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La dote

La dote veniva consegnata dal padre della sposa al padre dello sposo il quale si impegnava, per il figlio, di farla fruttare, di non decurtarla e di consegnarla integra, alla morte della sposa, se questa non aveva figli, alla famiglia originaria. La dote era costituita di una parte in corredo (detta ad usum Solofre) il quale era descritto in una lista allegata al contratto matrimoniale ove erano elencati gli oggetti del corredo, costituiti in capi di biancheria per la casa e per la donna con la relativa cassapanca, materassi e coperte, ma anche in oggetti di rame per la cucina che venivano indicati in peso. C’erano persone apposite, amici o consanguinei, addette alla valutazione del corredo che ne consegnavano al notaio la lista dove, accanto ad ogni pezzo, era importato il relativo valore, e alla fine l’ammontare del valore del corredo. Un’altra parte della dote era costituita dal denaro, la pecunia, che veniva consegnato all’atto del matrimonio in una unica soluzione o in rate stabilite da altri atti notarili. Altre volte il padre della sposa stipulava un mutuo, cioè un atto di credito, con lo sposo in cui si impegnava a versare il denaro entro un determinato tempo- non oltre i tre anni- e dava in garanzia un bene, descritto in un altro atto, che veniva restituito alla risoluzione del mutuo. Il mutuo dotale era quindi un vero e proprio credito, infatti c’erano gli interessi e, se i termini del pagamento non venivano rispettati, le penalità. Molto più complessa era la procedura se si trattava di una dote costituita da beni immobili, perché in tal caso si decurtava il patrimonio familiare e ciò era contrario alle modalità patrimoniali del tempo. Se comunque ciò avveniva il bene veniva descritto in modo particolareggiato in un atto, detto docium, dove ci si impegnava di riconsegnarlo alla famiglia di provenienza della donna in caso di suo decesso e se al matrimonio non erano nati dei figli. Qualche volta allo sposo veniva concesso come dote l’uso della conceria o di una bottaga artigiana per un determinato periodo che poi poteva anche allungarsi e permettere allo sposo di essere assorbito nella impresa della famiglia della moglie. Gli immobili, oggetto della dote, erano per lo più case, un piano inferiore terraneo ed uno superiore con gradinata esterna, il cortile ed il pozzo, difesi da cancelli, quasi sempre sul retro dell’abitazione c’era un piccolo podere coltivato ad orto. Se la nuova coppia non si allontanava dal nucleo familiare, e ciò succedeva con la famiglia dello sposo, la casa patronale veniva ampliata di una "camarra" ricavata e costruita ex novo sulle zone adiacenti – un cortile o una terrazza- oppure venivano individuati e divisi in essa degli ambienti.

La dote era quindi l’impegno più autentico del vincolo matrimoniale, qualificava in modo indiscutibile il matrimonio come un atto economico attraverso il quale, in una economia debole come quella del meridione, due famiglie ponevano insieme le propri forze economiche proteggendole dalla dispersione. Si preferivano infatti matrimoni di due sorelle con due fratelli, di vedovi con cognati e naturalmente tra cugini per far rimanere nell’ambito della famiglia il capitale.

La dote fu anche uno strumento di difesa del patrimonio nel senso che all’atto di riceverla la donna rinunciava a qualsiasi eredità futura, sia da parte della madre che del padre. Così l’atto notarile non serviva solo a legalizzare la trasmissione dei beni, ma ad escludere la donna dalle successive suddivisioni del patrimonio, favoriva quindi la discesa maschile ed evitava ulteriori dispersioni del capitale immobiliare della famiglia.

A costituire la dote erano obbligati i familiari maschili: in assenza del padre c’erano i fratelli, poi venivano gli zii o altre persone indicate nei testamenti dove i genitori ne stabilivano l’ammontare o incaricavano appunto un esecutore testamentario a costituire la dote se la donna si sposava.

Le donne avevano la dote anche se entravano in convento in tal caso essa determinava il trattamento che la giovane aveva nel monastero. Se infatti prendeva i voti senza dote era assegnata ai lavori di pulizia, cucina o cucito cioè contribuiva con il suo lavoro al mantenimento del monastero. Il monastero gestiva le doti delle monache attraverso il prestito, esse quindi ritornavano nel circolo della economia locale e per molto tempo costituirono un valido sostegno alle attività mercantili ed artigiane.

Col tempo la dote assunse le caratteristiche di un obbligo civile, di un dovere e di un segno della consistenza economica, e della rispettabilità della famiglia tanto che veniva ritenuto disonorevole maritare una figlia senza dote.

Per le fanciulle povere c’erano invece i lasciti testamentari fatti da persone facoltose e finalizzati alla costituzione di un reddito dotale. In genere il lascito era affidato ad una chiesa che lo gestiva per le giovani povere del paese.

 

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