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Se Non Ce La Fa E' Giusto Che Scenda

Sono appeso con due dita ad una piccola tacca orizzontale.
I piedi dondolano nel vuoto.
La mano destra volteggia nell’aria, alla ricerca di un appiglio che non c’è.
Il tronco, invece di guardare la parete, è girato di 90° verso destra.
Nell’aria c’è ancora l’eco della roccia che sta precipitando a valle: un bestione grande quanto un televisore da 14 pollici che ad un certo momento deve aver deciso di essere stufo di sopportare il mio peso.
E’ successo tutto troppo in fretta e fatico a mettere gli eventi in sequenza.
Devo avere come minimo 300 battiti al minuto.

Improvvisamente vengo riportato alla realtà dalla voce di Andrea: “Sly, tutto bene?”.
“Tutto bene un’emerita fava” vorrei rispondere, ma il poco fiato che ho nei polmoni deve essere precipitato a valle insieme al sasso, e dalla bocca esce solo un rantolo soffocato.
Guardo il medio e l’anulare della mano sinistra, che fortunatamente sono riusciti a mantenere la presa. Forse tutti gli esercizi fatti la sera su muro artificiale e prese in resina sono serviti a qualcosa. Ringrazio mentalmente le due falangi che mi hanno evitato il volo.
Con la mano destra individuo un altro appiglio, riesco perfino ad appoggiare i piedi su una piccola sporgenza. Sono in equilibrio, anche se non so per quanto ci resterò, considerato che mi tremano le gambe e non sono in grado di resistere a lungo in questa posizione.
La dura realtà è che le ultime protezioni, per la verità piuttosto arrugginite, sono circa 5-6 metri sotto di me, e dubito che reggerebbero un volo.

Come diavolo mi sono cacciato in questo casino?

Il casino comincia da lontano, con tutti gli straordinari fatti tra l’inverno e la primavera. Straordinari che, convertiti in ferie, mi hanno permesso di farmi approvare 7 settimane di vacanze tutte in fila, da metà luglio ad inizio settembre.
Sono particolarmente orgoglioso dell’estate alpinistica: a parte una manciata di nuove cime di 4.000 metri ho raccolto due perle: la Nord-Est delle Courtes e lo spigolo Nord del Badile.
La prima, per la verità, tutta a rimorchio. Sono sempre salito da secondo di cordata e per giunta rallentando Mirko, che sarebbe riuscito a bersi la via senza problemi e ben più velocemente.
Il Badile invece è stato un’altra cosa: per il primo terzo di via abbiamo arrampicato a comando alterno, poi ho definitivamente passato la responsabilità del primo di cordata a Mirko. Mi sono però tolto la soddisfazione di qualche bel tiro in libera.
La prima via completamente su ghiaccio: uno scivolo verticale che copre 700 metri di dislivello. Superati i primi due tiri oltre la crepaccia terminale diventa obbligatorio spegnere il cervello e guardare semplicemente verso l’alto. E’ infatti assolutamente sconsigliabile commettere l’errore di osservare la superficie bianca, liscia e ripida, alla quale si rimane appesi, in sfregio alla forza di gravità, grazie ai pochi millimetri di acciaio delle piccozze e dei ramponi che entrano nel ghiaccio.
Il Badile, al contrario, mi è sembrato meno impegnativo dal punto di vista psicologico. Infili le dita delle mani nelle fessure, sfrutti l’aderenza delle suole delle scarpette da arrampicata sul granito, e sali, sali, sali per oltre trenta tiri. Anche qui però un cuore debole dovrebbe astenersi dal guardare in basso.

Fine agosto. La stagione alpinistica estiva volge purtroppo ormai al termine. Mirko è già rientrato al lavoro, io torturo i polpacci macinando kilometri in mountain bike. Galis però ha ancora qualche giorno libero e quando mi propone un’uscita infrasettimanale in Grignetta accetto al volo. Scegliamo una destinazione piuttosto frequentata, il Campaniletto. La via che intendiamo salire è però irripetuta da tempo. La guida indica V obbligatorio, A0 (6a+): è la Molteni.
Sulla carta una bella via, ma allora perché non ci va nessuno? Se ci fossimo fermati a ragionare per un solo minuto su questa semplice domanda avremmo potuto optare per un’altra destinazione, e invece...

