico che del potere contrattuale. Il lavoratore, cioè, è la parte debole del rapporto e non può quindi essere lasciato in balìa del datore di lavoro, ma va tutelato attraverso limiti e condizioni.

Per avere efficacia le tutele devono essere inderogabili (ma per l'attuale Governo non è più necessario), non possono essere cioè ridotte o escluse per accordo contrario delle parti, e irrinunciabili, almeno all'inizio o nel corso del rapporto, perché sarebbe facile per il datore di lavoro costringere il lavoratore ad accettare deroghe pur di essere assunto o mantenuto al lavoro.

Inoltre il rapporto non può essere offuscato da maschere formali in ordine alla natura stessa del rapporto o alla sua titolarità, con conseguente prevalenza della situazione di fatto sulle apparenze che il datore di lavoro potrebbe costruire per sottrarsi agli obblighi legislativi (ma anche questo oggi sembra non servire più).

Peraltro, quando si parla di tutele c'è sempre una divaricazione più o meno accentuata tra norma e concreta attuazione e quindi anche le norme che tendono al riequilibrio della posizione di svantaggio del lavoratore richiedono certe condizioni per potere essere applicate.

Non basta cioè il formale principio di eguaglianza se poi rimane sulla carta. E la nostra Costituzione all'art. 3 ha fatto appunto quel passo in più, indicando come compito primario della Repubblica quello di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese" (lo abbiamo ricordato nell'invito a questo convegno).

Il legislatore non deve quindi "rimuovere gli ostacoli" al libero esercizio del potere dell'imprenditore, come si vuole fare oggi, bensì gli ostacoli che impediscono l'effettiva parità, colmando soprattutto lo squilibrio esistente nei confronti dei lavoratori.

Il legislatore negli anni '70 si è ispirato a questo principio, realizzando due riforme fondamentali: lo Statuto dei lavoratori e il nuovo processo del lavoro, peraltro voluti non solo dalla sinistra, ma anche da ampi settori moderati.

Lo Statuto dei lavoratori, non solo con l'art. 18, che garantisce l'effettiva tutela contro il licenziamento illegittimo con la reintegrazione nel posto di lavoro, ma con tutta una serie di norme a tutela della dignità e della libertà della persona-lavoratore dentro l'azienda, sia come individuo che collettivamente tramite i sindacati, è stata una delle riforme che maggiormente ha contribuito alla democratizzazione della società, svincolando il lavoratore da una condizione quasi servile.

Nel disegno di legge delega sul mercato del lavoro, in spregio alla volontà popolare espressa nel recente referendum, si propone, come è noto, la sospensione dell'art. 18, prologo alla sua completa abolizione, nei casi di riemersione dal lavoro nero, crescita dimensionale delle imprese minori, trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato (quest'ultima ipotesi solo per il Sud, in base alla recente modifica al disegno di legge approvata giovedì scorso dal Consiglio dei ministri, con conseguente aggravamento delle condizioni proprio dei lavoratori più deboli).

Prima dell'introduzione dell'art. 18 erano pochissime le cause di lavoro introdotte durante il rapporto e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese fino a 15 dipendenti e in generale per i rapporti precari. Infatti, senza lo scudo dell'art. 18, di fatto il lavoratore non fa valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, nel corso del rapporto per paura di essere licenziato ed è quindi esposto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro. La norma consente quindi l’effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni, costringendo i datori di lavoro ad un maggiore rispetto delle norme di tutela (ciò si è verificato indirettamente anche nelle imprese con meno di 16 dipendenti, escluse dalla tutela reintegrativa, con un effetto imitativo anche per la possibile concorrenza tra imprese per l'acquisizione dei lavoratori migliori).

Ma il progetto complessivo del Governo, come si dirà, inciderà anche sullo Statuto nel suo complesso e quindi anche su quelle norme che garantiscono la dignità e la libera manifestazione del pensiero del lavoratore e l'effettiva presenza in azienda, non più segreta e cospiratrice, del sindacato.

