Pirandello a sessant'anni dalla morte
di Giovanni Macchia
Pirandello
morì in
un anno particolarmente carico di storici eventi.
Egli aveva parlato più di una volta del «piacere della storia».
«Nulla di più riposante della storia, signori» aveva esclamato un suo
personaggio. «Tutto nella vita si cangia continuamente sotto gli occhi.
Nulla v'è di certo. Mentre nella storia tutto è determinato, tutto è
stabilito.» E ogni effetto continuava segue obbediente alla sua causa
con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolge preciso e coerente in ogni
particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale ecc.
ecc.
Gli avvenimenti accaduti in quell'anno non erano ancora storia.
Erano vita, l'incerta vita. Ma era sicuro che in Spagna, in quell'anno 1936,
dopo l'assassinio di Calvo Sotelo, capo dell'opposizione spagnola, scoppiò
la rivoluzione franchista, e che nell'agosto dello stesso anno il poeta
García Lorca, all'alba, all'uscita dal villaggio di Viznar, in un bosco
d'ulivi, fu giustiziato. Nulla di certo? Ma pochi mesi prima della morte di
Pirandello ebbe inizio in Russia il cosiddetto terrore staliniano e si aprì
il primo dei processi che sconvolsero i dirigenti del partito, del governo e
i comandanti militari. E infine lo stesso giorno della scomparsa di
Pirandello, il 10 dicembre, accadde uno di quegli avvenimenti che si leggono
nei libri di scuola, nella vita di un re, di Carlo V o di Carlo Alberto.
È la scena regale, la più teatrale di tutte, degna di apparire non
nell'Enrico IV ma in un grande dramma storico shakespeariano:
l'abdicazione di un re, e non per malattia o per viltà o per stanchezza o
perché scacciato dai suoi sudditi, ma un'abdicazione per amore e forse
soltanto per amore. Parlo dell'allontanamento dal trono e dalla patria del
re Edoardo VIII d'Inghilterra. La nostra terribile epoca, ambiziosa e
crudele, ha saputo regalarci qualcuna di queste incredibili scene.
Pirandello amava scoprire le ripetizioni, i parallelismi tra la
fantasia e la vita, tra la fantasia tacciata d'inverosimiglianza e la vita
che inaspettatamente quell'inverosimiglianza conferma e la fa diventare
realtà. La vita vanta i suoi diritti anche di fronte alla libera fantasia. È
la vita stessa che afferma il suo beatissimo dispregio d'ogni
verosimiglianza. E allora la scena dell'abdicazione di Edoardo VIII, che
sembra non poter essere ammessa nel suo teatro, era davvero così
antipirandelliana? Gli avvenimenti mutano secondo la logica di noi che
guardiamo. Ma se quella scena la osserviamo non in colui che la affrontò, ma
in coloro che, rappresentanti della legge, della società, della tradizione,
della stanca ufficialità, costrinsero un re a cedere, a commettere un atto
ch'egli non avrebbe voluto, anche il gentile Edoardo, innamorato di una
donna due volte divorziata, poteva diventare una delle più intense
espressioni del teatro pirandelliano: il personaggio «martirizzato».
Sottoposto alla violenta requisitoria dei rappresentanti della legge regale,
come in un processo, in un'inquisizione, quel re silenzioso era la
«vittima». E anche la fastosa corte d'Inghilterra diventa così un luogo di
tortura, ove da una parte sono i giudici e dall'altra un personaggio
enigmatico, investito da una falsa luce che egli respinge. E, nel momento
del trapasso, è da ammettere che un avvenimento sia venuto incontro a
Pirandello, senza che lo sapesse, per dargli ragione, per aggiungere un
tassello di più all'edificio della sua gloria.
La gloria, per gli
antichi, per Esiodo, era una dea. Ma già in Virgilio, sotto il nome della
fama, cominciava a prendere aspetti paurosi. È un orrido mostro che possiede
tanti vigili occhi, tante lingue e orecchie quante piume ha sul corpo. E
vola di notte stridendo nell'ombra né chiude palpebra al sonno, e
tenacemente annunzia il falso e il vero. Per i moralisti antichi, l'amore
della gloria, sorella dell'ambizione, tra corone, tiare, scettri, fasci,
spingeva gli uomini ai più pazzeschi e ridicoli eccessi. Un re della Libia,
Pfasone, ammaestrava gli uccelli nel dire: « Pfasone è un Dio», e li
lasciava andare in un bosco, ove veniva venerato. Un altro re, Eraclide, si
fece uccidere dopo aver disposto che un drago fosse messo nella sua tomba,
perché tutti credessero che il suo corpo era volato in cielo.