...invece il 27 agosto Galis ed il sottoscritto si inerpicano su per il sentiero della Direttissima. Mentre salgo accarezzo le rocce, mi godo il panorama e l’aria frizzante di fine estate. Era da tempo che non avevo l’opportunità di trovarmi su questo terreno senza la rumorosa presenza delle compagnie che lo affollano il fine settimana.
Quando arriviamo all’attacco della via il primo tiro è ancora in ombra, il sole sembra faticare per aggirare l’ultima guglia alle nostre spalle. Non abbiamo fretta e quindi ci imbraghiamo e leghiamo con calma, beviamo un the e ci concediamo un cioccolato. Nonostante la perdita di tempo quando Galis appoggia per primo le mani sulla roccia i raggi del sole non hanno ancora fatto lo sforzo di raggiungerci.
Assicuro Galis mentre sale da capocordata il primo tiro. La progressione è fluida e costante.
Quando è il mio turno di arrampicare ho modo d constatare come i primi metri siano relativamente semplici. Seguono una breve cresta, che a sua volta conduce ad una fessura molto evidente. Quando la raggiungo trovo a breve distanza due chiodi che sembrano risalire ad un’epoca remota. Sono la prova evidente che sin dal suo primo apparire sul nostro pianeta l’homo sapiens si era confrontato con l’arrampicata. Scherzi a parte, non invidio Galis che ha salito questo tratto da primo. Rimangono fortunatamente pochi metri di traversata verso sinistra fino alla sosta.

Abbiamo deciso di salire a comando alterno, per cui il secondo tiro spetta a me. Il primo tratto sembra il più difficile, se non altro da un punto di vista muscolare. Si tratta di un muretto strapiombante, valutato in libera 6a+, ma che supero in A0. Mi appendo ad un chiodo mentre Galis mi scatta una foto. Dopo un traverso verso destra ed un diedro verticale arrivo ad una nicchia. Fino a questo punto ho salito circa 20 metri e mi sento sereno, incurante del fatto che le protezioni certo non abbondano. Dopo tutto sul Badile avevamo salito slegati i primi due tiri di via, per superare una cordata che altrimenti ci avrebbe rallentato…
Decido di proseguire, perché la nicchia non offre una protezione adeguata per una sosta. Moschettono i due vecchi chiodi arrugginiti e procedo nell’arrampicata. Devo subito aggirare verso destra lo spigolo, sbucando sulla parete sud. Qui il vuoto aumenta immediatamente: non più i 40-50 metri fino alla base della via, dove posso vedere i nostri zaini riposare al sole che finalmente si è deciso ad abbracciare il Campaniletto, ma un’altezza almeno tre volte maggiore. Ora sono in piena placca ed il senso di vuoto si fa sentire. Fortunatamente gli appigli sono evidenti e procedo per un po’ senza grossi intoppi.
Fatti pochi metri però incontro due grossi problemi. Il primo è costituito dalla qualità della roccia, divenuta a tratti friabile. Devo testare la solidità di ogni appiglio prima di caricarlo. Il secondo, ancora peggiore, è dovuto al fatto che la corda non scorre. Il fatto di aver moschettonato i due chiodi nella nicchia dietro lo spigolo mi ha dato qualche protezione in più in caso di volo, ma la corda è costretta ad uno zig-zag troppo accentuato.
Mi consulto con Galis, che non vedo ma che posso sentire perfettamente. Non c’è un filo di vento e la sua voce mi arriva forte e chiara. Il veloce esame della situazione mi fa decidere a ridiscendere fino alla nicchia, dove ormai abbiamo deciso di attrezzare una sosta.
Confermo quindi a Galis le mie intenzioni, gridando: “Comincio ad arrampicare in discesa!”.
Immediatamente, alle mie spalle, arrivano le voci di due tizi impegnati sul sentiero della Direttissima. Le loro parole, complice la totale assenza di vento, sono niitidissime: “Se non ce la fa a salire è giusto che scenda”. In pochi secondi hanno analizzato, valutato e commentato la situazione in cui mi trovo.
Fortunatamente per i due sconosciuti la valanga di insulti che avrei pronta mal si concilia con la complicata operazione che sto per affrontare, e quindi alle rocce della Grignetta vengono risparmiate le frasi con le quali avrei messo in dubbio l’onestà e la virtù delle loro madri, sorelle ed in generale di tutte le componenti di sesso femminile delle loro famiglie.

Devo farvi una confessione: l’arrampicata in libera ed in discesa, con la corda proveniente dal basso, su roccia friabile, è un’esperienza che permette di sbloccare anche chi soffre di intestino pigro.
Raggiunta quella che deve diventare la seconda sosta lo spettacolo è desolante. Il mio sguardo cade sui due chiodi arrugginiti, piantati dal basso verso l’alto, uno dei quali probabilmente risale ancora alla prima ascensione. Una rapida valutazione dice che non offrono la minima garanzia di reggere un eventuale volo. Integro quindi la sosta con un friend e procedo a collegare le tre protezioni con dei cordini.
La sicurezza del mio lavoro è più psicologica che effettiva, in caso di uno strappo violento i tre ferri verrebbero con tutta probabilità sradicati dalla loro sede momentanea.
Chiedo a Galis di raggiungermi, non prima però di averlo avvertito che non è il caso di testare la bontà della sosta.

