Ober Gabelhorn
Via normale, cresta nord-est
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10-11 agosto 1998 Silvano, Andrea, Mirko
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Quella che mi accingo a raccontare è la storia di un’ascensione strana, la via che fino ad oggi mi ha impegnato maggiormente dal punto di vista psicologico.
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Silvano e Mirko in cammino verso la Rothorn Hutte, con il Breithorn e il Lyskamm sullo sfondo |
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Non si è rivelata particolarmente tecnica (è valutata AD), ma l’accumularsi di problemi di vario tipo, quali la lunghezza del tracciato, la presenza di cornici, i tratti di ghiaccio “delicato” ed alcuni problemi fisici ai componenti della cordata l’hanno trasformata in una salita che rimarrà sempre viva nella mia memoria.
Agosto ’98. Sono tornato a casa dopo un periodo di lavoro a Londra. Non ho nelle gambe molto allenamento, a parte le ascensioni compiute negli ultimi giorni al Dente del Gigante ed al Gran Combin. Andrea e Mirko mi propongono di recarci a Zermatt per tentare una cima a scelta fra due montagne poco conosciute: lo Zinalrothorn e l’Ober Gabelhorn. So solo che si trovano nella zona del Cervino, ma non ho nessuna informazione aggiuntiva. Galis si è preoccupato come sempre di recuperare le relazioni delle vie, e studia la logistica: in macchina fino a Tasch, trenino per Zermatt, quattro ore di cammino fino alla Rothorn Hutte, oltre la quale ci aspetta l’Ober Gabelhorn.
Giunti in macchina fino a Tasch, ci accampiamo nel piccolo campeggio adiacente alla ferrovia, decisi a salire il mattino seguente alla Rothorn Hutte. Provo anche a telefonare al rifugio ma il gestore ci informa che domani sera non è possibile pernottare e dopodomani nemmeno. Decidiamo di salire ugualmente con un po' delle nostre provviste, per dormire si vedrà.
Su suggerimento di Galis ci accordiamo per tentare lo Zinalrothorn, che presenta meno problemi tecnici: roccia più facile e ghiaccio molto meno ripido.
Così, è con l'idea dello Zinalrothorn in testa che la mattina dopo saltiamo (non troppo agilmente, visto il peso degli zaini) sul trenino per Zermatt,
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Silvano e Andrea comodamente sistemati per la notte |
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che dista quattro ore buone di cammino - e 1.500 m. di dislivello - dalla Rothorn Hutte. Lasciatici alle spalle il paese attacchiamo il sentiero risalendo una ripida gola. Poco prima di giungere al Trift hotel ci appare maestoso l'Ober Gabelhorn, che al momento neanche riconosciamo e che, soprattutto, non sappiamo ancora di dover salire domani... per sbaglio! L’avvicinamento è comunque molto piacevole, con una vista stupenda dei vari 4000 che circondano Zermatt.
Giunti al rifugio, i gestori ci fanno presente, ovviamente, che il rifugio è pieno. Decidiamo così all’unanimità di cenare con i nostri viveri di conforto e di dormire all’aperto, anche se ci troviamo ad una quota di circa 3.100 metri.
Dopo cena ci sistemiamo quindi, indossando tutto l'indossabile, sulle roccette poste tra l’edificio principale e la sezione invernale del rifugio, con lo zaino come cuscino ed un muro di sacchi di spazzatura (pieni) che ci proteggono dal vento. Per ingannare il tempo intratteniamo una piacevole conversazione con due scozzesi che intendono salire allo Zinalrothorn. Uno dei due ha un inglese comprensibilissimo, l’altro è la conferma che gli scozzesi parlano inglese come i sardi parlano italiano.
Verso le dieci ci salutiamo, loro hanno trovato una sistemazione nella sezione invernale, mentre noi preferiamo restare all’aperto. Fino alle undici il continuo via vai di persone ci impedisce di chiudere occhio, e constatiamo di non essere i soli a trascorrere la notte all’aperto: ci sono almeno altre tre cordate che hanno preso la nostra stessa decisione. Abbiamo puntato la sveglia alle tre, in quanto stimiamo di impiegare circa 6 ore per arrivare in cima, e non vogliamo avere problemi al rientro nell’attraversamento del ghiacciaio, che ci dicono essere un po’ crepacciato.
Non riusciamo a chiudere occhio fino all’una, inganniamo il tempo chiacchierando.