Ma noi parliamo di uno scrittore. E allora ci domandiamo: la fama
di uno scrittore è veramente oggi simbolo e garanzia di grandezza? È bene
riconoscerlo. La grandezza di uno scrittore, oggi, non è affatto
rappresentata dalla sua fama. I mezzi di comunicazione hanno reso assai
ibrida e ambigua questa voce che una volta corrispondeva saldamente a un
giudizio di valore. La casa della fama, il nobile castello in cui i poeti
sognarono di vivere sereni, fuori dal brusìo di coloro che aspirano
eternamente a entrarvi, è ammobiliata in modi strani, con chiassosi oggetti,
di cattivo gusto. I nomi dei grandi poeti non sono scolpiti nel bronzo, come
Orazio pensava. Uno scrittore, se arriva a essere conosciuto in tutto il
mondo, risulta alla fine sfigurato dalle dure leggi della pubblicità.
Abbiamo smarrito fin la fiducia che un tempo i poeti avevano nella morte,
come sede della stabile fama. «Morte, tu mi darai fama e riposo.» Ma quale
riposo? La posterità ha tanti volti. Cambiano gli uomini, il gusto, le idee,
il ritmo stesso del mondo. Sarebbe un errore misurare la grandezza di
Pirandello dalla fama che lo ha visitato.
Ma non possiamo d'altra parte non tener conto dei modi, così
faticosi, lenti con cui la gloria, lungamente attesa, gli è andata incontro.
E la sua «monstrueuse gloire», così bella, così nera, così dura, così
paziente, nata non si sa come da uno stato di umiliante inferiorità, è certo
tra i fenomeni più straordinari della letteratura moderna.
In Pirandello, a seguirlo nel suo difficile cammino, tutto appare
contraddittorio, inspiegabile, all'opposto di ogni possibile previsione. Fin
dalla giovinezza, egli appartenne alla schiera sparuta, destinata a giacere
nell'ombra, di coloro che in vita non cercarono altra fortuna se non quella
che può regalare l'umile penna. Non ha preteso cariche, né successi mondani
presso aristocratiche dame. Non ha frequentato i potenti e, fuori del
proprio mestiere, nessun tentativo d'imprese eroiche o scandalose. Assenza
assoluta di strategia letteraria, ma un disarmante amore della mediocrità.
Messo su questa strada, le avversità ch'egli sostenne furono quasi fatali e
sono a tutti note. E fin dagli inizi non si fecero attendere.
Proprio a lui, piccolo provinciale alle prime armi, toccò di
vivere, come abbiamo visto, nell'ambiente tracotante e sulfureo della Roma
d'allora, divisa tra idoli e meteci. Al profumo elegante, europeo, trasmesso
da quegli idoli, un profumo che giungeva dalla Francia, mescolato a noiose,
aride, come diceva, mistificazioni psicologiche, egli opponeva l'odore acre
della sua terra, del popolo tra cui era nato. Poteva situarsi, in vista di
un possibile successo, dalla parte degli idoli? Si mise invece tutto su
un'altra sponda, occupata dai Cesareo, dai Graf, dai Costanzo, da una
compatta schiera di poeti minori. Tra quegli idoli, così vicino e così
lontano, grandeggiava Gabriele D'Annunzio, un provinciale anche lui, ma un
poeta vero, che fin dalla giovinezza non aveva sognato che la gloria.
Roma aveva sempre alimentato nei secoli sogni di grandezza. E,
conquistato dalla sua bellezza, l'eroe di una tragedia di D'Annunzio,
Ruggero Fiamma, palpitante della gran sete di vivere tutta la vita, vede
nelle pietre della Città eterna, «pregne di luce», la gloria passare «sulle
fronti dei suoi colli». A quella luce Pirandello voltò dichiaratamente le
spalle. Di Roma osservò e descrisse le ombre, le dense e fitte ombre delle
sue strade notturne.
