Giudici a sinistra*

di Mario Cicala

riflessione su Giovanni Palombarini, giudici a sinistra (i 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia), ESI Napoli, 2000, pp. 337, lire 45.000.

Con una postilla su Giurisprudenza ed evoluzione della società



1. Diceva Giovannino Guareschi che in questo porco mondo dove è così difficile trovare un vero amico, qualche volta è una consolazione trovare almeno un vero nemico. E certo Giovanni Palombarini è -almeno per chi la pensa come me- un vero, simpatico, nemico (ideologico ovviamente si intende non personale) sincero come il vino d'uva, genuino come il formaggio della Valgrana. Ora è anche una fonte preziosa di documentazione, che integra ed in gran parte conferma i dati contenuti in "Toghe Rosse" di Francesco Misiani.
Fazioso confesso e senza tentennamenti Palombarini ha scritto una storia di Magistratura Democratica ove tutti i "buoni" sono di MD, e tutti quelli che non aderirono ad MD o non esistono, o sono per definizione "cattivi"; escluso Salvatore Giallombardo, che pur condividendo le idee di MD preferì, con mirabile coerenza, "rimanere alla guida di Terzo Potere" (pag. 44 ). Tutti gli altri compaiono nel libro di Palombarini solo per peccare ai danni di MD, o macchiarsi di qualche altra grave colpa contro il "dio del progresso". Il lettore non riesce così -ad esempio- a capire da dove siano piovute certe decisioni unanimi del direttivo della ANM che pur Palombarini apprezza; chi mai avrà proclamato lo sciopero del 1991 detto "contro Cossiga e Martelli" , se MD era minoranza nella ANM?.
Il buon Palombarini ha pronta una spiegazione: "su sollecitazione dei rappresentanti di MD nella giunta centrale della ANM fu organizzato uno sciopero unitario di magistrati ed avvocati (l'ultimo che vide protestare insieme le due categorie)".
Dunque, in conformità alla "vulgata" cara a "Il Gionale", la ANM si "appiattì" sulle posizioni di MD. Francesco Cossiga si è accorto che il suo avversario più duro è stato Marcello Maddalena, e infatti nel suo recente libro-intervista (La passione e la politica, Milano 2000, pag. 199) si scaglia contro di lui con violenza (mentre ha parole di apprezzamento per MD); ma questo fatto è sfuggito a Palombarini, che, per collocare MD al centro del mondo, è costretto ad altre numerose inesattezze.
MD -al momento della proclamazione dello sciopero- non faceva parte della Giunta Esecutiva Centrale e, soprattutto, la proposta di sciopero partì da MI; MD ed Unicost preferirono però temporeggiare e così si prestò il fianco all'accusa secondo cui la agitazione sarebbe stata concordata con la sinistra politica.
C' è poi da aggiungere che lo sciopero- purtroppo- non coinvolse la Avvocatura, ebbe solo la solidarietà di alcune associazioni forensi, ma la ostilità delle Camere Penali.
La sottovalutazione da parte di Palombarini di tutto quanto è accaduto in questi 36 anni fuori dei piccoli confini di MD non è però frutto di sterile vanità di gruppo, o di personale acrimonia verso gli "infedeli"; costituisce il fondamento e la giustificazione politica di tutta la sua ideologia,
Così Palombarini non considera quale fosse la "sinistra" in cui MD si collocò alla sua nascita nel 1964. Non era la sinistra dei "liberal" americani, o dei laburisti inglesi; era, in Italia, una sinistra sotto il peso della figura di Stalin (anche Nenni aveva ricevuto ed accettato il "premio Stalin"), nel suo insieme poco propensa a censurare i gulag (i più ne negavano l'esistenza), schierata nella sua stragrande maggioranza a fianco dei carri armati con la stella rossa all'assalto di Budapest. Il Lelio Basso fischiato dai magistrati tradizionalisti al congresso di Gardone (pag. 55) non era solo l'inventore del 2° comma dell'art. 3 Cost., era anche un socialista "carrista"; che aveva cioè approvato nel 1956 l'intervento dei blindati sovietici contro la rivolta ungherese.
L'ipotesi che ad un possibile avvento al potere della sinistra facesse seguito se non una repressione violenta degli oppositori, quanto meno una epurazione dei funzionari e (dei magistrati) definiti "fascisti" non era dunque (o almeno a noi non appariva) campata in aria (se ne poteva scorgere anche una minaccia in certe prese di posizione specie a livello di stampa).
Francamente, per chi ricorda il clima di allora, riesce difficile comprendere lo sdegno con cui i magistrati di sinistra accolsero allora (e ancor oggi Palombarini, pag. 48) la diffusione tra i colleghi di una spiritosa lettera indirizzata al "compagno giudice", con cui un futuro (per grazia di Dio soltanto ipotetico) "Ministro della giustizia popolare" invitava i magistrati a frequentare "corsi specializzati (ed obbligatori) di marxismo-lelinismo"; ma è risaputo che i rivoluzionati mancano di senso dell'umorismo, mentre vale la massima "sorride troppo, certo è un reazionario".
Mentre fu, specie fra il 1968 e il 1972, diffuso il timore che dalla variegata area della sinistra potessero affiorare atti di violenza; e quindi vi furono preoccupazioni che le (legittime) ma molto severe polemiche contro atti giudiziari definiti frutto di sentimenti reazionari potessero (involontariamente) indicare un bersaglio. Le scritte sotto casa "qui abita il fascista tal dei tali" che decorarono abitazioni di colleghi erano una minaccia, non una critica. Altri dovettero consolare i figli sconvolti da insegnanti "democratici" che avevano affermato avanti alla classe che il loro padre era "nemico del popolo".
