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La famiglia appoderata

La famiglia appoderata gestiva a vario titolo (proprietà, affitto, masseria, mezzadria) un podere e si caratterizzava per un modello familiare in aggregati multipli, con tendenza alla patrilocalità, dove il lavoro era fissato in base ad una precisa gerarchia dei ruoli tra i maschi e, di conseguenza, tra le donne. Questa famiglia era in grado di produrre al suo interno tutto quanto era necessario al sostentamento dei suoi membri e non dipendeva, pertanto, da risorse offerte dall’esterno, sia che si trattasse del mercato di merci o lavoro, sia di forme assistenziali da parte dello Stato.

L’organizzazione familiare prevedeva una rigida distinzione dei ruoli. Al vertice stava la figura maschile del capofamiglia (reggitore) da cui dipendevano tutti coloro che vivevano e lavoravano nel podere. Egli organizzava il lavoro agricolo ed amministrava il patrimonio. I figli maschi sposandosi rimanevano in famiglia ed erano occupati nei lavori più pesanti all’interno del fondo. La posizione delle donne era determinata dalla maggiore o minore importanza del ruolo del marito. La moglie del capofamiglia (reggitrice) si occupava della conduzione della casa e, sotto la sua direzione, le nuore, le figlie non ancora maritate o anche le cognate svolgevano tutti i lavori domestici ed anche agricoli. Nel caso in cui la famiglia fosse composta solo da fratelli, diventava capofamiglia il maggiore di essi non sposato e reggitrice la moglie di uno dei fratelli sposati, per evitare squilibri ed accentramenti di potere. Quando si sposavano, le ragazze lasciavano la famiglia paterna per entrare nella famiglia del marito con una vera e propria liquidazione tramite la dote; vigeva, infatti, un’esclusione dal patrimonio della famiglia d’origine, malgrado le figlie avessero contribuito, con il proprio lavoro, alla sua formazione. L’inserimento nella nuova famiglia, d’altro canto, rivestiva i caratteri di un vero e proprio rito di passaggio in cui, con la suocera, venivano negoziate le condizioni dell’accesso della giovane alla nuova casa. Di conseguenza, i rapporti gerarchici non esistevano solo tra sessi, ma anche in linea femminile poiché le donne anziane comandavano il lavoro delle giovani e le loro relazioni erano spesso improntate a durezza e tensioni. Il  lavoro per tutti, maschi e femmine, iniziava all’età di dieci anni circa, e consisteva nel portare al pascolo gli animali, aiutare gli adulti nei campi, sorvegliare i bambini più piccoli. Successivamente si verificava una più precisa divisione sessuale del lavoro.
  Dopo i diciotto anni gli uomini si occupavano esclusivamente di lavori agricoli (seminavano, falciavano, potavano, affastellavano il fieno, raccoglievano legna); il carico di lavoro aumentava progressivamente per raggiungere l’apice attorno ai 50-55 anni e diminuiva successivamente.

 Le donne, finché erano figlie e nuore, svolgevano sia attività agricole, sia lavori domestici; con un’età più avanzata, ma soprattutto al mutare della loro condizione nei rapporti di autorità in casa, cessavano di svolgere attività agricole e si dedicavano solo a quelle domestiche.
D’altronde era stretta la connessione esistente tra lavoro agricolo e domestico; numerose erano le attività che rivestivano entrambe le caratteristiche o che presentavano risvolti o conseguenze nell’altro settore. Si deve precisare che le attività svolte in casa assorbivano un’enorme quantità di tempo e le stesse ore dedicate ai lavori domestici erano elevatissime. Essi non comprendevano solamente le abituali attività di cura della casa e della famiglia (pulizia della casa e degli abiti, preparazione dei cibi, allevamento dei figli), ma anche la filatura, la tessitura e la confezione degli abiti, la preparazione del pane, del formaggio, di conserve e altre vivande da conservare per tutto l’anno, l’allevamento del baco da seta, la lavorazione di fibre industriali (canapa e lino), la raccolta di frutta, erbe e legna, l’allevamento degli animali domestici o da cortile. Bisogna, inoltre, tener presente che ogni operazione avveniva con strumenti e tecniche arretrate e, pertanto, il tempo e la fatica che la loro esecuzione comportava erano notevoli.
A questi lavori domestici si sommavano i lavori agricoli che, per le donne, erano molti: riguardavano la mietitura, la vendemmia, le raccolte in genere, la preparazione del terreno, la zappatura, …lavori anche tra i più duri, ma considerati non pesanti…, adatti, quindi, alle donne. Inoltre, venivano esercitate attività manifatturiere, extra agricole, destinate al mercato, come la preparazione di alcune vivande o filati e tessuti, o la preparazione di cappelli di paglia, ecc..
Queste occupazioni consentivano alle donne un limitato grado di autonomia, a cui non corrispondeva, però, un accesso a risorse monetarie poiché il ricavato della vendita del loro lavoro era gestito dalla reggitrice. ll lavoro continuo dall’alba al tramonto, una giornata più lunga di quella degli uomini (le donne si alzavano prima e si coricavano dopo) e che non conosceva soste, le numerose gravidanze, lo stato di soggezione per cui, ad esempio, donne e bambini mangiavano solo dopo che gli uomini si erano sfamati, caratterizzavano la vita delle contadine e le invecchiavano precocemente.

Alessandra Pescarolo sostiene che la divisione del lavoro e la diversità di lavoro avveniva sulla base del criterio della forza fisica: risorsa cruciale in una realtà preindustriale.
Ai maschi, pertanto, si attribuivano i lavori più pesanti, mentre al lavoro femminile si attribuiva quasi un disvalore, in considerazione del suo minor apporto (nella mentalità dell’epoca, poiché abbiamo rilevato che, di fatto, non era così) agli stessi.
Questo, però, spingeva le donne a lavorare di più, ma lo scarto tra quantità di lavoro prestato e scarso valore attribuito allo stesso, nonostante tutto, aumentava.
Inoltre, vista la convinzione che i lavori degli uomini fossero più importanti, esisteva lo stereotipo di un’inferiorità femminile nel lavoro, indipendentemente dalla produttività delle donne, in un circolo vizioso che si autoalimentava.

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