Presentazione
(CORRADO Alvaro)
Che la salute di Pirandello andasse declinando,
cominciammo ad accorgercene noi suoi amici quando egli ci lesse, come era
consuetudine della sua generazione, una delle ultime sue commedie, Non si sa
come. Gli ballava il foglio davanti agli occhi, e la sua direzione di attore
esperto non era più quella; ma confusa e senza la virtù che gli conoscevamo. La
rappresentazione di quella commedia, davanti a un pubblico non convinto ma
reverente, ricordo mi diede un malessere. Gli spettatori credettero di doversi
scuotere al pezzo che descrive una lucertola, che è un bel pezzo di prosa e di
bravura, e profittarono per fargli un grande applauso. Ero in un palco di
proscenio e ricordo le prime file delle poltrone col pubblico attento ma come a
una cerimonia. Credo sia triste per uno scrittore quando termina l'età della
lotta, e il pubblico lo festeggia là dove un tempo avrebbe dato torto. Non so se
Pirandello lo avvertisse. Ma in quei giorni era inquieto. Pensava di trasferirsi
a Milano. Invece si ammalò. Lo vidi proprio quel giorno di novembre del 1936 che
tornava dall'avere assistito in un teatro di posa alla ripresa d'un film tratto
da un suo romanzo: aveva i brividi, camminava su e giù per lo studio, impaziente
come tutte le volte che subiva un contrattempo. Gli stavano preparando il letto.
In quel letto pochi giorni dopo moriva.
Non ero andato neppure a trovarlo durante la sua
malattia, che fu breve, perché mi dicevano che scherzava, si burlava del medico,
si burlava delle medicine. Una mattina, quella mattina, m'ero levato presto e
sentimmo con mia moglie uno schianto in casa, come un mobile che si spacca pel
caldo; cercammo dappertutto, non si era rotto niente, non era caduto niente.
Qualche minuto dopo, una voce piangente al telefono ci diceva che Pirandello era
morto qualche momento prima. Fummo sicuri che quello schianto era stato un suo
avviso, come se avesse picchiato forte chissà a quale porta. Chi telefonava era
la sua nuora Olinda, con la voce del pianto che non si conosce mai nelle
persone; ci diceva di telefonare a un prete nostro amico e letterato perché
corresse, e che corressimo anche noi.
Non avevo l'idea di che cosa fosse la morte di un
grande uomo. Ma devo dire che è una cosa crudele, è forse l'ultima crudeltà che
tocca subire alla grandezza. Forse è crudele come la morte del ricco, ma di più,
assai di più. Perché se il grande uomo lascia i viventi, non lo lasciano le sue
opere, una parte di lui rimane su questa terra, anzi rimane la parte migliore,
quella che si voleva da lui, che è più importante in lui, quella per cui la più
misteriosa delle combinazioni ha presieduto alla sua nascita. Noi entrammo in
quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa,
curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di
casa l'avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. C'era lo scaffale
dove egli non s'era mai curato di mettere ordine e di raccogliere le sue opere,
con venti copie di una, nessuna copia di dieci altre. I suoi libri non morivano.
Erano là coi loro titoli. Era difficile tenere a mente che egli non era più,
quando la costola del libro ripeteva immutabilmente dieci volte, venti volte «
Pensaci, Giacomino », « Così è se vi pare ». C'era una costernazione in molti,
ma come se egli fosse fuggito. Tutti fumavano febbrilmente. Era veramente
assurdo. Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c'era quel
silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di «
povero cristo » (mi venne a mente questa frase che era tanto solita in lui), poi
ci si accorgeva che da una parte due suore pregavano in ginocchio, e il prete
che avevamo avvertito lo assolveva. E di là, nello studio, quel chiacchiericcio
da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. Mi stampai nella mente quel
suo viso sotto il lenzuolo che non riusciva a cancellare la sua fronte e il
mento aguzzo per la barba, e tutto il profilo del suo corpo che tante volte mi
aveva suggerito l'immagine di quell'anfora greca che egli amava, che aveva
sempre davanti agli occhi quando tornava a Roma, in cui oggi riposano le sue
ceneri al museo di Agrigento.
Tornato di là, fra la gente sempre più fitta e
curiosa, il figlio Stefano mi mostrò mezzo foglio di una carta da lettere che
conteneva le ultime volontà di lui. La scrittura, per chi la conosceva, era di
qualche anno prima, la carta appassita e risecchita. Conteneva quelle volontà
senza consolazione, senza rapporti, senza rimedio, di andarsene sul carro dei
poveri, di non essere accompagnato da nessuno, di essere disperso al vento con
le sue ceneri, o di riposare in quella sua casetta del Caso, o del Caos come
egli diceva, presso Agrigento. Se ne andava solo come era sempre stato. Arrivò
il rappresentante del Governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio in cui la
scrittura era sicura come forse era stata sicura soltanto nei suoi manoscritti
giovanili, sicura, perentoria, compiuta. Che ne fosse sconcertato il sacerdote,
si capiva. Costui si dibatteva nella sua perplessità: solo Dio poteva avere
misericordia dell'uomo che disponeva di essere bruciato e disperso; il povero
prete non sapeva, non chiudeva nessuna porta, ma non poteva aprirne nessuna. Ne
era afflitto, si chiedeva perché, come se colui potesse rispondere, e anche noi
eravamo sbigottiti, quelli che lo amavamo, quasi gli avessimo tutti fatto del
male per il solo fatto d'essere uomini. Sapevamo che egli si poteva offendere
facilmente, ma sapevamo pure come egli sapesse perdonare con un bacio su tutte e
due le guance, che non era soltanto un suo modo siciliano, ma qualcosa di umile.
Ma quello che era fuori di sé e per tutt'altre
ragioni, era il rappresentante del Governo. Lesse e rilesse quel foglio, se lo
copiò, e si domandava come avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo,
un uomo celebre che va via in quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza
un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio sovratutto, chiedendo di essere
coperto appena di un lenzuolo ma da nessuna uniforme, da nessuna camicia nera
come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazioni, senza feste.
Il rappresentante del Governo era un bravo tipo e umano, ma doveva risponderne
al suo capo, e il capo non poteva raggiungere un uomo nella morte; almeno la
morte era cosa tutta privata; la sola, allora. Disse: « Se n'è andato sbattendo
la porta ». Di fronte alla perplessità di quel funzionario, c'era da misurare
una condizione umana, e veniva fatto di invidiare colui che era dileguato a quel
modo con la sua morte, rifiutando quegli onori per cui gli artisti vanitosi si
compiacciono di contemplarsi perfino nella morte, e senza paura delle vendette
che si potevano fare sulla sua memoria. E fu istruttivo, in quelle ventiquattr'ore,
sapere che sul tavolo del più potente tra i cittadini si battevano indignati i
pugni, che ufficialmente era negato allo scomparso un discorso maggiore di
quello consentito a un fatto di cronaca, che uno, autore di un racconto col
titolo C'è qualcuno che ride, annunciava il nulla a tutta la gloria e a
tutta la potenza, ed era lui che rideva. Pirandello, nel punto supremo del suo
destino terreno, affermava di essere libero e solo. Affermò di essere libero
soltanto nella morte. Fu un fatto che tutti sentirono, anche se non se ne
spiegarono il valore di riparazione di ogni possibile errore o debolezza.
Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli
ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio
Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada
bagnata, tutto puntato in avanti per non scivolare. Veniva fatto di scorgere
ogni cosa come il caro maestro l'avrebbe veduta. La bara di abete tinto da poco
con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero
fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al
viale. Uno accanto a me si mise a lacrimare confusamente come un bambino. Aveva
i capelli grigi. Il carro scomparve all'angolo, colla sua rozza che tirava di
traverso. Tornammo per la città coi suoi rumori attutiti dalla nebbia e pareva
di udirla in uno stato di stordimento. Nell'autobus, un individuo sedette
davanti a noi. Non si accorgeva di avere sulla spalla destra una striscia di
terra bruna, da cui lo riconoscemmo per uno dei portatori. Lo guardammo
scendere, perdersi tra la folla di un quartiere popolare dopo il primo guadagno
della giornata.