Del resto, come oggi pacificamente ammette, da ultimo, il senatore Pellegrino (Segreto di Stato, Milano 2000, pag. 125) all'interno della sinistra nacquero le "brigate rosse" e una "Lotta Continua", che con buona pace dei difensori di Sofri, del tutto pacifica non era, se il 1° ottobre 1977 in una "spedizione punitiva" contro il bar "Angelo Azzurro" di Torino i militanti di LC lanciarono all'interno di un palazzo abitato non coriandoli, o sassi, ma micidiali bottiglie molotov (morì un giovane e tre persone furono date in fin di vita). In questo quadro si colloca del resto, l'iniziativa dell'on. Pajetta di indurre i brigatisti rossi a consegnarsi al giudice "amico" Ciro De Vincenzo (poi deputato e quindi notaio), "garantendo l'impunità o quanto meno una forte indulgenza" (Pellegrino, op. cit., pag. 129).
Certo la sinistra tutta stentò a riconoscere e ad ammettere, il colore rosso delle BR; la difesa, da parte della sinistra politica e di MD, dell'avv.to Lazagna incriminato da Giancarlo Caselli non nacque forse solo dall'inflessibile garantismo delineato dall'A. (pag.97), forse fu anche l'ultimo disperato tentativo di negare il colore rosso delle BR, di sostenere la menzogna secondo cui erano "brigate nere laccate di rosso". Ed una parte della sinistra (non MD) ebbero difficoltà a prendere le distanze dalla violenza; quella terroristica fu subito condannata, quella diffusa, delle molotov, si stentò di più ad emarginarla.
Tutto questo è stato superato con sofferenza quando la sinistra italiana, e con essa MD, portarono alle logiche conseguenze scelta legalitaria e nazionale, e pagarono la loro parte di tributo di sangue; come dimenticare Rossa, Galli e Alessandrini?.
Le mie scelte di fondo all'interno della ANM sono ispirate proprio alla memoria della morte loro e di tanti altri (in particolare degli uccisi nella strage "di Stato" della stazione di Bologna); e poggiano anche sulla voluta dimenticanza delle ferite che la violenza rossa ha inferto alla mia famiglia.
Furono nel corso degli anni lentamente, superando reciproche diffidenze, anche attraverso scontri aspri ma leali, gettate le basi di un comune sentire che ha via via costruito l'attuale assetto della magistratura che non è né di destra né di sinistra; è, con tutti i suoi limiti, un valore per il Paese (o la Patria, se si preferisce).
Ma se non si prende atto delle ragioni storiche che assistevano i magistrati "tradizionalisti" di cui mi onoro di aver fatto e di far parte, se non si considerano i fatti che giustificavano le nostre preoccupazioni, non si fa solo un cattivo servizio alla verità (il che sarebbe il meno trattandosi di fatti ormai remoti se non nel tempo certo nella loro rilevanza storica), si pregiudica la faticosa ricerca di linee ideali comuni a tutti i magistrati.
Questo -sia ben chiaro- non perché qualcuno di noi si offenda o si adonti: le critiche di Palombarini ci fanno sentir giovani, ci riportano ai "favolosi anni '60". Il racconto di Palombarini non danneggia MI, ma MD; rischia di generare un improduttivo isolamento, di alimentare all' interno di MD quella acritica convinzione di essere sempre stati nel giusto, che sovente induce gli uomini a commettere sciocchezze (non solo gli aderenti ad MD, per carità!, pericolo analogo aleggia su qualunque assemblea monocolore anche di MI).
Tale convinzione impedisce -a mio avviso- a Palombarini di rendersi conto che le sue tesi circa i compiti politici di una "corrente", se trionfassero condurrebbero alla disgregazione della istituzione giudiziaria.
A una parte di MD sfugge che se fosse compito delle correnti esprimere giudizi sulle vicende giudiziarie, questo ruolo non spetterebbe solo ad MD, spetterebbe anche agli altri gruppi.
Perché solo Sofri deve aver goduto del privilegio di un intervento a suo favore del Consiglio nazionale di MD, intervento -nota Palombarini (pag. 297, nota 15)- efficace perché indusse il Presidente Brancaccio ad assegnare uno dei ricorsi dell'imputato alle Sezioni Unite (che accolsero il gravame)? Perché solo quando venne imputato Lazagna si riunì un gruppo di magistrati per valutare se il supporto probatorio (coperto da segreto) fosse sufficiente a giustificare la detenzione? E quindi Lazagna ebbe il pubblico sostegno di un gruppo di giudici, che sbagliarono pure le valutazioni perché Palombarini lealmente riconosce che prove contro Lazagna ce n'erano.
Non potrebbero con pari legittimità esserci ordini del giorno di Magistratura Indipendente che, ad esempio, censurassero l'arresto del medico di Napoli che ha ucciso un rapinatore, o auspicassero la "mano pesante" con i recidivi, con i clandestini? Certo la popolarità di MI salirebbe alle stelle, ma dopo cosa resterebbe di una istituzione giudiziaria in cui le indagini, le sentenze siano precedute, affiancate, seguite da dichiarazioni di gruppi associativi che applaudono, fischiano, censurano o lodano, sia pure utilizzando un linguaggio togato e "colto"?
Giungiamo così al nodo centrale della imparzialità e della sua apparenza. La linea che Palombarini propone ad MD, e che per fortuna è stata respinta dalla maggioranza di MD stessa, offre il fianco ad accuse di parzialità, che noi crediamo infondate ma sovente si presentano con una apparenza di credibilità.
Come far credere alla opinione pubblica che il magistrato appartenente ad un gruppo che ha discusso di un processo ed ha formulato collettivamente un giudizio sul processo stesso, è terzo ed imparziale se poi deve occuparsi di quella vicenda giudiziaria?
La maggioranza di MD si mostra consapevole del pericolo costituito da una corrente di magistrati che pretendesse di farsi corrente giurisprudenziale; e perciò ha chiuso -con il rimpianto dell'irriducibile Palombarini (pagg. 171 e segg.)- la rivista Qualegiustizia che a questo progetto era dichiaratamente strumentale.