La seconda riforma fondamentale è stata quella del processo del lavoro e anche su di essa interviene oggi pesantemente il Governo, con le proposte relative all'arbitrato e alla certificazione e, indirettamente, allo stesso art. 18, che consente il ricorso alla giurisdizione con minori difficoltà ambientali, e in generale all'estensione delle ipotesi di derogabilità di norme di tutela con il semplice consenso del lavoratore.

Anche in questo caso è utile ricordare che la riforma del 1973, allo scopo di tutelare in modo differente e più incisivo i lavoratori, prevede, come scriveva Pino Borrè, un processo volontariamente diseguale per riequilibrare lo svantaggio di partenza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, realizzando quindi concretamente l'intervento riequilibratore voluto dalla Costituzione.

A parte le singole norme a tutela della parte più debole, il riequilibrio si realizza attraverso la struttura complessiva del processo che tende all'accelerazione della decisione, sul presupposto che nelle cause di lavoro il ritardo danneggia soprattutto il lavoratore. Quindi processo rapido, orale, concentrato, senza inutili rinvii, con decadenze severe che impediscano tattiche dilatorie.

Il giudice diventa attore del processo, e non più passivo spettatore delle iniziative dei difensori, effettua il tentativo obbligatorio di conciliazione, interroga liberamente le parti e decide senza vincoli e limitazioni i mezzi istruttori necessari, anche d'ufficio.

La giurisdizione quindi è, finalmente, piena protagonista della realizzazione dei diritti dei lavoratori per la posizione di effettiva terzietà del giudice, che va esercitata anche come riequilibrio della posizione di svantaggio del lavoratore, non solo nel rapporto di lavoro, ma anche nel processo, potendo egli contare su minori mezzi economici per esercitare la difesa, ma dovendo anche scontare, ad esempio, difficoltà istruttorie per i condizionamenti che il datore di lavoro può imporre ai testi dipendenti.

Per questo la giurisdizione viene preferita al ricorso agli arbitri, che viene consentito solo se previsto dai contratti collettivi, con esclusione di pronuncia secondo equità e con l’impugnabilità del lodo anche per violazione dei contratti collettivi (esattamente il contrario di quanto si propone oggi).

Sembrava che finalmente i lavoratori potessero contare su una tutela ampia e soprattutto effettiva, non sufficiente ad un completo riequilibrio di una posizione che rimaneva comunque più debole rispetto all'altra parte contrattuale, ma almeno tale da ridurre notevolmente la forbice dello squilibrio.

Negli anni successivi le due riforme sono state messe a dura prova, da un lato per una sempre più accentuata precarizzazione del mondo di lavoro (con l'aumento dei rapporti autonomi, a termine, interinali, ecc.), che ha ridotto sempre più l'ambito di applicazione dello Statuto dei lavoratori, dall'altro per la crisi della giustizia del lavoro, paradossalmente causata propria dalla sua efficacia.

Infatti, lo scudo dell'art. 18, rafforzato da una rapida tutela contro i comportamenti antisindacali dell'imprenditore, hanno consentito a moltissimi lavoratori di ricorrere al giudice, con conseguente notevolissimo incremento delle cause, anche per il trasferimento alla giurisdizione del lavoro di sempre più ampi settori (fino alla recente acquisizione del pubblico impiego).

Cosa ci si doveva allora aspettare da un legislatore rispettoso del dettato costituzionale? Come "rimuovere gli ostacoli" al funzionamento delle due riforme che più di tutte avevano provato a "rimuovere gli ostacoli" alla realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale nel mondo del lavoro?

Con riguardo allo Statuto dei lavoratori sarebbe stato necessario estendere ai lavoratori precari, sempre più numerosi, almeno una parte delle garanzie accordate ai lavoratori stabili, come le stesse istituzioni europee (più volte richiamate a sproposito nel libro bianco) richiedono, sottolineando per tali lavoratori i particolari rischi di mobbing e di stress lavorativo.

Con riferimento al processo sarebbe stato necessario intervenire tempestivamente, adeguando o meglio distribuendo gli organici in rapporto all'aumento della domanda e, soprattutto, delle nuove rilevanti fette di giurisdizione attribuite al giudice del lavoro.