Il 28 dicembre del 1937, gli eredi di Luigi
Pirandello firmarono l'atto di donazione al demanio dei mobili e dei libri
appartenuti a Pirandello e rimasti nell'appartamento che egli occupò a Roma
negli ultimi anni della sua vita, in via Antonio Bosio, nella stessa casa dove
egli un tempo aveva abitato, dove tornò ad abitare e dove trapassò. La casa,
cioè i muri, che Pirandello aveva in affitto, era già stata acquistata dallo
Stato, e accanto a quello studio con camera, bagno, ingresso e terrazza, è
aperto un ufficio di Pesi e Misure. L'abitazione di Pirandello è all'ultimo
piano, la porta a destra. Io da allora non ci sono più stato, ci potrei tornare.
Dovrei rivolgermi al custode. Sul pianerottolo della scala esterna, forse è
rimasto sulla pianta spoglia, e non più che un grumo umidiccio, qualche fiore
della pianta di gaggìa, con un lontano profumo arso di giovane chioma e
d'estate. Ritrovavo questa pianta andando da Pirandello, e mi riparlava del sud,
per quanto fosse una pianta tenue al confronto dei grandi alberi di gaggìa di
laggiù.
All'ultimo piano, la porta a destra si apriva
facilmente; c'era la chiave nella toppa. A volte usciva ad aprire, da una
stanzetta accanto, il cameriere di Pirandello, che era anche il suo autista, e
che aveva finito col comperarsi anche lui una macchina da scrivere e a comporre
drammi. Difatti egli veniva fuori con l'aria astratta e lesa di chi ha lasciato
una pietanza sul fuoco o una pagina sul tavolino. Era stato prima a servire da
un cardinale e ne aveva preso il fare pacato di chi ha tempo a tutto. Guidava
l'auto alla velocità d'una diligenza. Me lo ricordo una volta che tornavamo da
Ostia. Non c'era macchina che non ci passasse avanti. Pirandello cominciò a
spazientirsi. Quello accelerava, ma di poco. Pirandello andò su tutte le furie.
Quello attaccò i cento chilometri, e Pirandello si chetò come ci si cheta tesi
al filo della velocità. Pirandello aveva negli ultimi anni una cicatrice sul
naso, presso la narice. Fu per un incidente d'auto. Viaggiava con una signora.
L'auto andò a cozzare contro un altro che frenava bruscamente. Mentre il vetro
del parabrezza andava in frantumi, Pirandello fece scudo al viso della signora
col suo viso, e prese su di sé quel segno.
Preferisco non tornare in quello studio e
affidarmi alla memoria. So che hanno applicato un cartellino col numero a ogni
mobile e oggetto; al cannello della penna, al calamaio, alla sedia, ai libri, a
tutto. Come avranno fatto con quel cassetto dove c'era un mucchio di foglietti
di appunti alla rinfusa, come in un sacco, e il manoscritto diligente dell'Enrico
IV? C'è la sua vecchia valigia di cuoio, con una chiusura a sacco, presso
il tavolino; una macchina da scrivere nuova che gli regalarono in America, mai
usata, su uno scaffale. Sulla parete di fronte alla porta, un dipinto del figlio
Fausto, una Crocifissione (Pirandello non era religioso, ma l'immagine della
Passione era la sua immagine familiare, e quando parlava di un uomo o di un
personaggio sofferente lo chiamava « povero cristo »), sotto, sullo scaffale,
c'erano alcuni ritratti di amici; nel mezzo della stanza, lunga una diecina di
metri, c'era il vaso greco figurato, su una colonnina, unico ricordo della sua
Sicilia. Al soffitto, nel mezzo, un vecchio lampadario di Murano, grande e
magnifico. Il tavolino nell'angolo a destra, era quello cui egli s'era sempre
seduto dall'età delle prime ambizioni letterarie, della fattura classicheggiante
di quel tempo; un tavolino di falso Cinquecento, come gli scaffali, come la
sedia, come le due o tre scranne di quello stile che chiamano Savonarola, e
queste portavano incisa l'immagine del domenicano nello schienale. Questa era la
preistoria di Pirandello, la sua figura giovanile: c'era dentro il classicismo
carducciano, di cui egli aveva subìto l'influenza; ma non la ventata
rinascimentale dannunziana. Egli diceva di non aver mai letto d'Annunzio. Egli
si ridusse, presso codesti mobili sopravvissuti, a un tavolino basso con una
piccola macchina da scrivere e uno sgabello imbottito. Grigio, diligente,
scriveva con un dito sulla macchina come se stesse sempre imparando, e
stranamente la sua fatica pareva uno scherzo. Lasciava infilato nella macchina
il foglio cominciato, senza ombra di difesa o di segreto. Ve lo poteva anche
leggere, perché era di quelli che leggono le proprie cose e poi stava a sentire
i vostri commenti come se gli leggeste la mano o le carte. Della facoltà
critica, che prese tanto sviluppo nella generazione seguente alla sua, e che
finì col farsi un linguaggio astruso, gli mancava ogni elemento. C'era forse una
certa timidezza, in lui, di fronte a questo raziocinare della nuova generazione,
ma pure una segreta convinta superiorità, se è vero che egli non lasciò inedita
una sola pagina, che di suo raccolse ogni cosa, rimandando a un'opera tra le più
intricate, in cui, a conti fatti, non s'è trovato un critico che si sia cacciato
in esplorazione.
Nel mezzo dello studio c'era un divano con le
spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era
uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e
grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche
grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a
certe stagioni quel fruscio, come uno scartabellare, che fanno gli uccelli tra
le foglie cadute, e poi i merli apparire con quel giallo del becco, come un
chicco di granturco che non riescano a inghiottire. È strano che questo fruscio
faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia
trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato. Ma forse questo è
dovuto al fatto che la carta fra quelle quattro mura in cui dominava il turchino
del tappeto grande e soffice, non aveva l'importanza che ha solitamente là dove
è il suo regno. I mezzi fogli e i quarti di foglio a quadretti su cui Pirandello
scriveva, non avevano nulla da fare con l'epoca della carta filigranata e di
straccio che, come tanti altri modi del tempo, è finita nell'uso comune, fra gli
attributi della distinzione. Fra gli elementi di suggestione che accompagnano il
cammino dello scrittore nel viaggio intorno alla propria camera e al proprio
tavolino, si trova la carta, la sua consistenza, quel suo ingiallire e
risecchirsi, prendere un colore umano e di vita, una grana di epidermide col
trapasso degli anni. Il senso di officina, o di fucina, come dicevano gli
scrittori artieri, nello studio di Pirandello non c'era. Non c'era l'ebrezza del
buon inchiostro odoroso, e della scrittura che rende prezioso il foglio di
carta, come dice quel sonetto di Michelangelo, e che è come un disegno uscito
dalle mani dello scrittore. So che questo sentimento può accompagnare la fatica
di chi scrive, renderne dilettosa la strada, dare, come le linee d'un
sismografo, l'oscillazione di un umore, imporre di per sé una disciplina. A
nessuno sfuggirà, in una pagina del Petrarca, per citare il prototipo d'una
pagina composta anche nella sua esteriorità, o in una di Leopardi, per
ricordarne una in cui si trova una diligenza di allievo, l'incanto d'un'opera
manuale, la bellezza da disegno, da ricamo, opera dell'industria umana. Ma è
raro che degli scrittori noi vediamo la pagina sudata; bensì l'ultimo foglio,
quello in cui essi ci si presentano col sorriso con cui in ogni arte si nasconde
la fatica, quello che chiamerei il sorriso della ballerina, in cui le sole
labbra ridono, mentre gli occhi attoniti nascondono l'affanno. La noncuranza di
Pirandello verso tali forme, fu piuttosto delle sue ultime pagine. Certi
quadernetti giovanili, le copie manoscritte di certe sue opere, avevano una loro
estetica e diligenza da allievo. Pirandello, nel forte del suo lavoro, aveva
cercato le scorciatoie proprie di quando il pensiero è troppo rapido, grande la
fatica, quando la testimonianza dei tentennamenti della penna e della stessa
macchina da scrivere sgomentano, e si vorrebbe perdere il senso del mezzo di cui
ci si serve, mentre tutto fa grumo, e l'inchiostro, e la carta, il pensiero, la
espressione. In un certo tempo, Massimo Bontempelli escogitava qualche mezzo per
rendere meno grave questa fatica dell'uomo piegato in tre su una sedia, davanti
al vuoto del foglio bianco, nel lavoro che è l'unico innaturale, anzi
antinaturale, di chi scrive. Scrivere stando accovacciati, mezzo sdraiati,
bocconi, a letto, in una cuccia, in una poltrona con una tavoletta sulle
ginocchia: tutti mezzi per illudere la fatica. Vi si provò anche Pirandello, e
si fece anch'egli un'asse come quelle dei disegnatori, escogitata da Bontempelli,
per scrivere stando in poltrona. Ma Pirandello era arrivato a vivere così
strettamente con quello che aveva da dire, che non aveva più bisogno di un
raccoglimento esteriore. Lo disse a sazietà, che la vita si vive o si scrive.