2. MD si è - mi sembra- resa conto di quello che è il pericolo maggiore delle tesi di Palombarini: esse sviano l'attenzione dai nodi centrali della tematica giudiziaria.
Oggi in Italia il problema non è se la applicazione delle leggi sia sufficientemente garantista, è semplicemente che le leggi non vengono applicate. Il problema non è il colore dei magistrati, è la loro credibilità complessiva. E sarei ben contento se questa credibilità fosse incrinata soltanto dalle prese di posizione "politiche" di MD.
Le prese di posizione "politiche" di MD offrono un diversivo, creano talvolta la necessità spesso il pretesto per perder tempo in diatribe di scarso spessore e tanto clamore.
Gli ordini del giorno sulla "Guerra del Golfo" sulla collocazione di aerei da combattimento e missili americani in Italia hanno costituito per i magistrati di buon senso solo un preteso per battute più o meno spiritose; ma hanno offerto al presidente Cossiga l'occasione di polemiche che hanno fortemente colpito l'opinione pubblica.
Contrastare le posizioni di Palombarini è -anche per MI- facile, quasi divertente (ho scritto con piacere queste paginette), e vantaggioso.
In fondo è una discussione che ci coinvolge ben poco: siamo navi da guerra distanti cinquanta chilometri che sparano l'una contro l'altra con cannoni di venticinque chilometri di gittata. Palombarini resterà di sinistra e certo non cambierà le sue idee leggendo le mie critiche, ed io non muterò le mie leggendo i suoi scritti. Entrambi riceveremo i complimenti dei nostri rispettivi amici (anche - e soprattutto- se si avranno avuto il buon senso di non leggerci)
Il tema invece della credibilità del corpo giudiziario ci coinvolge ben più a fondo, riguarda l'interno e non l'esterno dei nostri gruppi, delle nostre stesse persone; buttarlo in politica, farne una questione di schieramenti, è una facile e tranquillante soluzione.Molto più traumatico e lacerante è "scendere nel merito", difendere - o non difendere- la posizione del collega, magari dell'amico, con argomenti di fatto.
Identificare gli ideali comuni e poi farli vivere nella realtà è la sfida di oggi e di domani.
Nel 1989 è crollato il muro di Berlino, è venuta meno la ragione più grave e più netta della distinzione destra/sinistra, una distinzione che offriva un criterio adulterato ma semplice per sceverare fra vero e falso, fra giusto ed ingiusto. Ora siamo più liberi e più responsabili; ma siamo anche soli, senza la stampella del pregiudizio ideologico.
Non so se sia meglio o se sia peggio, certo è più scomodo.