I governi precedenti, anche di centro-sinistra, non hanno certo brillato nella soluzione di questi problemi, contribuendo anzi alla sempre maggiore precarizzazione del mondo del lavoro e intervenendo sugli organici del lavoro, tardivamente, solo con l'aumento disposto nel 2001, peraltro ancora sulla carta.

Il governo attuale propone di risolvere alla radice i problemi, da un lato rendendo precari anche i lavoratori stabili e dall'altro rendendo marginale la giurisdizione del lavoro.

I lavoratori stabili diventano precari con l'intervento sull'art. 18. Abbiamo già visto le conseguenze: riduzione della tutela del lavoratore, non solo in occasione della cessazione del rapporto ma con riguardo a tutti i diritti, che non sarebbero più esercitabili senza rischi di ritorsioni.

Ma non basta: il disegno di legge propone anche una sempre maggiore estensione dei rapporti precari e una sempre maggiore libertà degli imprenditori da vincoli di ogni tipo, ad esempio in tema di collocamento (scelte sempre più libere nelle assunzioni), di trasferimento d'azienda (con la possibilità di trasferimento da un'azienda all'altra anche di singoli lavoratori senza il loro consenso), di appalto di mano d'opera (meno vietato con un ritorno al vecchio e infame caporalato).

Quanto alla marginalizzazione della giurisdizione del lavoro, essa si inserisce, a mio avviso, a pieno titolo nel progetto complessivo di riduzione del controllo di legalità, di limitazione del preteso strapotere della magistratura nei confronti di soggetti, che poi, guarda caso, coincidono con i poteri forti, e in particolare con il potere economico e imprenditoriale. Si tratta di un progetto che si sta realizzando, non solo attraverso i vari interventi legislativi nei diversi settori, di cui si è parlato anche nelle precedenti relazioni, ma anche con la normalizzazione del Csm e con le recentissime proposte di riforma dell'ordinamento giudiziario (con il ritorno, ad esempio, al controllo della Cassazione sul resto della magistratura, che ne aveva impedito fino agli anni '50 un'effettiva indipendenza).

Nel settore del lavoro dal libro bianco traspare una chiara volontà di marginalizzazione dell'intervento del giudice, con la scusa dei tempi lunghi della giustizia e, addirittura della scarsa "qualità professionale con cui sono rese le pronunce".

Nel disegno di legge ciò si esprime con la proposta di un libero ricorso all'arbitrato senza i vincoli attualmente previsti a tutela dei lavoratori per evitare gli abusi che potrebbero derivarne. E' consentito l'arbitrato anche se non previsto dai contratti collettivi e con giudizio secondo equità, anche in violazione di norme inderogabili di legge e degli accordi sindacali, impugnabile solo per vizi procedimentali, vanificando così anche il limite contenuto nella delega del "rispetto dei principi generali dell'ordinamento", che potrebbero essere violati dagli arbitri senza alcuna possibilità di impugnazione.

E' evidente che la proposta mette in grave pericolo l'intera struttura di garanzia del rapporto di lavoro, nonostante la formale "volontarietà" del ricorso agli arbitri: il lavoratore, pur di essere assunto, sarà portato a sottoscrivere clausole compromissorie ad uso e consumo del datore di lavoro, senza alcuna garanzia, che potrebbe derivare dall'intervento dei sindacati ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero terza del collegio arbitrale.

Un altro attacco all'intervento del giudice discende dalla proposta di "certificazione" della natura del rapporto, accertando cioè in anticipo, con una procedura assistita, se si tratta di rapporto autonomo o subordinato. La "certificazione" non sarebbe certo vincolante per il giudice, ma avrebbe comunque un peso molto rilevante sulla qualificazione. Già oggi la giurisprudenza dà un notevole peso alla definizione del rapporto data dalle parti (molti giudici di merito gli danno ormai un peso esclusivo) ed è facile quindi immaginare cosa succederà con l'approvazione di tale disposizione. Si tenderà a dare rilievo esclusivo alla "certificazione", a cui il lavoratore difficilmente potrà sottrarsi all'inizio del rapporto (per lavorare spesso si accetta qualsiasi condizione), mentre la formula della procedura ed anche lo stesso termine usato, "certificazione", che dà un connotato quasi legale all'accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell'ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate nella "certificazione". Viene messa in discussione quindi una delle caratteristiche fondamentali del diritto del lavoro, di cui si è già parlato, e cioè la prevalenza della sostanza sulla forma con seri rischi di sfruttamento del lavoratore.