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Ober Gabelhorn; la Dent Blanche spunta sulla destra |
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Poi mi appisolo per una decina di minuti. Alle due e trenta siamo felici di sentire che la maggior parte degli alpinisti si sta alzando, con una mezz’ora di anticipo rispetto all’orario stabilito per la colazione. Non abbiamo bisogno di una scusa per alzarci. Ingoiamo una barretta energetica, beviamo un sorso di tè e partiamo immediatamente, alla luce delle lampade frontali. Ma la fretta ci giocherà un bello scherzetto...
Attraversando il ghiacciaio abbiamo la conferma che ci sono diversi crepacci, il cui aggiramento peraltro non rappresenta un pericolo stando legati in cordata. Non per noi, almeno, ma una cordata che ci precede di poco decide di testare le insondabili profondità di un crepaccione: per fortuna loro, due dei tre componenti del gruppo riescono a fare sicurezza al terzo che, invece, ci finisce dentro fino al collo.
Ma nel frattempo ci rendiamo conto che questo non è il ghiacciaio che porta allo Zinalrothorn, che ci stiamo lasciando alle spalle, bensì quello (Triftgletscher) che conduce alla Wellenkuppe, sulla via normale per l'Ober Gabelhorn. Al punto in cui siamo, dopo un breve consulto, decidiamo di insistere verso il nuovo obbiettivo, avendo Galis studiato anche questa relazione di salita.
Superato un crepaccio terminale piuttosto insidioso, arriviamo quindi alla base della cresta Est della Wellenkuppe, che costituisce il primo punto impegnativo dell’ascensione. Ci togliamo i ramponi per affrontare le rocce, ma a questo punto arriva una brutta notizia: Mirko preferisce fermarsi in quanto soffre di nausea e di un forte mal di testa. Considerata la presenza dei crepacci preferisce non affrontare il rientro al rifugio da solo e decide che si fermerà sul posto ad attendere il nostro ritorno.
Andrea ed io attacchiamo la parete soprastante che si presenta molto friabile. La caduta di sassi dal pendio è una compagnia costante. La qualità della roccia è persino peggiore del Cervino,
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Silvano in arrampicata sulla cresta nord-est |
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che ho sempre considerato come il punto di riferimento per tutti i tratti friabili che ho affrontato. Il “magnifico cumulo di detriti”, come lo aveva definito Gaston Rebuffat, ci aveva riservato una brutta sorpresa anni fa, quando fummo investiti da una scarica di pietre a circa 200 metri dalla cima. Galis sale da primo e mi indica i punti migliori dove passare, i suoi consigli sono preziosi. Teniamo la corda molto corta per non provocare inutili quanto pericolose frane di sassi instabili. Raggiunto uno sperone la qualità della roccia migliora; Galis rimane in testa ed in breve ci troviamo sulla cresta nevosa che porta in cima alla Wellenkuppe.
Controllando l’orologio constato con terrore che sono già le sette. E’ molto tardi, abbiamo accumulato un notevole ritardo a causa del tratto friabile. Calziamo nuovamente i ramponi e, tramite un breve tratto in discesa, arriviamo alla base del pendio ghiacciato che porta ad una lunga cresta rocciosa. Questa a sua volta conduce al Gran Gendarme (Kluckerturm), punto più impegnativo di tutta la salita.
Decidiamo che io salirò da primo su ghiaccio, mentre Andrea farà da capocordata su tutta la cresta rocciosa che porta in cima all’Ober Gabelhorn. Il suo compito è sicuramente più gravoso del mio.
Purtroppo la qualità del ghiaccio non è delle migliori: la crosta superficiale è compatta, mentre in profondità è molle. Sono preoccupato dal fatto che al nostro ritorno probabilmente in questo punto troveremo una poltiglia molle improteggibile e soprattutto esposta sulla parete nord dell’Ober Gabelhorn, che cade a precipizio alla nostra destra per diverse centinaia metri. Questa considerazione peserà sui miei pensieri come un invisibile “macigno” per tutto il resto dell’ascensione. Non si tratta nemmeno lontanamente del tratto più impegnativo che abbiamo mai affrontato, la cresta qui non è molto affilata, ma constatate le condizioni del ghiaccio la discesa rischia di diventare molto pericolosa: tra poche ore l’aumento di temperatura avrà modificato anche la crosta dura superficiale, rendendola molto più instabile. Probabilmente sarà impossibile attrezzare delle soste e saremo costretti ad una discesa in conserva. Una caduta in questo punto ci farebbe precipitare sulla parete dell’Ober Gabelhorn, uno scivolo bianco meraviglioso da guardarsi, ma che preferirei tenere lontano dal mio magro fondoschiena. Se dipendesse da me tornerei immediatamente indietro, ma non me la sento di proporre al Galis di abbandonare l’ascensione: so quanto ci tiene ed è in ottima forma.