Nelle pietre di Roma non era nascosto alcun sogno di gloria. La
città in cui egli viveva era una città morta, chiusa nel suo maestoso
passato che sarebbe stato assurdo far risorgere. Era già il rifiuto di ogni
letteraria eleganza. D'Annunzio abbiamo già detto trasformava le chiese
barocche, oscurate dal tempo, in pezzi d'oreficeria, i palazzi patrizi in
grandi clavicembali d'argento. Egli non fu tentato da nessuna di quelle
gioiose metamorfosi che l'arte impone alla realtà e che procurano fama a chi
scrive e diletto a chi legge. Diciamo pure che non ne era capace. Non
esisteva per lui forma d'arte che potesse rendere la vita diversa da quella
che è. Nessun fascino decadente ma una pesante tristezza esistenziale. È
solo, in una solitudine tremenda, dinanzi a un pubblico distratto, quasi
inesistente, dinanzi a una critica che quasi non sa chi egli sia. E chi
consulti l'accurata bibliografia del Barbina s'accorgerà che, fino agli
inizi del Novecento, soltanto una decina di critici si erano occupati di
lui.
Eppure tutto ciò
che vede non ha nulla di falso. Anche quel suo disturbo della visione che,
come ha notato con molta efficacia Gesualdo Bufalino, non gli permetteva di
vedersi dinanzi che ceffi repellenti, grugni di minotauri, laidezze d'ogni
maniera, così da trasformare il mondo in una sorta di lazzaretto, non ha
nulla di letterario. Egli non afferma alcuna estetica del brutto, che
presume un criterio di scelta, d'elezione. E nemmeno poteva sanare quel suo
istinto verso la bruttezza, nato anche dal sentirsi in un immenso labirinto
inabitabile, soltanto con l'efficacia e la grandezza della descrizione, in
un oggettivismo esasperato. Non lo attraevano altri problemi di linguaggio.
D'Annunzio, vivendo a Roma, dimenticava la sua terra, che solo a
momenti, nel ricordo, si apriva in immagini di una straordinaria intensità o
di un cocente rimorso. E restava a Roma, tutto intento, per conquistare la
gloria che, come il corpo di una donna, ancora non cedeva, alla costruzione
del superuomo. La Sicilia e Roma vivono insieme dialetticamente nella vita e
nell'arte di Pirandello. Sono due mondi opposti ma di cui l'uno non può
stare senza l'altro.
È in essi riposto il congegno delle sue novelle, un congegno che
egli sa benissimo come far scattare. Messi a confronto, i fatti umani,
privati, bui, da quegli ambienti vengono estratti come per opera di un
curioso avvocato che compulsi polverosi archivi. È dallo studio di questa
realtà, che quel senso di morte, quella sua coscienza del vuoto, il
disordine, la confusione, il caos, e l'amore e insieme il disprezzo
dell'umanità, in un impossibile disperato bisogno di star solo, lontano
dalla famiglia, quasi fuori del mondo, generarono una visione non tragica ma
umoristica dell'umanità, eccitata da una straordinaria carica d'energia che
alla fine risultò, nella sua continuità, più vitale di quella panica, solare
di D'Annunzio.
Credo che non sia
stata messa ancora in giusto rilievo questa prodigiosa energia pirandelliana.
Essa contagia l'autore, i suoi casi, i suoi personaggi, Liolà come Mattia
Pascal. Ho cercato altrove di metterla in rapporto con alcune concezioni
teosofiche in cui veniva esaltata l'essenza dello spirito nei suoi rapporti
col personaggio. Certo egli fu affascinato dal problema dell'energia e dal
metodo per utilizzarla, quanto Sterne e quanto Balzac. In tal senso la
società siciliana divenne per lui un condensato, entro specchi deformanti,
della società umana: un luogo di continue prove, e di esperimenti. In quello
specchio curvo, ove le immagini apparivano lancinate in un'espressione non
di rado grottesca e in cui s'operava implicitamente la critica e il
superamento del verismo.
Eppure al di là di tutto questo, nell'uomo sempre più solo, si
verifica come il ritorno a una forza primigenia, l'energia vitale di cui si
parlava e che il dolore, le miserie civili non hanno fiaccato. È un
inarrestabile bisogno di esistere a muovere quel meccanismo interno per cui
una persona è spinta a divenire un personaggio. Se non si tiene conto di
questo vitalismo che raggiunge forme demoniache, frutto di mentalità
primitive, e che può sbocciare nella pura follia, non si può capire
Pirandello e una delle ragioni del suo successo, della sua fama. Mancherebbe
qualcosa per intendere il suo irrazionalismo e la sua tortura e la stessa
sua volontà di distruzione. La coscienza di vivere è tanto più morte quanto
più essa è annidata come una malattia in un albero antico e dalle forti
radici.
