Fotografie
C’è una croce lì nel mezzo.
Nella penombra, nel grigiore, velata d’umidità, sullo sfondo di un cielo buio e tormentato. Perchè bisogna guardare verso l’alto per incontrarla, e non si può fare a meno di vederlo, il cielo. Scuro di nuvole sfocate dalla distanza, forse dalla nebbia, forse dall’obiettivo, forse dal ricordo, stampato in bianco e nero e gelosamente custodito al riparo dalla luce.
Una croce grande quanto non si ricorderebbe di averne mai viste, enorme, imponente, d’una maestosità che deve essere quella delle preghiere di chi l’ha voluta alzare. Grande quanto lo sguardo di un bambino non riesce ad abbracciare, se ne resta lì, compassionevole, a lasciarsi osservare da due occhi stanchi e impacciati, più o meno dalle parti della fine del mondo.
Oltre la croce il nulla. Un nulla fatto da una montagna, nuvole e presagi di tempesta. Reclamano il loro posto all’orizzonte, ma non sono reali, sono solo lì, dipinti lontano, non più veri di un miraggio. Semplicemente oltre.
La si deve osservare perchè non c’è altro, per lo sguardo, per l’attenzione, per le parole. Una croce senza arte e senza pretese, solo due pezzi di legno: due giganteschi pezzi di legno su di un precipizio a picco sul mondo, col potere di incatenare uno spirito per il tempo di una vita.
Ai piedi della croce c’è un bambino. Ha un coltello in mano e se gli si potessero vedere gli occhi si capirebbe che sorride.
Su ogni lato l’intera superficie del legno è un fitto mosaico di parole, un infinito intreccio di nomi, preghiere intagliate nella preghiera. E’ sul lato occidentale che sto incidendo il mio nome, sotto al braccio sinistro, tra centinaia d’altri. Mio fratello sta facendo lo stesso. Mio padre no: è occupato, mi tiene in braccio, perchè non c’è spazio, non c’è un solo angolo pulito fin dove riesco ad arrivare. Così ho scritto il mio nome. Su una croce che non è una lapide. Una croce che nel ricordo della morte prega per la vita.
Deve essere stato il vento a voltare pagina, io non lo avrei fatto.
Mi sarei fermato volentieri, e invece ora c’è una strada. Uno stretto acciottolato, in ripida discesa; neve e prati intorno e un cielo opaco. Una casa diroccata, pietre e una fontana chiudono la linea a un orizzonte obliquo. La sola idea di un luogo tanto abile ad ignorare l’estate dovrebbe bastare a far venire i brividi, eppure il bambino non ha freddo. Corre; come non aveva mai corso prima; i brividi che sente sono di allegria ed eccitazione, mentre si abbandona alla follia della discesa. Al suo fianco un uomo corre con lui. Lo tiene per mano, perchè non si faccia male; lo tiene stretto, preoccupato lo solleva quasi, tanto che i passi del bambino sono quelli dell’adulto; tanto che a volte nemmeno tocca terra; tanto che al bambino sembra di volare.
Sotto alla strada un albero. Al culmine di un prato ripido da conquistare, tre ragazzini lo contemplano, certi di non averne mai conosciuto uno altrettanto grande. Avrebbe potuto esserlo davvero se un fulmine non lo avesse squarciato ormai da tempo e se non avesse risparmiato che i primi pochi metri di un tronco ancora vivo. Un tronco robusto, inclinato, oppresso dal peso di un albero che non esiste più, è facile da arrampicare, ed è una fortuna per qualsiasi ragazzino. Come se arrivare in cima e guardare in valle da lassù cambiasse il senso delle cose. Come se il restare in cima a un tronco senza rami bastasse a nascondersi dal mondo.
Di fianco all’albero spezzato, in un abbagliante fotogramma, una casa aspetta lontana due persone. A poca distanza, abbarbicata su un cucuzzolo impossibile, al termine di un sentiero contorto tra le rocce, una bandiera strapazzata dal vento. Con tenacia pretende attenzione, richiama i due indicandogli il cammino, ma i ragazzi, intenti ad ignorarla, sorridono tra loro. Conversano, determinati a restare dove sono, convinti che non sarebbe mai arrivato il buio. Convinti che in fotografia il sole non sapesse tramontare, che il tempo non potesse passare, che i colori non potessero sbiadire.
Un altro soffio di vento e l’immagine è quella del respiro.