Il suo appartamento, come egli se lo mobiliò
negli ultimi anni, diceva qualche cosa della sua vita esteriore, nulla di quella
intima. Gli oggetti da cui era attorniato non fornivano nessun indizio intorno
alla sua personalità; non c'era in lui affezione verso nessuna forma, se non
verso quel vaso greco. Se mai, la sua stanza poteva ricordare qualche sala
d'albergo, come ne aveva vedute e abitate negli ultimi vent'anni suoi; i vecchi
mobili della sua pazienza giovanile erano là dentro come in una custodia; i
libri, saccheggiati da chiunque, alla rinfusa: ci si poteva trovare una storia
di Venezia in più tomi, e non si capiva che ci stesse a fare, e un minuscolo
Boccaccio. Non possedeva neppure tutte le sue opere. Era inutile cercarvi i
segni di un'abitudine o di una preferenza. Tutto vi era casuale, e tutto gli era
estraneo. Quando volle abbellire la sua cameretta là accanto, vi fece ancora una
stanzetta d'albergo: un letto di ottone, e certo lampasse turchino alle pareti.
Non lo sentii mai parlare di mobili, di oggetti di decorazione, ma molto di
uomini, dal fondo di tutte le città che aveva vedute, e come seguitando ad aver
da fare con essi, contrastarvi, accordarsi, inveire. Il giudizio che dava sugli
uomini glielo dettava il momento, la circostanza, l'umore; e non era mai
definitivo. A un giorno di distanza diceva l'opposto, ed erano a volte giudizi
fantastici, immaginazioni.
Lasciava parlare e ascoltava. Di solito era
scontento e inquieto. Dava un senso di solitudine; nessuno gli poteva far
compagnia veramente, ma piuttosto distrarlo, incuriosirlo. Ricordo una sera,
c'era la luna, e una spalliera di rose a Porta Pinciana faceva l'ombra di un
balcone amoroso. Noi giovani, ognuno con la sua donna accanto, si scherzava, si
faceva il chiasso, era così bello che pareva già di ricordarsene. Pirandello
camminava solo in disparte, col suo passo dai malleoli ravvicinati, il cappello
largo, le mani in tasca: aveva lo stesso profilo del suo vaso greco; mormorava
qualcosa, solo. Sono passati anni. L'aria era dolce, c'era un odore di rose
greve come un sonno nella notte. Un altro tratto di lui era l'attesa come era
capace di aspettare ansiosamente un amico, un libro, una visita. La chiave dello
studio era nella toppa. Bastava girarla, e si entrava. Solo, quasi sempre, lo si
ritrovava dopo avere cercato nella stanza grigia e azzurra; veniva avanti
grigio, d'argento, senza età.
Era nella stagione grigia dell'artista, quella
stessa in cui i grandi uomini si ritrovano con un pugno di cenere, quando, vivi,
sono già sospinti nella storia; che è il momento più difficile da sopportare: la
vita spinge, il mondo ricomincia volubile e ciarliero, con la crudeltà naturale
dei nuovi princìpi. Su un tale uomo già compiuto non ha più vigore la vecchia
misura, e quella nuova spetta alla storia. È il momento in cui egli si volge a
guardare i nuovi che avanzano a bandiere spiegate come un giovane esercito, e
mai il mondo fu più bello e il destino più sicuro. E il tempo in cui talvolta
l'uomo al tramonto si china a raccattare lo strumento dalle mani incerte dei
giovani e traccia la sua ultima opera col colore dei rimpianti e con la
illusoria fioritura dell'autunno. Ed è il tempo in cui all'uomo non è dato più
sentire un giudizio certo di lui. Troppo se ne parlò. Il gioco è fatto. Quello
che è scritto è scritto. Mi parve di avvertire un simile momento in Pirandello.
Ma non gli sentii mai dire una parola.
« Quello che è scritto è scritto ». Pirandello
ricordava questa frase da Giovanni Verga. Quando Verga fu nominato senatore,
Pirandello andò a Catania per festeggiarlo. Tenne un discorso in suo onore.
Verga lo ascoltò, e alla fine gli disse: « Caro Pirandello, avete detto
bellissime cose e ve ne ringrazio. Ma ormai, che c'è più da fare? Quello che è
scritto è scritto ». Ciò che sentì e pensò Verga in oltre trent'anni di distacco
dalla letteratura non ha che rare testimonianze. Si sa che egli non parlò mai
più d'arte come se artista non fosse stato mai. Ma le parole che disse a
Pirandello significano qualche cosa. Tristezza delle cose compiute, orgoglio,
distacco, quasi egli avesse agito, nel momento della sua ispirazione, come uno
strumento di qualcuno più alto. Come molti veri scrittori, Verga scrisse cose
bruttissime accanto alle sue immortali. Non era un artista; era un poeta. Non
aveva una tecnica o un mestiere. Era uno di quei grandi infelici condannati a
ciò che hanno da dire; tutto l'opposto del letterato. Pervenne alla lingua come
un primitivo, rinnovò la nascita d'un linguaggio mentre il linguaggio letterario
era già maturo, più che maturo. Ma non è soltanto il fatto della lingua.
L'Italia era un piccolo paese, ma la sua tradizione rimaneva sempre quella d'un
mondo. Era il paradosso della vita italiana. La società dei letterati parlava
dall'altezza di quel mondo, viveva negli astri della sua tradizione. E sotto, un
paese diverso nasceva. Il cafone, il pescatore, la nuova società che saliva dal
Risorgimento erano i vigorosi superstiti di una immane rovina. Non erano
catalogabili con gli schemi letterari in uso. L'Italia che ancora cento anni
prima fu ricca come la più ricca nazione, si ritrovava povera nel secolo del
ferro e del carbone. Su questa nuova vita italiana, la letteratura puntellava
ancora il dominio d'un linguaggio e d'un modo tristi e grandiosi come tutte le
grandi rovine. Manzoni aveva parlato dei poveri; ma veduti da cattolico, dal
paradiso. Verga, pur provenendo dal naturalismo, non cadde nel fatto sociale. Si
limitò a recare la testimonianza della energia del popolo italiano. La società,
già dominata dal melodramma, si trovò in piena epica borghese, cantore
d'Annunzio. Anche questa era volontà di vita che si manifestava subito con una
avidità di godimento. L'aspirazione di quel tempo era dimenticare le origini,
entrare nel mondo degli eletti, dove i bisogni sono squisiti. Nell'opera sua più
debole, quella che non sembra neppur sua, anche Verga cedette a tali
aspirazioni. Ma a un certo punto riportò quella pur feconda inquietudine alle
sue origini, alla prima lotta con gli elementi e con gli uomini. Gli elementi
più benigni, più maligni gli uomini. Nessuno si riconobbe in quella storia
sommessa. Per un'ironia frequente nel destino degli scrittori, dai panni
popolani della Lupa nacque la Figlia di Iorio e la sua discendenza di donne che
ci fanno sentire ancora i loro furori nella letteratura. Pirandello scrisse la
seconda parte dell'opera cui aspirava Verga, il dramma della piccola borghesia
venuta fuori dal Risorgimento.