IL suo pessimismo nasceva dalla vita e non dalla morte: dico, dalla
coscienza della morte. E la riflessione, fonte di dolore per cui la vita
s'aggroviglia, e quasi s'arresta, mandava bagliori sinistri. «L'albero» egli
scrisse «vive e non si sente. Per lui la terra, il sole, l'aria, la luce, il
vento, la pioggia, non sono cose ch'esso non sia. All'uomo, invece,
nascendo, è toccato questo triste privilegio di sentirsi vivere, con la
bella illusione che ne risulta, di prendere cioè come una realtà fuori di sé
questo suo interno sentimento della vita, immutabile e vario.» Ed ecco la
sua condizione impossibile. Su un foglietto di diario Pirandello espresse
una volta il suo rifiuto del mondo, il disprezzo dell'ordine burocratico,
della società che costruisce i suoi castelli di carta, della stessa
famiglia, fino a dichiarare la sua volontà di restar solo, quasi senza più
coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta: fino a «non ricordarsi
neanche più del proprio nome». Non ricordarsi del proprio nome, o mutarlo: è
l'argomento di un suo grande romanzo.
Il fu Mattia Pascal, il romanzo che segnò il primo successo
di Pirandello, fu scritto in uno di quei momenti decisivi nella vita di uno
scrittore, quando, quasi al bivio della propria esperienza, egli può
diventare «qualcuno» o rimanere nessuno. Disastro economico della famiglia,
preoccupante affacciarsi nella propria esistenza della malattia, la malattia
di sua moglie, scarsi guadagni dal proprio lavoro e difficile sostentamento
dei figli, insistente desiderio di mandare tutto all'aria, forse di
suicidarsi.
Date queste premesse, egli avrebbe potuto riversare nell'opera, da
pessimista introverso che aveva già dato molte prove della sua asocialità,
per metà nervoso, per metà bilioso, il suo atto d'accusa contro quella
borghesia di cui Roma dava la rappresentazione tenace. Cosa aveva fatto,
prima di lui, uno scrittore di teatro pur tanto lontano: Enrico Ibsen? Aveva
portato alcuni problemi sociali sulla scena, aveva cercato di abbattere le
false colonne della società, costruite sulla menzogna, sulle apparenze,
sulle ipocrisie convenzionali. Aveva affrontato la situazione della donna, e
le malattie dei padri che i figli scontano e tutto il peso di un passato che
incombe sul nostro presente.
Ma se, ponendosi su questa strada, Pirandello avesse descritto la
corruzione e i vizi della Roma bizantina e umbertina, osservata da un
personaggio senza nome, totalmente fuori da quell'ambiente, egli avrebbe
scritto il romanzo di un epigono, l'epigono del naturalismo francese e del
verismo italiano. Ma, fuori di ogni naturalismo, il personaggio
contemporaneo più vicino a Mattia Pascal, Fedja del Cadavere vivente
di Tolstoj, non aveva chiuso la sua miserevole esistenza tirandosi un colpo
di pistola? Pirandello con Il fu Mattia Pascal non volle scrivere né
un dramma né una tragedia, ma una farsa nel senso che Schlegel aveva dato al
termine: una farsa trascendentale. Una farsa in cui già venisse formulata
per un caso eccezionale l'idea della vita come teatro. E quel romanzo
s'inizia non con un suicidio ma con un finto suicidio, il suicidio di un
nome. Quell'uomo diventa un altro perché prende un altro nome. Diventa cioè
un attore. Ed è il passato, quella vita che non vuol più vivere, a
costringerlo a diventarlo.
Questa invenzione straordinaria aprì a Pirandello la strada del suo
futuro. Egli capì che bisognava spezzare ogni legame diretto con
l'autobiografia. La letteratura non doveva essere un modo per dare
un'illusoria soluzione ai drammi familiari. Nessuna trasposizione di
personaggi dal buio della propria vita alla luce del palcoscenico. Egli sa
che la letteratura può essere il risultato di un'idea della vita che in
quanto tale crea personaggi, ma non è la vita. La vita, disse con una frase
famosa contro gli esaltatori dell'azione, contro gli attivisti della gloria,
o la si vive o la si scrive. E scriverla non dà alcun conforto, alcun
lenimento al dolore, anzi quel dolore acuisce e aggrava. E bisognava al
tempo stesso abbandonare ogni crepuscolarismo, ogni aria dolente e disfatta,
la tipica tetraggine meridionale, vestita di nero, di gente chiusa nel suo
lutto e che non parla. La sua gente, anche la più umile, è scossa da un
disperato desiderio di esistere. È un'umanità che, sulla scia dei grandi
personaggi della letteratura, eccita anche il riso. Ma quale riso?