Proseguiamo quindi e raggiunte le prime rocce della cresta ci fermiamo a togliere i ramponi. Ci aspetta ora un’arrampicata lungo il filo dello spigolo che conduce dapprima al Gran Gendarme, quindi in vetta. Roccia e misto; l’ambiente selvaggio contribuisce a ricaricare le pile della mia psicologia alquanto indebolita. Il colpo d’occhio sulla parete Nord del Cervino, alla nostra sinistra, è veramente eccezionale.
Andrea passa in testa, mentre io lo assicuro su soste improvvisate con fettucce, ancorate alle rocce che ci sembrano più solide. I rari chiodi hanno lo scopo di proteggere la progressione ma le soste sono tutte da attrezzare, come sempre a queste quote. Galis procede sicuro, qui la roccia è solida, anche se frequentemente le fessure sono incrostate da ghiaccio e neve, e richiedono attenzione, rallentando fortemente la progressione.
Siamo in tutto una decina di persone impegnate lungo la cresta. Una cordata di tre austriaci ci precede di due tiri di corda. Il mio scarso allenamento non ci ha consentito di procedere veloci come avremmo voluto, quindi siamo relegati in ultima posizione, benchè il terzetto austriaco non sia affatto più veloce di noi. Non ho mai considerato un’ascensione come una corsa per rivaleggiare con le altre cordate, ma oggi più che mai vorrei riuscire a fare in fretta. Galis potrebbe procedere più velocemente, ma purtroppo il mio fisico poco allenato e l’aria rarefatta – siamo ormai a 3.900 metri – non mi consentono di aumentare il ritmo.
Con sollievo sento Andrea che mi indica di aver raggiunto la corda fissa,
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Andrea in arrampicata sulla Klukerturm |
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segno che alla vetta del Gran Gendarme mancano pochi metri. Fatico non poco a raggiungerne la sommità: da qui possiamo notare che abbiamo bisogno almeno di altri trenta minuti per arrivare in vetta. L’ossessione del tempo che passa mi impedisce di gustarmi l’ascensione.
Il terreno diventa ora nevoso: un tratto di cresta orizzontale ma molto affilato, reso delicato dalla presenza di cornici, che ci inducono a tenerci abbondantemente sulla destra per non correre inutili rischi. Ora dobbiamo procedere in conserva, vista l'impossibilità di piazzare protezioni decenti (cosa che peraltro ci porterebbe via troppo tempo) in questa neve che, nel frattempo, sta raggiungendo la consistenza del purè di patate. Alla nostra destra, a non più di 200 metri, notiamo una cordata impegnata sulla parete nord e la ripidezza del pendio sottostante ci fa ulteriormente capire che una scivolata qui non ci darebbe scampo. Raddoppiamo l'attenzione e procediamo.
Superato il tratto nevoso riprendiamo l’arrampicata su roccia e raggiungiamo un diedro, il cui passaggio è agevolato dalla presenza di alcune fettucce abbandonate dalle cordate passate di qui nel corso del tempo. Alla base del diedro ci dobbiamo fermare perché la cordata dei tre austriaci che ci precedeva ha dei problemi nel superamento del passaggio. Il primo ha già raggiunto la sosta e sta assicurando il secondo, che sta incontrando non poche difficoltà. Il terzo, fermo all’inizio del tiro, quando viene raggiunto da Galis si scusa: “E’ lui che è lento, non è colpa mia…”. Ad ogni modo l’attesa è di pochi minuti, e la breve sosta ci permette di rifocillarci un po’.
Ripresa l’arrampicata, l’ultimo ostacolo per raggiungere l’anticima è una placca abbastanza liscia, sono lieto del fatto che Andrea stia arrampicando da primo. In effetti oggi sta facendo veramente un lavoro egregio: la sua progressione è sempre stata costante e sicura. Da parte mia ho cercato di fornirgli le assicurazioni migliori che le circostanze permettevano, ed è stato un bel lavoraccio.
Dall’anticima si scende fino ad un intaglio e, quindi, per rocce più facili si giunge sulla cima dell’Ober Gabelhorn.
Andrea ed io ci stringiamo la mano, soddisfatti.
Soddisfatto ma non sereno,
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Silvano e Andrea in cima all'Ober Gabelhorn; il Cervino sullo sfondo |
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propongo una sosta di pochi minuti, il tempo sufficiente per scattare alcune fotografie alla parete Nord del Cervino. La vista da qui è magnifica, probabilmente il migliore punto di osservazione che possa esistere. Certo, non è proprio uno scherzo arrivarci...