Una volta, entrai
nello studio di Pirandello e mi dissero che c'era una lettera di d'Annunzio. Fu
qualche giorno dopo che Pirandello aveva curato la regìa della Figlia di
Iorio al Teatro Argentina. Pirandello sedeva sulla sua solita poltrona,
davanti a un tavolinetto ingombro di carte e di oggetti; lettere, opuscoli, una
medaglia coniata per lui dagli italiani in qualche nazione d'America, e la
scatola vuota della medaglia del Premio Nobel; tutto nel solito disordine. Sì,
era disordinato fra le sue carte e i suoi libri, quanto era ordinato nei
pensieri e nei ricordi, e in genere in tutto ciò che apparteneva al suo regno
fantastico. Si faceva l'abitudine a vedere i suoi libri negli scaffali, messi
senza un criterio, e in quel disordine vedere tutto conservato, tutto: un libro
di poesie arrivato di fresco da qualche provincia teneva compagnia a Petrarca, e
un opuscolo di propaganda stava accanto a un filosofo; mentre altri libri, del
tutto insignificanti, occupavano un posto bene in vista profittando di quella
confusione. Non dico di certi suoi cassetti, dove pure una volta ebbi incarico
di ricercare alcune carte: c'erano fogli di almeno trent'anni di vita alla
rinfusa.
Pirandello non aveva nessuna delle abitudini del
letterato; aveva il disprezzo più naturale dell'ordine e della scena che ogni
letterato si fa intorno anche senza volerlo e per la semplice abitudine di
dovere stare fra quattro mura. Come se fosse sempre in viaggio, le cose che lo
circondavano avevano lo stesso senso degli oggetti messi in una valigia. Ciò che
poi contrastava con l'ordine casalingo della sua camera da letto.
Dunque, arrivando da lui quel giorno, mi dissero
che c'era una lettera di d'Annunzio. La lettera era delle solite; parlava di
emulazione, come d'Annunzio faceva spesso con quelli della sua generazione: «
l'emulo », il « fratello maggiore e minore », - era scritta nelle dovute forme e
con quella magniloquenza della scrittura che là, in quella stanza dove i libri
messi a quel modo parevano burlarsi della gloria, non faceva nessuna
impressione. E poi, in quella stanza non c'era il più lontano culto della
scrittura, non si sarebbe trovato per calamaio altro che una boccetta
d'inchiostro e una cannuccia col pennino d'acciaio, e su un tavolino basso una
macchina da scrivere con la cenere e i fili di tabacco di molti lavori; sul
mezzo foglio infilato, si poteva leggere, in una diligente scrittura a macchina,
a che punto era arrivata la commedia o la novella che Pirandello andava
scrivendo. Accanto alla lettera dannunziana posata sul tavolo, c'era una scatola
d'argento con sopra una delle imprese e un motto di d'Annunzio. La scatola era
piena di sigarette. Pirandello ne offrì, ne accese una e la buttò digustato.
Erano sigarette profumate di una forte essenza di rose. « Sempre il solito »
disse riferendosi a d'Annunzio. Messaggio e dono erano arrivati pel tramite
d'una persona, perché d'Annunzio pare ignorasse l'istituzione della posta. La
ignorava pure Pirandello, ma perché scriveva raramente lettere, e quasi soltanto
per cose urgenti, e ai suoi familiari e alla donna che amava.
Si parlò di d'Annunzio. Pirandello lo aveva
conosciuto nella sua giovinezza a Roma, e più visto che conosciuto: lo ricordava
con la sua ricercata eleganza dei tempi romani, quella che alcune fotografie
ricordano, con due dita di polsini inamidati fuori delle maniche, il colletto
alto, il tubino, e giacche di taglio molto ardito. Era il tempo in cui
Pirandello vestiva come un letterato di provincia, e con un gran cappello
dall'orlo zaganato.
Alla fine dei suoi giorni, Pirandello si
ritrovava scrittore nuovo. Per non notare altro, mi basterà accennare al tema
predominante del suo ultimo libro Una giornata: le ricerche
dell'essenziale, quasi che, dopo tanto lavoro, non fosse riuscito ad aprire
quella ben serrata conchiglia che è la vita. Era in definitiva, la ricerca d'un
tema molto grande, il tema della purezza. Le pagine che portano il titolo di
Effetti d'un sogno interrotto, furono le ultime pagine di lui. Come non
molti scrittori, ma come i più profondi, egli si aggirava intorno a un tema, che
ha travagliato la mente di tutta la più inquietante letteratura; al tema della
colpa che è alle origini della vita e della morale: quali sono i moventi dei
nostri atti; che cos'è la purezza; che cosa è l'amore; che cosa è la donna;
quale è il potere demoniaco dell'uomo.
Colpiva spesso, in Pirandello, il suo giudizio
generale sull'altra metà; che era francamente pessimistico. Una delle sue ultime
letture fu Boccaccio, che in queste cose vide fino alla feccia. Ma raramente ho
veduto tante delicate attenzioni verso la donna come in Pirandello, tanto
piacere di starvi insieme, di ascoltarla parlare. Non so come accadesse in casa
sua, che nelle riunioni le donne finivano sempre a stare in gruppi separati
dagli uomini. Ricordo Ugo Ojetti una sera, confinato su un divano tra uomini,
che di lontano cercava di raccontare qualcosa di garbato al divano opposto delle
donne. Da un pezzo non leggevo frasi come « eletta signora », « eletta amica »
nelle dediche dei libri di un autore. Le vidi uscire dalla penna di Pirandello.
C'era in lui un vecchio senso cavalleresco, un'antica concezione della donna,
insieme con questo pessimismo fondamentale. E naturalmente l'uomo rappresentava
il diavolo, il corruttore. Una volta lo vidi tornare da un colloquio con
Mussolini, rabbuffato. Disse: « È un uomo volgare », e raccontò che colui gli
aveva rimproverato il suo ritegno, e gli aveva detto testualmente: « Quando si
ama una donna non si fanno tante storie, la si butta su un divano ». Pirandello
aveva la stima antica verso la madre, la sposa, la sorella, la figlia, e cioè
verso la donna nella funzione che sola gli antichi drammatizzarono e
poetizzarono, e un profondo scetticismo verso la donna amante quale poi la
letteratura moderna cercò di portare sul medesimo altare e al medesimo culto
della maternità, filialità, sororità. In lui, il dramma vero della donna era
quello che ad essa attribuivano gli antichi.
Negli ultimi suoi anni, Pirandello aveva portato
questa indagine sulla fedeltà e sulla purezza in un mondo più poetico che non
nelle sue opere precedenti. Ho ricordato Effetti d'un sogno interrotto.
Il tradimento inconscio, involontario e non deliberato, era il punto di tale
indagine; e forse neppure il tradimento, ma lo stesso offuscamento che sulla
donna portano i pensieri dell'uomo, i desideri proibiti e insani. Questo fu il
tema d'un suo dramma non ugualmente felice. Era il lato classico di Pirandello.
Lo aveva mostrato crudelmente in quella commedia che si chiama L'uomo, la
bestia e la virtù. Ed era per lui un motivo sempre nuovo, era il suo
stupore, una meraviglia da adolescente, se adolescenza vuol dire scoperta
stupita e sbigottita degli elementi impuri in una vita che la fantasia ha
concepito come totale e ideale. Era il lato giovanile di Pirandello. Era la sua
netta contrapposizione con tanta letteratura di prima e di dopo di lui, che al
confronto può sembrare roba di ragazzi viziosi. La sua preoccupazione della
purezza era una preoccupazione di coscienza sgombra dal male.