Il respiro che ondeggia, cresce, evapora, si ribella e si arrende, si agita e si riposa, appare e scompare, il respiro che crea i suoi disegni nell’aria. Il respiro lieve e trasparente di una figura ricamata sullo sfondo di un salto senza fine. Se ne resta lì, sospesa, nel mezzo di una indefinita torre verticale, saldamente ancorata alla sua roccia.
C’è una fessura oltre il respiro, nel centro dello sguardo, fuori fuoco, ai margini dell’attenzione. Irrilevante, rimarrebbe lì nascosta dalla nuvola se non fosse per quella gocciolina d’acqua: scende lungo la fessura, con tranquillità, fino a staccarsi per andargli a rimbalzare prima davanti agli occhi, poi dritta nel mezzo dello spirito, per riscuoterlo, per costringerlo a risvegliarsi e a rendersi conto di esistere, di avere anche lui un suo tempo e un suo spazio. E’ lì a pensare, perso, immobilizzato dall’abitudine, tra illusioni e fantasie, e tutto a un tratto, da questa insospettabile fessura, una goccia gelida lo va a cercare, lo riscuote e con stupore lo mette davanti al suo presente, alle sue rocce, alla sua strada. Una voce uscita dal mondo che gli si insinua nello stomaco per metterlo davanti al corso esatto dei suoi pensieri.
Come a volte può succedere, il rumore del suo sgocciolio non scivola via e in un istante gli parla della sua realtà. Gli ricorda del brillare del granito, del freddo della roccia, del rumore dell’aria; gli ricorda del mondo vero; gli ricorda che quello che importa è su questa montagna, non tra le voci di sentimenti passati, non tra le strade segnate da esperienze passate, non nella confusione della sovrapposizione di impressioni incoerenti.
Gli ricorda che il mondo vero è fatto di roccia, non di nuvole.
Lo sguardo, come se davvero gli importasse, a tratti sembra cedere ad un dubbio. Eppure a tratti sembra domandarsi cosa ne può sapere una goccia d’acqua del mondo vero.
C’è ancora una croce, sempre lì, in mezzo all’ultima inquadratura.
Sola, abbandonata, dimenticata. Potrei dire triste, ma soprattutto è rassegnazione quello che le leggo addosso, un sentimento condiviso di stoica abnegazione, sempre e per sempre ricordo e preghiera.
Faticherei a riconoscerla oggi se non avessi ancora ben stretto tra le mani il pensiero delle mie Colonne d’Ercole. Oggi che la raggiungo mentre la raggiungevo allora, oggi che la osservo mentre la osservavo allora, oggi che la sfioro mentre la sfioravo allora. Faticherei a capire, non riuscirei a vedere, oltre al legno e al tempo.
Immensa, la ritrovo oggi rimpicciolita e ingobbita dall’età. Levigata e incorruttibile, la trovo solcata da tante e profonde rughe che non un solo segno ha avuto scampo; tante che non un solo nome ne è stato risparmiato. La lascio con quell’incrollabile fede d’eternità nella quale solo un bambino può credere, e la ritrovo testimone di anni di gelo e di fatica.
Niente al mondo potrebbe essere più bello.
Oggi che la posso guardare in volto senza l’obbligo del cielo come sfondo, oggi che senza l’aiuto di mio padre potrei arrivare a leggere il mio nome, oggi lo posso solo cercare e, non trovandolo, sorridere alla fine al pensiero che dopo tutto sono passato anche io.
Nella fotografia che ho in mano quello sotto alla croce non è più un bambino. Solo un po’ più alto, solo un po’ più stanco, solo tra i suoi pensieri. Negli occhi non se ne leggerebbe lo stesso sorriso; si vedrebbe piuttosto il riflesso di quel cielo scontroso, ancora cupo, ancora scuro, ancora indeciso, sempre in ansia per la sua tempesta.
Quasi perfetta. Potrebbe esserlo, ma manca ancora qualcosa.
Dovrebbe essere proprio lì, di fianco alla croce, appena un po’ trasparente. Un vecchio, di spalle, raccolto in contemplazione, forse in attesa; così sarebbe colpa mia, sarei io avvicinandomi a distoglierlo dai suoi penseri. Si girerebbe, appoggerebbe le mani e il mento al suo lungo bastone e guardandomi negli occhi, riconoscendomi, sorriderebbe.
Sussurrando, sorriderebbe.
Mirko Sala Tesciat
18 febbraio 2007
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