L'umorismo, come
l'ironia, era una forza che permetteva di dominare la materia trattata. Dava
largo respiro alla riflessione e, in un processo crudele di trasposizione,
la riflessione non restava nascosta, invisibile, come uno specchio in cui il
sentimento si rimira, ma si poneva davanti come un giudice che lo analizzava
e ne scomponeva l'immagine. Tante pirandelliane elucubrazioni che, isolate
dal contesto, hanno suscitato giudizi severi, sono da leggere non come
verità in senso assoluto, ma come espressioni quasi paradossali che sono
servite all'autore dinamicamente per costruire i suoi personaggi. Il mondo
non era regolato dalle grandi idee ma dai giri vorticosi, come accadeva in
Sterne, sommo umorista, dell'infinitamente piccolo. Un'opera non era il
luogo dell'armonia, ma della digressione. Era quel che di scomposto, di
slegato, di capriccioso contiene la vita. È naturale che Pirandello, per
ragioni diverse da quelle di Pascal, irrida i fatti della storia. Se il naso
di Cleopatra fosse stato più lungo chissà a quali altre vicende, diverse da
quelle accadute, avremmo assistito nella storia del mondo! Quella minuscola
particella, «se», si sarebbe potuta inserire come un cuneo in tutti i fatti
umani, e quali digressioni avrebbe potuto produrre, di quante scomposizioni
sarebbe potuta essere causa! Anche la storia cadeva sotto l'occhio strabico
di un umorista.
Non le grandi ambizioni sociali, non le forze economiche, ma i
personaggi sono i protagonisti della storia. E Pirandello vede e pensa
attraverso i personaggi. Le stesse sue idee diventano personaggi. E questo
nome così antico, mitico, dall'esistenza millenaria, prende in Pirandello
un'accezione e un suono nuovi. Attraverso dei personaggi egli mostra il suo
grande coraggio, la sua capacità di osare. Affronta la crisi del teatro e ne
allontana insieme la distruzione. Edipo, Fedra, Amleto erano essenze
compatte, ben definibili nella loro realtà esistenziale, da sottoporre,
com'è stato fatto, a trattamenti anche psicanalitici. Per Pirandello sono
manichini nelle mani di un giocoliere. E partecipano tutti del grande giuoco
pirandelliano, con azioni che appaiono e scompaiono; e anche i più deboli, i
più derelitti, i più sciagurati, posseggono una prepotenza di vita e una
capacità di ragionamento che arriva fino al sofisma. L'autore, come
assediato dagli spiriti, è costretto ad accoglierli, e a farli diventare, da
qualsiasi parte provengano, dalle pagine di un romanzo, da una novella, da
un saggio, personaggi teatrali. Essi hanno bisogno di un palcoscenico, di un
pubblico. E anche il pubblico non deve dimenticare di assistere a uno
spettacolo, a una finzione, e in questo senso, esaltando l'illusione, il
teatro celebra la sua bellezza. Fu l'operazione, ch'egli affrontò, del
«teatro nel teatro», la sua grande sfida: riuscire a commuovere il pubblico
anche se l'artificio teatrale viene preparato sotto i suoi occhi.
Sorprendere quell'artificio nel momento stesso in cui gli attori stanno per
divenire dei personaggi. Non sarà quindi l'imitazione della realtà a
provocare nel pubblico la commozione, ma sarà la scena stessa, nella
scoperta verità della sua finzione, mostrando tutti i fili della convenzione
drammatica e attraversando le varie fasi della conquista di uno spazio
teatrale sempre più chiuso e soffocante, a imporre le sue leggi.