Siccome Pirandello fu un uomo innamorato fino al
penultimo anno della sua vita, io lo vidi più di una volta, a Berlino e a Roma,
in compagnia della donna che egli aveva collocato in cima ai suoi pensieri.
Cercando in quel famoso cassetto della sua scrivania, mi venne per le mani un
foglio ingiallito in cui confessava la fine della giovinezzza, un corpo
travagliato dagli anni, e perciò la fine dell'amore. Segnava il punto giusto: la
fine della stagione dei piaceri proprio nel tempo in cui l'uomo non può dare più
gioia di quanta ne riceva. Non considerava l'amore come una frode su un corpo
inerme; ma in quel modo virile che è donare. Perciò, forse, si prese negli
ultimi anni la parte di chi dà quello che è sicuro sia un dono: l'amicizia, una
calda ammirazione e affezione, una protezione e una esperienza.
Ricordo di lui, accanto a certe grandi generosità
di cui era capace, la puerile avarizia dei fiammiferi o d'un'acqua preferita che
egli beveva a tavola e che non concedeva a nessuno. Una volta che la sua amata
era a pranzo, egli versò di quell'acqua invitandola a bere perché era una «
acqua che faceva bene ». E questo era tutto lui. Entrando un'altra volta nel suo
studio, trovai quella tale donna sdraiata su un divano, e s'era levate le
scarpine mostrando i piedi nudi. Era stanca. Eravamo di primavera. Mi parve di
capire che Pirandello ne fosse imbarazzato. Davanti a quella stanchezza
primaverile, egli si comportava come con una bimba, e col piccolo animale che
egli aveva sempre veduto spuntare primordiale e crudele nella donna.
La prima volta che vidi Pirandello fu in un
villino intorno alla via Nomentana (non quello dove terminò la sua vita e che
aveva già prima abitato passandovi anni di grande lavoro, e dove era tornato nel
1932). Pirandello tornava dai successi d'America e aveva comperato un grande
tappeto di Smirne. Questo tappeto, turchino e rosso, fu uno dei pochi lussi che
io gli vidi. Per quanto egli fosse stato ricco e allora fosse agiato, questo
tappeto rappresentava il suo nuovo incontro con la fortuna. Questo tappeto ci
stava per caso, e non significava niente di decorativo e di estetizzante; c'era
per la necessità di avere qualcosa di caldo e di soffice sotto i piedi. Io me lo
ricordo come l'annunzio di un'epoca grande ben vissuta e ben lavorata; per
questo ha tanta importanza nel mio ricordo. E Pirandello stava seduto tra i suoi
amici, contento, come era contento lui quando gli era riuscito bene un lavoro.
Nello stesso atteggiamento lo ricordo quando tornò dal Premio Nobel. Era come se
fosse cominciata una buona stagione.
Tra i mobili, il suo tavolo da lavoro, che fu
quello di sempre, era troppo alto, la sedia bassissima; e per quanto egli fosse
di bella statura, non immaginavo come ci potesse stare a lavorare. Poi lo vidi
qualche volta: stava come un ragazzo davanti a un banco troppo alto, il piano
del tavolo gli arrivava alle ascelle; doveva star su con le spalle. Forse questo
atteggiarsi nel lavoro lungo diede al suo portamento quell'impressione di
raccolto in su, una impressione di albero. Lavorava con la sua calligrafia
onesta, precisa, ottocentesca, di cui amava certe maiuscole molto belle ed
ariose come la P del suo cognome. Insomma, a cercare negli oggetti intorno a lui
e in lui stesso un solo indizio delle audacie di cui era capace in arte, ora
tempo perduto, o almeno tempo per fantasticargli vicino.
Ma il suo vero lusso era il vaso greco trovato in
un campo di Agrigento, quello dove sono ora raccolte le sue ceneri, e che dopo
essere rimasto intatto centinaia d'anni nel sodo della terra, si sciupava ora
all'azione dell'aria. Egli ne parlava spesso, gli dispiaceva di vederlo
deperire. Ne parlava come del suo paese, il solo di cui gli abbia sentito
rammentare luoghi, aspetti, ore, e sì che aveva viaggiato parecchio mondo. Il
suo patriottismo era proprio da greco, o direi da meridionale. Quella balza,
quel colle, quei templi, quella campagna, quel mare. Dei greci non aveva il
senso della natura altro che per questo, e il mondo lo vide da pellegrino. Me lo
ricordo così anche a Berlino. Gli uomini lo interessavano. Già del suo paese
ricordava precisamente i colori, i caratteri, le avventure. E allo stesso modo
ricordava gli uomini d'ogni altra parte del mondo. Mi pareva alle volte di
capire il suo segreto nel capirli, che è poi il segreto dell'arte sua. Da buon
pellegrino, tutto il mondo per lui era paese, e dunque non si affidava a nessun
sentimento di stupore, o a nessun pregiudizio di razze: egli scorgeva le
passioni dominanti, invariabilmente le stesse, quelle poche e forti proprie
dell'uomo. Dei suoi viaggi non gli sentii nessun ricordo di paese, molti sugli
uomini. E di costoro non ebbi mai l'impressione che parlassero un'altra lingua.
Egli riduceva tutti al medesimo linguaggio, che era la misura morale.
Arrivava perciò all'arte da una strada tutta sua
e da reazioni umane, di carattere, di moralità, come un antico. Era tutto e
niente altro che uomo. Mai uomo di lettere. Non cercava eccitanti nei libri, e
difatti non cercava libri nuovi se non quelli che gli arrivavano. Questi leggeva
quasi tutti cercando la rivelazione di un artista. Ultimamente era tornato ai
grandi scrittori, stava con Boccaccio e Shakespeare. Un giorno, a proposito
d'una novella di Boccaccio, la VII dell'Ottava Giornata, a sentirgliela
rammentare mi parve cosa nuova: il nucleo drammatico, il carattere, il
conflitto, venivano fuori come in una vicenda senza tempo. Allo studente che si
vendica della vedova crudele, aggiungeva parole moti e svolgimenti suoi,
prendendo piacere a mettersi nell'animo dell'uno o dall'altra. Tutti i
personaggi riusciti diventavano per lui altri personaggi, uno si trasformava in
tutti a formare la vita folta e avventurosa. Leggeva attentamente,
rigorosamente, come se alla fine volesse rendersi conto del segreto dell'arte.
Credo che l'arte gli apparisse ormai come troppo poco, un mezzo niente altro che
umano. Di questo ebbi timore di chiedergli.
Ma l'arte era il solo mezzo per entrare in
rapporto con lui. Non so come facesse a conoscere quello cui gli altri scrittori
stavano lavorando, ma di quanti stimava sapeva; e aspettava sul serio, come si
aspetta un miracolo, o un gran giorno. Per essere accolti da lui come egli
sapeva accogliere, con uno sguardo scrutatore e benevolo, come se ne dà agli
adolescenti, bastava per raccomandazione una pagina buona. Mi ripeté più volte
di ricordarsi d'un libretto di poesie con cui un nostro scrittore aveva
cominciato. Se lo ricordava posato su un tavolo quel libretto, e faceva il gesto
di chi ammonticchi qualcosa davanti a sé. In questo gesto l'arte diventava
qualcosa di solido, e quel principio luminoso. Anche i suoi occhi erano
luminosi, e interamente confidenti quando parlava o sentiva parlare d'arte.
Preferiva ascoltare. Per ogni altro discorso, di cose umane e personali, un
baleno dei suoi occhi chiari e acuti sembrava dirvi che egli conosceva tutto e
che niente valeva la pena, se non fosse cosa dello spirito. C'era un'ironia, non
per voi, ma per gli eventi della vita; e più d'uno davanti a quegli occhi sentì,
credo, l'inutilità di affannarsi troppo. Questo non era pessimismo. Dava il
sentimento che egli conoscesse il gioco: ispirava fiducia. Senza troppe parole,
si usciva dal suo studio più preparati.