Incominciamo quindi la discesa. Per guadagnare tempo decidiamo di arrampicare e di ricorrere alle calate in corda doppia solo dove non si può fare altrimenti. Spesso il Galis mi cala e quindi io lo assicuro mentre arrampica in discesa. Uno alla volta superiamo tutti gli ostacoli incontrati durante la salita. La mia percezione del tempo è totalmente dilatata: i secondi si trasformano in minuti, i minuti in ore, sono molto preoccupato. Giungiamo finalmente alla base della cresta rocciosa. Ci attende ora il punto che ho continuato a considerare come il più pericoloso. Galis ha arrampicato da capocordata su tutto il tratto di roccia, prendendosi rischi ben più elevati di quanto abbia fatto io, assicurato costantemente dall’alto, ed a questo punto spetta a me mantenere fede ai patti: lui scenderà per primo, quindi sarà il mio turno.
Durante gli ultimi minuti trascorsi sulle rocce soprastanti ho osservato con attenzione i movimenti della cordata che ci precede. Stanno ormai affrontando l’ultimo tratto di pendio ghiacciato e si trovano a circa 100 metri da noi. Un buon quarto d’ora, considerato il fatto che dobbiamo attrezzare le soste. Mi è sembrato che si siano tenuti troppo sul filo di cresta, il che sarebbe estremamente rischioso a causa della presenza di cornici. D’altro canto questo potrebbe essere un buon segno: forse si trovano fuori dal percorso migliore in quanto il ghiaccio potrebbe aver tenuto. In questo caso i miei timori sarebbero infondati, presto lo scopriremo.
Scavando un bel po' nella neve, riesco ad attrezzare una sosta con una piccozza ed una vite da ghiaccio, ed Andrea comincia la sua discesa. Fatti pochi metri sentiamo un boato spaventoso. Guardiamo in basso e vediamo che, a meno di due metri dalla cordata che ci precede, la cornice è crollata. L’enorme massa di neve e ghiaccio che formava il filo di cresta è franata lungo il versante Sud dell’Ober Gabelhorn. Se i due fossero stati poco più a destra in questo momento starebbero precipitando. Attendono alcuni secondi – probabilmente necessari per riprendersi - e quindi si spostano lontano dalla linea di frattura e riprendono la discesa.
Andrea ed io ci scambiamo una rapida occhiata, senza dirci niente. Sappiamo quello che dobbiamo fare, siamo stanchi ma concentrati e tutta l’adrenalina di cui disponiamo in questo momento si trova sicuramente in circolo nelle nostre vene. Galis percorre velocemente la prima lunghezza di corda, attrezza una sosta e mi fa cenno di scendere. Fortunatamente la crosta superficiale in questo punto ha tenuto, e la progressione non è pericolosa come mi aspettavo.
Ci attende ora il superamento del tratto in cui è crollata la cornice. Decidiamo ovviamente di mantenerci abbondantemente lontano dalla frattura, e seguiamo lo stesso schema appena utilizzato:
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Vista sulla parete nord del Cervino |
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Galis scenderà per primo, poi sarà il mio turno. In questo punto il ghiaccio è in condizioni decisamente peggiori, ma fortunatamente non è la poltiglia di neve marcia che mi aspettavo. Raggiungiamo quindi la base del tratto ripido e superiamo anche il traverso, riportandoci sulla vetta della Wellenkuppe.
Iniziamo la discesa della parete, ora procedo io da primo mentre Galis mi assicura dall’alto. La roccia è veramente orribile. Ad ogni passo rischiamo di far precipitare una frana. Cerchiamo i tratti in cui la roccia sembra più solida, ed in alcuni punti troviamo addirittura dei cordini a segnalare le soste di assicurazione. A giudicare dalle condizioni probabilmente devono risalire all’epoca di Klucker, primo salitore di questa via, per cui decidiamo di integrare le protezioni con alcune nostre fettucce.
Arriviamo alla base della parete alle cinque di sera. Mirko è rimasto qui ad attenderci, solo ed al freddo (cosa che ha sicuramente giovato al suo stato febbricitante), per undici ore; ci aspettava di ritorno prima di mezzogiorno. Facciamo una lunga sosta, io ho assolutamente bisogno di riposarmi e di bere. Mirko ci chiede una descrizione della giornata, e Galis comincia il racconto: la parete friabile, il tratto ghiacciato, la cresta rocciosa, il diedro, la placca liscia, il colpo d’occhio sulla parete Nord del cervino, il crollo della cornice...