Nell'idea di tragedia, le poche volte ch'egli pone un cadavere
sulla scena, Pirandello, come si è detto, è del tutto all'opposto di quel
che aveva concepito Aristotele. Il mondo è per lui l'attività dell'essere,
un'apparenza, un'illusione, cui l'essere stesso dà valore di realtà. «Questa
realtà non può dunque scoprirsi se non per quello che è: un'apparenza,
un'illusione necessaria, perché necessario è che l'essere accada. E se
l'essere è eterno, eterno sarà l'accadere, e dunque un accadere senza fine,
e dunque senza un fine, e dunque un essere e un accadere che non conclude
mai.» Al contrario di quel che ci fanno apparire alcuni tragici, la vita non
conclude, e il colpo di pistola è solo una conclusione posticcia. O è un
colpo che va a vuoto, come la rivoltellata nello Zio Vania di Cechov.
Il pubblico non
doveva così essere concepito come una massa inerte, senza volto, che,
seguite le alterne vicende del dramma, alla fine emetteva il suo verdetto.
Per Pirandello il pubblico esisteva nella realtà e nella coscienza del
drammaturgo. Costituiva un fattore dinamico e decisivo nello svolgimento
della rappresentazione. E nei momenti più alti della sua produzione, assai
prima dei rappresentanti del «teatro epico», e partendo da ben altre
posizioni, finì col convincersi che ormai il pubblico non doveva essere
lasciato in pace. Fu una delle ragioni del suo successo. Oltre la quarta
parete ormai sfondata, lo spettatore, del tutto sveglio, pensava.
Il teatro era dunque un tribunale, ma un tribunale cui lo
spettatore era ammesso a partecipare, così che alcuni registi, recentemente,
nelle pièces più problematiche, hanno preso l'estrema decisione di
trasportare come in un dibattimento il pubblico tra gli attori, parte di
tutto l'insieme. E proprio sulla platea, immersa per il teatro classico
nella sua sacra intangibilità, l'autore sfogava senza mezzi termini la sua
passione, ch'era quella di discutere, di argomentare, di confondere,
d'irritare, di provocare. Rousseau, preconizzando le future feste
rivoluzionarie, diceva: «Piantate in mezzo a una piazza un pennone
inghirlandato di fiori e chiamate a raccolta il pubblico. Fate di meglio
ancora. Date gli spettatori in spettacolo. Trasformateli in attori».
Pirandello non giunse a questo. Ma nelle sue famose «prime», in cui sarebbe
potuto accadere un po' di tutto, quando l'autore s'identificava ora con un
personaggio deputato a rappresentarlo ora con il capocomico, in quelle prime
rumorose, agitate, violente, egli tentò un teatro a suo modo rivoluzionario,
ove gli spettatori venissero dati in spettacolo.
In questa
meravigliosa storia di Pirandello accadde così un evento inatteso. Il
pubblico, da lui poco vezzeggiato, anzi maltrattato, messo dinanzi a
spettacoli che non indicavano soluzioni, e ove, a differenza dei drammi
gialli, alla fine non si riusciva a vedere da che parte fosse il colpevole,
e gli enigmi restavano enigmi, spettacoli che procuravano alla fine un
malessere vago, quel pubblico, dunque, al contrario di ogni aspettativa, non
disertò le sale per assistere a spettacoli più eccitanti o più mansueti, o
che almeno elargissero sicurezza e fiducia. Esso si ingrossò a tal punto che
non bastarono a contenerlo le platee di tutta la nostra penisola.
Che cosa era accaduto in quel pubblico, fatto anche di gente
comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura, e che non amava
ascoltare sulla scena i bei versi, in sogni o in misteri, ma parole dimesse,
povere, a volte stridule e disaccordate, dette e non recitate da personaggi
che quasi non sapevano esprimersi, sostanzialmente afasici? Forse, dietro
tante confuse parole che non riusciva bene a capire, concetti,
interrogativi, sarcasmi, artifici dialettici, quella gente ritrovava un
nuovo modo di far teatro, qualcosa che non aveva mai visto, una vaga idea
del mondo, o una concezione buia dell'esistenza, assai simile a quella che
essa viveva nelle proprie case, spesso visitate dalla follia, ove la
personalità alterata appariva addirittura inafferrabile? Forse quel pubblico
aveva provato nella sua vita, senza ben rendersene conto, gli stessi incubi,
le stesse ossessioni e infinite crudeltà e dolori? Si riusciva a vedere
qualcosa, ma come in uno specchio opaco. Non era la tragedia, l'assassinio o
il sangue. L'angoscia era più profonda. Quel teatro certo non sollevava, non
purificava l'animo. Eppure l'onestà del drammaturgo nel non progettare
alcuna soluzione tragica riusciva a dare stranamente un certo conforto, una
certa consolazione. E a poco a poco quel pubblico occupò le platee d'Europa
e le occupa ancora.