E per poco che stimasse uno ne parlava
dappertutto, a Milano come a Parigi o in America, al punto che, incontrando poi
in viaggio qualcuno cui egli avesse detto di voi, trovavate un amico legato da
un ricordo comune, e questo ricordo denso come un paesaggio, come un passato,
come un galantuomo, era Pirandello. A ritrovare poi Pirandello, vi covava coi
suoi occhi chiari e fermi. Una volta rovesciò il capo sulla spalliera della
poltrona, socchiuse gli occhi, con un atteggiamento che gli era consueto, e
disse: « Ora bisogna fare qualcosa di buono e di vero ». Diceva « bisogna » e
parlava all'impersonale ma si riferiva a chi gli stava accanto, e insieme a
quella grande famiglia che era per lui l'arte. La sua amicizia legava come un
patto e una promessa.
Sembrava perciò che appartenesse a una grande
corporazione o famiglia che ha le radici profonde e le spinge lontano
nell'avvenire. Che una persona a lui vicina intraprendesse un lavoro, diventava
un fatto collettivo; dava l'impressione che un occulto universo aspettasse. Ne
parlava e chiedeva notizie. Io non lo feci mai, ma so di scrittori che gli
leggevano le opere loro atto per atto, scena per scena, capitolo per capitolo. I
suoi giudizi e i suoi suggerimenti non toccavano problemi di estetica mai; la
sua critica cominciava generalmente da dentro, dal personaggio; meglio ancora,
cominciava dall'autore e dal suo atteggiamento di fronte ai fatti della vita e
ai problemi della finzione. Un'idea diventava una forza in movimento e bisognava
portarla alle estreme conseguenze. Così un personaggio, dacché prendeva vita,
aveva la sua necessità; perciò era istruttivo vedere quello che Pirandello
sapeva leggere in una pagina. Una volta, a proposito d'una pagina mia che non
gli piacque, mi disse soltanto: « qui manca il raccoglimento »; vi mancava,
voleva dire, la dedizione dell'autore a quel brano, e quindi la sua personalità
intera. Mi sentii toccato moralmente da questo suo giudizio, e sono certo che
esso si rivolgesse a tutto me stesso in quel momento. Mi fece bene.
Una volta se ne ebbe quasi a male per avergli io
detto o scritto che la sua narrativa più recente, che appariva nel « Corriere
della Sera », aveva risentito l'influsso del lavorìo della letteratura nuova, di
cui egli trovava eccessivo il lirismo. Sono ancora convinto che egli ne aveva
fatto tesoro e l'aveva arricchito della sua forza di narratore. Non so se
sbaglio ma il Pirandello poeta non era mai stato così felice nei racconti come
in questi ultimi brani, tra cui uno è diventato famoso, e s'intitola Una
giornata. Anche per questo la sua scomparsa parve prematura. Pareva a tutti
che egli avesse qualcosa da aggiungere al suo edificio di narratore.
Quando gli ebbi detto di questa sua nuova
stagione di narratore, non ebbi il coraggio d'insistere e di spiegarmi. Temevo
di aggiungere qualcosa di gentile parlando della sua opera a lui, e questo
rapporto troppo umano era difficile stabilirlo con un personaggio simile. I
rapporti con lui erano estremamente semplici: parlare, ascoltarlo raccontare,
stare a tavola insieme, calpestare insieme l'erba dei prati in campagna dove
egli stava sempre volentieri, ma attento, al punto che una volta, nei dintorni
di Tivoli, davanti a una merenda e al vino sincero, una contadina che più in là
annaffiava certi suoi fiori e parlava di portarli al figlio morto, « allu figliu
me' » diceva la poveretta, io vidi costei, negli occhi di lui, grande,
drammatica, e insieme troppo fragile a sostenere il dolore del mondo. Poichè era
molto difficile, stando accanto a Pirandello, e senza quasi parole come accadeva
a volte, non avvertire le sue reazioni e il suo giudizio sulle cose e sugli
uomini: ed ecco che ci si trovava a un dito dalla feccia del calice.
Mi pare strano ch'io non abbia ricordi di giudizi
suoi, e di pensieri suoi sull'arte. Pirandello era rimasto istintivo. Aveva a
volte, come nella sua opera, un certo tenebrore proprio del sud, ma molte volte
egli ha cantato come la cicala greca. Era greco, o meridionale, o mediterraneo,
il suo modo di atteggiare a mimi assai spesso i fatti umani, come nelle sue
scene rusticane, o in quella commedia L'uomo, la bestia e la virtù, e
perfino in certi suoi drammi borghesi. Greco o mediterraneo il senso del
destino, e il modo tutto suo di scovare appetiti e passioni dominanti d'un
personaggio.
Raccontava come un antico, e ancora oggi non so
per quale operazione della fantasia egli poteva affrontare un tema che noi
considereremmo inattuale, e di cui si sarebbe compiaciuto il Novellino, e
renderlo vivissimo. Questo è un segreto che mi ripromettevo sempre d'imparare;
era una continuità compatta, solidale, un'attenzione mai esaurita; come metter
mano a una vecchissima scienza e sul punto in cui antiche e vecchie mani
esercitarono un perpetuo sforzo nella medesima direzione.
Gli piaceva leggere le cose sue o di farle
leggere appena scritte. Anche gli piaceva di riascoltare le sue commedie a
teatro. Le beveva battuta per battuta, ridendo o aggrottandosi, come se non le
avesse mai intese. Non c'era in questo neppure una punta di vanità. Così
ascoltava le commedie degli altri, e perfino certe vecchie farse scadenti.
Spesso, a una battuta che partiva dal palcoscenico, egli suggeriva una replica
là per là, e alle volte era la stessa che si sentiva poi sulla scena. Era come
se conoscesse la matematica dell'opera di teatro.
Accadeva di aver da dire anche con lui. Si
sdegnava. Poi da solo se ne crucciava. Vi faceva cercare. Arrivavate nel suo
studio, e vi veniva incontro con le mani aperte, i gomiti stretti, e curvandosi
benignamente vi abbracciava e vi baciava sulle due guance. Perciò con lui non
c'è mai stato bisogno di spiegazioni.
Non gli ho mai sentito dire nulla sul pubblico.
Quando gli fischiarono delle commedie, stava come se si fosse scatenato per lui
un fenomeno naturale, una pioggia o una grandinata. Lo stesso quando si vide
portare in trionfo. Seppe vincere.
La sua fu tuttavia una vittoria fuori della
letteratura, una vittoria della fama. S'erano interessati alle nuove posizioni
teatrali che egli aveva introdotto, e che ancora oggi dominano le formule di
molto teatro europeo e americano, Shaw come Barrie, come l'industriale Ford. Ma
in Italia sulla sua opera di novelliere c'era un giudizio sbrigativo della
critica più agguerrita, e sulla sua opera di drammaturgo una sommaria recensione
di Croce, forse scritta sotto altre influenze, forse sotto un equivoco di natura
filosofica. Quanto alla scoperta che dei suoi motivi drammatici fece Adriano
Tilgher, parve a lui a un certo punto una troppo angusta prigione. Una vittoria
di tale natura egli dovette capirla e sarebbe troppo lungo cercare di spiegarsi
qui la ragione della inaderenza che accompagnò la sua fama e la sua popolarità
pur così grandi che il suo nome divenne un aggettivo. Al regime dominante egli
non poteva piacere per la sua natura e per la sua visione della vita. Bastava
guardarlo. Non aveva niente della mitologia allora in uso. Un giorno, dopo che
egli ebbe ottenuto il premio Nobel, io cercai di suscitargli intorno una
manifestazione di simpatia degli scrittori, ci fu un ricevimento in casa sua,
c'erano tutti ma piuttosto come a festeggiare un fortunato. Un'altra volta, uno
dei suoi critici meno favorevoli mi chiese di riaccostarlo a lui, l'incontro
avvenne e alla fine Pirandello mi informò che colui era andato a chiedergli il
voto per la sua elezione all'Accademia d'Italia. È probabile poi che Pirandello
avvertisse il suo distacco dal regime che gli aveva dato gli onori di cui era
prodigo alle persone eminenti, di cui aveva bisogno per la sua fama di
protettore delle arti, e che in un ambiente così equivoco, col distacco che si
operava allora fra le generazioni, egli stesso non trovasse più una presa con
una realtà. Il suo Enrico IV (1922) era stato, come scrive Mario
Apollonio nella sua Storia del Teatro Italiano, il dramma della « idolatria
delle forme storiche che tenne l'Italia per più decenni », del pazzo che « non
riesce a scrollarsi di dosso il fasto tarlato di quelle maschere ». E in una
delle sue ultime novelle, C'è qualcuno che ride, egli insinuava un
sospetto di ridicolo in un mondo pazzamente serio. Ma non aveva nulla del
cospiratore; apparteneva a quella generazione di scrittori cresciuti con
l'ideale e la missione di parlare a un grande pubblico, in una società non
ancora divisa e che rispettava una verità generale.