Postilla su Giurisprudenza ed evoluzione della società


1. Sarebbe errato (prima che ingeneroso) circoscrivere il dibattito sul ruolo e sulle tesi di MD nella magistratura italiana entro i limiti suggeriti da una recensione e dalle inevitabili puntualizzazioni che essa comporta.
Il maturare dei tempi, le polemiche aspre, ma sempre fondate sul rispetto della personalità altrui e (soprattutto) sullo sforzo di comprendere le argomentazioni dell'avversario, sia pure per meglio contrastarle, hanno trasformato anche il modo di essere dei magistrati "tradizionalisti", o almeno di una parte di essi.
Ci hanno reso meglio consapevoli, in primo luogo, della esistenza di condizionamenti, di collusioni che non si trasmettono attraverso le "cellule" delle associazioni di sinistra.
Certo il magistrato che sale sul palco di un comizio o scrive un libro di "autodifesa proletaria" pone in forse quanto meno l'apparenza della sua autonomia ed imparzialità; ma condizionamenti non meno, e forse più, pericolosi ed incisivi ci giungono per vie meno palesi, ma non meno incisive.
La polemica contro collateralismi e collusioni ad interessi patrimoniali o familiari costituisce certo uno dei momenti più felici della attività di MD. Si può se mai rimproverare ad MD di essersi lasciata distrarre ed essersi accanita in polemiche su episodi ove la "questione morale" incideva ben poco.
Così la battaglia contro i magistrati ritenuti responsabili del "caso Tortora", era -oltre che a mio avviso in fatto sbagliata (ma questa è soltanto un'opinione)- anche politicamente errata. Ammesso e non concesso che i pubblici ministeri di Napoli avessero commesso qualche errore o negligenza, era comunque certo che avevano operato in perfetta buona fede e per fini istituzionali, tanto che le loro accuse avevano retto nel giudizio di primo grado. Quindi non vi era alcuna ragione, a parte la notorietà del presentatore arrestato, per fare del "caso Tortora" -come Palombarini ritiene invece necessario (pag. 243 e segg)- una questione basilare, tanto da determinare addirittura un ribaltamento delle alleanze all'interno della ANM.