Quando Galis arriva alla nicchia ho maturato la decisione di proseguire io. Ho già saggiato i primi metri del tiro, conosco i movimenti da compiere e soprattutto la friabilità della parete. La scelta più saggia per l’incolumità di entrambi è che proceda io da primo.
Riparto quindi, non senza preoccupazioni. Sorprendentemente i primi metri mi sembrano facili, ora che la corda scorre senza problemi. Mantengo la massima attenzione alla solidità degli appigli, che controllo sempre prima di caricarli con il mio peso.
Fila tutto liscio fino a che, fatti circa 5-6 metri, mi ritrovo appeso alle due falangi della mano sinistra, le stesse ringraziate all’inizio di questo racconto. I piedi dondolanti nel vuoto, la mano destra in aria, alla ricerca di un appiglio inesistente.
Proprio un bel casino.
E adesso cosa diavolo faccio?
Riguadagnata una posizione un minimo più stabile, capisco comunque che non sono in grado di sostenerla a lungo.
Non ci sono chiodi tra me e la sosta, ed un volo strapperebbe tutte le protezioni dalla loro precaria sede.

Galis ha sentito il frastuono e si è preparato a reggere allo strappo, che fortunatamente non è arrivato. Sento la sua voce: “Sly, tutto bene?”.
Non ho fiato per rispondere. Mi tremano le gambe e rimanere fermo non fa che peggiorare la situazione. Devo recuperare il sangue freddo che mi è rimasto e proseguire alla ricerca di un luogo più comodo… magari meno verticale, magari con un terrazzino largo una spanna dove poter appoggiare i piedi.
Pochi metri in alto a destra c’è qualcosa che sembra fare al caso mio. Di terrazzini non se ne parla, ma almeno la parete è più abbattuta.
La difficoltà maggiore consiste nell’aggirare il punto in cui si è staccato il televisore da 14 pollici. La voragine che si è formata ha creato una specie di zona da cui passare assolutamente alla larga. Decido quindi di salire leggermente a sinistra e poi di attraversare a destra verso il punto di riposo che ho individuato.
Testando ogni singolo appiglio, sia nella fase di sforzo verticale che in quella di trazione orizzontale, riesco ad arrivare alla mia meta provvisoria. Qui fortunatamente posso piazzare un friend in un foro nella roccia. Non è la protezione più adatta da posizionare in questo punto, ma sembra tenere, forse troppo. Mi sa che Galis avrà il suo bel da fare per estrarre il mio piccolo amico metallico dalla sede che gli ho trovato, ma non me ne potrebbe fregare di meno.
L’oggettino potrebbe rimanere qui a testimoniare il nostro passaggio alle future generazioni, e di una cosa sono sicuro: non tornerò mai a recuperarlo.

Una volta assicurato mi concedo un po’ di riposo, ho un tremendo bisogno di riprendere fiato.
Mantengo però le mani su due distinti appigli, non voglio appendermi e mettere alla prova la tenuta del friend.
Spinto forse da un istinto masochista mi concedo uno sguardo verso il basso. La parete è così verticale che non ne vedo la base. Vedo però il canalone quasi duecento metri sotto i miei piedi. E’ il luogo dove ora riposa il masso che ho involontariamente scardinato dalla sede che lo ospitava da milioni di anni.

Scambio qualche parola con Galis. Gli spiego l’accaduto e gli descrivo la qualità della roccia che ci separa.
Recuperata un po’ di calma, devo riorganizzare le idee per procedere.
Di fronte a me ci sono ancora una quindicina di metri prima di arrivare in vetta. Poco più in alto però la verticalità della parete sembra diminuire sensibilmente, e la speranza che le difficoltà diminuiscano mi infonde le energie necessarie per continuare.
Così è infatti. Quando arrivo in vetta e posso finalmente assicurarmi al cavo metallico tutta la tensione accumulata si dissolve. Finalmente posso sedermi su terreno orizzontale.
Chiudo gli occhi, respiro profondamente e bacio la statuetta della Madonna.

Il lieto fine della storia è che Galis mi ha raggiunto in vetta, ci siamo stretti la mano come di consueto, ci siamo calati alla base della via.
Una cosa però non mi è andata giù di questa esperienza. Avrei dovuto mandare a farsi fottere quei due stronzi che dubitavano delle mie capacità.


Silvano Sala Tesciat
22 febbraio 2007

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