Dopo un’ora abbondante iniziamo l’attraversamento del ghiacciaio crepacciato, che legati in cordata non rappresenta un pericolo. Arriviamo al rifugio intorno alle sette. Ci riposiamo ulteriormente e quindi ceniamo, abbiamo bisogno di qualcosa di caldo nello stomaco. Anche Mirko sembra essersi ripreso un po'.
Non abbiamo ancora affrontato una questione che non può essere evitata: cosa facciamo questa notte? Si potrebbe trascorrerla nuovamente sulle rocce all’aperto, oppure accettare una sistemazione all’interno del rifugio, magari in un corridoio oppure sulla porta del cesso, il che non ci intriga particolarmente. Un rapido giro di consultazioni dice che le nostre condizioni fisiche non sono poi così male: dopo tutto oggi siamo stati in ballo solo 16 ore, di cui 11 di arrampicata effettiva (con 1200 m. di dislivello non proprio elementare), e la notte precedente eravamo riusciti a dormire almeno qualche minuto. Decidiamo quindi di scendere a Zermatt. Dopo un ultimo spuntino con il poco cibo rimasto Galis per festeggiare, venendo meno al suo proposito di evitare il rifugio, entra persino a comprare una birra.
Verso le otto di sera attacchiamo il sentiero per Zermatt. Dopo metà percorso accendiamo le frontali, venendo assaliti da nugoli di farfalle notturne che, alla ricerca di luce, ci finiscono irrimediabilmente in faccia o negli occhi; Galis brevetta un sistema per porre rimedio all' inconveniente, sistemandosi la frontale in vita alla cintura dello zaino.
Ci facciamo forza anche pensando che in paese potremo gustarci qualche hamburger al McDonald. Le soste diventano sempre più frequenti, soprattutto a causa mia. Non sono mai stato così stanco in vita mia. Spesso mi trovo a camminare a lungo con gli occhi chiusi. Ogni tanto li apro, controllo la direzione del sentiero, quindi li richiudo. Cammino come in trance, sono fuori dal mio corpo. Quella figura magra che arranca faticosamente, a notte fonda, è una persona a me ignota, un estraneo per cui non provo nessuna emozione.
Poco dopo mezzanotte arriviamo a Zermatt, ma di McDonald aperti nemmeno l' ombra. Dobbiamo attraversare le stradine del centro, affollate di turisti che, affacciati alle porte dei bar, ci guardano come se fossimo degli extraterrestri.
Giunti al termine del paese, la piazzola dove solitamente sostano i taxi – in quanto il percorso fino a Tasch è consentito solo a pochi furgoncini autorizzati – è comprensibilmente vuota. Siamo così stanchi che non riusciamo immediatamente ad affrontare la situazione.
Un pensiero si insinua nei nostri cervelli debilitati: almeno qualcuno dei viveur che popola i vicoli del centro di Zermatt dovrà pur tornare in valle, no? Prima o poi, quindi, un taxi arriverà.
Attendiamo un quarto d’ora, e non scorgiamo un’anima viva. Intanto il sangue abbandona i muscoli delle gambe e comincia ad affluire maggiormente nei tre cervelli sopraccitati. Un cervello funzionante è un gran cosa, se non altro ti pone di fronte delle alternative: dormire sul posto (cosa che non ci sarebbe risultata difficile), oppure affrontare la discesa verso Tasch a piedi: in tutto 6 km. Quando ormai stiamo per accucciarci in un angolo riparato del piazzale, scorgiamo un cartello che indica il numero di telefono di una compagnia di taxi, che chiamiamo prontamente.
Alle tre siamo a Tasch, di fronte alla nostra macchina, parcheggiata nell’enorme area di sosta all’inizio del paese. Galis ed io recuperiamo i sacchi a pelo che abbiamo nel bagagliaio e ci sdraiamo a terra, mentre Mirko preferisce sistemarsi in macchina. Chiudo gli occhi, sicuro che non mi ci vorranno più di 2 secondi per addormentarmi. I due secondi purtroppo non fanno in tempo a passare, perché comincio a sentire delle gocce sulla faccia: piove! Ci sistemiamo così tutti in macchina, ma lo spazio angusto non ci permette di addormentarci veramente. Passo il resto della notte in uno strano stato di dormiveglia, alle sette tutti e tre abbiamo gli occhi aperti, e ci alziamo per fare colazione prima di tornare a casa.
L'idea del McDonald non ci ha abbandonato e ovviamente sappiamo che sulla via del ritorno c'è quello di Briga; vi giungiamo con ampio anticipo sull'orario di apertura. Proprio uno strano paese la Svizzera: un poveretto che la mattina presto vuole strafogarsi di hamburger e patatine deve per forza aspettare le nove!!
Silvano Sala Tesciat
2005
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