Negli ultimi anni, infastidito e inquieto, «
l'uomo con una valigia » cercava di darsi pace. Aveva rinunciato alla donna
amata staccandola da sé e affidandola a Londra all'amicizia e alla protezione di
J. M. Barrie. La fama non gli serviva a nulla in un ambiente sociale sordo e che
doveva rattristarlo, sebbene egli non lo confessasse per il suo naturale decoro.
Né gli serviva il denaro che egli aveva sempre concepito come patrimonio di un
buon padre di famiglia e insomma buono per gli altri, e a lui soltanto strumento
per alcune piccole comodità. Nel fondo del suo animo, determinante di tutte le
sue azioni, doveva essere presente la tragedia familiare che lo aveva colpito
fra i quaranta e cinquanta anni. La moglie, ossessionata dalla gelosia, non
vedeva attorno a sé che rivali anche nelle domestiche, al punto che molte volte
Pirandello e i figli andavano a consumare i pasti in trattoria. A quella donna,
a quanto si diceva, Pirandello era rimasto fedele fisicamente come se fosse
stato segnato da una impronta indelebile. Comunque, dovette essere un trauma
sessuale da cui egli non si riprese mai, il cui mistero non è dato esplorare. È
un trauma che si sente in tutta la sua opera.
Inquieto, dicevo, egli tornava all'idea di vivere
a Parigi in un appartamento di Avenue Victor-Emmanuel. Ma Mussolini non vedeva
di buon occhio questo soggiorno all'estero di un uomo così eminente, vi
sospettava una condanna al regime, e lo ammonì di tornare in patria. Allora egli
pensò di stabilirsi a Milano ma non lo fece mai. Aveva avuto qualche incidente
col Partito, e uno abbastanza singolare per quei tempi di soggezione. In uno dei
suoi viaggi all'estero dietro al suo teatro, Pirandello era sbarcato una volta
in Brasile. Si era trovato di fronte a italiani fuorusciti che stampavano là un
loro giornale. Pirandello, interrogato, uscì nella singolare dichiarazione che «
all'estero non ci sono fascisti né antifascisti ma siamo tutti italiani ».
Tornato a Roma, fu chiamato dal Segretario del Partito il quale aveva sul tavolo
una voluminosa documentazione di ritagli di giornali messi insieme da Enrico
Corradini, allora aspirante al ruolo di drammaturgo nazionale,
sull'atteggiamento di Pirandello all'estero. Pirandello reagì in un modo
inatteso: cavò di tasca la tessera del partito, la lacerò e la buttò sul tavolo
sotto gli occhi del gerarca; si strappò il distintivo dall'occhiello e lo
scaraventò in terra; e uscì sdegnato. Dovettero corrergli dietro, calmarlo,
chiedergli scusa.
Un'altra delle sue uscite fu la commemorazione
che tenne all'Accademia d'Italia, in una seduta pubblica, su Giovanni Verga.
Parlò per incidenza di d'Annunzio, fece il paragone tra vita e vita, tra opera e
opera, tra insegnamento e insegnamento. D'Annunzo era considerato il campione
del regime. Nella sala, e tra i membri dell'Accademia, erano molti dei suoi
amici politici. Alcuni non si tennero più sulla loro sedia, percorrevano a passi
nervosi le sale adiacenti mentre Pirandello parlava implacabile. Le signore del
pubblico erano sbalordite. Era un'accusa a tutta la società di allora. Si
temette un incidente da un istante all'altro, e sarebbe bastato poco, se il
timore di uno scandalo più grave non avesse consigliato prudenza. Pirandello non
aveva idee politiche se non quelle che gli erano rimaste impresse dalla
tradizione risorgimentale della sua famiglia. Un suo nonno era stato esule a
Malta. Non pochi equivoci, e l'inesperienza caratteristica di tutta la sua
generazione di scrittori, quanto ai fatti politici, dovevano averlo portato a
scambiare nazionalismo con patriottismo.
E poi, era uomo di prime impressioni e di
impulsi, forse di risentimenti che si contrastavano e mutavano di continuo, e
infine si placavano. Per giudicarlo sotto questo aspetto, bisogna tenere a mente
un uomo che dalla quasi oscurità di cinquanta anni di vita è sbalzato a una fama
abbagliante; il momento di questa fama coincide con l'avvento di un regime
politico, che per calcolo, gli largisce grandi onori. Bisogna pure ricordare lo
sdegno di quel tempo in molti uomini di cultura, verso la democrazia. Era il
retaggio d'una ribellione estetizzante che nella cultura italiana fece non poche
vittime, e che lasciò il paese, nella sua crisi più profonda, senza guide né
punti di riferimento.
Negli ultimi anni s'era spogliato d'ogni cosa
cara. Arrivava, ripartiva; delle stagioni della sua vita nella sua stanza vi
erano i libri, nelle diverse lingue, una figurina di Ibsen regalatagli in
Norvegia, una medaglia offertagli dai siciliani in Argentina: tutto mescolato,
cacciato con altri mille ricordi nel fondo dei cassetti, dimenticato su un
armadio. Non s'era mai veduto ancora in Italia un uomo che amasse meno
l'immagine di sé stesso. E non s'era mai veduto un poeta tanto fuor del binario
d'una rigida tradizione letteraria, la cui personalità, manifestata in un'opera
enorme e talvolta impraticabile, spesso arriva alla grande arte per vie ignote e
tutt'altro che normali, il cui nome basta a suscitare l'immagine di un tempo,
d'un modo d'essere e di agire. Talvolta un nonnulla lo stacca dalla banalità;
basta poco a elevarlo ad altezze che pochi suoi contemporanei conoscono. Il
diritto di sedere nell'olimpo letterario gli viene assai spesso da vie tutt'altro
che semplici. La sua lingua, al principio ripicchiata e di vocabolario, diviene
nel meglio della sua opera un modo d'esprimersi naturale; le sue manie a un
certo punto investono l'uomo e divengono rimpianti, sogni, incubi, segni del
destino. Tant'è vero che non c'è grande poeta senza idee fisse. Non è chiara
neppur ora la trasmutazione dei valori nell'arte pirandelliana; non è chiara
l'operazione per cui i suoi personaggi provinciali, vestiti di nero, divengono i
protagonisti d'un mondo borghese preso dai brividi del capovolgimento
d'un'epoca. E non è chiaro come la grossa farsa paesana torni, a una data
temperatura, al modello d'una commedia classica. Il suo segreto e la sua forza
stanno in quello che credette fanciullo e uomo giovane, nei suoi stessi
pregiudizi: nell'eredità insomma del suo ceppo borghese, nel doloroso decoro dei
borghesi di provincia, nel loro sacrificio oscuro, nella loro facoltà di
ammirare e di credere, perfino in una certa dose di malignità e di cattiveria,
di emulazione e di orgoglio e di culto delle apparenze, di ideali e d'impulsi
segreti pei quali alla fine, portati alla scoperta del mondo, ne rifuggono
inorriditi, poiché lo immaginano sempre più alto e più nobile. La rivolta di
Pirandello davanti ad alcuni fatti non ha più che queste ragioni e spinte. Egli
apparteneva a una classe capace di ideali e di sacrifici.