2. Le discussioni sui condizionamenti diretti ed indiretti della attività giudiziaria costituiscono senza dubbio tema più che sufficiente per dare significato e spessore alla riflessione della ANM, e all'azione del CSM.
Ma vi è una considerazione diversa e di maggior impatto ideale di cui occorre dar conto.
La concezione secondo cui spettano al Parlamento le scelte politiche e tali scelte, cristallizzate in testi di legge, debbono soltanto essere eseguite "perinde ac cadaver" dai giudici, rappresenta una rilevante concezione politica, ed una valida direttiva ideale, ma non esaurisce la realtà della vita delle istituzioni (a questa concezione avevo aderito nei miei primi scritti in particolare "Progresso politico ed amministrazione della giustizia" in Il Giudice oggi, Vito Bianco Editore, Roma 1971) .
In realtà la legge fornisce il reticolo entro cui muove l'opera dell'interprete, ma non lo condiziona totalmente; e nei nostri tempi le maglie del reticolo sono state rese in apparenze sempre più strette, in un tripudio di norme "ad personam", ma allo stesso tempo sempre più vaghe ed opinabili attraverso un linguaggio legislativo impreciso, contorto e oscuro, spesso volutamente oscuro per recepire un compromesso parlamentare.Di guisa che gli spazi lasciati all'interprete sovente crescono, non diminuiscono.
Nel corso della la mia esperienza di magistrato nella Corte di Cassazione mi sono andato sempre più convincendo che il "diritto vivente" di natura giudiziaria nasce da un continuo raffronto, quando non da una dialettica, fra le parole usate dal legislatore, che costituiscono in base all'art. 12 delle disposizioni preliminari del c.c., il parametro fondamentale per la elaborazione giuridica, e l'"opinio juris ac necessitatis" presente nella realtà sociale, ed in particolare nella corporazione dei giuristi. E questa "opinio juris ac necessitatis" è, in senso ampio, una scelta "politica".
Tralascio l'esempio "classico" costituito dal "comune senso del pudore", la cui evoluzione ha in pratica depenalizzato atti, spettacoli, pubblicazioni, oscene; l'evoluzione sociale ha travolto ben altro che gli indumenti delle sciantose!
In tutte le alternative in cui la giurisprudenza si dibatte e si è dibattuta non si contrappongono poi una concezione "politica" ed una "apolitica", ma due concezioni "politiche" entrambe; rispettabilissime entrambe ed entro cui si deve ricercare una linea equilibrata ed "utile" alla società, senza demonizzazioni.
Vi sono stati in passato procuratori della Repubblica assolutamente onesti e non "collusi" che quando ricevevano un esposto contro un pubblico ufficio lo trasmettevano immediatamente alla struttura contro cui era diretto, e se la risposta della amministrazione pubblica appariva appena appena credibile, archiviavano la pratica. Era una scelta, ed era una scelta "politica".
Ma gli esempi tratti dal penale possono apparire fuorvianti perché sono più facilmente sospettabili di una "politicità di partito" o quanto meno di schieramento, di essere ispirati dalla volontà di favorire chi è al Governo, o di danneggiarlo.
Mentre la realtà che vado descrivendo ha nel civile, nel tributario e nell'amministrativo, le sue espressioni più incisive (se non più clamorose). Le concezioni in tema di famiglia, di adozioni, di doveri dei figli e dei coniugi che ribollono nella società entrano nelle camere di consiglio, diventano giurisprudenza, sovente prima di entrare nelle leggi.
Così ad esempio si è affermata nelle sentenze della Cassazione una concezione, sempre più labile e sfumata, dei doveri coniugali di carattere personale; è diffusa l'idea che tali doveri sussistono solo fin quando c'è la volontà reciproca di tenerli in piedi e svaniscono quando uno dei due coniugi "cambia idea", è travolto da un altro amore, o si stufa di assistere il coniuge malato.