In generale poi, nel disegno di legge delega, si assestano alcuni colpi (ma è solo un'anticipazione) ad un altro principio fondamentale del diritto del lavoro, di cui si è detto, e cioè la inderogabilità delle norme di tutela del lavoratore, consentendo in alcuni casi che le parti possano accordarsi diversamente, con conseguente riduzione anche per tale via dell'intervento del giudice.

Come si vede il sistema delineato colpisce pesantemente la rete di tutele accordato al lavoratore, creando nuovi squilibri a favore del datore di lavoro.

Ma è solo l'inizio!

Il disegno di legge delega è solo una prima anticipazione del progetto complessivo dell'attuale governo contenuto nel libro bianco del ministro Maroni.

Vediamo, in estrema sintesi, cosa progettava il Governo con il libro bianco e cosa intende il ministro Maroni quando parla, frequentemente in questi giorni, di "Statuto dei lavori".

Secondo il progetto, il legislatore nazionale dovrà limitarsi ad emettere norme relative ai principi fondamentali, con la tecnica delle soft laws ("norme leggere"), che vincola ad obiettivi e non a comportamenti, peraltro solo se non sono già intervenute le parti sociali (principio di sussidiarietà). Il legislatore regionale potrà intervenire, specificando i principi definiti nazionalmente e avrà competenza esclusiva in tutta la disciplina del lavoro nel rispetto di quei principi. Tutte le norme nazionali e regionali saranno derogabili, ad eccezione del ristretto numero di principi di tutela comuni a tutti i lavoratori, anche autonomi. Anche il contratto individuale potrebbe derogare tutte le norme, nazionali, regionali e di contratto collettivo, salvo l'eccezione suddetta.

Qui davvero lo smantellamento del sistema di tutele predisposte a favore del lavoratore sarebbe completo, con un complessivo disegno non innovativo ma restauratore del pieno liberismo ottocentesco, poiché verrebbero abolite o rese derogabili, dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata o, addirittura, dal contratto individuale, gran parte delle norme in materia (non solo quasi tutto lo Statuto dei lavoratori, non solo tutta la normativa sui licenziamenti e tutte le leggi di tutela successive alle Costituzione, ma, addirittura, anche le leggi fasciste del ventennio).

A voler prendere alla lettera le affermazioni contenute nel progetto, la riforma travolgerebbe, o almeno renderebbe derogabili, anche norme costituzionali e principi contenuti nella Carta europea dei diritti fondamentali.

E' questo quindi il famoso "Statuto dei lavori", di cui si parla tanto: poche tutele per tutti i lavori, sia autonomi che subordinati, e il resto tutto derogabile e quindi pesantemente condizionato al potere forte dell'imprenditore.

In conclusione, come dicevo all'inizio, il progetto governativo mette in discussione la stessa ragion d'essere del diritto del lavoro e cioè la necessità di tutelare in modo speciale il lavoratore come parte debole del rapporto di lavoro, e ciò in spregio del principio costituzionale di eguaglianza sostanziale e della democrazia come disegnata dalla Costituzione e fino ad oggi ancora vigente.

Roma, 18.3.2002


* Relazione al Convegno "Il diritto dei forti" del 18.3.2002, organizzato da questa Rivista.

Per un più ampio esame del disegno di legge delega sul mercato del lavoro si rinvia all'articolo "Verso un lavoro senza diritti" di Giovanni Cannella, pubblicato a dicembre 2001 da questa rivista.

 

 

 

 

 

Inizio pagina

Prima pagina

 

 

Omissis

a cura di magistratura democratica romana


Chi siamo
Come eravamo
Legislazione
Giurisprudenza
Migranti
Archivio
Satira giuridica

Siti di interesse

Prima pagina

 

Scrivi

Suggerimenti

critiche

articoli

notizie