Questo successo fu
tanto più eccezionale in quanto esso si affermò in senso del tutto contrario
a quello che aveva visitato gli scrittori maggiori del Novecento. La fama di
Joyce, di Proust, di Musil, nel suo svolgimento lento ma irrefrenabile, fu
provocata da un pubblico intellettuale, aristocratico. Grazie a esso quei
grandi scrittori divennero portatori di una nuova, alta, modernissima e
difficile idea di letteratura.
Per Pirandello il discorso è rovesciato. La sua fama, sempre
contrastata, si andò affermando al di fuori dei prestigiosi centri della
cultura europea, dove era stato pur accolto D'Annunzio, grande poeta, gran
maestro della parola, e di poco più vecchio di lui. Sta di fatto che Proust,
Joyce, Musil e, prima di loro, James, parlano di D'Annunzio con ammirazione
(almeno fino a un certo periodo). Ma Pirandello per essi era come se non
esistesse, allo stesso modo di quanto era accaduto in Italia, da parte di
scrittori e di critici. Ed egli ha continuato così a essere un'erma in un
labirinto, un'erma bifronte. Da una parte c'era lo scrittore di romanzi e
novelle, un narratore si disse «tradizionale» (senza badare che proprio
nel genere della novella egli affrontò negli ultimi anni esempi di una
straordinaria modernità). Dall'altra c'era l'uomo di teatro, autore di
alcuni capolavori di cui quelle élites mostrarono o di non accorgersi
affatto o di accorgersi solo molto tardi. Ma il teatro sembra che abbia un
destino del tutto separato da quello che assiste la grande letteratura. Fino
a pochi anni fa esso, secondo Montale, stentava a entrare nel dominio della
letteratura. Esisteva forse, continuava Montale scherzando, una congiura
mondiale per scacciare il teatro dall'orto della letteratura? Il pubblico
era probabilmente un'invenzione moderna. Era il prodotto di un tempo che
tutelava i diritti d'autore ma era indifferente al valore degli artefatti.
Per Pirandello è vero il contrario. Fu il pubblico, sostenuto da
pochi scrittori e critici illuminati, a non essere indifferente al valore
dei suoi artefatti. Quel rumoroso e generoso pubblico, pur tra lotte e
contrasti, fu il primo a capire ciò che le raffinatissime élites, gli
adoratori dello stile, della prosa d'arte, avevano rifiutato, e finì col
decretargli una fama superiore non soltanto a quella di D'Annunzio, ma di
tutti gli scrittori italiani del Novecento. Quel pubblico annullò ogni
differenza di valore e ogni distinzione tra il narratore e il drammaturgo,
perché l'uno era legato all'altro indissolubilmente.
E un tale
contrasto, per opposte ragioni, non si spense neanche dopo la morte. Nella
lotta che sempre si apre tra i grandi dopo che sono scomparsi, in quella
gigantesca lotta tra ombre in cui ogni scrittore combatte la propria
battaglia per sopravvivere, sembrò che l'altro nome famoso del teatro
contemporaneo, Bertolt Brecht, scomparso vent'anni dopo di lui, portatore
sulla scena, nelle mutate condizioni politiche, di nuove idee e nuovi
messaggi, prendesse il sopravvento. Ma poi Pirandello cominciò lentamente a
risalire la china. Dopo quello che era accaduto, dopo la lezione dei fatti,
si vide, passati alcuni anni, che il mondo non era forse cambiato. Perdurava
la confusione, il caos. Il bagno di sangue non aveva guarito l'uomo dalla
sua coscienza malata, dall'angoscia dell'esistere, dalla sua follia. E
ritornarono a galla, forse con maggiore insistenza, i piccoli personaggi
nati dalla fantasia allucinata di quel pessimista che, sotto l'autoritarismo
imperante, aveva osato impedire che lo spettatore fosse trascinato nel
turbine della dialettica politica. Egli non aveva creduto mai in un teatro
che intendesse impartire rigorose lezioni di politica e di morale, destinate
a mutare la coscienza dello spettatore, ma soltanto in un teatro senza
aggettivi, senz'altra qualificazione che se stesso. |