Mentre la drastica giurisprudenza degli anni '90 in tema di legittimità degli avvisi fiscali di accertamento era con tutta evidenza fondata più che su considerazioni di stretto diritto, sull' opinione "è necessario salvaguardare le esigenze del Fisco", certo valida e condivisibile, ma altrettanto sicuramente "politica".
Clamoroso è poi l'esempio costituito dalla "famosa" sentenza 500/1999 con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno saputo assumere un ruolo protagonista, rivoluzionando i rapporti fra cittadino ed amministrazione e consentendo al privato di ottenere un ristoro patrimoniale anche in caso di lesione dei così detti "interessi legittimi"
L'art. 2 dell'allegato E alla legge 2248 del 20 marzo 1865 (sulla abolizione del contenzioso amministrativo), che devolve alla giurisdizione ordinaria "tutte le materie in cui si faccia questione di un diritto civile o politico", avrebbe probabilmente consentito già fin dal 1865 di sottoporre la Amministrazione al controllo del giudice civile, secondo il modello anglosassone. Ma in quel tempo prevaleva l'opinione secondo cui simile soluzione non era "giusta", o - per meglio dire- non era conforme alle esigenze di uno stato ben ordinato.
La rivoluzione francese aveva abbattuto lo strapotere dei giudici: quindi di fronte all'esercizio discrezionale del potere amministrativo non poteva esservi sindacato giudiziario e di conseguenza un "diritto civile" dei cittadini, la cui violazione desse luogo a risarcimento dei danni. Si poteva soltanto riconoscere ai privati una legittima aspettativa a che lo Stato agisse secondo le leggi e nel pubblico interesse, aspettativa tutelabile attraverso i ricorsi interni alla amministrazione stessa, o - dal 1889- con il ricorso al Consiglio di Stato, cioè ad un organismo di alto prestigio ma pur sempre originariamente di natura politico-amministrativa, e che per altro poteva soltanto annullare l'atto illegittimo.
Sono passati gli anni, i decenni, tutto un secolo, la "opinio juris" è mutata; e con una audace, splendida, lineare sentenza la Cassazione si è messa all'avanguardia del nuovo, facendo ciò che la "Bicamerale" non era riuscita a fare,ed aprendo la strada alla legge 21 luglio 2000, n. 205.
Non è tutto questo in senso ampio "politica"?.
L'errore di Magistratura Democratica è stato ed è di voler ricondurre questa dialettica di idee e di sentimenti entro filoni di partito, di schieramento, entro gli schemi della destra e della sinistra. L'errore di Magistratura Democratica è stato (ed oggi è molto meno) quello di voler intervenire con gli strumenti collettivi propri della lotta di partito (ordini del giorno, voti di organi associativi e quant'altro). E' stato, specie in passato, di brandire la clava dell'"antifascismo militante", di "mitizzare" come "progresso" ogni forma di evoluzione.

3: Il dibattito sulla giurisprudenza è dunque legittimo ed utile, ancorché richieda una informazione puntuale veritiera ed accurata e -specie dai magistrati- molta cautela. Ma per esser di vantaggio alla società deve uscire definitivamente dai facili schematismi; Magistratura Democratica deve dire in proposito una parola chiara, perché la Associazione Nazionale Magistrati sia in grado, se possibile, di dire a sua volta una parola ancor più chiara ad un mondo della politica che trova nello schematismo "destra-sinistra" una rassicurante chiave di lettura della realtà giudiziaria.
In una società matura e stabile esistono strutture, istituzioni, aspetti d'opinione che si evolvono secondo una propria dinamica e non dipendono dalle alternanze politiche (anche se possono indirettamente influenzarle, od esserne influenzate). Magistratura Democratica deve scegliere definitivamente se contribuire alla costruzione di una istituzione giustizia al di fuori della politica dei partiti (non contro di essa) o se inserirsi nella politica-partitica dell' "arcipelago sinistra".

tratto dal sito Giustizia e carità www.giustiziacarita.it (10.1.2001).

*Mario Cicala ci scrive

 

 

 

 

 

 

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