Sulle prime, la stessa società di cui Pirandello
faceva la storia, saltò in piedi indignata, quasi quanto sono indignati i suoi
personaggi di scoprirsi sul palcoscenico. Essi credono alla verità e all'onestà,
hanno diviso il mondo in bene e in male, e questi limiti non li hanno mai
aboliti, credono in una verità assoluta e incontrovertibile, ciascuno ha in sé
il suo dio e il suo giudice; lottano contro la malignità umana che strappa loro
gli ultimi schermi e le ultime povere e dignitose apparenze, si confessano a un
certo punto con dolore; essi vorrebbero essere ben alti, ben grandi, ben puri;
anche se non v'è altezza né grandezza. Vorrebbero che vi si credesse ancora.
Quando il Padre nei Sei personaggi, comincia a narrare di sé, lo fa quasi
in sogno. In genere, nell'opera pirandelliana, quando l'uomo comincia a
raccontare di sé ad alta voce scopre quale è veramente egli stesso: la colpa, il
peccato, l'errore, sentimenti ben forti nell'opera pirandelliana, prendono
consistenza come una lastra fotografica al reagente degli acidi: è definirsi che
uccide gli uomini; l'alto della parola diviene una forma di confessione e di
espiazione; i drammi si compiono parlandone; fino a quando tutto rimane sepolto
nel fondo della coscienza, è ancora increato e ingiudicato, e l'uomo è
tranquillo. Parlando, l'uomo crea e foggia sé stesso, stabilisce il suo destino.
Per arrivare a questo, occorreva uno scrittore penetrato di tanti elementi
oscuri della coscienza, colpito dagli stessi pregiudizi che tessono il destino
degli eroi dei drammi antichi e che fanno il fondo della psicologia popolare,
della sua giustizia e delle sue leggi oscure. L'uomo si inventa e si scopre
parlando.
Non ho mai conosciuto un artista più insensibile
di lui alla natura, né un uomo tanto poco accessibile a quell'altra natura
fossile che sono le rovine della vita antica. Di questo ebbi occasione
d'accorgermene sulla via Appia una sera che il vento sembrava cacciare
all'infinito la strada e tendere i cipressi. Gli chiesi che cosa gliene paresse;
mi rispose che tutto questo era sinistro. Nella sua insensibilità ai fenomeni
naturali risiede quel tanto di greco che è in lui e cioè quel tanto di stregato,
di fatale, proprio di quella civiltà che oggi possiamo misurare perché si
avvicina come nessun'altra a quella del mondo moderno, tutt'altro che serena
come fu pregiudizio di molti anni in cui le tempeste erano lontane. Pirandello
trasferì ogni sentimento della natura in una legge fatale del cuore e dei sensi,
la sua opera è abitata da antichi fantasmi ritornanti, e le ore si colorano in
lui col colore dei miti solari e dei miti lunari d'un tempo; sono complici d'un
evento oscuro e influiscono sugli uomini come nella legge delle streghe e in
quell'altra legge per cui la luna governa alcuni atti umani, gonfia i mari, è
complice delle nascite, rende velenosi alcuni pesci. In fondo a Pirandello v'è
tutto un groviglio di pregiudizi ancestrali e di fenomeni superiori all'uomo.
Dopo molti anni di letteratura determinista, è risuonato ancora nell'opera
pirandelliana lo strillo delle civette, le corna della luna che formarono la
fenomenologia delle opere di Shakespeare.
Nel 1932, alla ripresa di alcune opere del
repertorio teatrale di Pirandello, si notò come una seconda nascita di lui
all'arte. L'opera di Pirandello è troppo creatura del tempo suo per non subire
le alternative degli anni e per non avere in essi quasi un reagente. Nata con un
valore indiziario e come un segno del costume, precorritrice d'una crisi umana,
il tempo stesso ne trasforma il valore e il significato. Fu curioso vedere, a
esempio, come Il giuoco delle parti, spoglio del valore polemico che ebbe
alla sua prima apparizione, si ripresentasse quasi con lo schema d'una commedia
di Bernstein. Ma, a differenza d'una commedia borghese, v'è qualcosa che
trascende il costume vi si ritrova lo schema puro d'un dramma di tipo antico, e
ben pochi sono i residui che ricordano una moda di commedia salottiera quale
Pirandello aveva trovato nel suo cammino e nella sua formazione. Il fatto è che
la commedia borghese si ritrova in Pirandello divenuta enormemente seria. A
vederlo qual era, il teatro borghese di quel tempo è dominato da un'inquietudine
pratica, basata sulle fortune e sul ruolo del denaro, della posizione,
dell'arrivare. Lo si metta a paragone col mondo di Ibsen, mondo della borghesia
ascendente e da cui proviene quasi tutto il teatro contemporaneo, e se ne
scorgerà la differenza: in Ibsen è l'individualità e la massima espressione di
sé stessi, della propria moralità, caratteri splendenti della borghesia al suo
sorgere. Negli epigoni, si sente che molte di quelle inquietudini si temperano
in fastidi, e la conquista interiore della piena espressione individuale
dell'esplicazione di sé stessi, diventa avidità di acquisto di beni esteriori; e
la lotta per la donna, passata da quella che è nel Costruttore Solness,
all'estrema miseria del Sansone di Bernstein che ne riproduce il tema. Si può
seguitare a trovare forme parallele fra l'ibsenismo e il teatro borghese, come
per esempio fra Edda Gabler e la Marcia Nuziale. A questo punto, la borghesia
come classe piega sotto la parte che s'era assunta; il dramma come ogni altra
forma di letteratura si frantuma ai medesimi scogli, e non è più che questione
di appetiti.
Pirandello coglie esattamente questo momento,
prima ancora che venti anni di critica e di fatti lo chiariscano: la sua
apparizione sull'orizzonte del teatro ha questo valore annunziatore. Davanti
allo smarrimento di sé stessi e al crepuscolarismo, la stracca commedia
salottiera diventa in Pirandello ancora capace di reazioni; l'uomo vi si rivolta
come un disperato eroe, la revisione dei valori convenzionali e la ricerca d'una
leva morale diviene fin troppo acuta. Alla fine, l'individuo in giacchetta
potrebbe portare un peplo di tragedia: può di nuovo uccidere, cioè offendere,
affermare il valore d'una verità fondamentale, d'un fatto morale e d'una
coscienza. Nel dramma borghese tutto finiva fatalmente al suicidio. Il valore
dell'apporto pirandelliano alla storia del costume è in una specie d'intuizione
della società nuova; i suoi personaggi si possono ridurre a una sola espressione
e a un solo atteggiamento: la reazione a tutto quello che nella società borghese
è senza più contenuto vitale, un cammino dagli appetiti agli istinti. Uccidere
diventa in Pirandello una sanzione dell'istinto, la voce del sangue, il ritorno
dell'uomo a una fatalità umana e a una legge. Una delle vie per cui opera
Pirandello è l'Amletismo; tutti i suoi personaggi hanno in sé qualcosa di
Amleto, e fra questi un discendente diretto è Enrico IV. Come Amleto, i suoi
personaggi sono in un mondo di tradizioni consunte portando in sé qualcosa di
essenziale, e il sapore della morte, e il demone del pensiero in confronto con
la debolezza della volontà. Anche in Pirandello appare la demenza come una via
per riguadagnare il senso della personalità umana, e qualcosa di fatale che
supera la stessa personalità e volontà dell'uomo. Siamo cioè al ritorno d'una
verità e d'un valore morale di sentimenti che si manifesta con la violenza con
cui si manifestò nel dramma greco. A un certo punto le leggi morali acquistano
la violenza dell'istinto, e colpiscono ciecamente come colpiva il destino
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